Il gigante vacilla
Crisi dell’ordine yankee e multipolarismo di guerra
“Imperialismo e guerra” da Antitesi n.15 – pag.26
Il 10 Marzo 2023 la Silicon Valley Bank (Svb) annuncia l’insolvibilità e il conseguente fallimento. La Svb è la quindicesima banca degli Stati Uniti, con asset da circa 200 miliardi di dollari: non un pezzo grosso come la JP Morgan o la Bank of America, che contano fino a tremila miliardi di asset, ma comunque un elemento non secondario dell’economia finanziaria statunitense. Ma la Svb non è l’unica banca americana a scivolare nel fallimento, insieme a lei vi sono pure la First Republic Bank, la Silvergate Bank e Signature Bank. Tutte legate all’industria 4.0 della Silicon valley e propulsori finanziari delle startup che costituiscono il cuore tecnologico yankee, il quale, lo ricordiamo, è tra i settori di interesse strategico nordamericano. Mantenere la superiorità tecnologica è imperativo in questa fase per gli Usa, senza di questa infatti la loro egemonia militare, politica ed economica perde di volume. Ma le aziende che costituiscono la colonna portante della ricerca high-tech a stelle e strisce allo stesso tempo hanno anche costituito la causa fondamentale della bolla speculativa nata nell’ambito della crisi seguita al Covid19. [1]
Questi fallimenti si sono verificati in concomitanza dell’innalzamento dei tassi del 5% da parte della Fed, la banca centrale statunitense, come misura introdotta per frenare l’inflazione galoppante. Tale mossa, sebbene abbia proprio la funzione, da una parte di drenare capitali verso la propria formazione imperialista e, dall’altra, come si dice in gergo, “freddare la macchina” (ossia ridurre il volume di investimenti nella produzione), non è riuscita a frenarne la fuga di capitali. Questo deflusso di capitali, migrando altrove, ha generato un effetto a catena che ha comportato il fallimento della banca. Ricordiamo, in proposito, che questa fuga di capitali è alimentata dall’instabilità finanziaria conseguente alla guerra in Ucraina, alla crisi che sta strangolando i mercati e alla sfiducia da parte di investitori internazionali nelle banche occidentali, in seguito al sequestro delle riserve strategiche russe all’estero, disposto dai governi Usa e occidentali in risposta all’invasione dell’Ucraina.
Al di là della questione specifica, quello che ci interessa cogliere è come l’economia finanziaria Usa stia soffrendo alquanto nell’ultimo periodo. Il presidente Biden ha tenuto tutti con il fiato sospeso i giorni precedenti al 3 giugno riguardo l’innalzamento del debito, paventando addirittura la possibilità del default, con recessione e perdita di milioni di posti di lavoro, se non fosse stato raggiunto un accordo con l’ala repubblicana del congresso. Un bluff chiaramente: gli Stati Uniti non posso rinunciare all’economia del debito e l’accordo è stato raggiunto in maniera “bipartisan”, ossia con il consenso di entrambi i partiti, Repubblicano e Democratico. Questo quadro sta ad indicare quindi come i classici sfiatatoi economici utilizzati fin ora dalle oligarchie finanziarie americane, come la borsa di Wall Street, non riescano più a tenere il punto. Come ormai l’enorme sfera finanziaria a stelle e strisce (sintomo di una formazione capitalistica sovraccumulata con margini di valorizzazione assolutamente non sufficienti per garantire l’accrescimento del capitale complessivo) sia arrivata ad un punto morto.
Ad aggravare questa situazione è pure lo spettro della dedollarizzazione, vero e proprio colpo di grazia per la finanza statunitense. Anzi, proprio questa sarebbe tra le cause principali della deflagrazione del prossimo conflitto mondiale. Ma andiamo per ordine, cosa significa de- dollarizzazione? E perché l’economia degli Stati Uniti si appoggia in maniera vitale alla così detta “economia nel dollaro”? A questo punto occorre comprendere il ruolo della moneta, e in particolare del dollaro, nell’attuale dinamica di scambi commerciali internazionali, e di come le politiche monetarie, nell’attuale fase imperialista, siano da una parte connesse direttamente al capitalismo finanziario (struttura), dall’altra strumenti di coercizione e controllo geopolitico (sovrastruttura), fondendosi nel concetto di denaro-credito.
