Antitesi n.15Ideologia borghese e teoria del proletariato

I comunisti e la guerra

Contro la guerra imperialista, per la rivoluzione proletaria

“Ideologia borghese e teoria del proletariato” da Antitesi n.15 – pag.63


L’incombenza della terza guerra mondiale come possibilità concreta, pone a noi comunisti il compito immediato di dotarci di una linea politica che ci metta nella condizione di agire e svolgere il nostro ruolo nell’attuale contesto di aggravamento della tendenza alla guerra interimperialista.
Sul piano della concezione del mondo, dobbiamo saper cogliere questo aggravamento come opportunità per la prospettiva della rivoluzione proletaria. La rivoluzione proletaria è il nostro indirizzo-guida e ad esso deve servire l’analisi teorica a la sintesi politica.
La realtà è materia in movimento e le contraddizioni ne sono il motore. L’acuirsi dello scontro tra gruppi di borghesia imperialista, promosso in primo luogo della borghesia imperialista Usa e occidentale (per far fronte alla crisi strutturale di sovraccumulazione di capitali e alla conseguente crisi di egemonia a livello globale), mostra chiaramente che le classi dominanti non possono più procedere come prima. Secondo la definizione leninista [1] al consolidarsi di una situazione rivoluzionaria manca ancora, in primo luogo nel nostro paese, la condizione che le classi dominate non vogliano più procedere come prima. Proprio qui sta il nostro ruolo: portare un contributo sostanziale a che questa volontà del proletariato emerga, si esprima e si strutturi, e a che si aggiunga “una trasformazione soggettiva, cioè la capacità della classe rivoluzionaria di compiere azioni rivoluzionarie di massa sufficientemente forti da poter spezzare (o almeno incrinare) il vecchio regime”. Questa volontà della classe è sia presupposto che risultato della prospettiva rivoluzionaria e a noi spetta il compito di alimentare questa dialettica. Lo possiamo e dobbiamo fare lavorando alla costruzione del soggetto politico della rivoluzione: il partito comunista come reparto avanzato della classe operaia che lotta per il potere. Portare avanti risolutamente questo lavoro è il contributo fondamentale che possiamo e dobbiamo dare a che la nostra classe e le masse maturino in senso rivoluzionario la volontà di non procedere più come prima, sopportando un sistema di sfruttamento in crisi che le porta al macello della guerra. Infatti questa rifiuto delle masse a procedere “come prima” può emergere in senso rivoluzionario solo se la prospettiva rivoluzionaria è resa credibile dallo sviluppo concreto (teorico e pratico) del progetto comunista di sovvertimento dell’ordine sociale esistente, verso una società senza divisione in classi e senza sfruttamento dell’uomo sull’uomo, verso una società socialista.

Gli elementi di analisi di questo frangente storico della fase imperialista del capitalismo, di nuovo avvitata nella spirale della tendenza alla guerra mondiale, e la sintesi politica che possiamo trarne, devono servirci a procedere in questo senso, rafforzandoci nel nostro lavoro di “agire da partito per costruire il partito” nella situazione attuale. Nel “agire da partito per costruire il partito” dobbiamo assumere che la lotta ideologica, la lotta politica e anche la lotta economica oggi non possono che partire dalla guerra come aspetto principale che di fatto sovradetermina tutte le relazioni internazionali, istituzionali, politiche, sociali, economiche e culturali.
In questo articolo ci proponiamo di sviluppare le nostre riflessioni come contributo al dibattito dei comunisti per una giusta concezione teorico-ideologica della guerra in generale al fine dotarci una linea politica corretta sulla guerra attuale.

