Antitesi n.15Controrivoluzione ed egemonia di classe

Giovani tra reazione e rivoluzione

La condizione giovanile in tempo di guerra

“Controrivoluzione ed egemonia di classe” da Antitesi n.15 – pag.56


Con questo articolo vogliamo provare a fornire ai compagni, giovani e non solo, motivazioni e spunti idonei a rapportarsi con le masse giovanili, in particolare con le loro componenti più avanzate: in modo cosciente e funzionale a una linea di massa, in un contesto come quello attuale attraversato da venti di guerra. Venti di reazione che potenzialmente contengono in sé, per il principio dell’unità degli opposti, anche il possibile risvolto contrario, cioè la rivoluzione.
“Chi ha la gioventù ha il futuro”, scriveva il comunista tedesco Liebknecht dieci anni prima della Rivoluzione d’Ottobre. [1] Cinquant’anni dopo gli faceva eco Mao Tse Tung, rivolgendosi ai giovani cinesi che studiavano a Mosca: “Il mondo è vostro. È anche nostro, ma in ultima analisi, è a voi che appartiene. Voi giovani siete pieni di vigore, siete in una fase di crescita, simili al sole delle otto o nove del mattino. Le nostre speranze poggiano su di voi”. [2]
Ecco perché nella storia la borghesia ha sempre cercato di disinnescare il potenziale rivoluzionario dei giovani, cercando di organizzarlo e inquadrarlo per i propri scopi.
Ad esempio, in Italia il fascismo dedicò molta attenzione alla parte giovanile della popolazione. La costruzione di una complessa architettura di strutture organizzative e momenti di mobilitazione (dai Gruppi Universitari Fascisti all’Opera Nazionale Balilla, passando per la Gioventù Italiana del Littorio e il sabato fascista) aveva proprio lo scopo di disciplinare i giovani, fornendo loro un’identità – sia pur passiva – il più possibile aderente a un modello ideologico controrivoluzionario. Cosa estremamente importante in tempi di guerra in cui, tra l’altro, era forte l’eco che proveniva dall’esperienza dell’Unione Sovietica.
Superata la sovrastruttura fascista, la borghesia imperialista italiana ha continuato a cercare di catalizzare il consenso dei giovani, per esempio con l’azione cattolica e gli oratori come “basi di massa” giovanili dei governi a direzione Democrazia Cristiana.
Negli anni ‘80 la borghesia ha perseguito l’atomizzazione e l’annientamento politico e sociale dei giovani con l’eroina, più o meno allo stesso modo in cui oggi persegue ciò con altre droghe oppure coi lasciti sociali ed esistenziali dei lockdown, del “distanziamento sociale”, dello smart work e, più in generale, dei processi di digitalizzazione del piano di ristrutturazione del capitale. In tal modo i giovani non possono unirsi fisicamente né riconoscersi in un percorso reale, concreto e collettivo di cambiamento della società, né riescono anche solo a immaginarlo.
D’altra parte quel famoso spettro di cui scriveva Marx e che si aggirava per l’Europa, e per l’Italia in particolare durante la Resistenza e poi negli anni ‘70, non ha mai smesso di turbare i sogni di pace sociale di cui ha bisogno lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Giovane è la rivoluzione sotto al cielo

