Note di fase n.30
Settembre 2023
L’IMPERIALISMO FUORI DALLA PORTA
“Noi capi di Stato africani dobbiamo smettere di essere le marionette dell’imperialismo”, si esprime così il capitano Ibrahim Traoré, presidente ad interim del Burkina Faso, al vertice Russia-Africa del 29 luglio a San Pietroburgo. Tre giorni prima un colpo di Stato in Niger ha deposto il governo filoccidentale del presidente Mohamed Bazoum, dopo decenni di spoliazione da parte delle potenze occidentali, Francia in primis. Dopo quelli in Mali, Ciad, Guinea, Sudan e Burkina Faso, il golpe anticoloniale in Niger getta profondo scompiglio nell’ordine imperialista nel continente africano. A rincarare la dose sono soprattutto le dichiarazioni di Mali, Burkina Faso e Guinea, pronte ad intervenire militarmente al fianco del Niger, in caso di attacco da paesi terzi. L’Ecowas (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale), legato storicamente all’imperialismo occidentale, è profondamente spaccata al suo interno e non riesce tutt’ora a dare seguito alle sue minacce di intervento.
Il colpo di Stato in Niger, più degli altri, ha avuto grande eco nella stampa italiana, solitamente silente rispetto ad eventi simili, il motivo si spiega nel ruolo svolto dal paese rispetto ai rifornimenti di materie prime strategiche. Infatti, il Niger è il quarto produttore di uranio al mondo, l’Ue ne importa circa il 25% del suo fabbisogno e vi sono riserve di petrolio stimate per oltre due miliardi di barili. Le dichiarazioni della nuova giunta militare hanno fatto ben capire che la rapina fin qui perpetrata dai vecchi blocchi imperialisti è giunta al termine. Questi venti di cambiamento che soffiano in Africa potrebbero essere il preludio di un nuovo ciclo di lotte per l’autodeterminazione.
La perdita di egemonia del blocco imperialista occidentale e l’ascesa internazionale dei suoi concorrenti aprono oggettivamente gli spazi per la ripresa dei processi anticoloniali. Il fatto che queste lotte siano dirette dai militari, espressione della borghesia burocratica autoctona, o che le masse espongano le bandiere di altre potenze, non ci deve frenare nel sostenerle appieno. Questi colpi di stato sono un esempio di riscossa per i popoli africani e la loro azione infligge colpi pesanti all’imperialismo, diventando un monito per tutte le potenze, riuscendo anche ad aprire e rafforzare la strada della lotta antimperialista per tutti i popoli del mondo. Ci auguriamo che l’appello del comandante Traoré trovi accoglienza anche presso altri popoli in tutti i continenti.
I paesi dell’Ue sono quelli maggiormente colpiti dalle lotte anticoloniali, ancora alle prese con le conseguenze della guerra in Ucraina, come la pesante interruzione dei rifornimenti di gas dalla Russia. Il paese che ne subirà più di tutti le conseguenze sarà la Francia, per la quale l’uranio è una risorsa indispensabile per il funzionamento delle centrali nucleari. Oggi il suo dominio coloniale in Africa è pesantemente messo in discussione, come testimoniano i colpi di Stato a lei indirizzati e le proteste e mobilitazioni antifrancesi svolte durante le visite di Macron in primavera tra Gabon, Angola e Congo.
Sappiamo bene che i paesi imperialisti non staranno a guardare poiché sia le vecchie che le nuove formazioni hanno profondi interessi strategici nel continente africano. Tanto per citarne alcuni: gli Usa vogliono investire 250 milioni di dollari per la costruzione di un corridoio per materie prime strategiche nell’Africa meridionale (dal Congo allo Zambia) e cercano di promuovere partenariati e zone di libero scambio, la Cina è impegnata nel progetto valutato dall’Unione Africana e Temasek, holding controllata da Singapore, denominato “Africa123”, che prevede l’investimento di 150 miliardi di dollari per la costruzione di 123 metropoli in Africa con energia sostenibile, fornitura d’acqua, sanità, scuole e trasporti e, proprio in Niger, sta promuovendo accordi per lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio, mentre l’Ue ha aperto nel febbraio dell’anno scorso un partenariato con l’Unione Africana che contempla un investimento per 150 miliardi di Euro.L’Africa insomma è un continente conteso e meta di pesanti investimenti di capitali da parte delle varie formazioni imperialiste mondiali, che d’ora in poi dovranno sempre più fare i conti con chi si oppone concretamente alle logiche di rapina e sfruttamento.