Guerre ingiuste e guerre giuste

“La storia insegna che le guerre si dividono in due categorie: le guerre giuste e le guerre ingiuste. Tutte le guerre progressiste sono giuste e tutte le guerre che impediscono il progresso sono ingiuste. Noi comunisti lottiamo contro tutte le guerre ingiuste che impediscono il progresso, ma non siamo contro le guerre progressiste, contro le guerre giuste. Noi comunisti, non soltanto non lottiamo contro le guerre giuste, ma anzi vi prendiamo parte attivamente. La Prima guerra mondiale è un esempio di guerra ingiusta: le due parti combattevano per interessi imperialistici, ed è per questo che i comunisti di tutto il mondo si opposero risolutamente ad essa. Il mezzo per opporsi a una guerra di questo genere è fare tutto il possibile per impedirla prima che scoppi; ma una volta scoppiata, bisogna opporsi alla guerra con la guerra, opporsi alla guerra ingiusta con la guerra giusta, ogni volta che sia possibile”. [2]
Il carattere progressista di una guerra è dato dalla sua collocazione nel processo storico di emancipazione dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Per cogliere il senso del discorso è utile prendere in considerazione alcuni esempi storici. Le guerre coloniali, anche se portarono “civiltà e progresso” dal punto di vista dei colonizzatori, erano e sono ingiuste perché approfondiscono lo sfruttamento e l’oppressione fino alla schiavitù e il genocidio di interi popoli. Mentre erano e sono giuste le guerre anticoloniali e di liberazione nazionale, anche se dirette da sovrastrutture “tradizionaliste” (dai Zulù ai Talebani afgani), perché si oppongono a questo rafforzamento dello sfruttamento, concorrono alla destabilizzazione del sistema di potere degli oppressori imperialisti e creano le basi oggettivi e soggettivi per lo sviluppo economico, sociale e politico dei paesi oppressi. [3]
Le guerre successive alla Rivoluzione francese, le guerre napoleoniche, furono, in linea generale, giuste perché con esse la borghesia francese cavalcò la spinta rivoluzionaria delle masse contro l’assolutismo e l’ancien regime europeo basato, sullo sfruttamento dei servi della gleba nel modo di produzione feudale. La rovinosa e ingiusta guerra imperialista (franco-tedesca), promossa da Napoleone III, ebbe come risposta l’insurrezione della Comune e la giusta guerra del proletariato parigino in difesa della nazione contro l’occupazione tedesca, poi soffocata nel sangue dai reazionari tedeschi e francesi coalizzati.
La prima guerra mondiale, come chiarisce Mao, riprendendo l’impostazione leninista, è stata un esempio di guerra ingiusta. Con essa i due opposti campi di potenze imperialiste si scontrarono per la spartizione del mondo nel quadro dello sviluppo monopolistico che caratterizza la fase imperialista del capitalismo. Tuttavia essa rese possibile la Rivoluzione d’Ottobre. La rivoluzione proletaria si affermò, con la rottura sul fronte interno russo, contro il militarismo e l’autocrazia feudale zarista. Le successive guerre condotte dallo Stato dei Soviet contro le truppe controrivoluzionarie bianche sono state guerre giuste, che si opposero alla restaurazione del regime capitalista promossa dalle potenze imperialiste risultate vincitrici della prima guerra mondiale.
Le guerre ingiuste possono quindi trasformarsi in guerre giuste, in opposizione o in conseguenza, e nella stessa guerra i due caratteri sono presenti e possono succedersi nella posizione di aspetto principale della guerra. Questo accade ad esempio nelle guerre coloniali che si rovesciano in guerre di liberazione. Un caso da questo punto di vista più complesso è quello della seconda guerra mondiale. Essa da guerra inizialmente ingiusta (‘39-’41) in cui due gruppi di potenze imperialiste si scontravano per la spartizione del mondo (come era accaduto nella prima), con l’invasione nazista dell’Unione Sovietica del giugno 1941, assunse anche l’aspetto principale di guerra giusta contro i regimi nazifascisti (che incarnavano l’opzione della dittatura terroristica del capitale finanziario): nella forma della guerra patriottica dell’Unione Sovietica e in quella della guerra popolare di resistenza contro l’occupazione nazi-fascista in Europa.
Le fasi della guerra popolare diretta dal Partito Comunista in Cina, quella rivoluzionaria contro il semicolonialismo e le forze reazionarie interne, quella contro l’occupazione giapponese e quella contro la borghesia compradora filostatunitense rappresentata da Chiang Kai Shek furono esempi di guerra giusta. Come lo sono state le guerra di liberazione anticolonialiste e antimperialiste in America Latina, Africa e Asia, in particolare in Indocina, con la vittoriosa guerra condotta dai comunisti vietnamiti, prima contro il colonialismo francese e poi contro il colonialismo Usa.
Pochi e stringati esempi storici che indichiamo solo per ribadire che i comunisti, diversamente dai pacifisti (idealisti e inconcludenti), non possono essere avversari incondizionati di ogni guerra, ma devono capire la guerra per distinguere tra guerre ingiuste e guerre giuste, opporsi alle prime e sostenere risolutamente le seconde.