Ma come mai quello spettro può assumere più facilmente delle sembianze giovanili?
Un’ipotesi è che i giovani, con il loro fisiologico spirito di scoperta, senza le incrostazioni ideologiche sedimentate nel tempo, senza le limitazioni materiali e morali che nel capitalismo attanagliano per forza di cose i padri e le madri di famiglia, siano la linfa potenziale del cambiamento. In special modo di una società che sentono di non aver costruito loro e che si trovano in qualche modo a dover subire.
Nella storia il nuovo – cioè il giovane – tende dialetticamente e materialmente ad affermarsi sul vecchio. È anche così che si spiega il ruolo egemone avuto dai giovani nei processi rivoluzionari.
“La gioventù è la fiamma più viva della rivoluzione”, dissero Lenin e i bolscevichi. E infatti nella Rivoluzione d’Ottobre i giovani furono determinanti per spazzare via il regime zarista, prima di diventare simbolo e avanguardia della nuova società da costruire. Una nuova società di cui la classe operaia poteva esser definita base materiale e i giovani, con le donne, base biologica. Una nuova società in cui, tra le altre cose, il valore della formazione e dell’istruzione era promosso e garantito ai massimi livelli.
Ancora. Al congresso di fondazione del Partito Comunista Tedesco del 1918 i due terzi dei delegati avevano meno di 35 anni. Similmente, nel 1921, anno di fondazione di quello italiano, “Bordiga aveva 32 anni, Gramsci 30, Togliatti 28, Terracini e Scoccimarro 26. Se questa era l’età dei dirigenti, si può ben immaginare quale fosse quella dei compagni di base”. [3] E più tardi, durante il fascismo, senza una nuova e motivata generazione che spingeva per passare all’illegalità, il partito probabilmente non avrebbe compiuto questo passo così importante.
Anche nella guerra civile spagnola contro Franco, le Brigate Internazionali furono promosse e animate soprattutto da giovani comunisti, come del resto nella successiva resistenza antifascista in Italia e in tutta Europa.
Volgendo lo sguardo ad Est, e verso anni relativamente più recenti, non possiamo non citare il ruolo propulsore dei giovani nella Rivoluzione Culturale cinese. Un ruolo che assume un riflesso strategico e ideologico più generale, in termini di proposta di lotta di classe nei paesi socialisti stessi e di risposta al revisionismo dilagante in quegli anni.
Negli stessi anni anche in Italia furono prevalentemente giovani coloro che si ribellarono al regime democristiano, dando vita a quelle esperienze e organizzazioni politiche le quali rilanciarono la prospettiva rivoluzionaria, contro il tradimento revisionista del Pci.
Del resto “passare all’azione” è una caratteristica che in una certa misura accomuna le punte più avanzate e genuine dei giovani, anche guardando ad esperienze politicamente molto diverse da quelle citate. Pensiamo ad esempio alle rivolte scoppiate in Francia a partire dalle banlieue, dove l’età media degli arrestati si è attestata tra i 15 e i 17 anni. Oppure pensiamo ai giovani palestinesi della Fossa dei Leoni, che rappresentano un rilancio della Resistenza Palestinese.
Infine, per combattere la tendenza di una certa “estrema sinistra” che appoggia le rivolte solo quando accadono a distanza di un continente o quantomeno di uno stato, pensiamo all’importante ruolo dei giovani anche nelle piazze italiane. Il G8 del 2001 a Genova (la stessa città dove i “ragazzi con le magliette a strisce” si ribellarono contro il governo Tambroni nel ‘60), i cortei degli Indignados a Roma nel 2011, quello antifascista a Cremona nel 2015 e quello contro l’Expo a Milano nello stesso anno sono solo alcuni importanti esempi.

