Note di fase n.22
Autunno 2018
SULLA SITUAZIONE INTERNAZIONALE
“È una cooperazione strategica, quasi un gemellaggio, in virtù del quale l’Italia diventa punto di riferimento in Europa e interlocutore privilegiato degli Stati Uniti per le principali sfide da affrontare”. Queste le parole usate dal presidente Conte, all’indomani dell’incontro del 30 luglio alla Casa Bianca con Trump, per definire il “nuovo” rapporto con lo Zio Sam. Molti i temi sul tavolo: dal mantenimento delle sanzioni contro la Russia al gasdotto Tap definito “opera strategica”, dall’immigrazione ai dazi, alla commessa per i 90 cacciabombardieri di quinta generazione F-35. Quello principale, però, è la creazione di “una cabina di regia permanente Italia-Usa nel Mediterraneo allargato”, ossia nell’area che, nella strategia Nato, si estende dall’Atlantico al Mar Nero e, a sud, fino al Golfo Persico e all’Oceano Indiano. Se la regia generale ovviamente rimarrà ben salda nelle mani del Pentagono, a detta di Conte «All’Italia l’amministrazione americana riconosce un ruolo di leadership come paese promotore della stabilizzazione della Libia». Ecco come, in favore di telecamera, il feudatario moderno Trump affida al fedele vassallo Conte il compito di stabilizzare il caos libico, generato dall’intervento imperialista del 2011, facendolo risuonare come un sonoro schiaffo in faccia all’amico Macron.
È proprio nel quadro dei rapporti europei, sempre più contradditori per lo scontrarsi del progetto egemonico franco-tedesco con le resistenze degli altri paesi dell’Ue, e delle difficoltà di quest’ultimi con Washington, che va letto l’incontro Conte-Trump. Infatti, di fronte al rafforzamento dell’asse franco-tedesco sul piano europeo e allo scontro tra la Casa Bianca e l’Ue (di cui abbiamo parlato nelle Note sulla fase politica – Primavera 20181) la risposta del governo Lega-M5S è stato il riposizionamento sotto l’ala statunitense. Dal canto suo, Trump è ben felice di inserirsi nelle molte contraddizioni dell’Ue, sempre più lacerata, in vista delle elezioni, tra le spinte egemoniche di Parigi e Berlino e quelle dei cosiddetti sovranisti capeggiati dall’ungherese Orban.
Mentre la crisi incalza e la corsa all’Africa rende gli imperialisti di tutte le latitudini sempre più agguerriti, sul fronte mediterraneo la partita sembrerebbe volgere in favore dell’Italia, che per la seconda volta in due anni incassa a livello internazionale l’incarico ufficiale di stabilizzare la Libia. A conferma di ciò viene fissata a Roma per l’autunno la Conferenza di Libia, un passaggio cruciale nell’organizzazione delle prossime elezioni politiche e presidenziali libiche, rispetto alle quali emerge tutta la rivalità tra Italia e Francia. Infatti, le elezioni libiche sono terreno di scontro tra Roma e Parigi: mentre Macron le vuole entro l’anno, tanto da averne fissato la data al 10 dicembre durante l’incontro di maggio a Parigi alla presenza di Sarraj e Haftar; Roma, sostenuta da Washington, punta su una “road map” che conduca al voto ma solo dopo una stabile intesa con tutte le principali fazioni. Non a caso l’Italia, unico paese occidentale ad avere l’ambasciata a Tripoli operativa, ha aperto un consolato onorario a Tobruk, nella Cirenaica controllata da Haftar, rivale di Tripoli e sostenuto da Parigi.