Il “denaro-credito”
Per comprendere dunque in maniera più compiuta come gli Stati Uniti utilizzino la loro leva finanziaria come ulteriore strumento (oltre chiaramente a quello militare) per mantenere il loro primato geopolitico, occorre focalizzarsi sul ruolo del denaro nella fase imperialista del capitalismo. In particolare sul ruolo del denaro come mezzo di pagamento e riserva di valore. [2] Partiamo dunque da un fatto concreto: l’esistenza di un mercato globale strutturato (noto come globalizzazione). Qui è necessario un denaro mondiale come mezzo di pagamento. Tale ruolo fino al 1971 è stato assunto dollaro di cui era garantita la convertibilità in oro (il Dollar Excange Standar impostato con gli accordi di Bretton Wood del 1943), dopodiché con la denuncia degli accordi di Bretton Woods da parte dell’amministrazione Nixon (denuncia resa necessaria dalla crisi capitalistica degli anni ’60 e dal maxi indebitamento determinatosi con la guerra in Vietnam), il dollaro si è imposto come denaro mondiale fiduciario sganciato dalla convertibilità con l’oro, garantito dall’egemonia globale Usa e dai petrodollari sauditi. In questo passaggio si è mantenuto il monopolio del dollaro negli scambi internazionali delle merci, sancendo in maniera univoca il primato della borghesia imperialista yankee nella sfera finanziaria.
Cerchiamo quindi di capire, in maniera sintetica, il cammino che ha compiuto il denaro-credito nell’attuale modello produttivo per comprendere come gli Stati Uniti utilizzino tale strumento per rafforzare in maniera determinante il loro primato finanziario, e quindi imperialista. Fondamentale è il ruolo delle Banche Centrali (Bc), soprattutto nella loro funzione di banca di Stato. Le Bc, che originariamente garantivano la convertibilità in oro delle banconote, attualmente sono le responsabili ultime dell’emissione della moneta-credito per finanziare il debito dello stato. In questo quadro il debito dello Stato, finanziandosi con l’emissione di moneta-credito, diventa mezzo di pagamento, riserva di valore e capitale potenziale. Di base il processo (rappresentabile schematicamente) che compie la moneta-credito è: i capitalisti chiedono finanziamenti alle Banche, le quali prendono il denaro necessario, emesso dalla Bc, nella forma di “pagherò”. Il pagherò è il titolo di credito che contiene una promessa incondizionata di pagamento da parte di un soggetto, detto emittente, a una determinata scadenza a favore di un soggetto, detto beneficiario, in maniera più esplicita: un debito da saldare.
Sul piano del mercato globale è fondamentale per le diverse formazioni mantenere riserve sufficienti di denaro mondiale, necessario per lo scambio di merci e, in ultima analisi, per la propria sopravvivenza economica.
Risulta abbastanza chiaro quindi come il polo imperialista dominante, gli Usa, che detengono il monopolio finanziario tramite il controllo dell’emissione del denaro mondiale, il dollaro, abbiano un enorme vantaggio rispetto alle altre formazioni. Mentre tutte le altre necessariamente debbono, in definitiva, finanziare il debito pubblico statunitense acquistando il denaro mondiale che gli è necessario, gli Usa non hanno questo problema, dato che il denaro mondiale coincide con la loro stessa moneta, di cui la Fed ha potere di emissione. Inoltre, questo denaro qualora sia emesso in eccesso non crea inflazione o svalutazione perché defluisce, come riserva di valore, nei depositi della altre formazioni. Questo tra l’altro comporta che la formazione imperialista dominante (gli Usa), imponendo il suo denaro come denaro mondiale, può permettersi una bilancia commerciale con pesanti ed eterni passivi. [3]
Quando si dice che il debito Usa è letteralmente oro (o meglio, debito nostro, problema vostro!), si intende esattamente questa dinamica: ossia che le crisi statunitensi sono costantemente scaricate sulle altre formazioni economiche-sociali tramite le politiche dei tassi della Fed sul dollaro. La domanda è quanto può reggere tale dinamica? La risposta è: fino a che il dollaro rimane la moneta globale dei pagamenti, ed è qui che sorge l’incubo dei magnati di Wall Street: la dedollarizzazione.
La strategia del dollaro
Abbiamo visto come il capitalismo nella sua fase finanziaria sia sostanzialmente legato all’economia del debito: ossia visto che il capitale, gravato dalla crisi, incontra difficoltà a realizzare valore e plus- valore nell’atto della vendita, occorre posticipare questo momento, dilazionando i pagamenti ed introducendo una dinamica di investimenti di capitale che siano orientati al plusvalore che verrà prodotto in futuro. In tutto questo gli Stati Uniti giocano la parte del leone avendo imposto al mondo il dollaro come moneta principale delle transazioni commerciali internazionali.