Le nubi dell’ideologia dominante

Come comunisti valorizziamo dunque il ruolo dei giovani pur – anzi a maggior ragione – in un contesto in cui si registra un tasso di natalità decisamente decrescente. Basti pensare che in Italia nel 2022 “i decessi sono stati 713 mila, le nascite 393mila, toccando un nuovo minimo storico, con un saldo naturale quindi di -320mila unità”. [4] Un dato che logicamente va di pari passo con la crisi economica e i suoi risvolti materiali, sociali ed esistenziali: impoverimento, precarietà (nuovi attacchi ai lavoratori con l’inasprimento dei contratti a termine), guerra e futuro poco nitido, se non inesistente, sono le attuali condizioni di vita delle masse.
D’altra parte la decrescita della natalità risulta in parte compensata da un grande numero di immigrati giovani e giovanissimi.
Basti pensare che gli immigrati già sbarcati in Italia nei primi otto mesi del 2023 “sono il doppio di quelli sbarcati nel 2022”. [5] Con buona pace del governo Meloni che si strappava i capelli contro quello precedente. E questa massa di immigrati, in buona parte giovani, nell’attuale spirale di crisi e guerra del capitalismo ha ben poco da perdere in termini di condizioni materiali: sia nei propri paesi d’origine, sia in quelli di arrivo. Lo confermano le lotte dei giovani proletari immigrati nel settore della logistica, le mobilitazioni dei riders, anch’essi soprattutto giovani e di origine straniera, ma anche le rivolte che arrivano a distruggere le gabbie etniche dei Cpr.
Tuttavia, se è vero che il nuovo tende ad affermarsi sul vecchio, non è detto che il “nuovo”, cioè la rivoluzione, debba partire per forza proprio dai giovani. Ipotizzare che “giovane” sia sinonimo o garanzia di rivoluzione sarebbe dogmatico e antidialettico. Il patrimonio storico del movimento comunista ci insegna che non è il criterio dell’età a definire la teoria, la linea e l’organizzazione politica rivoluzionaria.
Anche per questi motivi riteniamo importante andare oltre una possibile “ideologizzazione” dell’essere giovani. Ad esempio negli anni ‘60, durante il boom economico, i giovani presero per certi versi la scena affermando propri comportamenti, culture e mode. Da sottolineare che la sovrastruttura ideologica ebbe buon gioco nel recuperare in parte queste tendenze, riuscendo a inserirle nei cicli di valorizzazione del capitale come nuova fascia specifica di consumatori. Essere giovani divenne quasi una sorta di valore da rivendicare e sulla cui base aggregarsi e organizzarsi. Tuttavia i “giovani” non sono una classe sociale bensì, come le donne, una semplice categoria sociale interclassista. Ad esempio, poco lega le condizioni materiali di vita di un giovane proletario con quelle di un rampollo di buona famiglia. Per quest’ultimo essere giovani è ben più facilmente sinonimo di intraprendenza, innovazione, spensieratezza ed esuberanza. Al contrario, tra le masse essere giovani significa scontrarsi con la realtà della propria condizione: dalle difficoltà per mantenersi gli studi allo sfruttamento doppio sul lavoro perché pure inesperti.
Oggi i giovani, con il loro essere “smart”, sono chiamati dalla borghesia a guidare il salto tecnologico organico alla ristrutturazione del capitale. Chi, tra di loro, rimarrà escluso da questo processo, andrà a ingrossare le fila non solo dell’esercito industriale di riserva, ma anche dell’esercito vero e proprio: andando così a costituire la base materiale, il capitale “vivo” (ma destinato a morire) da investire nella guerra interimperialista. Carne da macello e da cannone sull’altare della “patria” e del suo comandante supremo, il capitale.
Non aver chiaro che possedere un determinato “destino” è una questione di classe (e non di fortuna, di capacità individuali, di caratteristiche morali e intellettuali) alimenta quella tendenza per cui, anche fra i giovani delle masse popolari, “emergere” diventa sinonimo di concezioni e comportamenti utili a far fortuna a scapito degli altri: individualismo, assenza di scrupoli, efficienza ed efficacia ad assumere il ruolo di aguzzino o sfruttatore oppure di manovalanza per aguzzini e sfruttatori.
In un contesto del genere, anche una scelta “etica”, in voga soprattutto in una parte dei giovani, è destinata ad essere impraticabile.
