La questione nazionale oggi
Aspetti peculiari nella fase di putrefazione dell’imperialismo
“Ideologia borghese e teoria del proletariato” da Antitesi n.15 – pag.74
Affrontare la questione nazionale nella fase attuale significa soprattutto fare uno sforzo dal punto di vista ideologico nell’impostarne correttamente l’analisi da un punto di vista di classe all’interno della prospettiva strategica di superamento del capitalismo. La questione nazionale e dei movimenti nazionali è tema centrale nel quadro delle relazioni che le formazioni capitaliste intrattengono sia all’interno dei propri confini nazionali o plurinazionazionali, sia in relazione alle nazioni di pari sviluppo, sia rispetto a quelle assoggettate e dominate.
La questione nazionale per i comunisti rappresenta storicamente una contraddizione reale che va registrata teoricamente, affrontata politicamente, ma che trova soluzione unicamente nella prassi reale della strategia rivoluzionaria. A partire da questa chiave di lettura si comprende l’impegno del movimento comunista nella produzione teorica sulla questione nazionale e la necessità di affrontare l’argomento a fronte dello sviluppo delle condizione oggettive di aggravamento della crisi e di tendenza alla guerra.
Nella fase attuale di putrefazione dell’imperialismo, la questione assume caratteri peculiari in rapporto al grado di internazionalizzazione dei rapporti economici e in rapporto al carattere di aggravamento della crisi di sovraccumulazione di capitali che attanaglia le formazioni imperialiste storiche. Non solo, la fase di ridefinizione multipolare apre nuovi scenari nelle relazioni internazionali con spinte di borghesie nazionali in sviluppo che cercano una propria autonomia nelle relazioni internazionali e di popoli che sfruttano questo caotico quadro per spingere gli imperialisti fuori dalla porta. Il quadro concreto dell’attuale fase getta nuove basi materiali per lo sviluppo dei movimenti nazionali alla quale i comunisti devono guardare con rigore scientifico dal punto di vista dello sviluppo del movimento rivoluzionario in generale, rifuggendo astrazioni e facili particolarismi, ma cercando di trovare una chiave di lettura che mantenga la propria bussola nel quadro di indebolimento e abbattimento dell’imperialismo e nell’avanzata della rivoluzione socialista.
La base strutturale della questione nazionale
Come scriveva Mao “la lotta nazionale è, in ultima analisi, una lotta di classe” [1] e assume caratteristiche differenti a seconda della classe che la pone sul tappeto e quando.
Possiamo inquadrare dal punto di vista di classe differenti posizioni storiche ma la nascita del nazionalismo risiede nella fase del capitalismo ascendente, nella lotta di ogni fazione di borghesia per il proprio mercato, sottraendolo alla concorrenza di una fazione rivale. Il mercato è la culla del nazionalismo per la borghesia, piccola e grande.
Questa considerazione ci porta a definire un dato fondamentale, la nazione non è un dato permanente ma transitorio e storica mente determinato dallo scontro delle classi in lotta. Le nazioni moderne traggono la loro origine quando la borghesia, partendo dalle necessità dello sviluppo economico, spezza progressivamente le barriere feudali, unifica territori sempre più vasti, trascinando con sé masse sempre maggiori di popolazione. A partire dalla definizione di un mercato, di un’attività economica comune, si creano le condizioni di bisogni, interessi, sentimenti e aspirazioni comuni. Questa è la definizione di nazione nel quadro del capitalismo ascendente.
Il concetto di nazione è dunque una categoria storica che si determina a partire dalla base economica concreta nella quale si sviluppa e si afferma. Nella fase originaria di determinazione del capitalismo sul feudalesimo, era necessaria la conquista del mercato interno da parte di una borghesia che unificasse un territorio e i rapporti sociali presenti ed eliminasse gli ostacoli linguistici, culturali ed anche religiosi che ne limitassero lo sviluppo. Le nazioni hanno una base strutturale nel modo di produzione, una sovrastrutturale ideologica e alla testa una classe che detiene il potere tramite lo Stato nazionale. La nazione non esiste quindi “ancestralmente” ma va a definirsi storicamente come una comunità stabile che condivide una lingua, un territorio e dei rapporti di produzione, i quali si manifestano in una comune cultura.
Tutta la fase dell’affermazione del capitalismo sul feudalesimo è caratterizzata dalle lotte per l’affermazione degli Stati nazionali sui regimi plurinazionali. La vittoria o la sconfitta di queste lotte ha determinato il ritardo nello sviluppo del capitalismo in quella determinata formazione. Un esempio storico da manuale è il ritardo dell’Italia nel formarsi in uno Stato-nazione compiuto, ritardo imputabile alla frammentazione del potere politico e soprattutto al ruolo del Vaticano, per quanto la formazione di una borghesia e di rapporti economici capitalistici è precedente a tutte le altre formazioni. In altre parti dell’Europa, invece, le religioni o hanno assunto carattere nazionale (l’anglicanesimo o altre forme di protestantesimo) o sono state messe all’angolo (come in Francia) in virtù di questo processo.