La risposta ai piani imperialisti di Conte e Trump, però, viene presto servita con una nuova ondata di scontri che colpiscono Tripoli dalla fine di agosto gettando la città, sede del governo Sarraj, nel caos. Le truppe ribelli della “Settima Brigata”, sostenute anche dal generale Haftar, lanciano un attacco alla capitale libica dove il consiglio presidenziale guidato da Sarraj è costretto ad asserragliarsi nel suo quartier generale in una base navale. Da lì Sarraj affida alla milizia Forza Anti Terrorismodi Misurata il compito di entrare nella capitale per riprenderne il controllo. Lasituazione è così grave da costringere parte del personale italiano a lasciare l’ambasciata, colpita i primi di settembre da un colpo di mortaio. Insomma, Parigi per interposta persona dimostra a Roma di non voler mollare l’osso e che la partita per il petrolio libico e per il controllo di un territorio strategico per la penetrazione in Africa è ancora tutta da giocare.
Come già l’anno scorso, dopo un simile sgambetto alla “diplomazia italica” da parte dell’allora neo eletto Macron, subito Gentiloni aveva reagito rattoppando le sue tele, là dove erano state bucate dall’interventismo francese; così oggi, dopo la battuta d’arresto, anche il governo Lega-M5S sguinzaglia i sui uomini per riguadagnare terreno. È così che ritroviamo il ministro degli esteri Enzo Moavero, già ministro con il governo Monti e con quello Letta, a Bengasi a trattare con Haftar direttamente nella sua roccaforte, da cui esce ringalluzzito per aver ripristinato margini di manovra.
Leggendo queste mosse appare chiaro che la partita libica, ma più in generale africana, è tutta aperta e gli imperialisti italiani sgomitano per posizionare le proprie pedine rivendicando un diritto di prelazione sulle ex-colonie e cercando di accaparrarsi nuovi spazi di penetrazione, sia attraverso l’azione diplomatica sia con il posizionamento militare. In questo contesto va letto il viaggio di Conte a ottobre in Etiopia ed Eritrea, preceduto da quello di Mattarella nel 2016; l’invio a settembre a Gibuti di 208 militari per la Missione Addestrativa italiana bilaterale, la MIADIT Somalia, ormai giunta alla sua decima edizione con l’obiettivo della “stabilizzazione della Somalia e dell’intera Regione del Corno d’Africa”; lo schieramento completato a Misurata a inizio settembre di 151 Fanti di Marina della brigata marina San Marco nell’ambito della Missione Bilaterale di Assistenza e Supporto in Libia. In questo contesto si inserisce la missione militare italiana in Niger2 (che conterà alla fine 470 militari a rotazione), voluta dal governo precedente ma inaugurata dalla
ministra della difesa Trenta con qualche modifica rispetto al piano iniziale, dopo gli stop del governo nigerino su suggerimento francese. Va sottolineato il voltafaccia dei partiti oggi al governo, che durante la votazione del decreto missioni, sotto il governo Gentiloni, si erano astenuti (Lega) o avevano votato contro (Movimento 5 Stelle) ma una volta seduti al comando non hanno disatteso le aspettative della borghesia imperialista dimostrando la volontà di essere in continuità sulle questioni strategiche dell’imperialismo italiano.
Non è certo un caso quindi che mentre l’Italia indossa l’elmetto per perseguire la volontà imperialista di penetrazione dell’Africa, rivendicando il proprio passato coloniale sui paesi già sfortunatamente caduti nelle sue grinfie e cercando di strappare alla concorrenza agguerrita nuovi mercati, le sirene del razzismo suonino ininterrottamente da giornali e televisioni promuovendo una mobilitazione reazionaria tra le più becere. Essa alimenta, da un lato, la guerra tra sfruttatiall’interno dei confini nazionali e, dall’altro, giustifica ideologicamente la campagna d’Africa in atto. “Aiutiamoli a casa loro” ripropone in chiave moderna il paravento ideologico che, durante la colonizzazione, giustificava con la denigrazione del “dominato incapace di autogestirsi” la rapina delle risorse e la riduzione in schiavitù a danno dei popoli africani. In questo senso “Aiutiamoli a casa loro” si ricollega alle migliaia di pagine scritte dagli ideologi al servizio degli imperialisti che tanto si sono profusi, nei secoli passati, a scarabocchiare fantasiose idee di razza per legittimare la rapina e le violenze ai danni dei popoli per il profitto dei capitalisti occidentali.