Capire la guerra

“La guerra non è solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi”. [4]
La definizione della guerra di Clausewitz come continuazione della politica con altri mezzi, con mezzi militari, è stata assunta dal marxismo-leninismo-maoismo come sintesi fondamentale per la comprensione del fenomeno. Per comprendere ogni singola guerra bisogna partire da questa tesi, applicare questa definizione teorica alla realtà concreta e indagare quali sono le politiche, messe in atto nei decenni precedenti, il cui sviluppo ha portato alla guerra, e quali classi le hanno promosse.
I comunisti infatti completano la definizione di Von Clausevitz con l’impostazione leninista : “la cosa essenziale, che viene di solito trascurata nella questione della guerra (…) riguarda il carattere di classe della guerra, le ragioni per cui essa è scoppiata, le classi che la conducono, le condizioni storiche e storico-economiche che l’hanno provocata”. [5]
Nelle società divise in classi, le diverse classi promuovono o partecipano alla guerra a partire dai loro interessi: le classi dominanti per mantenere e rafforzare il loro potere, quelle dominate per prendere il potere e sovvertire così l’ordine sociale esistente.
Anche l’attuale guerra è la continuazione con altri mezzi della politica condotta in precedenza dalle classi dominanti imperialiste. Per pervenire ad una corretta comprensione occorre quindi considerare la politica svolta, dai gruppi che compongono la borghesia imperialista, tramite le sovrastrutture come gli Stati imperialisti, ma anche tramite le sovrastrutture transnazionali come Fmi, Banca Mondiale, Nato, G7, ecc. Per capire come la guerra in corso in Ucraina sia inevitabilmente scaturita dal processo storico della fase imperialista, occorre quindi analizzare i rapporti economici e politici tra le classi nei decenni precedenti. In particolare occorre analizzare l’effettiva politica realizzata dai due gruppi di potenze che si scontrano.
Da una parte abbiamo, come aspetto principale, la politica aggressiva delle borghesie imperialiste Usa e occidentali (con la frazione dominante rappresentata dall’oligarchia finanziaria) con cui puntano a contrastare la crisi di sovraccumulazione e la relativa crisi di egemonia globale: politica aggressiva nei confronti dei popoli oppressi delle aree dominate (con il succedersi delle guerre di aggressione in Iraq, Afganistan, Libia, Siria, ecc.); scontro sulle sfere di influenza con i concorrenti delle formazioni imperialiste emergenti; lotta di classe condotta, sul piano interno, contro le conquiste e le condizioni di vita della classe operaia e delle masse popolari.
Dall’altra, di fronte a questa aggressività, abbiamo la politica di sviluppo e difesa delle proprie sfere di influenza e dei propri spazi di valorizzazione da parte delle formazioni emergenti caratterizzate da un capitalismo monopolistico autocentrato. Da questa politica discende la linea “la miglior difesa è l’attacco” della borghesia imperialista burocratica russa applicata con la guerra in Ucraina (già manifestatasi con l’intervento risolutivo nella guerra in Siria) e la spinta a difendere strategicamente la “crescita armoniosa” da parte della borghesia imperialista burocratica cinese. Il piano delle “vie della seta”, con il relativo sviluppo del sistema di alleanze politico-economiche e della sfera di influenza dei monopoli cinesi, trova supporto strategico nel pressing militare su Taiwan per rimarcare la linea di “una sola Cina” e nel contrasto alla politica di accerchiamento messa in atto dagli Usa e dai loro alleati nel Mar Cinese.
Entrambe la classi dominanti di queste formazioni imperialiste emergenti (Russia e Cina) puntano a compattare il fronte interno in chiave patriottico-corporativa e a proiettare la loro influenza sul Tricontinente (Asia, Africa, America Latina, definito anche Sud del mondo) dove stanno contendendo agli imperialisti occidentali lo sfruttamento sui popoli dominati, con un focus particolare nella penetrazione in Africa.
Nel contesto specificatamente ucraino, dal 2014 fino all’operazione speciale russa, la guerra è stata la continuazione della politica reazionaria della frazione compradora (filoatlantica) della borghesia ucraina che con la “rivoluzione colorata” e il golpe di Maidan ha perseguito: la liquidazione del regime della borghesia burocratica filorussa; la svendita dell’intero patrimonio pubblico (oltre ai complessi industriali anche le fertilissime distese di “terre nere”) al capitale finanziario e alle multinazionali occidentali; infine l’attacco terroristico di stampo nazista alle conquiste della classe operaia e delle masse popolari con la messa al bando delle organizzazioni politiche e sindacali antifasciste. Questa politica si è concretizzata con esecuzioni sommarie, arresti e massacri, come l’incendio della Casa dei sindacati del 2014 a Odessa ed è continuata nella guerra di aggressione e i bombardamenti contro le Repubbliche secessioniste del Donbass (che dal 2014 al 2022 hanno ucciso più di 14 mila persone per lo più civili, donne e bambini compresi). Di contro la politica di resistenza della classe operaia e delle masse popolari del Donbass in difesa delle proprie conquiste, e in opposizione alla svolta reazionaria, si è concretizzata nella secessione ed è proseguita nella guerra di resistenza contro il regime nazista di Kiev.
Tuttavia il quadro locale, di questa vera e propria anticamera della terza guerra mondiale che è la guerra in Ucraina, è sovradeterminato dal contrasto interimperialista globale. Su questo piano l’aspetto principale è rappresentato dalla politica di penetrazione ad est condotta, fin dagli anni ‘90, dalla borghesia imperialista occidentale, Usa in testa, per mettere direttamente le mani sulle risorse dell’area ex sovietica (materie prime, forza lavoro, occasioni di investimento produttivo di capitali), con il corollario di impedire lo sviluppo autocentrato di un polo imperialista concorrente nell’area euroasiatica. Una politica che si è, via via, declinata nelle diverse forme degli accordi commerciali, delle sanzioni economiche, della compradorizzazione di sezioni di classe dirigente ex sovietica, delle “rivoluzioni colorate” (Georgia, Ucraina, Kazakistan, Bielorussia, ecc.) e dell’allargamento della Nato a est.