La possibilità, ad esempio, di fuggire dal mondo cattivo – rinunciando a lottare per trasformarlo – alla ricerca del benessere, per costruire il proprio angolo di beatitudine, è data dalla dialettica delle contraddizioni che muovono la società nel momento storico: anche il “riparo” che si sceglie così come le relazioni personali con le quali si condivide un percorso del genere, non sono immuni dal capitalismo, dalla sua crisi, dalla sua putrefazione. Le relazioni sociali tra gli esseri umani sono un riflesso del modo di produzione in cui si trovano a esistere. In un modo di produzione in cui vigono “rapporti di cose tra persone e rapporti sociali tra cose”, [6] perfino i rapporti affettivi si misurano, in ultima analisi, soprattutto sulle cose e sulla quantità di scambi tra cose. Le persone non possono sottrarsi dal contesto in cui vivono e le relazioni che formano non possono prescinderlo.
In tal senso è ad esempio perfettamente “normale”, necessario e conseguente che una società capitalista – e anche nelle sue periferie esotiche, negli ecovillaggi e nelle comunità intenzionali animate dai migliori propositi – sia composta da una maggioranza di persone che appare o è in qualche modo egoista. Così come sarà “normale” che queste stesse persone possano realmente cambiare tale tratto del proprio carattere all’interno di un modo di produzione diverso, socialista. Cioè all’interno di una società in cui l’essere umano non si trova più da solo di fronte ai propri problemi e bisogni. Una società in cui non può più porsi il problema della sua sopravvivenza senza porsi necessariamente quello della sopravvivenza dei suoi simili e dell’intero genere umano.
È anche per questi motivi che occorre saper contrastare l’ideologizzazione dell’essere giovani in sé, più o meno nei termini in cui si pone la necessità di contrastare il femminismo. [7] Sapendo tuttavia allo stesso tempo intercettare e valorizzare gli aspetti e le spinte positive e genuine di entrambe le categorie sociali: nel caso dei giovani, ad esempio, le occupazioni di spazi collettivi, la musica militante, la rabbia delle periferie, gli scontri di piazza. Esattamente il contrario di quanto fece Pasolini giudicando quelli di Valle Giulia.
La realtà è che, a fronte della nostra arretratezza politica attuale e all’assenza di grandi movimenti giovanili caratterizzati da concezioni di classe, oggi la borghesia imperialista agisce quasi indisturbata nell’esercizio della sua egemonia sulle masse di giovani, influenzando preventivamente le concezioni politiche, culturali e sociali che nascono dalle pesanti contraddizioni che queste vivono.
La deriva autoritaria del capitalismo colpisce soprattutto i giovani. Siamo in una fase nella quale la loro criminalizzazione mediatica è all’ordine del giorno, in nome dell’emergenzialismo [8] e della controrivoluzione preventiva, che tenta di esorcizzare, con l’annichilimento dello Stato di polizia, l’incubo di masse giovanili potenzialmente insubordinate, come avviene, ad esempio, nelle periferie delle metropoli francesi. Lo dimostrano l’ondata di perquisizioni e di rastrellamenti nei quartieri popolari di Roma e Napoli durante la scorsa estate, il il “decreto Caivano” (detto anche “decreto baby gang”), che estende l’avviso orale del questore ai dodicenni, il daspo urbano ai quattordicenni e introduce il carcere per i genitori che non mandano i figli a scuola. Senza contare l’abbassamento da 9 a 6 anni per la soglia della pena che consente di applicare la custodia cautelare in galera per i minorenni.
Sia la sinistra borghese che la destra puntano all’egemonia sui giovani. l leitmotiv della sinistra borghese è quello del riformismo e della libertà individuale, come succede ad esempio per il movimento transfemminista. Rispetto a movimenti come Fridays for Future ed Extinction Rebellion, è in corso il tentativo di strumentalizzare la sensibilità ambientalista dei giovani per giustificare la falsa transizione green del capitalismo. L’altra faccia della medaglia è il leitmotiv della destra: la difesa dell’identità nazionale e dei valori tradizionali.
Sia la destra che la sinistra borghese promuovono tra i giovani i fondamenti della concezione capitalista del mondo: l’individualismo, l’identitarismo (sia esso tradizionale o alternativo) e il carrierismo. Entrambi lavorano per il mantenimento dell’ordine esistente, mantenimento che oggi passa per la necessità della guerra. Una guerra interimperialista che nella sua motivazione di destra passa per il nazionalismo e il suprematismo occidentale, e in quella di “sinistra” per la “difesa dei diritti” di popoli come quello ucraino.