L’intenzione degli imperialisti nostrani di spingere sull’acceleratore della guerra ha pesanti ricadute sulla nostra quotidianità non solo nei termini propagandistici, ma si quantifica ad esempio con l’aumento costante delle spese militari stanziate finanziaria dopo finanziaria. Per il 2018 si è arrivati a 25 miliardi di euro, l’1,4 % del Pil, con un aumento del 4 % rispetto al 2017. Si tratta ormai di una tendenza di crescita avviata dal governo Renzi (con un 8,6 %in più rispetto al 2015) che non accenna a fermarsi. Nel 2018, sono cresciti anche il bilancio del ministero della difesa (21 miliardi, il 3,4% in più rispetto al 2017) e l’impegno del ministero dello sviluppo economico per l’acquisto di nuovi armamenti, che si inserisce in un complessivo aumentano dei fondi stanziati che toccano i 5,7 miliardi nel 2018 (su cui pesa la partita dei 90 F-35). Dalle tasche dei lavoratori non vengono rubati solo i soldi per le missioni di guerra (come quella in Afghanistan che costa 1,3 milioni al giorno ed è in essere da 16 anni), ma anche i 520 milioni di euro all’anno stanziati per il supporto alle 59 basi Usa in Italia e i 192 milioni di euro all’anno per contribuire ai bilanci Nato, allafaccia dei tagli sui servizi sociali giustificati su tutti i media mainstream con la crisi. Se questa è l’eredità della finanziaria approvata in tutta fretta dal dimissionario governo Gentiloni a dicembre, appare evidente dalle dichiarazioni della ministra Trenta e del presidente Conte che su questo piano il nuovo governo agirà in continuità; anzi si arriva a prospettare un aumento delle spese militari fino a toccare i 100 milioni al giorno nel 2024, raggiungendo il famigerato 2% del Pil preteso da Trump.
Va registrato che la giustificazione ideologica della guerra è diventata una priorità per gli imperialisti italiani, che a fronte dei presenti e futuri progetti bellici hanno intensificato l’entrismo dell’esercito nella società. Prima terra di conquista devono essere i giovani ed ecco che assistiamo a un piano chiarissimo di militarizzazione delle scuole di ogni ordine e grado: sfilate, parate, bande musicali, gare sportive, visite e gite nelle caserme, conferenze e lezioni in classe, fino alle borse di studio e certificazioni per l’alternanza scuola-lavoro nei corpi d’assalto dell’esercito, della marina e dell’aeronautica o nelle aziende dell’export degli strumenti bellici. Non a caso questi progetti di colonizzazione della scuola si intensificano in quelle regioni come la Sicilia dove la presenza delle basi è importante su piano strategico. Chiaramente, dove la presenza della lotta No Muos ha contribuito a costruire tra la popolazione un sentimento d’avversione per esse, il tentativo propagandistico si fa più disvelato e costante. Addirittura a Niscemi, cuore pulsante della lotta contro il Muos e le basi americane in Sicilia, molte sono le occasioni in cui i militari yankee, nemmeno quelli italiani, si sono fatti promotori di iniziative didattiche, come la vista della base di Sigonella da parte di alcune classi della primaria o la donazione di materiale scolastico agli alunni. L’occupazione fisica delle attività didattiche e degli ambienti scolatici da parte degli apparatimilitari va di pari passo alla manipolazione dei contenuti insegnati, una rivisitazione finalizzata alla legittimazione delle logiche di guerra che oggi muovano l’agenda politica del capitale italiano dentro e fuori i suoi confini statuali: in questo contesto si inserisce ad esempio la rielaborazione dei fatti della Prima Guerra Mondiale, spesso affidata dalle scuole stesse, abdicando al proprio ruolo, alle forze armate. Questo è un fronte su cui possiamo condurre la lotta coinvolgendo tanto i lavoratori della scuola, in molti casi ignari o scavalcati da questi progetti di propaganda e arruolamento, gli studenti e i genitori in caso dei gradi inferiori. Questo è un piano accessibile in tutte le città e concreto che permette di sviluppare un lavoro di massa su un contenuto centrale come la guerra.