Un altro esempio di mobilitazione e Resistenza che da decenni mette i bastoni tra le ruote alle mire dei progetti imperialisti è il popolo palestinese e la sua lotta. In questi mesi la repressione dell’entità sionista è stata sempre più brutale, con continue rappresaglie, accessi armati alla moschea di Al-Aqsa durante il periodo di Ramadan e, come se non fosse sufficiente, a seguito dell’approvazione della costruzione di 5 mila nuove case per i coloni ebrei in Cisgiordania, si sono nuovamente macchiati di sangue con un attacco su vasta scala contro la città di Jenin e il campo profughi adiacente, casa di 20 mila palestinesi.
Tutte queste azioni non sono rimaste impunite e hanno visto l’immediata risposta da parte del popolo palestinese e della sua Resistenza, dal combattimento sul campo al lancio di missili sia dal Libano che dalla striscia di Gaza. Inoltre l’entità sionista mira ad inasprire le condizioni dei prigionieri, introducendo nuove leggi come la limitazione dell’accesso ai cortili, la riduzione delle visite con i familiari e la cancellazione dei 21 giorni annui di sconto sulla pena per “buona condotta”.
All’interno di questo contesto si inseriscono anche alcuni arresti mirati di quest’anno, portati avanti dall’entità sionista contro compagni particolarmente attivi nel diffondere la voce del popolo palestinese in Italia e all’estero. Bilal, Twfeeq, Muhamad, Nidal e il compagno di Roma Khaled sono stati arrestati con il chiaro intento di stroncare la solidarietà internazionalista.
Tocca a noi, quindi, farci carico anche del loro lavoro, facendo da megafono alla lotta del popolo palestinese quale esempio fondamentale per tutta la lotta di classe: per quanto il nemico possa sembrare forte, organizzato ed indistruttibile, resistere è necessario e vincere è possibile.
ASCESA DEI BRICS E DELLA NEW DEVELOPMENT BANK (NDB)
Un altro accadimento che segna la fase degli ultimi mesi viene dall’annuale riunione dei BRICS, svoltasi dal 22 al 24 agosto, con la dichiarazione ufficiale dell’ingresso di altri sei paesi: Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi. Con questo passaggio si sta probabilmente scrivendo una pagina che cambia il corso della storia, rimescolando poteri economici e finanziari delle varie alleanze mondiali.
Quando nei primi anni 2000 i Brics sorsero come credibili rivali all’egemonia economico finanziaria dell’imperialismo occidentale, puntavano a riunire paesi con uno sviluppo economico capitalistico ascendente, mentre oggi, a distanza di pochi anni, riescono tranquillamente a proporsi come alternativa solida e affidabile, rispetto al vecchio blocco imperialista, suscitando l’interesse di non pochi paesi.
Un ruolo sempre più da protagonista nel mercato monetario e finanziario sta assumendo la Ndb che, oltre ai Brics, comprende: Bangladesh, Emirati Arabi Uniti ed Egitto. L’Uruguay è in procinto di aderire ed altri paesi sono già stati approvati, come Argentina, Arabia Saudita e Zimbawe. L’ultima dichiarazione dell’Ndb, a seguito dell’annuale riunione, non lascia spazio a grosse interpretazioni: l’obiettivo principale è quello della de-dollarizzazione.
L’esigenza, e in parte anche la riuscita, della de-dollarizzazione del mercato mondiale, si sta già palesando, in maniera sempre più frequente. A fine marzo, Cina e Brasile hanno dichiarato che non useranno più il dollaro americano per gli scambi commerciali e, sempre nello stesso mese, nella Borsa di Mosca lo Yuan ha superato per la prima volta il dollaro come valuta con il più alto volume di scambi. Sempre più paesi stanno prendendo in considerazione la possibilità di utilizzare lo Yuan come moneta di riserva o negli scambi commerciali e addirittura la Francia, paese storicamente legato al blocco atlantico e alla sua alleanza militare, la Nato, quest’anno ha fatto con la Cina il primo scambio di gas in Yuan.
È sotto gli occhi di tutti che le carte in tavola stanno cambiando e su questo piano inseriamo anche la recente affermazione di Klaus Schwab, fondatore e attuale direttore esecutivo del Forum Economico Mondiale, secondo cui la Cina dovrebbe guidare il Nuovo Ordine Mondiale e il resto del mondo dovrebbe seguirla. Citando: “Dobbiamo riconoscere la Cina come la più grande superpotenza del mondo.”
