Le lotte in Europa
La resistenza delle masse alla crisi e alla guerra
“Classi sociali, proletariato e lotte” da Antitesi n.15 – pag.17
In questo articolo proponiamo una riflessione comparata sulle lotte di massa che si sono sviluppate in Europa dopo l’intervento russo in Ucraina: dalla Francia alla Germania fino all’Italia.
La guerra in atto ha accelerato la crisi stessa che l’ha determinata. Essa, infatti, è certamente una conseguenza della crisi economica in cui versa il sistema capitalista mondiale nella sua fase imperialista, ma è altresì un ulteriore fattore di precipitazione della crisi stessa.
Il malessere che ha portato migliaia di persone ad occupare le piazze e a bloccare la produzione in diverse parti di Europa è il riflesso del modo di produzione capitalista il quale si avvita sempre più in una crisi sia strutturale che sovrastrutturale e provoca malessere e scadimento delle condizioni di vita delle masse popolari. Con un effetto boomerang la guerra, quindi, si riflette sull’economia che, tramite l’azione politica delle classi dominanti, diventa un’economia di guerra.
L’Italia fa dà esempio con il suo attuale esecutivo capeggiato da Fratelli d’Italia, partito che, prima ancora dell’insediamento, si era battuto per l’aumento delle spese militari al 2% del Pil come richiesto dalla Nato e, una volta al potere, ha assunto il Pnrr, propaggine nazionale della soluzione europea alla crisi presentata con il piano del Recovery Fund/Next Generation, come strumento per il rilancio dell’economia. Attraverso il Recovery Plan, l’Europa tenta la strada dell’intervento pubblico, una politica keynesiana che riguarda in particolare anche il settore militare (compresa la ricerca, utile con le sue ricadute dual use a implementare il salto tecnologico) e lo fa per rispondere ad una doppia necessità: affrontare la crisi economica in atto e preparare un apparato militare in grado di incidere all’interno dell’attuale contesto di guerra.
Inoltre, la crisi strutturale si riversa dialetticamente sulla sovrastruttura determinando forti cedimenti nell’egemonia delle classi dominanti. Si veda il caso degli Usa, dove la perdita di egemonia globale interessa sia la sfera finanziaria con un’accelerazione della crisi del dollaro sia la sfera sociale con le rivolte del proletariato nero, le proteste di massa contro l’intelligenza artificiale da parte dei lavoratori dello spettacolo, gli scioperi inediti della classe operaia delle fabbriche dell’auto.
In generale, gli assetti istituzionali dei paesi in crisi sono destabilizzati e questo influenza sia il fronte esterno che quello interno. Sul fronte esterno, ancora una volta, la guerra diventa strumento per permettere di riorganizzare alleanze e sancire sfere di influenza. Si veda per esempio il ruolo giocato dagli Usa che, tramite la guerra in Ucraina, sono riusciti a sancire la loro sfera di influenza in Europa, portando le borghesie europee a schierarsi concretamente al loro fianco per sostenere la guerra della Nato e così facendo sono riusciti a scaricare la loro crisi sulle masse europee.
In questo solco è collocata l’approvazione di quest’estate del regolamento Asap (Atto di supporto alla produzione di munizioni) che mira ad incrementare la capacità produttiva dell’Ue per far fronte alla carenza di mezzi di guerra: nello specifico, piccole e medie imprese del settore bellico potranno beneficiare di finanziamenti per produrre ad esempio più munizioni. Dovranno a questo scopo interrompere i rapporti economici con la Russia, anche a discapito dei propri interessi, come è successo con l’interruzione delle forniture di gas russo oltre che all’Italia anche ad altri paesi europei paesi europei.
Ma nonostante il keynesismo militare, con i massicci investimenti pubblici nell’industria di guerra, venga utilizzato anche per tentare di comprare il consenso o quantomeno la passività operaia nell’attuale situazione, nonostante la propaganda di guerra sia martellante, nonostante la repressione con quale si risponde a tutte le lotte, la parte cosciente e combattiva delle masse popolari europee continua a mobilitarsi.