Questo processo si è rivelato uno strumento fondamentale per gli Usa, insieme alla loro capacità militare, per mantenere la loro egemonia mondiale. Allo stesso tempo la rottura di tale processo diviene per loro una questione di vita e di morte: mantenere l’egemonia del dollaro è un prerequisito e un pilastro dell’imperialismo statunitense, che abbraccia la sua politica e la sua economia. Per comprendere questo è sufficiente focalizzarsi sugli andamenti dell’indice del dollaro. Possiamo infatti parlare di “montagne russe” del dollaro, dove i picchi e le discese sono collegate alla dinamica di indicizzazione del biglietto verde (il tasso con cui la Fed concede dollari in prestito alle banche, il cosiddetto costo del denaro), e ad ogni discesa è seguita una risalita, che ha comportato drenaggio di capitali e centralizzazione della ricchezza in Usa, scaricando la crisi economica dalla formazione principale a quelle subalterne.
L’idea alla base di tale processo è relativamente semplice: dagli accordi di Bretton Woods (come visto sopra) gli Usa hanno potuto iniziare a stampare dollari senza alcun limite, questo ha significato poter dotare la Fed, e gli investitori di Wall Street, di enormi capitali da poter investire all’estero, nelle altre formazioni capitalistiche emergenti, favorendone l’indebitamento; dopodiché, in relazione all’andamento della crisi, la Fed Usa aumenta il costo del denaro-dollaro con la conseguenza di scaricare la crisi sulle altre formazioni indebitate in dollari. Queste formazioni subiscono infatti un massiccio aumento del costo del loro debito fino anche a provocarne il crollo economico-finanziario, come si è visto nei casi più eclatanti (Messico 1994, “Tigri asiatiche” 1997, Russia 1998, Argentina 1999 ecc.). Di seguito la borghesia imperialista Usa ha poi potuto acquisire, a prezzi stracciati, le merci e le aziende sviluppatesi in tali contesti. Usufruendo della crisi quindi hanno potuto effettuare una vera e propria “tosatura” economica.
Un altro vantaggio è il rientro dei capitali sul suolo statunitense che si verifica sia per i tassi alti che in seguito dello svilupparsi di crisi regionali: siano queste “rivoluzioni colorate” o dispute territoriali tra vari attori. Qui entra in campo difatti il primato militare degli Usa: non importa infatti che l’economia yankee sia in ottima salute, basta che sia più sicura di quella altrui. Avere l’apparato militare più sviluppato al mondo, e nessuna crisi evidente nel proprio cortile di casa, è una garanzia per gli investitori, i quali riversano i loro capitali nella “roccaforte” yankee. Tale processo si è visto nella crisi finanziaria latino-americana degli anni ’80, nella crisi delle “tigri asiatiche”, nella crisi del Kosovo (contro l’euro) e nella guerra in Iraq. La stessa crisi in Ucraina nasce, in un contesto di un euro forte, dal bisogno da parte degli Stati Uniti di disaccoppiare l’economia europea da quella russa e di scaricare la crisi sul conglomerato imperialista del vecchio continente, con il corollario di indebolirne la moneta. Ricordiamo in proposito che, sebbene interno al blocco occidentale, l’euro ha sempre giocato un ruolo
di competitore rispetto al dollaro. Questione scottante per l’amministrazione Usa che ha dovuto capire come gestire la situazione.
La “rivoluzione” di Euromaidan ha giocato quindi il doppio ruolo di mettere sotto scacco la Russia dal punto di vista militare e di inserire una crisi regionale nel contesto europeo che andasse a degradare gli investimenti esteri in tale quadrante e favorendone il flusso verso gli Usa, garantendo quindi un dollaro rafforzato, un euro indebolito ed una Russia all’angolo.
La crisi Usa nel contesto internazionale
A questo punto risulta chiaro come le politiche economiche finanziarie statunitensi siano intrecciate in maniera sostanziale con il flusso globale delle merci e degli investimenti andando a definire il mercato mondiale strutturato, meglio noto come globalizzazione, che negli ultimi 20 anni è stato improntato dal capitalismo Usa. Le condizioni politiche dell’unipolarismo di marca Usa non hanno però retto sulla base di questo primato finanziario. La dedollarizzazione era un fattore critico già in essere. L’unipolarismo finanziario ha prodotto la globalizzazione e con essa lo sviluppo dei competitori strategici. E questo è un problema perché il gioco del dollaro si inceppa in
maniera sempre più critica ogni qualvolta vi si inseriscano nei sassi, come l’euro, che gli Usa hanno dovuto rincorrere, e ancor di più con la tenuta e lo sviluppo l’autonomia politica, militare e lo crescita economica di Russia, Cina e delle altre formazioni emergenti.