La nazione, intesa come mercato comune ad appannaggio di una borghesia, quindi necessita di una sovrastruttura adeguata, in grado di liberare lo sviluppo delle forze produttive imbrigliate dai rimasugli feudali: si tratta dello Stato-nazione tipico del periodo di ascesa del capitalismo. Lo Stato-nazione e i movimenti nazionali hanno assunto un carattere progressivo in tutta la fase di sviluppo e determinazione del capitalismo come sistema economico mondiale. In questa fase alla testa dei movimenti nazionali c’è principalmente la borghesia, che per raggiungere la presa del potere sviluppa attorno a sé un ampia mobilitazione di massa che coinvolge strati di popolazioni fino al giorno prima esclusi dalla vita politica; queste lotte si fanno portatrici di istanze liberal democratiche e contro l’assolutismo del potere feudale. La difesa del vecchio ordine e la lotta per l’affermazione del nuovo, sono entrambi terreni che aprono alla scesa in campo delle masse popolari e allo sviluppo delle stesse di una coscienza talvolta autonoma sul potere. Sono infatti anche il terreno sul quale si sviluppa una nuova forma di guerra, la guerriglia, che richiede la partecipazione militare di tutto il popolo e non solo di un esercito classico regolare. Queste esperienze maturate nel XIX secolo nel Risorgimento italiano, nelle lotte contro l’invasione napoleonica in Spagna, nelle guerre d’indipendenza delle colonie spagnole in America, nella guerra d’Irlanda, ecc. rappresentano un patrimonio sul quale anche il movimento comunista internazionale ha sviluppato la propria teoria militare per la conquista del potere. Va sottolineato anche che il processo di affermazione degli Stati-nazione ha imbrigliato e sottomesso violentemente al proprio interno altri popoli, come ad esempio: corsi, bretoni e occitani in Francia; catalani e baschi Spagna; sardi e ladini in Italia; scozzesi, irlandesi e gallesi in Inghilterra.
Questa fase si esaurisce con lo sviluppo della fase imperialista del capitalismo. “L’imperialismo, come fase suprema del capitalismo, in America e in Europa, e in seguito anche in Asia, si è formato completamente tra il 1898 e il 1911. Le guerre ispano-americana (1898), anglo-boera (1899-1902), russo-giapponese (1904-1905) e la crisi economica dell’Europa (nel 1900): ecco le pietre miliari più importanti della nuova epoca della storia mondiale”. [2] La nuova fase modifica la base storica sulla quale si sviluppano i movimenti nazionali. I vecchi Stati-nazione a partire dalla necessità di internazionalizzare il proprio sviluppo economico moltiplicano ogni sorta di relazione fra le nazioni, creano nuove unità all’interno della determinazione di un mercato mondiale e di un’economia mondiale. I nascenti monopoli e i paesi a capitalismo avanzato traggono i loro profitti sulla pelle dei popoli che sottomettono: i vecchi Stati-nazione diventano il nuovo bastione della reazione. In questo contesto i movimenti nazionali non hanno più la loro base in Europa Occidentale, bensì nell’Europa Orientale, in Asia, Africa e America Latina, dove alla lotta per la formazione di nuovi Stati-nazione si affianca a quella per la liberazione dei popoli delle colonie e delle semicolonie. In questa fase si apre un nuovo ciclo di movimenti nazionali che vede protagoniste le borghesie e le masse popolari sottomesse dai vecchi imperi plurinazionali come la Russia zarista o l’impero austriaco e le colonie come l’India o le semi-colonie (dove il dominio coloniale non è formalizzato da un regime di occupazione) come la Cina.
Nella fase imperialista le nazioni oppresse, le colonie e le semicolonie assumono un ruolo ancora più centrale nella riproduzione del sistema capitalista, laddove il parassitismo e la spoliazione verso i popoli vengono sviluppate in favore delle formazioni più avanzate. Motivo per cui la loro liberazione ed emancipazione assume dialetticamente il ruolo di lotta contro l’imperialismo. Questo ruolo si rafforza e trova carattere più concreto all’indomani della prima guerra imperialista e soprattutto della rivoluzione bolscevica. In questo passaggio si conclude la fase delle rivoluzioni democratico borghesi e si apre la fase delle rivoluzioni socialiste proletarie. In questo nuovo quadro le lotte di liberazione nazionale delle colonie e semicolonie assumono un ruolo oggettivamente rivoluzionario, in quanto alleate della classe operaia nella lotta contro l’imperialismo.
Se nella fase di ascesa del capitalismo, il ruolo progressista era svolto dalla borghesia come classe che si affermava contro l’assolutismo del feudalesimo, aprendo spazi di democrazia e mobilitando le masse; nella fase imperialista non importa quali classi o partiti di una nazione oppressa partecipino alla lotta di liberazione nazionale, o che essi siano coscienti del ruolo che svolgono, basta che lottino concretamente contro il sistema imperialista perché assumano un ruolo progressista e alleato della rivoluzione proletaria. “Prima la questione nazionale veniva considerata in maniera riformista, come una questione a sé stante, indipendente, senza rapporto con la questione generale del potere del capitale, dell’abbattimento dell’imperialismo, della rivoluzione proletaria. Si ammetteva tacitamente che la vittoria del proletariato in Europa fosse possibile senza un’alleanza diretta con il movimento di liberazione delle colonie, che la questione nazionale e coloniale potesse essere risolta in sordina, “automaticamente” all’infuori della grande via della rivoluzione proletaria, senza una lotta rivoluzionaria contro l’imperialismo. Oggi questo punto di vista controrivoluzionario è si deve considerare come smascherato. Il leninismo ha provato, e la guerra imperialista e la rivoluzione in Russia hanno confermato, che la questione nazionale può essere risolta soltanto in legame con la rivoluzione proletaria e sul suo terreno, che la via della vittoria in Occidente passa attraverso l’alleanza rivoluzionaria col movimento antimperialistico di liberazione delle colonie e dei paesi dipendenti. La questione nazionale è parte della questione generale della rivoluzione proletaria, parte della questione della dittatura del proletariato. (…) Nelle condizioni dell’oppressione imperialistica, il carattere rivoluzionario del movimento nazionale non implica affatto obbligatoriamente l’esistenza di elementi proletari nel movimento, l’esistenza di un programma rivoluzionario o repubblicano del movimento, l’esistenza di una base democratica del movimento. La lotta dell’emiro afghano per l’indipendenza dell’Afghanistan è oggettivamente una lotta rivoluzionaria, malgrado il carattere monarchico delle concezioni dell’emiro e dei suoi seguaci perché essa indebolisce, disgrega, scalza l’imperialismo (…)”. [3]
Il dibattito all’interno del movimento comunista
Per i comunisti il dibattito sulla questione nazionale si articola attorno al diritto di autodeterminazione dei popoli e al diritto a formare un proprio Stato-nazione. Il dibattito a partire da Marx ed Engels segue quelle che sono sia le fasi oggettive di sviluppo del capitalismo che la fase soggettiva nella quale si in inserisce la prospettiva e la strategia rivoluzionaria.