Francia: dalla battaglia delle pensioni alla rivolta delle periferie
La Francia è uno dei paesi nel quale le mobilitazioni di massa sono state più eclatanti, massificate e radicali. Ciò deriva dalla crisi strutturale e sovrastrutturale che si manifesta in maniera evidente sia sul fronte esterno che su quello interno. Sul fronte esterno, infatti, la classe dominante francese subisce da diversi anni un processo di arretramento: in Africa perde progressivamente l’influenza nelle ex colonie e, in Europa, svaniscono i sogni di autonomia dalla Nato e quelli di assumere più peso all’interno dell’Unione. La dichiarata posizione di Macron di autonomia dall’influenza statunitense, infatti, non ha avuto presa sulle altre borghesie europee anche per gli interessi che le dividono dalla Francia stessa. Vedi ad esempio, la storica rivalità con l’Italia sulla Libia e in generale sulla preminenza in Africa. Lo stesso Macron, tra qualche mugugno, ha dovuto dunque appiattirsi su una linea chiaramente filostatunitense in politica estera, anzi persino puntando a contendere politicamente la crociata antirussa agli Usa e all’Inghilterra.
La perdita d’influenza della borghesia imperialista francese in Africa è palesemente dimostrata dagli ultimi eventi. Il golpe del 26 luglio scorso in Niger e le migliaia di manifestanti che assaltano l’ambasciata di Parigi a Niamey, infatti, sono eventi che evidenziano la volontà delle masse del paese africano di smarcarsi dal dominio occidentale e, in particolare da quello francese, ma anche il protagonismo della borghesia nazionale, incarnata dalla giunta militare golpista, che si fa paladina del malcontento del popolo e punta sull’appoggio della Russia e delle altre potenze emergenti. Questo del resto è accaduto anche in Burkina Faso e in Mali, altri due paesi africani dove l’egemonia della borghesia francese è miseramente crollata, con nuovi governi patriottici e antifrancesi. In Senegal, gli scorsi mesi hanno visto una rivolta popolare contro il regime filofrancese, repressa duramente e alla quale le comunità immigrate in Europa hanno espresso forte solidarietà ed appoggio. Più complessa ancora la situazione in Gabon, dove il golpe militare di agosto è intervenuto contro il regime clanico di Alì Bongo, storicamente filofrancese, ma le intenzioni dei nuovi governanti non sono chiare, eccetto il fatto che anche in questo caso l’instabilità dei vecchi assetti coloniali è conclamata.
Ovviamente questa situazione è pericolosa per la borghesia francese, che non può assolutamente permettersi di perdere la sua sfera di influenza sul continente africano dati gli interessi delle compagnie francesi che vi operano, prime fra tutte TotalEnergies nel settore energetico, Bolloré nel settore delle costruzioni e della logistica e Orange nel settore delle telecomunicazioni. A queste si aggiungono le multinazionali francesi che importano materie prime dagli Stati africani, come per esempio il cacao dalla Costa d’Avorio per l’industria alimentate ma soprattutto l’uranio, proveniente dal Niger e dal Gabon, necessario per il funzionamento e il mantenimento delle centrali nucleari per la produzione di energia e dell’arsenale atomico francese. Il caso del Niger mostra bene il carattere del colonialismo francese: mentre il territorio nigerino viene sventrato alla ricerca dell’uranio per produrre energia nucleare in Francia, solo il 14,3% della popolazione nigeriana usufruisce dell’energia elettrica.
La lotta di classe e le mobilitazioni che si sono verificate sul fronte interno sono un riflesso della crisi sul fronte esterno. Perdendo terreno in Africa e, nella spirale internazionale di crisi e guerra aggravata dal conflitto con la Russia, la borghesia imperialista francese è costretta a tentare di recuperare margini di stabilità finanziaria e profitto attaccando le condizioni di vita delle masse sul fronte interno. In tal senso va intesa la riforma dell’età pensionabile, varata lo scorso marzo e blindata con l’uso dell’articolo 49 comma 3 della costituzione, che inibisce i poteri del parlamento. In risposta, le città francesi hanno visto lavoratori e lavoratrici mobilitarsi massicciamente, con un vasto fronte di lotta che andava dalla Confederation francaise democratique du travail, il sindacato tradizionalmente più filo-governativo ai Gilets Jaunes, passando per il più grande sindacato francese, la Confederation Generale du Travail (Cgt).