Quello a cui stiamo assistendo è la frattura di quelle che vengono definite le catene del valore, o meglio, stiamo vivendo un processo di riconfigurazione strutturale del flusso delle merci, basti pensare al percorso effettuato dal petrolio russo per approdare nei porti europei oggi rispetto a due anni fa. Nella sua dimensione più sostanziale questa riconfigurazione si concretizza con la rottura dell’integrazione economica capitalistica mondiale, che coinvolge tutti gli attori, come ad esempio la Cina nella “nuova via della seta”, che con la guerra in Ucraina si vede tagliata una porta di accesso fondamentale ai mercati europei, o il disaccoppiamento tra Germania e Russia, sancito con l’esplosione del gasdotto Nord Stream.
La questione fondamentale è che la crisi di sovrapproduzione capitalistica non permette la valorizzazione dei capitali investiti, o almeno non nel grado desiderato. Negli ultimi vent’anni gli Stati Uniti sono riusciti a gestire tale processo a loro favore tramite la globalizzazione, ossia piegando il mercato globale ai loro interessi, esportando e rifluendo capitali, realizzando accumulazione per spoliazione e vampirizzando il plusvalore prodotto dalle formazioni economiche più arretrate, forti della loro proiezione militare capace di “riportare alla ragione” i soggetti più recalcitranti ad entrare nella loro catena di sfruttamento. In particolare l’aver sconfitto il rivale strategico Urss nel 1991 (a causa della deriva revisionista sovietica) ha garantito agli Stati Uniti dei vantaggi e un bottino paragonabile a quello di aver vinto una guerra imperialista. La conseguente divisione in molteplici Stati di un territorio enorme e ricchissimo di materie prime, l’accaparramento di forza lavoro altamente qualificata a bassissimo prezzo e la svendita delle infrastrutture, sono state una manna dal cielo per gli Usa e il blocco occidentale in generale.
Tuttavia è da sottolineare che da diversi decenni gli Stati Uniti non sono stati in grado di portar a casa un risultato militare strategico definitivo nei confronti dei popoli oppressi dal loro imperialismo. Non solo, le sconfitte in Vietnam, in Afghanistan e l’impantanamento dei loro tentativi di egemonizzare il Medioriente, hanno comportato delle incrinature nella granitica potenza imperialista a stelle e strisce, che hanno necessariamente aperto a spazi di agibilità politiche per altri attori i quali, inserendosi in queste crepe, incrementano il loro peso specifico e mettono a dura prova la tenuta yankee.
Quello a cui stiamo assistendo in questa fase è difatti un radicale cambiamento del paradigma dei rapporti interimperialisti. In particolare il rapporto Usa-Cina è fondamentale per comprendere la portata del cambiamento a cui stiamo assistendo. Se guardiamo indietro quello che è accaduto, in seguito al tradimento di Deng e della sua cricca dopo la morte di Mao, è stata l’integrazione dell’economia cinese nel sistema capitalistico globale. Integrazione che si è concretizzata in flussi enormi di capitali statunitensi verso le aziende cinesi, gestite direttamente o indirettamente dallo Stato, ma anche private. Questa dinamica si è completata con l’apertura del mercato Usa alle merci prodotte in Cina e con l’acquisto di debito Usa da parte della Cina, che attualmente ne detiene la quota maggiore, determinando un’interdipendenza profonda tra i due colossi.
Questa dinamica, che capitalisticamente parlando costituisce un volano virtuoso, è il nocciolo duro della cosiddetta globalizzazione, il suo principale motore. Una globalizzazione che se da una parte può ammettere una ristrutturazione delle catene del valore, dall’altra non può continuare a funzionare come prima senza che tale motore sia attivo. In questo vortice di investimenti esteri, sviluppo dei mercati e acquisto di debito, i due attori cercano di sviluppare le loro strategie. Da una parte la Cina punta a guadagnare quote di plusvalore e di valorizzazione aggiuntiva tramite la risalita della catena tecnologica, cercando di determinare la propria linea di produzione interna (passare dal made in China al made by China). Basti ricordare la disputa su Taiwan e di come in tale isola sia presente la Tsmc, la più grande produttrice di semiconduttori al mondo: una miniera d’oro per l’industria high-tech ad altissimo valore aggiunto sul quale vuole mettere le mani la Cina. Dall’altra parte abbiamo gli Stati Uniti che non possono permettersi di perdere nessuna quota globale di valorizzazione, o lasciare che la Cina diventi un competitore strategico nell’ambito delle tecnologie, ma allo stesso tempo hanno bisogno che questa acquisti quote del loro debito per poter proseguire nelle loro politiche finanziare.