A questa politica sono compartecipi le classi dominanti dell’Ue che, dal secondo dopoguerra, seppur con qualche contraddizione, sono sempre state sostanzialmente subalterne al piano imperialista Usa. Negli ultimi decenni la loro politica è stata caratterizzata dal tentativo di ricavare propri spazi di valorizzazione rimanendo fondamentalmente all’interno delle direttrici tracciate dal piano strategico statunitense, sulla base degli interessi della frazione dominate della borghesia imperialista Usa. Questo è avvenuto con notevoli vantaggi (in primo luogo per i capitali tedeschi) nella fase della penetrazione economica che ha preceduto la guerra, con le forniture di materie prime a basso costo, lo sviluppo dell’indotto produttivo ad est e lo sfruttamento di forza lavoro mediamente qualificata. Questa politica continua anche nella fase della guerra, nonostante la perdita irrimediabile dei precedenti vantaggi economici nel rapporto con la Russia, sacrificati sull’altare degli interessi strategici comuni del campo occidentale. È una politica che continua nell’accettazione del piano di guerra con la massiccia fornitura di armi, la trasformazione delle formazioni Ue nel retrovia della guerra e la riconversione del green new deal in war new deal, svoltando radicalmente verso il keynesismo militare, con l’uso della spesa pubblica militare come volano della ripresa economica. Oggi le classi dominanti europee coltivano l’illusione di poter ripagare i costi del loro allinearsi agli Usa con il business della ricostruzione: si vedano i surreali accordi sui progetti di ricostruzione in Ucraina).
La quinta colonna Usa all’interno della Ue è rappresentata dalle classi dominanti della “Nuova Europa” (principalmente Polonia e Baltici) che cercano di rafforzare il loro potere attuando la politica di cavalcare il nazionalismo, puntando sul keynesismo militare come principale linea imperialista, caldeggiando l’obiettivo della dissoluzione del sistema egemonico russo.
Come abbiamo già indicato il motivo principale che ha spinto a promuovere la politica di sfondamento ad est da parte delle borghesie imperialiste Usa e occidentali va ricercato nella necessità di fare fronte e cercare una soluzione alla crisi di sovraccumulazione di capitali che attanaglia le economie delle loro formazioni economico-sociali. Una crisi di sovraccumulazione che ha spinto all’aumento abnorme della sfera finanziaria e all’esportazione di capitali, con la connessa “globalizzazione”, ma che tuttavia non ha cessato di aggravarsi, come ha evidenziato l’accelerarsi della ciclicità delle crisi, da quella cosiddetta dei sub-prime del 2008, alle altre che si sono succedute, fino a quella mascherata dalla pandemia del 2020. [6]
La crisi strutturale di sovraccumulazione dei capitali delle formazioni avanzate (raggruppate nel G7) per la sua profondità non ha trovato soluzione nella politica di aggravamento dell’oppressione e dello sfruttamento delle aree dominate (contraddizione imperialismo-popoli oppressi). Guerre, occupazioni militari, golpe e genocidi che si sono succeduti negli ultimi decenni in tutto il tricontinente (Africa, Asia e America Latina), pur determinando immani sofferenze per i popoli oppressi, non sono riusciti a stabilizzare l’ordine dello sfruttamento imperialista, aumentando, al contrario, il caos nelle relazioni internazionali, la resistenza delle masse oppresse e la crisi di egemonia dell’imperialismo diretto dagli Usa. Questo si è chiaramente dimostrato con l’esito inglorioso delle guerre che di questa politica sono state la continuazione: Iraq, Afganistan, Libia, Siria.
La stessa crisi di sovraccumulazione non ha trovato finora soluzione nemmeno nella politica di lotta di classe condotta dall’alto, dalla borghesia imperialista, contro la classe operaia e le masse popolari nelle formazioni sovraccumulate. Lotta che attraverso le cosiddette riforme ha concretizzato una progressiva eliminazione delle conquiste, con un aggravamento delle condizioni di lavoro (aumento dei carichi di lavoro, precarizzazione) e di riproduzione della forza-lavoro (bassi salari, carovita, ristrutturazione e tagli del welfare: sanità, istruzione, pensioni, ecc.), e in definitiva un aumento generalizzato dello sfruttamento. Tutto ciò non ha però determinato margini sufficienti per la valorizzazione dell’intero capitale che, al netto dell’accumulazione speculativa derivata dalla finanziarizzazione dell’economia e di cui si avvantaggia principalmente l’oligarchia finanziaria, resta impantanato in una crisi sempre più acuta, come si evidenzia con il fenomeno della stagflazione (compresenza di stagnazione-recessione e alta inflazione).
Non solo, i tentativi di gestione macroeconomica “straordinaria”, come i Quantitative Easing (siringate di liquidità per aumentare la massa monetaria), messi in atto da tutte le Banche centrali occidentali nell’ultimo decennio, si sono rivelati inconcludenti e analoga sorte rischia l’opzione del deficit spending (indebitamento pubblico per dare impulso agli investimenti), dall’indebitamento pandemico, al Recovery Plan e al Green New Deal. Su questa linea l’ultima carta che resta da giocare, come già evidenzia lo sviluppo più attuale, è appunto quella della guerra e del keynesismo militare.
Sull’altro fronte, quello delle formazioni emergenti (raggruppato nei Brics), la sovraccumulazione ancora non si è fatta sentire in termini generali. In queste formazioni esistono tutt’ora ampi margini di valorizzazione (produzione di plusvalore) e di realizzazione (sviluppo del mercato interno). Questo ha suscitato gli appetiti dei capitali Usa e occidentali, affamati di valorizzazione, che negli ultimi decenni hanno trovato il loro spazio di investimento in quelle formazioni. Appetiti oggi frustrati dall’aggravarsi delle contraddizioni interimperialiste, come
mostra la dinamica del reshoring e del nearshoring e l’imperversare di sanzioni e blocchi economici che hanno fratturato la globalizzazione e vanno disaggregando le catene globali del valore.
In questa situazione di rottura della globalizzazione e di grave crisi dell’egemonia globale, che alimenta l’aggressività delle borghesie imperialiste Usa e occidentali, le borghesie imperialiste emergenti puntano a rafforzare lo sviluppo monopolistico autocentrato e alternativo a quello occidentale, sia sul piano interno (sfruttamento in proprio della propria classe operaia) che internazionale (sfruttamento dei popoli del sud del mondo). Questo si evidenzia nel grande deflusso di capitali investiti in Usa e occidente (che ha contribuito a provocare i fallimenti delle banche Usa della primavera scorsa), capitali principalmente riorientati verso investimenti nel Tricontinente (Asia, Africa e America Latina), nella costituzione della banca per lo sviluppo dei Brics alternativa al Fmi e nel processo di sganciamento dal dollaro come denaro mondiale, oltre che nella progressiva riorganizzazione di catene del valore “autonome”, a partire dai settori energetici e tecnologici.