La questione nazionale per i padri del socialismo scientifico non è sistematizzata, ma soprattutto è figlia di quella primavera dei popoli che muoveva il movimento rivoluzionario europeo del 1848, di contestazione dei trattati di Vienna, nel quale le istanze nazionali si legavano alle richieste di emancipazione sociale e di maggiore democrazia. Per Marx ed Engels, per i quali le lotte nazionali riflettevano ancora quel ruolo progressivo della borghesia nella storia, lo sguardo era rivolto a quelle nazioni che nella loro lotta spingevano in avanti le lancette della storia di fronte ai rimasugli feudali e a rapporti di produzione precapitalistici. Per loro i movimenti nazionali dovevano creare un terreno più favorevole alla lotta per il socialismo, critici quindi verso quelle lotte nazionali che invece difendevano dei modelli sociali figli della cultura contadina, come quello occitano in Francia ad esempio, che ne avrebbero limitato lo sviluppo. In questo senso si comprende perché ad esempio non si espressero a favore della lotta dei popoli slavi, visti come movimenti nazionali arretrati ispirati dalle mire di dominio dell’impero zarista. Il loro sostegno era quindi subordinato al ruolo che queste lotte svolgevano in un quadro più ampio della lotta per il socialismo.
Per Engels, il solo fatto della oppressione nazionale non imponeva affatto di prendere posizione per la nazionalità oppressa; questo dovere interveniva soltanto quando le attività politiche di questa nazionalità assumevano un carattere rivoluzionario. La subordinazione della lotta nazionale alla rivoluzione proletaria si comprende in quel clima insurrezionale che si respirava nell’Europa Occidentale all’epoca, dove la possibilità di prendere il potere da parte del proletariato sembrava prossima e che vedeva nella Russia, nella Prussia e nell’Austria i principali “bastioni della reazione”; questa possibilità poteva avvalersi del contributo delle lotte nazionali. Per questo motivo Marx ed Engels sostennero la lotta della Polonia contro la Russia zarista e dell’Irlanda contro l’Inghilterra.
Soprattutto nel sostegno all’isola viene spiegato il legame dialettico tra lotta di liberazione nazionale e lotta per il socialismo nella relazione tra il proletariato della nazione dominata e quello della nazione dominante. Marx sottolinea infatti come “L’Inghilterra, in quanto metropoli del capitale, in quanto potenza fino ad oggi dominante il mercato mondiale, è per il momento il paese più importante per la rivoluzione operaia, oltre a ciò essa è l’unico paese, nel quale le condizioni materiali di tale rivoluzione si siano sviluppate fino ad un certo grado di maturità. Perciò l’obiettivo più importante dell’Internazionale è di accelerare la rivoluzione sociale in Inghilterra. L’unico mezzo per accelerarla è rendere indipendente l’Irlanda. Di qui ne deriva per l’“Internazionale” il compito di mettere sempre in primo piano il conflitto tra Inghilterra e Irlanda, di prendere sempre posizione aperta a favore dell’Irlanda. Ed è un compito prioritario del Consiglio Centrale a Londra di risvegliare la coscienza dei lavoratori inglesi che per loro l’emancipazione nazionale dell’Irlanda non è questione di giustizia astratta o umanitarismo, ma la prima condizione della loro stessa emancipazione sociale”. [4]
Il problema della questione nazionale non è dunque una questione astratta o di natura morale, ma viene posta in termini di classe, in relazione allo sviluppo della rivoluzione socialista e in relazione alla lotta della classe operaia. Anzi, la questione nazionale irlandese ha una priorità per lo sviluppo rivoluzionario in Inghilterra, per due motivi: il primo perché l’Irlanda rappresenta il bastione del landlordismo inglese, ovvero la proprietà fondiaria sulla quale la classe dominante inglese fonda la sua rendita, per cui una rivoluzione agraria in Irlanda significherebbe la crisi dell’impero britannico, creando condizioni più favorevoli per la rivoluzione degli operai inglesi; inoltre, dall’Irlanda viene importata soprattutto mano d’opera a basso costo che da un lato spinge i salari verso il basso e dall’altro promuove un antagonismo tra l’operaio inglese e quello irlandese funzionale al mantenimento del dominio britannico. Motivi per i quali la classe operaia inglese deve necessariamente sostenere la liberazione irlandese, non solo come fatto di solidarietà, ma come parte della propria strategia per la presa del potere. In questo si sostanzia il principio enunciato da Marx ed Engels per i quali “un popolo che opprime altri popoli non potrà mai liberarsi”. [5]
Dal punto di vista storico la questione nazionale entra con forza all’interno del dibattito del movimento comunista a partire dalla fine del XIX°, quando i diversi continenti sono scossi dalle crescenti tensioni nazionali. La Seconda Internazionale registra questa fase affermando di sostenere il diritto delle nazioni a decidere per il proprio destino nel luglio – agosto del 1896, ma rimane ancorata ad una concezione che vede il valore progressivo delle lotte nazionali nel quadro dello scontro contro i vecchi imperi post feudali. Questo porterà settori della socialdemocrazia dell’Europa a giustificare la prima guerra mondiale e a legarsi alla propria borghesia in difesa della propria nazione, diventando una delle basi ideologiche sulle quali poggiò il socialsciovinismo.