In questo tiro alla fune si consuma quindi un gioco di equilibrio tra le due potenze che se da una parte non permette la deflagrazione totale del conflitto, dall’altra ci fa assistere ad una partita di scacchi per l’egemonia globale, con mosse nelle aree “laterali” del globo, come sud-est asiatico, Sud-America ed Africa, con la partecipazione chiaramente dell’altro attore, minore per volume economico, ma con un peso specifico militare non indifferente: la Russia. L’obiettivo di entrambi i campi è quello minare il più possibile le capacità imperialiste dell’altro in attesa della spallata finale.
In tale contesto gioca un ruolo fondamentale anche la politica militare Usa nel quadrante europeo, con il ricompattamento Nato in funzione antirussa, andando a disarticolare l’ipotesi di uno sviluppo capitalistico autocentrante euroasiatico avente come centri di produzione Germania-Russia-Cina.
Parafrasando potremmo dire che la politica yankee in questa area del mondo ha funzionato, realizzando la visione “Europa sotto, Russia e Cina fuori”. In particolare l’espressione “Europa sotto”, indica l’ormai nota sottomissione dell’aggregato imperialista europeo all’agenda yankee, scandita dall’escalation in Ucraina e volta da una parte a disciplinare i riottosi alleati europei che non vogliono scendere in campo direttamente, Germania in primis, e dall’altra premiare i paesi del centro-nord Europa, la Polonia in primis, pronti con l’elmo in testa a scendere in campo contro il gigante russo.
La linea Nato si sostanzia nella capacità imperialista Usa di decidere in maniera fondamentalmente unilaterale della condotta europea in materia di politica estera, andando quindi necessariamente a ridefinire anche quella interna. Possiamo dire che l’amministrazione Biden è riuscita finora nell’impresa, almeno in questo quadrante, visto che nel resto del mondo la situazione è ben più articolata. Fondamentalmente il circolo di agonia nel quale si sono infilati gli Stati Uniti può essere riassunto così: la crisi economica determina l’aggressività economica, politica e militare yankee, dall’altra come conseguenza dell’aggressività si ha un aggravamento della crisi stessa.
L’esportazione di capitali, i flussi di investimenti, necessari per rimandare la crisi di sovraccumulazione, hanno finito con l’accrescere la capacità economica dei Brics, e questa crescita sta determinando sul piano politico una perdita di egemonia Usa. Pensiamo alla chiara volontà del presidente brasiliano Lula di archiviare il dollaro come moneta mondiale, all’ingresso nei Brics di Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Argentina, Etiopia, Egitto e Iran, oppure al gioco al rialzo del prezzo del petrolio operato dalla petromonarchia saudita (in pregio al diktat Usa), o anche al ruolo ambiguo che sta giocando la Turchia, membro Nato, all’interno del contrasto con la Russia.
Tuttavia, sebbene il blocco Brics si stia strutturando, le difficoltà al loro interno sono pesanti: è ancora presto per poterne sancire l’unità, o almeno una direzione politica egemone. Basti vedere che dopo l’ultimo loro summit in Sudafrica, non sono riusciti a definire la nascita di una moneta comune per gli scambi internazionali, o anche il fatto che, all’interno degli stessi Brics, vi siano atteggiamenti molto ambigui, come quello dell’India, alleato degli Stati Uniti nel contrasto alla Cina sul fronte asiatico. [4]
Nonostante le difficoltà dei Brics, a strutturarsi come polo di una nuova egemonia, la crisi di quella Usa è sempre più evidente e si traduce in una maggiore instabilità globale. Le penetrazioni cinesi e russe in Africa ne sono una prova. In particolare, nel quadrante dell’Africa occidentale, la contraddizione imperialismo-popoli oppressi sta giocando una partita importante con sollevamenti che, manu militari, hanno rovesciato propri governi fantoccio filooccidentali. In tale contesto di sviluppo della lotta anticoloniale, che coinvolge larghe masse, si sta paventando una guerra regionale tra paesi della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale, ai più nota con l’acronimo Ecowas, storicamente legati al colonialismo occidentale, e paesi “centrifughi”, quali Mali, Niger, Guinea e Burkina Faso, espulsi dall’organizzazione internazionale. Sebbene tali processi anticoloniali non siano attualmente diretti da partiti rivoluzionari, hanno il merito di aprire ampi spazi di agibilità politica all’interno dei quali le masse africane perseguono la concreta possibilità di emanciparsi da un giogo secolare, utilizzando anche le contraddizioni interimperialiste per scacciare il loro storico sfruttatore, in questo caso impersonato dalla Francia. Tutto ciò finisce con indebolire la catena imperialista occidentale, e quindi favorisce anche l’avanzare la lotta di classe nei paesi imperialisti. In quanto comunisti il nostro sostegno alle rivendicazioni di indipendenza nazionale di questi paesi è doveroso.