Guerra e fine dell’imperialismo

“Non vi è dubbio che lo sviluppo (della fase imperialista ndr.) segue la linea di un unico trust mondiale, che assorbisca tutte le imprese e tutti gli Stati, senza eccezione, ma la segue in circostanze tali, a tali ritmi, con tali contrasti, conflitti e sconvolgimenti – e non soltanto economici, ma anche politici, nazionali, ecc. ecc. – che, immancabilmente, prima che si giunga a un unico trust mondiale, all’associazione mondiale ‘ultraimperialista’ dei capitali finanziari nazionali, l’imperialismo dovrà immancabilmente saltare e il capitalismo trasformarsi nel suo contrario”. [7]
Questa considerazione di Lenin, dopo più di un secolo, getta luce ancora sulla situazione attuale caratterizzata da un’accelerazione dello sviluppo su scala globale in generale dei monopoli e in particolare del capitale finanziario. Questa accelerazione nella fase della “globalizzazione” ha alimentato il rifiorire delle teorie superimperialiste (vedi L’impero di Negri) che hanno coltivato l’illusione della fine delle contraddizioni interimperialiste. La vecchia idea revisionista dell’ultraimperialismo (Kautsky), come fase successiva all’imperialismo, che supportava una deviazione opportunista, teorizzando la possibilità della costituzione di un unico trust mondiale che avrebbe accompagnato il passaggio pacifico (parlamentare) al socialismo, è stata negata dalla storia con le due guerre mondiali. Le rielaborazioni dei suoi moderni epigoni si dimostrano oggi altrettanto false, poste di fronte al carattere principale di guerra interimperialista assunto dal conflitto in Ucraina.
L’accumulazione e la centralizzazione dei capitali tende verso un sistema unipolare, ma non può arrivarci mai in modo definitivo, e lo fa nella forma di contrasti, conflitti e sconvolgimenti, non soltanto economici, anche sociali, politici e militari, via via sempre più acuti e devastanti per il capitalismo stesso. Una prospettiva in cui il sistema si avvita nella crisi ed è aperta nuovamente la porta sia di una nuova guerra mondiale che di una nuova ondata di rivoluzioni socialiste.
Oggi siamo ad un nuovo tornante di questa spirale resa sempre più stringente dall’aggravarsi della crisi di sovaccumulazione di capitali. L’imperialismo è sia fase suprema che fase di putrefazione del capitalismo. E la crisi di sovraccumulazione, con il portato di stagnazione, inflazione e guerra, è precisamente un tratto di questa putrefazione. Una putrefazione che dobbiamo interpretare come elemento che rafforza la prospettiva rivoluzionaria. Sarebbe infatti impossibile porre fine al capitalismo se a ciò non conducesse lo stesso sviluppo economico delle formazioni imperialiste.
Lo stesso sviluppo della fase imperialista, che conduce alla crisi di sovraccumulazione e alla guerra tra i gruppi imperialisti, apre a due prospettive. La prima, attualmente principale, è quella rappresentata dalla barbarie di un sistema che si avvita in una spirale di sfruttamento, oppressione e guerra alla ricerca di nuove condizioni di valorizzazione del capitale. Qui le classi sfruttatrici realizzano che non possono più procedere come prima pena la loro decadenza e per questo adottano misure e abbracciano linee che hanno come risultante l’aggravamento di tutte le contraddizioni fino a provocare sconvolgimenti nel sistema (vedi la rottura della globalizzazione).
La seconda prospettiva è quella del rovesciamento della dominazione imperialista da parte dei popoli oppressi e della rottura rivoluzionaria di parte proletaria dei rapporti di dominio nelle società borghesi verso l’instaurazione del socialismo, cioè verso una dittatura proletaria che sostituisca al motore del profitto di pochi sullo sfruttamento di molti, quello del benessere di tutti, promosso e organizzato collettivamente dalla classe operaia, verso la società senza classi. In questa seconda prospettiva le masse e le classi oppresse maturano la volontà di non procedere più come prima, cioè piegandosi allo sfruttamento e facendosi trascinare al macello della guerra imperialista. Compito dei comunisti è indicare questa prospettiva e strutturare questa volontà della classe e delle masse, ponendosi come reparto avanzato della classe che lotta per strappare il potere dalla mani di una borghesia imperialista sempre più criminale e guerrafondaia.
La prima prospettiva alimenta la seconda, ma nello stesso tempo la contrasta, promuovendo, unitamente alla guerra e in opposizione alla possibilità della mobilitazione rivoluzionaria, la mobilitazione reazionaria di mettere masse contro masse, con in aggiunta il rafforzamento delle forme di controllo e oppressione già sperimentate con la gestione autoritaria dell’emergenza pandemica, forme che la condizione di guerra permette di accentuare ulteriormente (autoritarismo, militarismo, limitazione dei diritti politici, compreso il diritto di sciopero, delle libertà individuali, ecc.).