Quello che non viene registrato in maniera adeguata è lo sviluppo del capitalismo nella sua fase imperialista. Il dominio dei monopoli hanno del tutto esaurito la fase di ascesa della borghesia con la sua carica riformatrice e democratica. Le vecchie nazioni europee sono i nuovi bastioni della reazione che tengono soggiogati i popoli delle colonie e delle semicolonie.
Lenin, quando prende parola a riguardo per la prima volta nel 1902, sostiene la tesi per cui il nazionalismo è affare della borghesia che offusca il proletariato nella sua lotta contro l’autocrazia zarista per cui: “(…) è precisamente agli interessi di questa lotta (la lotta del proletariato, ndr) che noi dobbiamo subordinare la rivendicazione dell’autodecisione nazionale. Proprio per questa condizione la nostra impostazione della questione nazionale si differenzia dall’impostazione democratica borghese”. [6]
La posizione di Lenin maturerà alla luce della rivoluzione del 1905 che vedrà una forte mobilitazione delle nazionalità non russe, che lo porteranno ad approfondire la questione e ad intravedere il valore strategico delle lotte nazionali per la rivoluzione in Russia. In quel momento il dibattito in seno all’Internazionale si divideva tra i sostenitori della lotta di classe come unica strada di emancipazione e coloro che si ponevano il problema di metterla in dialettica con le lotte nazionali. Nel primo campo rientrava Rosa Luxemburg e nel secondo Otto Bauer, padre dell’austromarxismo e i bolscevichi.
La battaglia ideologica portata avanti da Lenin, con l’importante contributo di Stalin, sarà rivolto a dare piena giustificazione teorica all’alleanza tra proletariato delle potenze imperialiste e popoli oppressi. Secondo Rosa Luxemburg la questione nazionale era da considerarsi “superata”: la fase imperialista di internazionalizzazione dei mercati e il dominio del capitale finanziario creava le condizioni oggettive per il superamento delle barriere nazionali; per questo motivo, secondo la Luxemburg non aveva alcun senso rivendicare il diritto all’autodeterminazione delle nazioni, visto che queste sarebbero tendenzialmente sparite sotto i colpi dello sviluppo capitalista. Sul piano politico presente, per la compagna era utopistico o addirittura reazionario pensare ad un diritto all’autodecisione delle nazioni, visto che queste, staccandosi economicamente da un altro Stato, rimarrebbero comunque all’interno del capitalismo e quindi o sarebbero finite soggiogate nuovamente o sarebbero divenute esse stesse potenze soggioganti.
Le posizioni di Rosa Luxemburg partivano da un’analisi dogmatica dell’imperialismo e dall’esperienza dell’organizzazione Socialdemocrazia del Regno di Polonia da lei diretta, la quale considerava il nazionalismo un’espressione reazionaria della borghesia funzionale a distogliere il proletariato dalla lotta di classe. Lenin attaccò duramente le posizioni di Rosa Luxemburg e di questi compagni polacchi, sia dal punto di vista dell’analisi sull’imperialismo e dei suoi riflessi per la lotta rivoluzionaria, sia nei confronti di una impostazione dogmatica di “sinistra” che considerava le cause nazionali affare esclusivo della borghesia. Secondo questa visione dogmatica il compito dei comunisti è portare avanti la rivoluzione socialista in qualsiasi condizione, negando cioè le condizioni concrete del suo sviluppo, tra cui non possono che comprendersi anche le contraddizioni nazionali. Sia Lenin che la storia del movimento rivoluzionario hanno smentito categoricamente questa lettura, la quale, già all’epoca, accettando di fatto il dominio russo sulla Polonia, rappresentava oggettivamente un sostegno politico allo zarismo.
L’austromarxismo sosteneva la teoria dell’autonomia nazionale culturale cioè per rispondere alle esigenze dei movimenti nazionali proponeva non il diritto di separazione, ma bensì il mantenimento all’interno dello stesso Stato di autonomie locali (scuola, lingua, ecc). Questa posizione fu aspramente criticata da Lenin di opportunismo, in quanto da un lato dava adito alla decentralizzazione organizzativa dei comunisti all’interno dello stesso Stato, indebolendo il partito e la classe e dall’altra salvaguardava l’unità economica dello Stato, non mettendo in discussione il potere della classe dominante. Pur partendo da un punto di vista opportunista e riformista, gli austromarxisti arrivavano alle stesse conclusioni dei dogmatici polacchi: negare il diritto di autodeterminazione dei popoli e il suo rapporto positivo con la rivoluzione proletaria.