Le strade della Francia sono state percorse da poderose manifestazioni di massa, che hanno unito milioni di lavoratori. Si è espresso un livello di combattività durante una lotta sindacale ed economica che oggi non ha pari in altri paesi europei. Si sono infatti generalizzate pratiche conflittuali che già avevano caratterizzato fasi di esplosione di lotta di classe nel paese d’oltralpe: cortei sia di giorno che di notte, picchetti fuori dai luoghi di lavoro, blocchi stradali, risposte militanti alla violenza della polizia, ecc. ecc.
È chiara però, d’altra parte, la debolezza politica generale del movimento, evidenziata dal fatto che non vi riesca ad emergere una chiara posizione contro la guerra della Nato, contro l’imperialismo di “casa propria” e in solidarietà ai popoli africani in lotta. Tuttavia, queste mobilitazioni delle masse francesi hanno rappresentato un sicuramente un indebolimento della presidenza di Macron e dell’egemonia del regime che, con il procedere della crisi, l’infuriare della guerra in Ucraina e il moto anticoloniale delle masse africane, rischia di essere destabilizzante e di aprire nuovi ulteriori spazi
alla lotta di classe. E infatti, successivamente alla lotta contro la riforma delle pensioni, si è innescato un nuovo ciclo di rivolte nelle banlieue, a seguito dell’assassinio di un ragazzo diciassettenne, Nahel Merzouk, da parte di un poliziotto, il 27 giugno scorso, nella città di Nanterre. Il caso di Nahel non è isolato: si registrano 44 morti dal 2021 ad oggi e un continue violenze da parte della polizia nelle banlieue.
L’esplosione delle banlieue viene raccontata dalla propaganda borghese come una questione razziale: i giovani africani immigrati o discendenti da famiglie immigrate avrebbero difficoltà di integrazione, secondo la “sinistra”, o non vorrebbero proprio integrarsi, secondo la destra. Ovviamente far emergere solo la contraddizione di “razza” diventa comodo in quanto permette di nascondere la reale contraddizione alla base delle rivolte, ovvero la contraddizione di classe e in qualche modo assolvere la classe dominante francese da ogni responsabilità, che non sia quella, al massimo, della mancata integrazione culturale degli immigrati.
La propaganda mainstream ha parlato infatti dei quartieri protagonisti delle rivolte come quartieri islamizzati ma, in realtà, la rabbia dei manifestanti si è scagliata anche contro i negozi islamici. I giovani scesi per le strade francesi sono giovani proletari che vivono sulla propria pelle gli effetti della crisi economica, la militarizzazione dei propri quartieri e l’inefficacia delle politiche sociali e di integrazione. A scendere per strada e a porre a ferro e fuoco diverse città francesi non sono gli abitanti delle banlieue principalmente in quanto immigrati, giovani, islamici, ma principalmente in quanto proletari sempre più impoveriti.
Nelle periferie delle metropoli, lo Stato francese è messo davanti al fallimento del suo modello di integrazione capitalista. Negli anni, infatti, la proposta della classe dominante francese è stata quella di inserire i giovani immigrati nella società attraverso istituzioni dello Stato e della “società civile” che avessero come obiettivo l’integrazione al modello culturale francese e la pacificazione di qualsiasi istanza di ribellione alle condizioni di vita nelle periferie. Quindi, da una parte non viene riconosciuta piena identità alle culture non francesi e si accetta l’immigrato in base a quanto più costui assomigli all’uomo francese, bianco, europeo, mantenendo in vita in questo modo una politica di stampo coloniale, dall’altra la campagna d’integrazione è organica al modello economico capitalista e serve solo a mettere delle toppe al problema senza mai risolvere questioni fondamentali come la casa, il lavoro, l’emarginazione, la mancanza di prospettive…
Le sedi delle associazioni che promuovono questa cosiddetta integrazione, anche questa volta, come già era accaduto nelle rivolte del 2005, sono state prese di mira dai fuochi degli insorti, così come persino le scuole. È allora secondo la lente del fallimento della politica sociale e di integrazione dello Stato capitalista francese che vanno lette queste azioni di rivolta. Una sorta di guerra civile spontanea che corrisponde all’esasperazione di alcuni settori di massa alla crisi e alla violenza di Stato.
A questa combattività lo Stato ha risposto con la forza: più di 45 mila agenti e centinaia di blindati per assediare i quartieri e arrestare i rivoltosi, oltre quattro mila arresti di cui buona parte minorenni.