E’ chiaro che tutto ciò mette pesantemente in discussione il ruolo del dollaro che, adottato come moneta mondiale, è alla base dell’economia Usa e del suo dominio sulle altre formazioni. Come si è visto nell’ultimo anno, la Federal Reserve, aumentando in modo aggressivo i tassi d’interesse, ha trascinato con se tutti i paesi debitori. L’obiettivo della Ndb è dunque quello di creare un sistema valutario che si emancipi dallo strapotere del dollaro; quest’operazione, per quanto paventata da più parti, trova concretezza solo in parte per vari motivi, alcuni dei quali li possiamo ipotizzare: la Cina è ancora detentrice di enormi quantità di debito pubblico yankee e rischierebbe di veder trasformato quel debito in carta straccia; inoltre significherebbe alzare pesantemente l’asticella dello scontro e i Brics per quanto trovino un’intesa sul piano economico, hanno grosse contraddizioni sul piano militare, basti pensare all’India che fa parte del Quad, la Nato asiatica, assieme ad Australia, Giappone e Usa.
L’interesse di sempre più paesi per i Brics ha trovato un’accelerazione anche grazie alla guerra in Ucraina. La determinazione della Russia, nel portare avanti questa guerra e non tirarsi indietro, ha mostrato una solidità militare e politica. La Russia sta vincendo la guerra e, così facendo, si presenta in grado di poter fronteggiare le vecchie fazioni imperialiste, aprendo spazi enormi e smascherando la debolezza strategica del cosiddetto “Occidente Collettivo”.
Se la Russia sta facendo da avanguardia su un piano militare, la Cina sta cercando di spodestare il rivale su un piano economico e diplomatico.
Da un lato cerca di colmare il gap tecnologico nella battaglia dei “chip” puntando ad acquisire un’autonomia strategica in grado di rompere il protezionismo e i blocchi di Usa, Ue e dei loro alleati e dall’altra si propone come partner affidabile sicuro e “imparziale” sulle situazioni diplomatiche internazionali. L’abbiamo vista di recente come mediatrice con la Palestina, che ha poi favorito una visita in Cina a metà luglio da parte del presidente algerino, Abdelmadjid Tebbiune, sancita dalla “causa comune dell’opposizione all’imperialismo, al colonialismo e all’indipendenza dei popoli”.
Anche se nei fatti lo scopo è stato quello di approfondire il partenariato in diversi settori come: infrastrutture, minerario e agricolo, fino al ai settori ad alta tecnologia.
TENDENZA ALLA GUERRA INTERIMPERIALISTA E KEYNESIMO MILITARE
Nel mondo multipolare che si sta sempre più definendo, da un lato per la perdita di egemonia dell’economia statunitense e dall’altro con l’aumento della stabilità e del portato economico del blocco contrapposto, guidato da Cina e Russia, lo scenario che si prospetta non sarà sicuramente un equilibrio di forze che si accordano nella spartizione del mondo.
Se consideriamo la crisi come espressione del contraddittorio processo di accumulazione capitalista, la contraddizione quindi che si verifica tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione, viene da sé che solo cambiando il metodo di produzione può essere risolta. Una contraddizione che oggi è arrivata al punto tale che, tutte le formule di “limitazione del danno” possono tenere debolmente in vita un sistema decadente ma non guarirlo, poiché cercano di influire nella forma, ma non nella sostanza.
Alle sempre più lunghe fasi di crisi e distruzione si alternano sempre più brevi periodi di rigenerazione e sviluppo, palesando così la necessità delle fazioni imperialiste maggiormente sovraccumulate (paesi Nato con gli Usa in testa) di giungere ad uno scontro economico e militare per difendere e riaffermare la propria egemonia nella spartizione del globo.
Dall’altra, lo sviluppo delle nuove formazioni è limitato, o rischia di entrare in crisi, fintanto che non potranno espandersi “liberamente”, rompendo gli argini imposti e conquistando nuovi spazi oggi occupati dalle vecchie fazioni.