Altro punto su cui mantenere attenzione e mobilitarsi è la collaborazione, sopratutto in campo bellico, tra Italia e Israele: un legame strategico a tutto campo, che anche il nuovo governo vuole mantenere e sviluppare. Non a caso Salvini, proprio come Renzi, parla di “modello Israele”. Anche in questo caso il piano direttamente investito è quello dell’istruzione e in particolare dell’università e degli enti di ricerca, con le numerose collaborazioni tra il mondo accademico italiano e quello sionista.
SULLA SITUAZIONE INTERNA
La nuova legge di bilancio del governo Conte ha portato allo scoperto diverse tensioni al suo interno.
La principale è quella tra i partiti di governo (Lega e M5S), tesi a implementare le promesse fatte in campagna elettorale e i paletti imposti dai vincoli dell’Ue. Questa tensione si è tradotta all’interno dell’esecutivo nello scontro tra i vicepremier Salvini e Di Maio e il ministro dell’economia Tria, voluto da Mattarella a garanzia del rispetto dei trattati europei. Uno scontro, finora, vinto dai primi, che hanno ottenuto di poter operare con un deficit di bilancio del 2,4%.
L’affermazione della linea di Salvini e Di Maio ha determinato l’aprirsi dello scontro diretto con l’Ue, con l’Fmi, ma anche con settori di burocrazia interna (da ultimo l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, Bankitalia e la Corte dei Conti), nonché l’oramai classica impennata dello spread, peraltro in una situazione nella quale l’andamento economico europeo, stando agli allarmi della Bce, sta rallentando, determinando una ancor maggiore difficoltà ai bilanci degli stati e alle loro possibilità di operare in deficit.
In termini di analisi generale, possiamo dire che il processo a cui stiamo assistendo a livello istituzionale è lo sviluppo della principale contraddizione che oggi segna la vita pubblica italiana. Da un lato, c’è il ruolo fondamentale che ogni compagine governativa deve assicurare in un paese imperialista, com’è il nostro: difendere e perseguire gli interessi della borghesia imperialista, peraltro in dialettica con quelli dell’aggregato capitalista sovranazionale dell’Ue. Dall’altro lato, c’è la necessità di ridefinire, da parte del ceto politico uscito vincente dalle elezioni del 4 marzo, l’egemonia borghese sulle masse popolari del nostro paese, attraverso misure concrete di rottura rispetto ai vecchi governi di centro-sinistra, di centro-destra o tecnici. In altre parole, da una parte, c’è lo stato borghese come sovrastruttura della classe dominante, cioè della struttura capitalista- imperialista; dall’altra, lo stato borghese come organizzazione dell’egemonia, cioè di dominio politico-ideologico-culturale nonché di cooptazione e integrazione sociale delle masse. In una fase di crisi questi ruoli possono entrare in contraddizione, perché le politiche di “lacrime e sangue” entrano pesantemente in contrasto con la necessità di egemonia tra le masse e da qui il radicarsi e il diffondersi del “populismo” in Italia e in Europa come riassestamento di tale egemonia in nuove vesti.