La repressione è stata molto dura anche a Saint-Soline, dove tra marzo e aprile si è sviluppato un forte movimento popolare e militante contro la costruzione di grandi bacini per raccogliere l’acqua per l’industria agroalimentare, sottraendola ai piccoli contadini. La repressione poliziesca si è concretizzata con l’uso di armi come granate esplosive, con centinaia di feriti, anche in maniera permanente e due manifestanti mandati in coma. Oltre alla violenza di massa, lo Stato francese ha messo in campo anche la legislazione “antiterrorismo”, mettendo al bando per “terrorismo” il movimento Les Soulevements de la Terre, in prima fila nelle proteste per i grandi bacini idrici di Saint-Soline e contro la Tav Torino-Lione.
Questa repressione è l’evidente riflesso della guerra esterna sul fronte interno: nel momento si acutizzano le contraddizioni per il regime francese, che si dibatte per mantenere le sue semicolonie in Africa, procede a colpire i popoli resistenti (Niger, Mali, Burkina Faso) e partecipa alla guerra contro la Russia, il fronte interno deve essere blindato a qualsiasi costo, con la violenza di massa e messa al bando di movimenti “sovversivi”.
La classe lavoratrice si muove in Germania e Regno Unito
Anche tra la classe lavoratrice tedesca si è registrato lo stesso malcontento sentito dalla classe lavoratrice francese. In Germania lo sciopero dei dipendenti dei servizi pubblici e dei trasporti di fine marzo non ha minimamente raggiunto i livelli numerici francesi, ma si è trattato comunque di una mobilitazione come non si registrava da tempo nel paese. Del resto la classe operaia tedesca è stata fortemente tenuta a bada con la messa fuori legge, dagli anni ‘50 del secolo scorso, dello sciopero politico e con politiche corporative, come la diretta partecipazione dei sindacati alla gestione delle aziende. Questo sciopero è stato condannato dal Partito Socialdemocratico Tedesco e ciò potrebbe giocare a favore della classe lavoratrice in quanto dimostra una crepa nell’intesa tra la socialdemocrazia, i sindacati e i padroni.
In Germania, inoltre, a differenza di altri paesi europei, è stato più forte il dissenso della classe lavoratrice alla guerra in Ucraina. Probabilmente a causa della celere interruzione delle forniture di gas russo, è dilagata la consapevolezza tra le masse tedesche del nesso tra guerra in Ucraina e peggioramento delle proprie condizioni di vita, nesso che ora sta divenendo lampante con l’entrata del paese in recessione. Le manifestazioni contro l’invio delle armi, dei mezzi militari e delle munizioni in Ucraina sono nate quindi da rivendicazioni di carattere economico ma hanno avuto il dato positivo di stabile il nesso con la guerra. Si è formato così un movimento contro la guerra molto più corposo che nel resto dell’Europa, con manifestazioni che hanno richiamato anche decine di migliaia di persone, come a Berlino il 25 febbraio scorso.
Così come in Germania anche nel Regno Unito, dove la crescita dell’inflazione si attesta a livelli superiori al 10%, si è sviluppata la lotta contro il carovita e per gli aumenti salariali: i lavoratori del settore dei trasporti, gli insegnanti e i dipendenti pubblici, gli infermieri hanno incrociato hanno condotto numerosi scioperi per diversi mesi. Le mobilitazioni sono state molto partecipate e sono state raggiunte cifre record rispetto agli ultimi dieci anni. Ad esempio nel settore scuola, lo sciopero generale ha coinvolto 500 mila dipendenti pubblici con l’85% delle scuole chiuse. Inoltre, la classe lavoratrice britannica ha denunciato che non si tratta solamente di una questione di stipendi, seppure suona forte la rivendicazione dell’aumento di salario che sia superiore all’inflazione, ormai a due cifre. Le rivendicazioni della classe lavoratrice hanno a che fare anche con i miglioramenti delle condizioni di lavoro determinato da anni di austerity e tagli ai finanziamenti nei settori della sanità, educazione e trasporti. Oltre ai dipendenti pubblici, anche il settore dei trasporti, così come in Germania, si è mobilitato lanciando diversi scioperi che hanno dimostrato una nuova classe lavoratrice più combattiva e più determinata. Va ricordata anche la protesta contro la Ztl più grande del mondo con cortei spontanei, blocchi stradali e sabotaggi delle telecamere che ha infiammato il mese di agosto mostrando il rifiuto alla città riservata ai ricchi.