Guerra e rivoluzione

La storia insegna che il rapporto tra guerra e rivoluzione è un rapporto stretto. Tutti i più significativi episodi di rottura rivoluzionaria e le grandi rivoluzioni vittoriose si sono determinati in dialettica con la guerra: Comune di Parigi con la guerra francotedesca, Rivoluzione d’Ottobre con la prima guerra mondiale e Rivoluzione cinese con la seconda guerra mondiale.
La guerra imperialista di oppressione è dialetticamente connessa con la guerra rivoluzionaria di liberazione. È un unità di opposti. Le condizioni che portano alla guerra imperialista sono le stesse che pongono le basi per la guerra rivoluzionaria. Ad esempio il rapporto di sfruttamento coloniale e semicoloniale è sia il presupposto che il risultato delle politiche imperialiste messe in atto contro i popoli oppressi. Non di rado queste politiche continuano in guerre di colonizzazione o ricolonizzazione. Ma, come la storia insegna, in opposizione allo stesso rapporto di sfruttamento coloniale si sviluppa la resistenza dei popoli e le rivendicazioni politiche che possono trovare continuazione nelle guerre di liberazione nazionale. Queste ultime possono alimentarsi fino a diventare l’aspetto principale della contraddizione e pervenire all’esito vittorioso con la conquista del potere e la cacciata dei colonialisti (come mostra il ciclo storico delle guerre di liberazione nazionale dall’Algeria al Vietnam).
Anche nel processo contraddittorio della lotta rivoluzionaria per il socialismo la lotta di classe all’interno dei paesi imperialisti fa necessariamente i conti con la guerra tra gli Stati delle formazioni imperialiste. Una guerra questa che è in definitiva generata lotta di classe stessa nella misura in cui la crisi del sistema obbliga la borghesia imperialista a cercare nuove e più profittevoli soglie di sfruttamento. Nuove soglie che possono essere imposte solo tramite la guerra nei suoi due fronti: quello esterno contro i popoli oppressi e le altre formazioni imperialiste per realizzare accumulazione da spoliazione e quello interno contro la classe operaia e le masse popolari per rafforzarne il controllo e la disciplinarizzazione funzionali all’aggravamento delle condizioni di lavoro e di riproduzione. Ne deriva che la guerra condotta dai capitalisti dei paesi imperialisti interagisce dialetticamente con la lotta di classe nei loro fronti interni: da una parte la contiene e la reprime con la stretta securitaria e la militarizzazione della vita sociale, dall’altra può alimentarla con il tragico deterioramento delle condizioni di vita della masse.