Dal punto di vista più strutturale, l’analisi di Lenin invece partiva proprio dalla contraddizione reale tra imperialismo e nazioni oppresse, ovvero come la tendenza a costituirsi di un mercato internazionale entrava in conflitto con l’azione centrifuga dei movimenti nazionali. Più il capitale monopolistico esportava i propri capitali, più si andava a creare una polarizzazione tra nazioni dominanti e dominate, che vedevano la necessità e la possibilità di sottrarsi allo sfruttamento imperialistico. Questo lo porta a capovolgere dialetticamente la questione. Non più la questione nazionale in funzione progressiva allo sviluppo democratico nel capitalismo, secondo l’impostazione della Seconda Internazionale, ma come lotta necessaria contro l’imperialismo. È proprio lo sviluppo di questa fase che crea le condizioni materiali per l’intensificarsi delle lotte nazionali, non più nell’Europa Occidentale (dove i trust esprimono le fazioni più reazionarie del capitale) ma a partire dall’oriente, dalle semicolonie e dalle colonie (dalle quali i trust traggono le proprie rendite). Per Lenin sarà fondamentale la rilettura dei testi di Marx sull’Irlanda per dare pieno compimento alla posizione bolscevica e indicare i compiti dei comunisti a seconda della situazione concreta nella quale operano:
“Primo. I paesi capitalisti avanzati dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti, in cui il movimento nazionale borghese progressivo è terminato da lungo tempo. Ciascuna di queste «grandi» nazioni opprime nazioni straniere nelle colonie e all’interno del paese. I compiti del proletariato delle nazioni dominanti sono qui precisamente identici a quelli che si ponevano nel XIX secolo in Inghilterra rispetto all’Irlanda.
Secondo. L’Europa orientale: l’Austria, i Balcani e soprattutto la Russia. In questi paesi il XX secolo ha particolarmente sviluppato i movimenti nazionali democratici borghesi e acutizzato la lotta nazionale. Il proletariato non vi può adempiere il compito di condurre a termine la trasformazione democratica borghese cosi come non può adempiere il compito di appoggiare la rivoluzione socialista negli altri paesi senza difendere il diritto all’autodecisione. Particolarmente difficile ed importante si presenta qui il problema della fusione della lotta di classe degli operai dei paesi dominanti e degli operai dei paesi oppressi.
Terzo. I paesi semicoloniali, come la Cina, la Persia, la Turchia e tutte le colonie, con una popolazione di circa 1.000 milioni di abitanti. In alcuni di questi paesi, i movimenti democratici borghesi sono appena all’inizio, in altri sono ancora lontani dall’essere terminati. I socialisti non soltanto debbono esigere la liberazione immediata, incondizionata, senza indennità delle colonie, – e questa rivendicazione, nella sua espressione politica, non significa altro, precisamente, che il riconoscimento del diritto di autodecisione, – ma debbono sostenere in questi paesi, nel modo più deciso, gli elementi più rivoluzionari dei movimenti democratici borghesi di liberazione nazionale, aiutarli nella loro insurrezione e, se il caso si presenta, nella loro guerra rivoluzionaria contro le potenze imperialiste che li opprimono”. [7]
Il passaggio teorico fondamentale da sottolineare è che il leninismo riprende la posizione di Marx sull’Irlanda per combattere il “marxismo” dogmatico della Seconda Internazionale. Le lotte nazionali non sono più una mera rivendicazione democratico – borghese storicamente necessaria allo sviluppo dei rapporti di produzione e quindi al socialismo, ma uno strumento con il quale combattere e indebolire l’imperialismo e fondere, in prospettiva, la causa del socialismo con quella della liberazione nazionale. Inoltre, per Lenin e i bolscevichi, il principio di autodeterminazione dei popoli è un elemento di rottura con le frange opportuniste nel movimento comunista. Bisogna tener conto che, difronte alla prima guerra mondiale, i partiti socialisti di mezza Europa occidentale assunsero la parola d’ordine di “difesa della patria”, in alleanza con la propria borghesia imperialista. La battaglia contro il socialsciovinismo e il nazionalismo nei paesi imperialisti trova risposta anche nella difesa del diritto all’autodeterminazione dei popoli come parte fondamentale della concezione rivoluzionaria.
La Terza Internazionale fissò questo concetto nel proprio programma e, sviluppando una formidabile alleanza con tutti i popoli che volevano lottare contro l’imperialismo, diede una spinta storica all’emancipazione e alla lotta contro il colonialismo in tutti i continenti. La stessa battaglia contro il fascismo in Europa, prima e durante la seconda guerra mondiale, riprese la lezione leninista sulle lotte di liberazione nazionale unendola alla pratica dei fronti popolari antifascisti. In Europa Orientale, i partiti comunisti si posero alla testa della lotta contro gli invasori, anche in alleanza a forze borghesi antifasciste, riuscendo a unire la causa patriottica alla trasformazione rivoluzionaria della società. Anche la lotta popolare nelle colonie vedeva il ruolo dei comunisti all’interno di fronti o alleanze guidate dalla borghesia nazionale antimperialista. [8] I partiti comunisti nei paesi coloniali e semicoloniali accrescevano il suo ruolo perché la classe operaia aumentava di forza e numero, a causa delle politiche di sfruttamento economico delle potenze, e poiché si erano fatti portatori di una linea di fronte tra tutte le classi oppresse dall’imperialismo, in primis una stretta alleanza con i contadini poveri, ovvero la stragrande maggioranza della popolazione.