Al momento i partiti di governo ottengono di comparire come paladini del popolo contro le burocrazie di Bruxelles e i diktat dei mercati. Cosa che permette loro di sopire altre tensioni che si sono sviluppate sin dall’inizio del governo, che ha visto la Lega puntare al logoramento del M5S conquistando una posizione preminente nel dettare l’agenda di governo, utilizzando i temi securitari e dell’immigrazione, fino ad arrivare alla nuova stretta in materia di repressione sociale che è contenuta nel cosiddetto “decreto Salvini”.
D’altronde il rafforzamento della Lega, all’interno della compagine governativa è caldeggiato da Confindustria, come ha esplicitamente affermato Boccia a fine settembre, nel tentativo di trovare un rappresentante definito all’interno della maggioranza e di normalizzarla progressivamente ai diktat del grande capitale industriale, isolando in particolar modo talune posizioni del M5S, come quelle in materia delle cosiddette opere strategiche (Muos, Tav e Tap in primis), sulle quali peraltro l’intransigenza dei grillini, sbandierata in campagna elettorale, si sta dimostrando inconsistente. Infatti, quello che a cui stiamo in parte assistendo è che la compagine sedicente populista sta muovendosi per dimostrare l’organicità del proprio programma agli interessi della classe dominante. Prove ne sono la reintroduzione piena dei voucher nel cosiddetto decreto Dignità; la conclusione, da parte di Di Maio nelle vesti di ministro del lavoro, di un accordo sull’Ilva che riprivatizza il colosso italiano dell’acciaio e conferma, di fatto, la linea di Calenda; così come la stretta sulle occupazioni di immobili voluta da Salvini, nelle vesti di ministro dell’interno, che rappresenta un grosso regalo a palazzinari e speculatori.
Tanto per fare un paragone storico coerente con la natura politica dell’attuale ministro degli interni, tende a realizzarsi nuovamente quanto già visto tra il fascismo delle origini, inteso come “sovversivismo piccolo borghese”, e il fascismo giunto al potere: “L’antitesi tra il programma fascista del 1919 e quello dell’attuale governo non sono affatto il prodotto di una… degenerazione, di una specie di tradimento ai «sacri principi»; essa dimostra al contrario che gli ideali della tribù 5
piccolo borghese non hanno resistito che pochi mesi, crollando, ad uno ad uno, di mano in mano che il movimento fascista prendeva maggior contatto con la grande borghesia, di cui accettava a poco a poco mezzi e programmi, ed in cui trovava la consistenza che senza di essa non avrebbe mai avuto” (Gramsci, La via maestra, 1924).
Lo stesso ampliamento di spesa pubblica previsto nella prossima finanziaria non potrà non essere pagato con tagli e nuove tasse, come già annunciato da fonti governative, con la concreta possibilità che, come già avvenuto con i governi Renzi e Gentiloni, si faccia un gioco delle tre carte al netto del risparmio di spesa sociale e ai danni, dunque, del proletariato e delle masse popolari, in termini di pressione fiscale, smantellamento della sanità pubblica, dell’istruzione e di tutti i servizi sociali. Ed eventuali misure che colpiscono formalmente il grande capitale finiscono per ricadere sostanzialmente sui proletari e le masse, sui quali se ne scarica il peso tramite maggiore sfruttamento e carovita, com’è naturale data l’oggettività dei rapporti di sociali e visti gli attuali rapporti di forza tra le classi a favore dei capitalisti.
Anche misure keynesiane come il “reddito di cittadinanza” si stanno rivelano, man mano si delineano i contorni normativi, come una grossa fregatura per i proletari e un regalo ai padroni. Non solo si prospetta, infatti, il ricatto dell’accettazione dei posti di lavoro, pena la perdita del reddito, ma anche l’obbligo del lavoro gratuito, una sorta di nuova schiavitù per i disoccupati, che vede il ripetersi del paradigma già praticato con i lavoratori dell’Expò di Milano, con gli studenti attraverso la “Buona Scuola” di Renzi e con i rifugiati come previsto nei decreti Minniti. Gli importi del cosiddetto reddito, che diminuiscono o si rivelano più difficili da ottenere ogni volta che Di Maio apre bocca in proposito, dovranno essere per forza spesi a fine mese, pena la loro perdita: in sostanza, dunque, i disoccupati svolgeranno la funzione di passaggio di un grandioso finanziamento statale al capitale commerciale. Infine, la previsione che tale reddito sia dispensato solo ai cittadini italiani e agli stranieri residenti da almeno cinque anni (cavillo introdotto a malincuore per evitare la palese incostituzionalità di riservarlo solo agli italiani) determina il delinearsi di una sorta di welfare da apartheid, discriminatorio verso i proletari immigrati.