Fronte interno e compiti dei comunisti

“(…) il militarismo (della borghesia imperialista ndr.) non è soltanto difesa e offesa contro il nemico esterno, esso assolve ad un secondo compito, che balza sempre di più in primo piano (…) il compito di difesa dell’ordinamento sociale dominante, di sostegno del capitalismo e di ogni reazione contro la lotta di liberazione della classe operaia”. [8]
Come ben chiarisce Karl Liebknecht nella guerra emerge l’importanza del fronte interno dove è in gioco la tenuta dell’ordinamento sociale, politico e istituzionale esistente a fronte dell’aggravamento di tutte le contraddizioni, in primo luogo quella di classe (capitale-lavoro, borghesia-proletariato). Qui la guerra (anche interimperialista) ha il portato “positivo” di spingere le masse a riflettere sulla propria condizione al di fuori degli schemi ideologici posti dalle classi dominanti (ricettività verso le idee rivoluzionarie), a mobilitarsi e organizzarsi conquistando la consapevolezza che i propri interessi possono essere soddisfatti solo con l’abbattimento del sistema dello sfruttamento. Ma ha anche il portato “negativo” della stretta securitaria e della mobilitazione reazionaria impostate con lo sviluppo della sovrastruttura ideologica del militarismo imperialista (che oggi vediamo delinearsi in perfetta prosecuzione con la gestione autoritaria della “pandemia”).
In questo contesto la maturazione dell’opzione rivoluzionaria non si dà come mero riflesso della gravità della situazione oggettiva, ma passa attraverso la determinazione soggettiva di un’avanguardia politica dotata di una corretta comprensione della guerra e capace di sintetizzare teoricamente e far vivere praticamente la linea della rivoluzione proletaria.
La spirale della tendenza alla guerra è un riflesso della fase imperialista come fase di putrefazione del capitalismo. La si può spezzare solo con la rivoluzione proletaria. Compito dei comunisti è in primo luogo quello di costituire il vettore politico-organizzativo strategico della determinazione soggettiva della classe (partito comunista), contribuire allo sviluppo della mobilitazione rivoluzionaria delle masse contro quella reazionaria e così lavorare alla preparazione e alla facilitazione della rivoluzione. In sintesi, i comunisti di fronte alla guerra imperialista devono organizzarsi, colmare il loro ritardo e porsi nella condizione (teorico-pratica e politico-organizzativa) di utilizzare la condizione della guerra per rilanciare la rivoluzione sul fronte interno con la consapevolezza che “La trasformazione della guerra imperialista in guerra civile non può essere “fatta” così come non possono essere “fatte” le rivoluzioni: essa si sviluppa da numerosi fenomeni, aspetti, tratti, particolarità multiformi, risultanti della guerra imperialista. E questo sviluppo è impossibile senza una serie di insuccessi e di rovesci militari di quei governi che subiscono i colpi delle loro classi oppresse. [9]
La lotta risoluta contro l’imperialismo, che è il capitalismo della nostra epoca, è in primo luogo lotta contro il piano imperialista dominate (Usa, Ue, G7, Nato) che fa la guerra per mantenere in piedi il proprio traballante sistema di oppressione e sfruttamento globale. Perseguendo la linea della sconfitta dell’imperialismo dominante, si contribuisce alla destabilizzazione dell’intero sistema imperialista globale e all’apertura di spazi per una nuova ondata della rivoluzione mondiale (lotte di liberazione nazionale, rivoluzioni proletarie). Perseguendo la sconfitta del nostro imperialismo (e il suo sistema di alleanze) si aprono spazi per la rivoluzione proletaria nel nostro paese.
Dal punto di vista tattico dobbiamo quindi contribuire a rafforzare il movimento contro la guerra imperialista, facendo fronte con le forze che vi partecipano, promuovendo propaganda e iniziativa comunista contro il militarismo imperialista che oggi è la sovrastruttura ideologica, politica, organizzativa dell’accelerazione del keynesismo militare come modello di accumulazione su cui si va uniformando la struttura capitalistica.
Tuttavia “la lotta contro l’imperialismo, se non è strettamente collegata alla lotta contro l’opportunismo, è una frase vuota o un inganno”. [10] Nella fase attuale l’opportunismo lo dobbiamo identificare nelle diverse linee in cui l’influenza borghese sulla classe e sulle masse si articola per eludere “la questione concreta del nesso tra la guerra attuale e la rivoluzione”. [11] Queste linee opportuniste si rendono evidenti oggi in diverse posizioni: da quella che coltiva l’adesione aperta al piano di guerra portato avanti dalle nostre classi dominanti, abbracciando la retorica ipocrita della resistenza all’aggressore e la gestione propagandistica della guerra come “guerra della democrazia contro l’autarchia” (sinistra borghese e sindacati venduti); a quella del pacifismo inconcludente del “né con gli uni, né con gli altri” che implicitamente coltiva nelle masse la passività e l’attesismo (aree alternative e cattoliche); a quelle di chi promuove o partecipa a lotte su terreni specifici (lavoro, sanità, scuola, casa, reddito di cittadinanza, ecc.) evitando di relazionarle alla condizione generale di guerra (post autonomi e sinistrati vari); come anche in quelle delle tifoserie (per la maggior parte post revisioniste o rossobrune) che si limitano a parteggiare per “il nemico del mio nemico” senza porre al centro la rivoluzione.
Le idee giuste si affermano sconfiggendo quelle sbagliate. E oggi contro queste posizioni opportuniste come comunisti dobbiamo ribadire, con la propaganda e l’iniziativa politica, la direttiva leninista che il proletariato deve non soltanto opporsi alla guerra imperialista, ma collegare la resistenza (lotta economica) delle masse, nei confronti dell’aggravamento delle condizioni di sfruttamento e di riproduzione, alla lotta politica contro la guerra imperialista. Lotta politica in cui porre al centro il preciso obiettivo della disfatta della propria classe dominante, al preciso scopo di approfittarne per rilanciare la centralità dell’opzione rivoluzionaria.