Per un nuovo assalto a quel cielo

La classe dominante, quindi, agisce oggi come ieri per far prevalere nel corpo giovanile la sua ideologia: in tempi di guerra questo significa irregimentarlo a sostegno degli interessi nazionali.
In questo senso che vanno interpretati la crescente penetrazione del settore bellico nelle scuole e nelle università e i progetti governativi di reintroduzione della leva militare volontaria (un domani di nuovo obbligatoria?), come paventato dalla Meloni nel maggio scorso al raduno degli alpini a Udine. [9]
Come la guerra, la reazione e la barbarie contengono in sé anche la possibilità del loro opposto ovvero la rivoluzione. Anche l’esercito e la leva disvelano il loro possibile rovesciamento, un’“arma” (nel vero senso della parola) a doppio taglio per la borghesia: nel momento in cui un numero sempre maggiore di giovani può imparare a utilizzare le armi, può poi rivolgerle, un domani, contro i propri aguzzini, diventando così la principale forza di riserva della rivoluzione guidata dalla classe operaia. Anche per questo è importante conquistare i giovani alla causa di un antimilitarismo di classe: un antimilitarismo concreto che ponga al centro la lotta contro la guerra dei padroni. Negli anni ‘70 il movimento contro la guerra imperialista in Vietnam ha segnato l’incontro tra giovani e classe operaia, dando uno slancio formidabile alla lotta di classe in tutti i paesi imperialisti del campo atlantico, dagli Usa all’Italia.
Dobbiamo attrezzarci per contrapporre all’egemonia a doppia faccia (quella di destra e quella di “sinistra”) della borghesia imperialista, la consapevolezza che i giovani potranno liberare sé stessi dalle condizioni in cui vivono e conquistare un nuovo mondo, solo abbattendo prima questo, attraverso la guida della classe operaia organizzata. L’affermazione del nuovo sul vecchio oggi può darsi solo con il superamento del capitalismo, che nell’attuale fase imperialista significa miseria, depressione, morte e guerra.
Occorre invertire la spirale. Più concretamente, come primo passo dobbiamo aprire un’inchiesta [10] sui giovani proletari per essere in grado di articolare linee particolari tra gli studenti, tra i giovani lavoratori e sul territorio.
La crisi rende più ricettiva – rispetto al comprendere dove va il mondo – una parte dei proletari. Tra questi quelli giovani, fisiologicamente in evoluzione e alla ricerca, possono essere i più attenti e possono giocare un ruolo chiave.
Sul lato della propaganda, quindi, occorre fornire ai giovani più avanzati una formazione teorica, strumenti idonei a orientarsi e a saper orientare, a comprendere che il mondo si può cambiare attraverso un progetto politico rivoluzionario organizzato. Diversamente, senza un orizzonte possibile, senza una prospettiva di potere, senza obiettivi strategici e tattici, senza una sensazione concreta e tangibile di senso, utilità ed efficacia, può accadere ad esempio che anche i più generosi tra i giovani compagni possano perdere interesse, rifluire nel privato, andare verso l’alienazione e l’autodistruzione.
Sul lato della pratica, invece, può essere molto utile coinvolgere i giovani negli attacchinaggi, nell’antifascismo militante, nei servizi d’ordine degli spezzoni nei cortei ecc. Tutte cose che l’esperienza ha verificato funzionare. E anche servire a sottrarli ad altri tipi di egemonia, come quella riformista della sinistra borghese, che chiude nei recinti del sistema quelle spinte positive e genuine che potrebbero invece scardinarli.


Note:

[1] K. Liebknecht, Militarismo e antimilitarismo con particolare riguardo al movimento internazionale giovanile socialista, 1907, in Scritti politici, Feltrinelli, 1971, p. 203

[2] Mao Tse Tung, Agli studenti cinesi, Opere di Mao Tse Tung, Edizioni Rapporti Sociali, volume 15, p. 163

[3] P. Secchia, Lotta antifascista e nuove generazioni, resistenze.org

[4] Istat, la natalità è al minimo storico, aumentano gli stranieri, rainews.it, 7.4.2023

[5] G. A. Stella, Immigrazione: sbarchi, sparate e la riflessione che manca, corriere.it, 16.8.2023

[6] Vedi K. Marx, Il carattere di feticcio della merce e il suo segreto, Il Capitale, Libro primo, p. 77, Newton, 1996

[7] Vedi anche La questione femminile, Antitesi n. 14, pp. 56 ss.