In definitiva tutto quanto considerato contribuisce al peggioramento della crisi, che quindi si avvita con una spirale sempre più rapida verso un conflitto globale interimperialista. Prospettiva ormai palese agli occhi di tutti.
I riflessi internazionali nella politica interna Usa
Se a livello internazionale quindi il mercato globale sta vivendo una fase di ridefinizione delle catene del valore, questo implica delle ripercussioni profonde nella politica interna Usa. Dal punto di vista strutturale l’amministrazione Biden nell’ottica di eliminare la Cina come avversario geopolitico deve necessariamente implementare delle riforme economiche e politiche interne che ne garantiscano la riuscita.
In tal senso sono state effettuate una serie di riforme come il Defense Production Act, il Chip Act e l’Inflaction Reduction Act, dove le prime due hanno come obiettivo quello di recuperare quote di controllo monopolistico nei settori strategici dell’alta tecnologia e ad alto valore aggiunto nel confronto con la Cina e gli altri competitor (anche l’Ue i cui sono emersi in proposito malumori), mentre la terza quella di contrastare l’inflazione galoppante. Di particolare importanza sono le prime due dal momento che aprono le strade al reimpatrio dei capitali, il cosiddetto reshoring , fondamentale per raggiungere l’annunciato obiettivo, in termini di numeri, di circa 210 mila posti di lavoro. Allo stesso tempo gli investimenti statunitensi verso la Cina stanno rallentando, ma non stanno fermandosi bruscamente (non si può spegnere il motore all’improvviso, altrimenti la macchina si distrugge). Questo chiaramente, se da una parte significa più posti di lavoro di rientro negli Stati Uniti, dall’altra ha una ripercussione in termini di profitto realizzabile e quindi valorizzazione dei capitali investiti. Se nel breve termine i sussidi statali della Fed investiti per riportare posti di lavoro suolo americano garantiscono una copertura dei costi, dall’altra nel lungo periodo si ha il problema di una forza lavoro che costa necessariamente di più rispetto a quella dei paesi da dove si sposta la produzione, il che si traduce in una caduta dei margini di profitto, a meno di non intaccare direttamente i salari e le condizioni di vita dei lavoratori statunitensi.
In questo contesto infatti si apre la prospettiva di uno sviluppo della lotta di classe negli Stati Uniti che, sebbene non sia ancora esplosiva, non è comunque pacificata, con una classe lavoratrice combattiva, ad esempio con la grande sindacalizzazione del settore logistico che ha come capofila Amazon, [5] e più recentemente con gli scioperi contro l’introduzione dell’intelligenza artificiale nel settore cinematografico e in quelli per gli aumenti salariali nel settore dell’auto (Ford, Stellantis, General Motor). Senza contare inoltre che tale incremento del conflitto di classe si innesta con l’irrisolta questione razziale, come le rivolte contro gli omicidi di neri da parte della polizia, e in particolare il caso Floyd, ci ricordano.
Tutti questi ingredienti, conflitti globali crescenti, necessità di reindustrializzazione e crisi economica, indicano come nel medio-lungo periodo la Casa Bianca dovrà fare i conti con una gestione di una situazione interna in subbuglio. Abbiamo comunque visto, con la repressione delle rivolte nel 2020, che gli apparati della controrivoluzione puntano al pugno di ferro: guardia nazionale nelle strade e sostegno ai suprematisti bianchi.