L’impostazione prevalente nella Terza Internazionale del processo rivoluzionario vedeva come prima fase la rivoluzione democratica guidata dalla borghesia, come premessa necessaria ad una seconda fase di rivoluzione socialista guidata dal proletariato e dal partito comunista. L’imperialismo non consentiva lo sviluppo delle forze produttive, incatenando tali paesi a rapporti sociali principalmente feudali o semifeudali e sottoponendoli all’oppressione di borghesie compradore, intermediarie della rapina coloniale. Pertanto, secondo la concezione meccanicistica prevalente nella Terza Internazionale, solo sviluppando dapprima il capitalismo su basi nazionali, sotto la guida della propria borghesia, sarebbe stato possibile poi realizzare il socialismo. Nella pratica, però, il proletariato in alleanza con i contadini poveri, e dunque i partiti comunisti, si rivelarono progressivamente come le forze più autenticamente antagoniste all’imperialismo in molti paesi, come in Cina, Corea, in Vietnam e in tutta l’Indocina, fino ad arrivare in diversi casi alla presa del potere.
Il passaggio teorico a riguardo sarà sviluppato da Mao Tse Tung con la formulazione del concetto di rivoluzione di nuova democrazia. La fase aperta dalla Rivoluzione d’Ottobre segna il passaggio dall’epoca delle rivoluzioni guidate dalle borghesia all’epoca delle rivoluzioni guidate dal proletariato e dal suo partito. Questo si riflette anche per quanto riguarda le lotte di liberazione nazionali, nelle quali i comunisti, a partire dalla rivoluzione cinese, dimostrano la possibilità che i movimenti nazionali siano diretti da un’alleanza di classi nelle quali la borghesia e il suo portato ideologico non siano l’elemento dirigente, ma lo sia il proletariato. “Sotto la direzione del Partito Comunista Cinese, il popolo cinese, dopo aver scacciato l’imperialismo giapponese, ha condotto per tre anni la Guerra popolare di liberazione e ha praticamente ottenuto la vittoria. In questo modo, agli occhi del popolo cinese, la civiltà borghese occidentale, la democrazia borghese e i progetti per una repubblica borghese sono falliti. La democrazia borghese ha lasciato il posto alla democrazia popolare sotto la guida della classe operaia, e la repubblica borghese ha lasciato il posto alla repubblica popolare. Si è creata dunque una possibilità: attraverso la repubblica popolare, raggiungere il socialismo e il comunismo, abolire le classi e realizzare la Grande Armonia”. [9]
Il ruolo dirigente dei comunisti e della classe operaia nelle lotte di liberazione nazionali riflettono un carattere innovativo che si lega al ruolo antimperialista di queste lotte. La rivoluzione antimperialista sotto la guida della classe operaia in una colonia o semicolonia assume un programma democratico, di abolizione del feudalesimo e delle altre eredità coloniali, ponendo le condizioni più adeguate per lo sviluppo delle forze produttive, base oggettiva per costruire il socialismo. Il formarsi inevitabile di rapporti di produzione capitalistici viene reso funzionale, consentendo la crescita delle forze produttive, alla transizione al socialismo, grazie al potere della classe operaia in alleanza alla classe contadina. La rivoluzione di nuova democrazia non conduce direttamente al socialismo, ma ad una dittatura congiunta della classe operaia in alleanza alle altre classi rivoluzionarie, che crea le condizioni per l’edificazione del socialismo. Inoltre, allora, il mondo era diviso tra imperialismo da un lato e socialismo dall’altro, e ciò rendeva la rivoluzione di vecchio tipo, diretto dalla borghesia e mirante l’edificazione della dittatura borghese, non più attuabile. Una lotta di liberazione nazionale o si schierava e si legava al campo imperialista, negando la propria liberazione e rimanendo dominata, o si legava al campo socialista.
La nuova fisionomia delle lotte coloniali e dei movimenti nazionali che sorgeranno dopo la Rivoluzione d’Ottobre dimostra la validità della linea maoista, sono i proletari e le classi oppresse dei paesi dominati le forze più autentiche in grado di dirigere i processi di liberazione. La validità storica di quanto detto sarà dimostrata dalle vittorie in Cina, Corea, Vietnam, Cuba, Laos, Kampuchea, Yemen, nelle esperienza socialiste africane, prima che il revisionismo invertisse la marcia verso la restaurazione capitalistica. Ancora oggi la concezione della nuova democrazia sostanzia il programma comunista nei paesi oppressi, dal Perù alle Filippine, e i comunisti sono parte integrante, e spesso la più coerente, delle lotte di liberazione anticoloniale, come nel caso del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina.
Il dibattito teorico comunista sulla questione nazionale si sviluppa così a partire da Marx che fissa il valore oggettivo delle lotte nazionali nella transizione al socialismo, passando per Lenin che ne riconosce il valore soggettivo nell’alleanza tra classe operaia e popoli oppressi, per arrivare a Mao che sviluppa il ruolo dirigente che la classe operaia può svolgere nelle lotte di liberazione nazionale.