Anche in Regno Unito lo Stato ha risposto affinando la repressione. Dal punto di vista legale, nel Regno Unito, per esempio, è stato messo in discussione il diritto di sciopero, annunciando l’introduzione di una legge che permetterà ai dirigenti di aziende nel settore della sanità, dell’istruzione, dei vigili del fuoco, delle ambulanze, dei trasporti e dell’energia di fare causa ai sindacati e di licenziare i dipendenti se non manterranno un “livello minimo di servizio”.
Come in Francia, anche in Germania ad essere sotto attacco ci sono pure diversi gruppi che si mobilitano contro la distruzione ambientale e il cambiamento climatico, con arresti, misure di sorveglianza preventiva, custodia cautelare, ecc. La normativa repressiva viene aggravata, sempre con lo spauracchio del “terrorismo” o meglio, in questo caso, “ecoterrorismo”. La repressione interna è frutto, ancora una volta, della guerra sul fronte esterno. Mentre l’Ue propaganda una falsa svolta green a livello economico e persino il settore militare viene presentato come “ecocompatibile”, se si osano mettere in discussione le politiche energetiche e industriali del capitalismo di guerra si entra pesantemente nel mirino della repressione.
L’est Europa, tra crisi, guerra e mobilitazioni
Anche ad Est la crisi economica e la guerra producono degli scossoni tra la classe lavoratrice. I mesi scorsi hanno visto mobilitazioni di camionisti, soprattutto dipendenti di ditte della Polonia, per rivendicare orari e condizioni di lavoro migliori, con scioperi e blocchi in diversi parti del continente, allargatesi anche al nostro paese.
In alcuni paesi dell’est, in maniera più esplicita rispetto al resto del resto del vecchio continente, affiora accanto alla questione del peggioramento delle condizioni di vita, la questione della guerra in Ucraina e le sue conseguenze. Ciò si deve al fatto che gli Usa hanno designato tali paesi come avamposti dell’aggressione alla Russia, mobilitando le loro classi dominanti in senso militarista, e l’Ue intende avanzare ulteriormente verso est come propria parte del bottino di guerra.
Si veda ad esempio la Moldavia situata nel mezzo dei due fuochi, quello russo e quello ucraino, da tempo attraversata da instabilità politica. L’operazione militare russa in Ucraina ha solo accelerato un processo di crisi già in atto nel paese. Le dimissioni della premier, lo scorso febbraio, giunte dopo qualche settimana dalla caduta dei frammenti di missili russi sul territorio moldavo e la violazione dello spazio aereo moldavo da parte di un missile da crociera russo diretto in Ucraina sono dunque solo eventi che hanno scatenato le tensioni economiche e politiche già in atto con un’impennata del tasso di inflazione che supera il 30%. Nel giugno del 2022 la classe dominante moldava ha poi usato la questione della crisi energetica, avendo ridotto del 30% le forniture di gas dalla Russia, per avvicinarsi all’Unione Europea, scelta che non è condivisa da tutta la popolazione ma anzi che riscontra forti ostilità, dando invece consensi ai partiti filorussi o comunque euroscettici. Sono proprio questi ultimi che già dall’autunno scorso sono scesi per strada a rivendicare l’aumento dei salari e il rischio di essere assoggettati alle politiche dell’Ue.
In realtà, tutta l’Europa Orientale è attraversata da contraddizioni e mobilitazioni determinate dalla spirale crisi/guerra/crisi. Nel silenzio totale dei mass media italiani, continuano periodicamente a svolgersi manifestazioni di massa contro la guerra della Nato in Serbia, Repubblica Ceca e Bulgaria, mentre nei Balcani si riaccendono le tensioni interetniche come riflesso del conflitto in Ucraina. La Grecia, designata dalla Nato come piattaforma logistica per i rifornimenti all’Ucraina, è attraversata da mobilitazioni sia contro la guerra, che contro le politiche antioperaie del governo. Il malessere di massa in Polonia contro le aperture economiche e commerciali all’Ucraina hanno contribuito alla tensione tra Varsavia e Kiev, che tende ad allargare crepe clamorose nel fronte antirusso.
Insomma, la “Nuova Europa” designata da Washington come prima linea del conflitto contro Mosca è tutt’altro che pacificata a livello di massa, nonostante lo sciovinismo e la russofobia distribuite a piene mani dalle classi dominanti e gli investimenti nel settore militar-industriale (addirittura il 4% del Pil in Polonia) come fattore di controtendenza alla crisi.