Note:

[1] Vedi manchette La situazione rivoluzionaria.

[2] Mao Tse Tung, Sulla guerra di lunga durata, 1938, bibliotecamarxista.org

[3] Vedi La questione nazionale oggi, Antitesi n. 15, pp. 74 ss.

[4] K. Von Clausewitz, Sulla guerra, Mondadori, 1970, p. 38

[5] Lenin, La guerra e la rivoluzione, 1917, Opere complete, vol. 24, p. 409

[6] Vedi Il capitalismo pandemico, Antitesi n. 12, pp. 5 ss.

[7] Lenin, Prefazione a L’economia mondiale e l’imperialismo di Bucharin, 1915, Opere Complete, vol. 22, pp. 111-112, Editori Riuniti, Roma, 1966.

[8] K. Liebknecht, Militarismo ed antimilitarismo con particolare riguardo al movimento internazionale giovanile socialista, 1907, in Scritti politici, p. 88, Feltrinelli Editore, Milano 1971.

[9] Lenin, La sconfitta del proprio governo nella guerra imperialista, Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1966, Vol. 21, pp. 251-252

[10] Lenin, Il programma militare della rivoluzione proletaria, Opere Complete, Editori riuniti, Roma 1965, vol. 23, p. 81

[11] Ivi, p. 82


La situazione rivoluzionaria

Per il marxista non v’è dubbio che la rivoluzione non è possibile senza una situazione rivoluzionaria e che non tutte le situazioni rivoluzionarie sboccano nella rivoluzione. Quali sono, in generale, i segni di una situazione rivoluzionaria? Siamo sicuri di non sbagliare a indicare questi tre segni come i segni principali: 1. le classi dominanti non riescono più a conservare il loro potere senza modificarne la forma; una crisi negli “strati superiori”, una crisi nel sistema politico della classe dominante, che apre una fessura nella quale si incuneano il malcontento delle classi oppresse. Per lo scoppio della rivoluzione non basta ordinariamente che “gli strati inferiori non vogliano più” continuare a vivere come prima, ma occorre anche che gli strati superiori non possano più” vivere come per il passato; 2. un aggravamento, maggiore del solito, dell’oppressione e della miseria delle classi oppresse; 3. in forza delle cause suddette, un rilevante aumento dell’attività delle masse, le quali in un periodo “pacifico” si lasciano depredare tranquillamente, ma in periodi burrascosi sono spinte, sia da tutto l’insieme della crisi, che dagli stessi “strati superiori”, ad un’azione storica indipendente.
Senza questi cambiamenti oggettivi, indipendenti dalla volontà non soltanto non soltanto dei singoli gruppi e partiti, ma anche di singole classi, la rivoluzione – di regola – è impossibile. L’insieme di tutti questi cambiamenti oggettivi si chiama situazione rivoluzionaria. Una tale situazione si presentò nel 1905 in Russia e in tutte le epoche rivoluzionarie in Europa occidentale; ma essa si presentò anche nel 1860 in Germania e nel 1859-61 e 1879-1880 in Russia, sebbene in quei casi non vi sia stata nessuna rivoluzione. Perché? Perché la rivoluzione non nasce da ogni situazione rivoluzionaria, ma solo nei casi in cui, alle trasformazioni oggettive sopra indicate, si aggiunge una trasformazione soggettiva, cioè la capacità della classe rivoluzionaria di compiere azioni rivoluzionarie di massa sufficientemente forti da spezzare (o almeno incrinare) il vecchio governo, il quale, anche in un periodo di crisi, non “cadrà” mai se non lo “si fa cadere”.
Questa è la concezione marxista della rivoluzione.

Lenin, Il fallimento della Seconda Internazionale, 1915