Nazionalismo imperialista e liberazione nazionale oggi
Cerchiamo adesso di delineare gli aspetti peculiari sui quali si sviluppa nell’attuale fase la questione nazionale. Come abbiamo già delineato in altri numeri di Antitesi [10] il carattere della putrefazione è quello prevalente nell’attuale fase imperialista. La crisi di sovraccumulazione delle formazioni avanzate è l’elemento principale sul piano strutturale che spinge i vari processi in corso, come la rideterminazione della relazione tra gruppi monopolisti per una nuova spartizione del mondo sulla pelle dei popoli oppressi. Questo significa lotta per il controllo delle sfere d’influenza, delle catene del valore, spoliazione delle materie prime e in generale rideterminazione delle quote di sovrapproffiti.
È la crisi di valorizzazione che spinge alla guerra le formazioni sovraccumulate contro le formazioni cosiddette “emergenti” che godono attualmente ancora di margini di valorizzazione del proprio capitale. Sono quest’ultime che attualmente devono difendere la possibilità del proprio sviluppo capitalista contro le vecchie formazioni in declino. Le vecchie formazioni imperialiste dominanti aggravano la modalità dell’oppressione semicoloniale con il loro corollario di guerre, regime change e la formazione di una borghesia compradora completamente asservita ai propri interessi. Queste grandi potenze rappresentano oggi il principale “bastione della reazione” contro i popoli.
Le formazioni “emergenti”, anche grazie alle proprie relazioni maturate nell’ambito della lotta anticoloniale, che permette loro di farsi “paladine” della libertà dei popoli, impostano rapporti egemonici e di sfruttamento con caratteri differenti: basate sullo scambio tra materie prime ed infrastrutture ad esempio, oppure tra le concessioni per l’uso delle risorse e materiale, addestramento e supporto militare. Le relazioni che queste formazioni stabiliscono è con settori di borghesia burocratica nazionale, spesso legata a settori patriottici dell’esercito, orientata quest’ultima ad uno sviluppo autocentrato della propria formazione.
Quanto detto finora ci serve per delineare e comprendere come si determina la questione nazionale nella fase attuale, ovvero nel solco della crisi di egemonia delle vecchie formazioni imperialiste dominanti e nell’emergere di nuove potenze. La chiusura della fase dell’unipolarismo a guida Usa sta aprendo spazi di manovra per la ripresa di un ciclo di lotte di liberazione nazionale nelle semicolonie. Quanto sta avvenendo in Africa negli ultimi mesi è chiaro: i popoli del Niger, Ciad, Burkina Faso, Guinea stanno cercando di chiudere i conti con l’ingombrante presenza del colonialismo francese.
La questione nazionale ha un carattere progressivo solo quando si scaglia contro l’imperialismo dominante perché indebolisce l’intero sistema imperialista, al contrario lo rafforza. Un esempio utile a tracciare una linea di demarcazione a riguardo è quanto avvenuto in Jugoslavia alla fine degli anno novanta. I movimenti nazionali separatisti di Slovenia, Croazia, Bosnia e Kosovo sono andati nella direzione di rafforzare l’imperialismo dominante nel quadro della ridefinizione dell’egemonia dopo la caduta dell’Urss. Non diversamente il ruolo svolto dalla direzione del movimento nazionale curdo, che ha rafforzato il ruolo dell’imperialismo statunitense nel piano fallito di aggressione e cambio di regime in Siria e, con il confederalismo democratico, come nuova versione dell’autonomismo culturale di Otto Bauer, ha disarmato politicamente la lotta contro la Turchia, rinunciando alla separazione nazionale del Kurdistan. [11]
Al contrario la lotta in Palestina o quella del popolo saharawi, del Donbass o le ultime mobilitazioni nelle colonie della Franciafrica, anche quando dirette da settori di borghesia nazionale, hanno un valore oggettivamente progressista perché colpiscono l’imperialismo dominante e così facendo indebolisce il sistema imperialista nel suo complesso. Possiamo dire che l’autodeterminazione è un diritto per tutti i popoli, il quale però si deve relazionare dialetticamente al dovere della lotta contro l’imperialismo per non restare semplicemente formale.
Il ruolo che svolgono rispetto a quelle lotte le formazioni emergenti ha un carattere secondario, in quanto l’aspetto principale della contraddizione è, come abbiamo già detto, la crisi di sovraccumulazione delle formazioni imperialiste dominanti e i vari tentativi di queste formazioni di sopravvivere e perpetuare il proprio dominio sono l’elemento che accelera tutti i processi in corso.
Il ruolo dei comunisti deve essere quindi quello di lottare strenuamente contro tutte le facce del nazionalismo imperialista, sia quello “dirittumanista” che giustifica il proprio dominio con la difesa della “civiltà dei diritti civili” contro la civiltà dei “barbari arretrati”, con il contorno di razzismo di volta in volta antiarabo, antimussulmano, antirusso, anticinese, ecc. Questa linea è quella che raccoglie oggi le principali sacche di socialsciovinismo e di opportunismo che si insinuano dentro la classe operaia e i movimenti di massa e che lavora contro la solidarietà verso i popoli che lottano contro l’imperialismo.