In Italia mancano centri di mobilitazione
Con le dovute differenze di numeri di lavoratori scesi in piazza nelle diverse parti d’Europa e di settori di classe coinvolti nelle proteste, di grado di combattività espresso in piazza, possiamo comunque affermare che lotte proletarie e popolari in Italia non mancano. Non elencheremo qui la miriade di proteste, scioperi, mobilitazioni e lotte specifiche (operai, studenti, lotte territoriali ecc.) che hanno attraversato e attraversano il nostro paese, alcune di esse sono state analizzate in precedenti numeri di Antitesi. Da una attenta inchiesta tra i lavoratori emerge il serpeggiare di un malumore diffuso che ha già generato e continua a generare, a macchia di leopardo, una molteplicità di piccole mobilitazioni locali di singole aziende. Si è trattato sicuramente di lotte di resistenza che hanno guardato con ammirazione alle lotte francesi senza però riprodurne la combattività. Anche gli operai di gruppi importanti come l’Electrolux o la Stellantis hanno battuto colpi significativi, addirittura con cortei interni e blocco della produzione contro i carichi di lavoro, ma non hanno preso parola sulla questione guerra.
Rileviamo che alcune mobilitazioni, anche da parte della classe operaia, hanno saputo coniugare la lotta contro lo sfruttamento sul posto di lavoro e il carovita alla lotta conto la guerra ed essere di traino per altre situazioni di lotta. Anche parte del movimento che si era espresso contro il green pass ha saputo trasformarsi e divenire propositivo con iniziative contro la guerra e la Nato, significativo il caso di Trieste, ma è successo anche in Lombardia come ad esempio a Milano o a Busto Arsizio. Esemplare il Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali di Genova, con il blocco dei carichi di armi, seguito da altri lavoratori portuali, dimostra che esistono settori di classe avanzata che segnalano a tutti i proletari che la guerra va messa al centro.
In generale, sembra però che il grosso della classe lavoratrice abbia incassato i colpi della crisi e della guerra. “Fare come in Francia” è stata un’espressione che molti hanno usato e “noi non siamo come i francesi” la risposta che molti si sono dati per giustificare l’immobilismo.
Senza voler entrare nel merito di posizioni sociologiche sullo spiccato senso comunitario dei francesi e sull’abitudine a prendersi la strada e bloccarla per protestare, alcuni dati però vanno detti per spiegare perché la mobilitazione della classe operaia, nel nostro paese, nel complesso non si rafforza.
Il dato principale è che non esistono né centri di mobilitazione sindacali che fanno gli interessi di classe come ad esempio la Cgt in Francia, né centri di mobilitazione alternativi forti e riconosciuti. La triade sindacale Cgil, Cisl e Uil lavora in accordo con governi e padroni che hanno imparato a non andare addosso frontalmente alla classe operaia e così a chiudere le rivendicazioni all’interno di un quadro prestabilito dalla classe dominante. Anni di corporativismo, di riformismo e di azzeramento della memoria storica hanno diviso la classe che non si riconosce come tale e quindi non è consapevole della propria forza. A questo proposito va registrata e tenuta in debito conto l’esperienza accumulata in Italia da parte della controrivoluzione preventiva: una “maturità reazionaria” che è il prodotto dell’esperienza che lo Stato borghese ha maturato nell’attacco e nella sconfitta delle ipotesi rivoluzionarie degli anni settanta e ottanta. Infatti, un altro fattore importante ostacola il rinascere del protagonismo operaio: l’enorme bagaglio repressivo delle leggi dello Stato italiano sia in campo lavorativo e sindacale che nel campo delle libertà di mobilitazione. Ne hanno fatto le spese centinaia di lavoratori sottoposti a processo in questi anni in spregio al diritto di sciopero e della libertà sindacale.
I lavoratori dei sindacati di base hanno espresso combattività, continuità e determinazione nella lotta, soprattutto nel settore della logistica, ma non sono riusciti a ergersi a punto di riferimento per tutti gli operai. Gli scioperi generali indetti dai sindacati di base non hanno mai raggiunto grosse fette della classe lavoratrice e, spesso, non riescono ad avere una direzione veramente unitaria nella gestione delle mobilitazioni. Tutto ciò crea molta confusione nella classe lavoratrice e questo non l’aiuta certamente a ricostruire una sua identità.