In tale contesto, risulta confusa l’alternativa politica all’agenda Biden in campo repubblicano. Se difatti le politiche protezionistiche nei confronti della Cina sono state eseguite in maniera bipartisan, la gestione del conflitto con la Russia si pone in termini più problematici nel campo repubblicano e della sua fazione trumpista, che preferirebbe ingoiare un boccone alla volta. Questo campo tuttavia non riesce ad imporre una strategia chiara e vincente: si può parlare di “imperialismo schizofrenico”. La visione strategica del trumpismo consiste nel tentativo di mantenere il primato Usa, arrivando anche a rompere i vecchi equilibri, quali quelli con i paesi della Nato e l’Unione Europea. Questa visione non ha l’appoggio della maggioranza della borghesia imperialista Usa e necessariamente perde terreno rispetto ai democratici che sviluppano un approccio iperaggressivo verso le altre formazioni imperialiste e di abbraccio politicamente ed economicamente strangolante con gli alleati europei. Sul fronte interno i repubblicani puntano ad un’egemonia chiaramente reazionaria e securitaria, ad esempio rispetto alla questione razziale, mentre i democratici portano in politica interna una visione liberal, puntando ad egemonizzare la parte più “progressista” dell’elettorato Usa: pensiamo ad esempio alla capitalizzazione elettorale ottenuta dal movimento Black Lives Matter.
Nulla esclude tuttavia che, nell’attuale crisi di egemonia, Trump possa ritornare alla presidenza, andando ad esacerbare le dinamiche di conflitto interno, quella sorta di guerra civile latente negli Usa, espressasi nelle rivolte di massa dei ghetti del proletariato nero, ma anche nello scontro interborghese per la gestione del potere politico. Basti pensare a quanto accaduto il 6 gennaio 2021 con l’assalto al Campidoglio, quando abbiamo assistito ad una vera e propria fiammata di guerra civile, che ha mostrato la lacerazione del fronte interno imperialista yankee.
Multipolarismo è guerra: la lezione leninista
Abbiamo delineato quindi come il gigante Usa sia in un momento di profonda crisi di egemonia globale, determinata in primo luogo dalla crisi economica capitalistica, che si sostanziata nella crisi politica internazionale, con conseguenti riflessi nella tenuta sociale interna. Negli interstizi lasciati da questo colosso in agonia gli altri aggregati o soggetti imperialisti in formazione cercano il loro spazio vitale: aree del globo su cui esercitare la loro influenza politica e più in generale una nuova ripartizione delle quote interazionali di plusvalore.
In termini concreti significa che gli Usa sono costretti a combattere fino alla fine per mantenere il loro primato. L’unico ordine globale possibile per la borghesia imperialista Usa è il suo, quello cioè fondato sui suoi interessi. Occorre quindi sgomberare il campo da ogni visione idealistica che suppone una divisione del mondo pacifica tra attori imperialisti: il declino dell’ordine imperialista statunitense non significa fine dell’imperialismo e pace, anzi la dimensione multipolare è caratterizzata dalla guerra. Se da un lato gli Stati Uniti sono appunto costretti a combattere fino alla morte per mantenere il loro primato, allo stesso modo le potenze emergenti devono conquistarsi spazi di ripartizione di mercato, puntando ad un nuovo ordine mondiale, sempre basato sulla riproduzione di rapporti di sfruttamento imperialistici e capitalistici.
A tal proposito è fondamentale la definizione dell’imperialismo data da Lenin nei cinque punti, [6] i quali danno una visione chiara su come l’imperialismo sia una categoria politica che ha le sue fondamenta nella dimensione economica.
Dentro a questo quadro definito dalla concezione leninista dobbiamo orientarci per comprendere come oggi la borghesia imperialista Usa sia il soggetto imperialista più aggressivo e rapace rappresentando, in questo tornante della crisi generale del capitalismo nella fase imperialista, l’aspetto principale della contraddizione interimperialista nel mondo, e ancor di più nel nostro quadrante geografico. D’altra parte sia Russia che Cina (ma anche India), con le dovute differenze e differenti gradi di sviluppo, si rispecchiano nella definizione data da Lenin. Proprio perché tali attori hanno gradi, e soprattutto ritmi, di sviluppo differenti lo scontro per la ripartizione del mercato globale è inevitabile. In maniera analoga a quanto è avvenuto nella prima guerra mondiale tra imperi centrali e democrazie occidentali e nella seconda tra nazifascismo e democrazie occidentali.