Dall’altra dobbiamo altrettanto lottare contro le linee sovraniste, le quali si caratterizzano per la messa in discussione dei trattati internazionali o delle alleanze che le proprie formazioni imperialiste intrattengono e mirano alla rideterminazione delle relazioni del proprio imperialismo in funzione di una nuova egemonia su nuove basi. Va chiarito che non ci possono essere movimenti nazionali progressisti in difesa delle formazioni imperialiste o in alleanza con la propria borghesia imperialista. I voltafaccia filoatlantisti dei Salvini e delle Meloni non aprono spazio, per i comunisti, ad un “sovranismo di sinistra”: i nostro nemici non sono solo l’imperialismo statunitense e l’Ue, ma anche principalmente l’imperialismo italiano, del quale non dobbiamo postulare una nuova ridefinizione, magari legato ai Brics, ma del quale dobbiamo in prospettiva sostenere e praticare la distruzione. Il nostro compito immediato è quello di costruire la solidarietà con i popoli delle colonie e delle semicolonie, denunciando il nostro imperialismo e il suo ruolo reazionario. La vittoria della classe operaia e la strada del socialismo non possono essere scritti senza la liberazione dei popoli e la sconfitta dell’imperialismo.
Note:
[1] Mao Tse Tung, Contro la discriminazione razziale pratica dall’imperialismo Usa, in Opere, Edizioni Rapporti Sociali, volume 20, p. 126
[2] Lenin, L’imperialismo e la scissione del socialismo, 1916, marxist.org
[3] Stalin, Principi del leninismo, 1924, resistenze.org
[4] K. Marx, Lettera a Sigfried Meyer e August Vogt del 9 aprile 1870, in Ireland and Irish Question, Progress Publishers, 1970, p. 406, marxist.org, traduzione a cura della redazione.
[5] F. Engels, Un proclama polacco, 1874, reperibile in inglese (A polish proclamation) su marxist.org, traduzione a cura della redazione.
[6] Lenin, La questione nazionale nel nostro programma, 1903, in Opere Complete, Editori Riuniti, vol. 6, p. 422
[7] Lenin, La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione, 1916, israe.eu
[8] Vedi Glossario, Antitesi n. 7, p. 51 s.
[9] Mao Tse Tung, Sulla dittatura democratica popolare, 1949, bibliotecamarxista.it
[10] Vedi L’imperialismo oggi, Antitesi n. 13, pp. 54 ss.
[11] Vedi Antitesi n. 2, pp. 71 ss.
Holodomor: il mito del nazionalismo ucraino
Il senato italiano ha riconosciuto il cosiddetto holodomor come genocidio, con 130 voti favorevoli, nessun contrario e 4 astenuti. Il 26 luglio è stata, infatti, approvata la mozione bipartisan promossa da FdI e Pd in cui si afferma che l’holodomor fu una “carestia deliberata”, un genocidio del popolo ucraino perpetrato dall’Unione Sovietica di Stalin tra il 1932-1933. La mozione è una vergognosa falsificazione storica con cui ancora una volta l’atlantismo piega la storia ai suoi fini.
Il mito dell’holodomor, ossia la menzogna dell’olocausto degli ucraini secondo cui Stalin avrebbe intenzionalmente provocato una carestia per sterminare il popolo ucraino perché si sarebbe opposto alla collettivizzazione delle terre, ha una lunga storia. La nascita risale al ministero della propaganda nazista, guidato da Goebbels, per preparare l’opinione pubblica all’invasione nazista dell’Ucraina, che già nel 1925 era stata identificata nel Mein Kampf come parte essenziale dello spazio vitale tedesco.
La campagna nazista di disinformazione sulla carestia in Ucraina fu supportata e amplificata dalla stampa Usa in chiave anticomunista già a partire dal 1935, principalmente ad opera del multimilionario William Hearts, ultraconservatore, fervente nazionalista, anticomunista e magnate dell’editoria statunitense, ma non finì con la sconfitta della Germania nazista. Continuò infatti ad essere alimentata a più riprese sosprattutto dalla propaganda imperialista statunitense; dagli anni ‘80 (nel contesto della crociata anticomunista reaganiana) abbiamo assistito a fior di pubblicazioni sull'”olocausto degli ucraini” da parte di diversi autori alcuni dei quali apertamente ex nazisti, altri comunque di estrazione reazionaria come Robert Conquest (autore del Libro nero del comunismo e collaboratore dell’Information Research Department, l’agenzia di disinformazione dei servizi segreti inglesi). Ovviamente nessuno dei fatti esposti in tali pubblicazioni ha mai trovato riscontro scientifico, anzi, ciò che accadde realmente in Ucraina nel 1932-33 fu una carestia dovuta a diversi fattori: alla grave siccità, al diffondersi del tifo, ad errori di inesperienza ed estremismo da parte dei dirigenti sovietici e delle masse contadine ucraine nel processo di collettivizzazione dell’agricoltura, ma soprattutto all’opposizione armata da parte dei kulaki (contadini ricchi) e della destra fascista ucraina, legata al nazismo hitleriano. I kulaki, per salvaguardare la propria posizione di classe, tentarono di sabotare in tutti i modi la collettivizzazione dell’agricoltura abbattendo il bestiame, imboscando le derrate alimentari, bruciando i loro raccolti…
Ma la menzogna del genocidio degli ucraini è arrivata fino ad oggi e si fatta “verità” attraverso le risoluzioni adottate prima dal parlamento ucraino, egemonizzato dagli anticomunisti e da forze filonaziste, poi dagli organismi internazionali imperialisti con alla testa l’Onu e il parlamento europeo. Adesso si è aggiunto lo Stato italiano, con un’operazione propagandistica volta a rafforzare il supporto del “nostro” imperialismo al governo di Kiev e a consolidare sul piano politico e ideologico il fronte capitanato dall’imperialismo statunitense nella guerra interimperialista in corso.