Il multipolarismo è caos: un caos che trova la sua origine nello sviluppo diseguale delle diverse formazioni, una dinamica intrinseca al modo di produzione capitalista, i cui squilibri spingono oggi nella direzione della guerra interimperialista. Segue quindi un’accelerazione del passaggio da tensioni politiche ed economiche a tensioni apertamente militari: è un cambio di fase di cui ogni fazione è ben consapevole e si sta preparando per affrontarla. Di quest’estate è, ad esempio, la dichiarazione esplicita del Ministro della Difesa britannico, che espone la concreta possibilità dello scoppio di un conflitto mondiale entro la fine del decennio; oppure vediamo come tutte le fazioni stiano aumentando la spesa militare, esplicitando e dichiarando continue esercitazioni in tutti i campi, sancendo alleanze o fornendo supporto economico e/o militare a paesi in guerra.
Da questo punto di vista, è interessante analizzare
l’ultimo Consiglio Europeo, svoltosi il 23 marzo 2023, dove è stata approvata una mozione, promossa dai ministri degli esteri di 27 paesi, che prevede di stanziare oltre 2 miliardi di euro per l’acquisto e la consegna di munizioni di artiglieria all’Ucraina: un miliardo per rimborsare gli stati membri che forniranno a Kiev munizioni prelevate dal proprio arsenale e un altro miliardo per l’acquisto congiunto di armamenti da destinare all’Ucraina e una terza parte del piano mira a ricostruire e aumentare la capacità di produzione dell’industria militare dell’UE.
È la prima volta in assoluto che i paesi del vecchio continente si accordano nell’acquisto collettivo di equipaggiamento bellico, bisognerà quindi verificare se effettivamente ci sia la tensione e l’intenzione di costituire un blocco europeo forte in politica estera o se prevarranno gli interessi nazionali, e, nel primo caso, la linea di quale paese si affermerà sulle altre. Tutti i paesi sono consapevoli che, nel momento in cui scoppierà la terza guerra mondiale, verrà condotta, con molta probabilità, sul suolo europeo, che non solo sta pagando più di tutti le ricadute della crisi, delle sanzioni economiche alla Russia e della mancanza di materie prime, ma dovrà anche farsi carico della concretezza della distruzione bellica.
Cade in questo contesto la recente esercitazione Nato “Air Defender 2023”, che ha visto 250 aerei militari provenienti da 25 paesi che si sono esercitati nello spazio aereo tedesco dal 12 al 23 giugno, con un particolare investimento da parte degli Stati Uniti, il cui esercito ha inviato 100 aerei e 2000 militari. È la più grande esercitazione militare dal 1949 con il chiaro obiettivo di prepararsi ad un conflitto in Europa. A questa esercitazione hanno partecipato anche due stati all’epoca esterni alla Nato: Svezia e Giappone (nel successivo vertice Nato è stato tolto il veto della Turchia e approvato l’ingresso della Svezia).
Nel fianco est della Nato, in Lituania, si stanno attrezzando per una presenza ancora più massiccia degli eserciti alleati: il Ministro della guerra tedesco Boris Pistorius ha annunciato l’intenzione di dislocare, su base permanente, ulteriori quattromila uomini, oltre gli 800 già presenti dal 2017, e lo stesso ministro della guerra lituano, Arvydas Anusauskas, ha espresso l’interesse a rendere permanente anche la presenza dei 500 soldati yankee che dal 2019 si alternano nel paese.
Quando, nel 2004, con l’ennesimo allargamento della Nato, i Paesi baltici entrarono nell’Alleanza atlantica, era già chiaro l’obiettivo di trasformarli in un avamposto Nato: oggi probabilmente la necessità è diventata ancora più impellente, vista la casa base della “Wagner” in Bielorussia. Queste manovre sanciscono, ancora una volta, una lenta marcia verso un potenziale futuro scontro diretto della Nato con la Russia.
Il vertice Nato di metà luglio si apre con dichiarazioni alquanto ipocrite, per cui “lo scopo fondamentale della capacità nucleare della NATO è preservare la pace, prevenire la coercizione e scoraggiare l’aggressione”. Peccato che nei fatti sia questa alleanza a spingere l’acceleratore verso la guerra, annettendo paesi sempre più a est, disseminando basi militari ovunque e cercando di imporre la propria egemonia.
A questo ne sono seguite dichiarazioni finali che stilano un elenco di nazioni nemiche che, pur lontane dal teatro atlantico, a loro dire metterebbero a repentaglio, insieme a Russia e Bielorussia, non solo le prospettive di una pace stabile, ma persino la tenuta democratica mondiale: parliamo di Cina, Corea del Nord e Iran. Immediata è stata la risposta della Direttrice del Dipartimento d’Informazione del Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Popolare Cinese, dichiarando che le nefandezze le ha perpetrate la Nato negli anni, ad esempio in Jugoslavia, Afghanistan, Iraq e Libia e rimarcando che il bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado del 1999 non è stato dimenticato.