Ciò è coerente con un’agenda di governo sostanzialmente razzista, come è chiaro dalle misure del già citato decreto Salvini, che porteranno i proletari immigrati a essere maggiormente ricattabili dai padroni e condanneranno una loro parte alla clandestinità. Dietro allo spauracchio dell’immigrazione fuori controllo, c’è in realtà l’attacco a tutta la classe e alle sue forme di lotta, come dimostra il già citato giro di vite contro le occupazioni, ma anche il ripristino del reato penale per i blocchi stradali, spesso usati dai lavoratori e da altri settori di masse popolari nelle mobilitazioni rivendicative. In continuità con i governi precedenti, si accelera sulla militarizzazione della società a scopo di terrorismo preventivo: diecimila nuovi assunti nelle forze dell’ordine, fornitura del taser, militari nelle strade e alle frontiere, cani antidroga davanti e dentro alle scuole, legittimazione della violenza individuale a tutela della proprietà privata, stop ai provvedimenti della riforma penitenziaria che consentivano il maggior ricorso a pene alternative al carcere e così via.
Parallelamente si prepara un pesante attacco al diritto all’aborto, in una situazione in cui la condizione della donna subisce pesantemente l’effetto della crisi dei padroni: sono le prime a subire la disoccupazione e la loro entrata nel mercato del lavoro è caratterizzata dal precariato e dal part-time, oltre che da paghe da fame.
In sintesi, quello che si sta rivelando è che il grande capitale sta portando il governo Conte sul suo solco e che quindi abbiamo di fronte l’ennesimo governo dei padroni contro il quale è necessario sviluppare la più ampia opposizione politica e sociale possibile.
Diverse sono le scadenze già svolte come lo sciopero degli studenti del 12 ottobre e la scadenza contro la circolare Salvini contro le occupazioni di case e stabili vuote del 10 ottobre e quelle in programma come lo sciopero/corteo del 26-27 ottobre indetto dal Si Cobas.
Nello svilupparsi dell’opposizione al governo occorre, però, prestare attenzione ad un fattore secondo noi fondamentale e cioè al fatto che il PD cercherà di approfittare della lotta al governo per ricostruirsi un consenso, in caduta libera dopo anni di politiche filopadronali, antiproletarie e a favore del grande capitale finanziario. Come abbiamo già detto, nella sostanza, questo governo non è peggiore dei precedenti, anzi. In tema di macelleria sociale, attacco alle condizioni dei migranti, militarizzazione del territorio e inasprimento della repressione, il governo in carica è ben lungi dal raggiungere i risultati raggiunti dai governi Napolitano/PD. È proprio al PD che va addossata la responsabilità di aver prodotto, con le sue politiche, il clima sociale che ha permesso l’ascesa del governo gialloverde.