Di fronte a questa situazione è chiaro che vince il ricatto: per un operaio con famiglia a carico con lo spauracchio della repressione e con la miseria che c’è in giro meglio tenersi stretto il posto di lavoro che si ha! Questo soprattutto per la mancanza non solo di centri di mobilitazione riconosciuti, ma soprattutto per la mancanza di un soggetto politico che dia prospettiva e forza ai lavoratori e sia in grado di difendere le loro lotte.
Il vuoto da colmare
Dai dati raccolti, sicuramente parziali e non esaustivi, sulle varie mobilitazioni in Europa emerge che la guerra non è coscientemente considerata, in vasti settori di classe lavoratrice e masse popolari, come centrale nella determinazione delle loro condizioni, ma al massimo come un fenomeno in più che aggrava la già complessa situazione. Del resto anche tanti compagni e movimenti antagonisti influenzati dall’ideologia borghese fanno confusione sulla catena degli eventi e pensano alla guerra come la causa della crisi.
La guerra invece è proprio un’estrema soluzione che i governi della borghesia imperialista si danno per tentare di risolvere la crisi di sovraccumulazione del capitalismo. La possibilità della svolta green come opzione, infatti, è già in crisi e quindi il keynesimo militare è una strada che va percorsa. Stiamo vivendo la fase del capitalismo bellico che, in soldoni, aumenta le spese militari e diminuisce le spese sociali: la questione della guerra dunque non può assolutamente essere considerata un tema a parte, ma deve divenire una questione centrale in tutte le piazze.
Altre riflessioni che possiamo fare è che soggettivamente, come comunisti, siamo deboli, ma le condizioni oggettive mostrano che le contraddizioni del nemico di classe sono dirompenti.
Il caso della Francia chiarisce il rapporto tra la proiezione imperialista esterna e la sua capacità economica nell’appianare le sue contraddizioni interne. Infatti, nella crisi, lo Stato sociale “avanzato” che era in grado di garantire in passato è solo un lontano ricordo. Inoltre, il progetto di nazionalizzazione delle masse che ogni borghesia imperialista deve affrontare soprattutto quando va alla guerra in Francia oramai fa acqua da tutte le parti. Sicuramente le mobilitazioni, pur ad oltranza e pur radicali, non hanno vinto, ma sicuramente hanno messo alla sbarra il governo rendendo più difficile il cammino delle politiche di guerra.
Il caso francese, il paese simbolo della rivoluzione borghese e dunque del costituzionalismo, mostra anche che la crisi e la guerra impongono un aggravamento dell’autoritarismo e delle forme della controrivoluzione interna che la borghesia imperialista deve darsi, l’esempio della riforma delle pensioni senza passare per il Parlamento lo evidenzia.
Il caso Germania evidenzia una socialdemocrazia in crisi. Soprattutto con la recessione, la borghesia imperialista ha sempre più difficoltà ad estendere la sua influenza all’interno della classe operaia tramite la socialdemocrazia che ha la sua base materiale nell’aristocrazia operaia.
Il caso britannico dimostra il fallimento delle ipotesi sovraniste nella condizione di crisi e di guerra. Nonostante le promesse della Brexit, la crisi, per i lavoratori e le masse popolari, è forte e la loro lotta economica [1] si è fatta chiaramente sentire come risposta necessaria.
Il caso Italia dimostra il vuoto stagnante che c’è rispetto alla necessità di un’organizzazione e una prospettiva di classe e rivoluzionaria. Un vuoto che i riformisti e gli opportunisti non vogliono e non possono colmare: solo noi comunisti possiamo farlo.
Infatti, queste riflessioni le facciamo non per giustificare atteggiamenti opportunisti o peggio per addossare la colpa ai lavoratori e alle masse che non si mobilitano contro la guerra, ma per rendere chiaro che oggi il compito principale da affrontare come comunisti e rivoluzionari è quello di superare il ritardo soggettivo nel quale ci troviamo. Il compito è difficoltoso, ma la situazione oggettiva lo richiede, la crisi e la guerra sono foriere di cambiamenti rivoluzionari.
Note:
[1] Vedi Lotta economica, lotta ideologica e lotta politica, Antitesi n. 7, p. 2