[8] Vedi Governo della crisi e Stato di guerra, Antitesi n. 15, pp. 47 ss.

[9] Meloni a Udine per l’adunata degli Alpini: “Sì al ripristino della leva volontaria”, infodifesa.it, 14.5.23

[10] Vedi “Inchiesta”, Glossario, Antitesi n. 15


Sulla questione dell’immigrazione

Riteniamo che l’analisi del fenomeno dell’immigrazione debba considerare la relazione dialettica che lega le sue contraddizioni determinanti:

  • la contraddizione fondamentale capitale-lavoro;
  • la contraddizione principale imperialismo-popoli oppressi;
  • la contraddizione interna alla borghesia imperialista tra l’emergenzialismo autoritario e il libero mercato di forza lavoro non specializzata;
  • la contraddizione tra proletari immigrati e proletari autoctoni.

Quella tra imperialismo e popoli oppressi è la contraddizione principale perché è all’origine del fenomeno migratorio e oggi il suo aspetto principale è la guerra imperialista.
Ad esempio, quanto sta avvenendo in Africa in termini di ricadute economiche della crisi e dell’aggravarsi della guerra a livello globale, colpi di Stato, sommovimenti popolari, guerre di liberazione, guerre per procura dell’imperialismo e balcanizzazioni, sta producendo un cambiamento radicale dello status quo, sia a livello di relazioni internazionali sia per il mantenimento degli accordi sulla gestione degli snodi principali su cui si articolano gli spostamenti delle masse in fuga dall’Africa.
Inoltre, l’aggravarsi delle contraddizioni interimperialiste comporta un peggioramento delle relazioni di frontiera, già tese da anni, ai confini della cosiddetta “fortezza Europa”: in particolare tra Stati quali la Turchia e la Grecia, la Polonia e la Bielorussia, ma anche il Marocco e la Spagna. La destabilizzazione dei regimi fantoccio dell’imperialismo occidentale mette in crisi l’esternalizzazione delle frontiere: le politiche europee di gestione dei propri confini direttamente nelle terre del Nord Africa e con la Turchia per ostacolare e piegare i flussi migratori alle proprie necessità strutturali.
Per combattere il razzismo della destra bisogna rompere con l’ipocrisia umanitaria e perbenista della sinistra borghese (in linea con le necessità del mercato della forza lavoro), affermando che l’accoglienza dei comunisti si chiama lotta concreta contro la guerra imperialista e contro i reazionari che usano questo veleno per dividere il proletariato.
Non è possibile affrontare il fenomeno dell’immigrazione, oggi più che mai, senza opporsi alla guerra e all’imperialismo. Le posizioni che si limitano a rivendicare la libertà di movimento dei proletari (chiamati “migranti”) e la contestazione delle frontiere risulta infatti priva di una visione dialettica delle contraddizioni principali che determinano il fenomeno: sia quelle che spingono gli immigrati a lasciare le proprie terre sia quelle che muovono le decisioni politiche dei diversi governi borghesi nella loro pelosa “accoglienza”, così come nella barbarie dei lager libici, dei naufragi, delle deportazioni, delle detenzione amministrativa e della clandestinità coatta.
Bisogna inoltre fare inchiesta e sostenere le comunità immigrate che si mobilitano contro i governi reazionari vigenti in patria, come hanno fatto i senegalesi in molte piazze italiane contro il regime filofrancese, ma anche i nigerini contro le minacce al loro paese. L’apporto di chi ha vissuto sulla propria pelle lo sfruttamento e le angherie degli imperialisti e dei loro servi è importante per lo sviluppo del movimento contro la guerra imperialista nel nostro paese.