Impedire che il PD si rifaccia una verginità, vietandogli la presenza nei cortei e nelle lotte, significa, oggi, impedire che uno dei principali partiti del grande capitale possa tornare a proporre le sue politiche di guerra e sfruttamento. Questo partito filoimperialista, assieme al codazzo neoriformista con cui si trova sempre in una unità contraddittoria, sta già ampiamente agitando il tema dei diritti negati dal governo per promuovere una sua opposizione. A parte che, in tema di diritti negati, è stato il PD a farla da padrone negli ultimi anni, riteniamo che tale argomento non possa essere disgiunto da una visione di classe di ciò che sta accadendo. I diritti conquistati dei lavoratori, delle donne, dei giovani, dei migranti ecc. vengono oggi calpestati con un unico grande obiettivo da parte dei ceti dirigenti borghesi al comando della società: quello di aggravare enormemente la ricattabilità sull’intero corpo sociale proletario e popolare al fine ultimo di abbassare il costo della forza lavoro, uno dei principali mezzi a cui storicamente il capitale, nei momenti di crisi, ricorre per garantire e mantenere la sua profittabilità.
Dotarsi, anche in tema di diritti, di un punto di vista di classe significa individuare il grande capitale, con i suoi addentellati, come il nemico comune contro cui costruire l’unico terreno possibile di unità nella lotta; significa anche scardinare, nell’unica maniera possibile, il discorso leghista che imputa agli immigrati oggi, come ai meridionali ieri, il malessere dei lavoratori e della piccola borghesia. Significa smascherare l’illusorietà delle politiche proposte dal M5S, che pensa di poter strappare concessioni vere (come ad esempio la bufala del reddito di cittadinanza) in favore della popolazione senza rompere definitivamente con il modo capitalistico di produrre. Significa, inoltre, impedire che chi, come il PD, ha fatto strada al padronato, calpestando a più non posso diritti e conquiste sociali e politiche del passato, possa tornare a rilegittimarsi agli occhi dei lavoratori e delle masse popolari.
È con l’idea di lottare contro il governo Conte, ma al contempo di non lasciare spazio alcuno alla strumentale opposizione di partiti come il PD nelle piazze e nelle lotte, che vogliamo aderire a tutte quelle iniziative di mobilitazione che intendano, a partire da un punto di vista di classe, sviluppare la lotta in un’ottica di rottura con il sistema capitalista e tutte le sue istituzioni.
Per questo abbiamo aderito e ci siamo mobilitati nella giornata di lotta contro la circolare Salvini, che impone lo sgombero di case e spazi occupati, che si è svolta il 10 ottobre davanti alle prefetture. Così come vogliamo aderire e ci stiamo attivando perché le giornate di lotta del 26 e 27 ottobre, proposte dal Si Cobas contro il governo in carica, siano giornate che vedano la classe unita contro l’ennesimo governo dei padroni. Rispetto a queste due ultime giornate, vogliamo invitare tutti, da un lato, a far sì che lo sciopero del 26 ottobre sia il più conosciuto, esteso e partecipatopossibile; dall’altro lato, che il corteo a Roma del 27 ottobre riesca a raccogliere tutti i proletari e le forze di opposizione di classe che nei loro posti di lavoro, nelle scuole e nei territori hanno ben capito che questo governo ha ben poco di populista/popolare e che si sta dimostrando, con le sue politiche illusorie, razziste e securitarie, un governo asservito e in gran parte funzionale al mantenimento del sistema di sfruttamento dei grandi caporioni della finanza e dell’economia di questa società.
Sostenere ogni lotta dei lavoratori e delle lavoratrici!
La sconfitta del razzismo sta nell’unità della lotta tra proletari! No all’attacco ai diritti conquistati dalle donne!
No agli sgomberi e agli sfratti!
Lottare contro le politiche guerrafondaie del nostro governo e le spese militari! Fuori la guerra imperialista dalle scuole e dall’università! Antifascismo militante: fuori i fascisti dai quartieri e dalle scuole!
Scioperiamo uniti il 26 ottobre e tutti a Roma il 27 contro il governo Conte
20 ottobre 2018
NOTE
1 http://www.tazebao.org/note-sulla-fase-politica-primavera-2018/ 1
2 Di questo ne avevamo parlato nell’articolo “http://www.tazebao.org/gentiloni-chiude-la-legislatura-lelmetto/2
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