Possiamo quindi asserire che l’agognato multipolarismo, la visione di uno sviluppo multipolare pacifico, altro non è che un riflesso ideologico borghese che vorrebbe le varie borghesie imperialiste mondiali dividersi il globo di comune accordo, in una sorta di pace di Westfalia o Belle époque in salsa postmoderna. Cosa impossibile dato l’attuale sviluppo delle contraddizioni relative alla crisi della fase imperialista del capitalismo. Si tratta di puro idealismo scollato dalla comprensione oggettiva della condizione economica e delle relazioni interimperialiste globali.
In questa situazione è quindi necessario per i comunisti avere chiara la dinamica e la profondità della crisi Usa, con tutte le sue conseguenze, e allo stesso tempo non seguire chimere riformiste o idealiste che auspicano la nascita di un fantomatico mondo multipolare, perché questo c’è già ed il mondo in guerra. In particolare nella nostra azione politica occorre contrastare le infiltrazioni ideologiche borghesi, da quelle più chiaramente atlantiste, interventiste guerrafondaie, a quelle invece più sottili che nella risoluzione multipolare vedono una ricollocazione strategica dell’Italia in un aggregato imperialista alternativo a quello attuale, che permetta uno sviluppo di settori di borghesia imperialista nostrana a scapito degli altri legati al vecchio ordine yankee. I comunisti devono mettere al centro del dibattito pubblico generale la questione della guerra imperialista, voluta principalmente dal campo atlantico, e al centro della questione della guerra la questione del superamento del modo di produzione capitalistico, che è alla base di ogni formazione imperialista e del multipolarismo. Specificatamente le rivendicazioni sovraniste vanno identificate come, o utopistiche, senza basi reali, o reazionarie, perché postulano un imperialismo “diverso” e ne giustificano la continuità come sistema di sfruttamento. È nostro dovere isolare tali linee nei nostri luoghi di intervento specifico.
Allo stesso tempo, non dobbiamo offrire il fianco ad interpretazioni idealistiche dogmatiche, che vedono nel multipolarismo unicamente l’espressione di blocchi imperialisti concorrenti, perché, sebbene questo elemento sia principale, in questo contesto del multipolarismo di guerra si stanno aprendo ampi spazi di agibilità politica per le masse e le idee rivoluzionarie hanno più agibilità, sia nelle aree dominate del tricontinente (Asia, Africa e America latina) che nelle metropoli imperialiste. L’esempio dell’Africa occidentale è lampante. I soggetti politici africani fautori dei recenti colpi di Stato, hanno posto in maniera chiara ed inequivocabile la critica all’imperialismo occidentale e al neocolonialismo. Leggere tali manifestazioni come sudditanza all’imperialismo russo, significa non comprendere correttamente una fase caratterizzata dell’intersezione della contraddizione interimperialista con le altre, in primo luogo quella tra imperialismo e popoli oppressi, e così sostenere in maniera indiretta il nostro imperialismo. Una posizione per noi comunisti inaccettabile.
Un contesto globale multipolare e di guerra si sta rivelando come attuale risultato concreto dello sviluppo delle contraddizioni, sviluppo in cui quella interimperialista si sta dispiegando come principale. Il mondo non può più procedere come prima e la situazione potrà volgere verso la rivoluzione o verso la reazione, verso il comunismo o verso la barbarie, a seconda di quando le soggettività rivoluzionarie saranno in grado di porsi alla testa del movimento delle masse.
Note:
[1] Vedi, L’economia di guerra, Antitesi n. 13, pp. 5 ss.
[2] Per specificare, si hanno quattro funzioni del denaro: denaro come misura del valore (ideale), denaro come mezzo di circolazione (segno di valore), denaro come mezzo di pagamento (reale) e denaro come riserva di valore, che a sua volta, si articola in denaro sottratto alla circolazione come forma di tesoro e denaro come valore che trabocca dalla circolazione e diventa inoperoso.
[3] Per approfondire, leggi Glossario, Antitesi n. 9, voce “debito”, pp. 78 ss e n. 11, voce “denaro mondiale”, pp. 81 ss.
[4] Vedi L’India in bilico, Antitesi n. 15, pp. 37 ss.
[5] Vedi La tigre lacerata, Antitesi n. 8, p. 38
[6] Vedi manchette.
Cos’è l’imperialismo?
Secondo Lenin l’imperialismo come sistema globale e come formazione economica nei singoli paesi si definisce secondo cinque punti: “1) la concentrazione della produzione e del capitale che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica 2) la fusione del capitale bancario con il capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo capitale finanziario, di una oligarchia finanziaria 3) la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitali in confronto con l’esportazione di merci 4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti che si spartiscono il mondo 5) la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche”.
Da L’imperialismo fase suprema del capitalismo, 1917