Dall’altro lato la Cina ha dichiarato di voler aumentare, nel 2023, le spese militari del 7,2% e si sta mobilitando concretamente per costruire il radar militare più potente al mondo che potrebbe spostare gli equilibri delle potenze navali nel globo, con una capacità di rilevare missili a molti più km di distanza rispetto agli altri.
La situazione a Taiwan, grimaldello dell’imperialismo contro la Cina, resta sempre una miccia pronta ad esplodere: è recente l’incontro tra il presidente della Camera Usa, Kevin McCarthy e la presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, poi concretizzato nel via libera del Dipartimento di Stato Usa alla fornitura di un lotto di armi all’isola del valore di 500 milioni di dollari, comprensivo di sistemi di ricerca e tracciamento a infrarossi per aerei da combattimento F-16 che ha visto l’immediata reazione della Cina e la messa in stato di allerta dell’esercito.
La corsa agli armamenti spinta dalla tendenza alla guerra, adegua l’attuale sistema ad un capitalismo di guerra funzionale alla fase attuale. Il perno di questo passaggio è il “keynesismo militare” con il quale l’interesse privato al profitto rappresentato dal complesso militare – industriale si combina in maniera sinergica con gli interessi strategici degli stati. Il keynesismo militare è sia una necessità legata alla difesa e perpetuazione del dominio, ma anche strumento anticlico rispetto alla crisi. Lo Stato agisce come investitore nei confronti dell’industria bellica, determinando così un aumento di occupazione e consumi. Da un lato vediamo come sia la crisi che porta alla guerra e, dall’altro, la guerra viene utilizzata per tentare di far fronte alla crisi, creandone anche il presupposto di un suo aggravamento, fino alla tragedia della guerra mondiale: le armi prodotte sono merci che devono essere anche vendute e consumate, creando così una spirale distruttiva.
UN ANNO DI GOVERNO MELONI: AUSTERITÀ E CORPORATIVISMO
A quasi un anno dall’insediamento del governo Meloni il bilancio dal punto di vista delle scelte economiche e di collocazione atlantista, conferma la continuità con la strada indicata da Draghi e dalla Ue, nonostante mostri delle insofferenze verso le sue politiche centrali come il Mes. L’Italia, infatti, sta accumulando un ritardo sempre maggiore alla sua approvazione, restando l’unico tra i 20 paesi dell’Eurozona a non aver ancora ratificato la riforma del regolamento. La Meloni però si conferma comunque la giusta opzione, per la borghesia imperialista italiana, per governare l’attuale fase di crisi e guerra, e rappresentarne i suoi interessi politici, economici e militari.
Le politiche economiche fin qui messe in campo, vanno nella direzione di unire austerità e corporativismo. Ad esempio con il taglio del cuneo fiscale: questa misura è uno sconto sui contribuiti pagati dai lavoratori che porta ad un lieve aumento della busta paga, irrisorio rispetto all’inflazione attuale. Questa manovra da parte del governo s’inserisce dentro i meccanismi di decompressione salariale, necessari per bloccare e depotenziare lo sviluppo del conflitto di classe nel nostro paese. Va sottolineato che il taglio del cuneo fiscale, in assenza di un taglio dell’Irpef, va ad aumentare l’imponibile, portando quindi una parte del taglio del cuneo direttamente nelle casse dello Stato.
Basti pensare che per finanziare il cosiddetto “bonus Renzi”, il governo dovette mettere circa 10 miliardi sul piatto, questa manovra ne prevede circa 3.
Dall’altra parte però, con la legge di bilancio 2023 e il decreto lavoro, il governo ha cominciato l’offensiva per un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita delle masse popolari, con un pesante attacco al reddito di cittadinanza sostituito con nuove formule di “sostegno al reddito” con meccanismi maggiormente ricattatori, nell’ottica di ridurre la spesa per lo Stato. È così che il governo Meloni soddisfa le richieste di Confindustria di rendere la platea di disoccupati più malleabili ai ricatti salariali. L’obiettivo è impedire la possibilità dei percettori del reddito di rifiutare proposte lavorative con salari infimi, pari al reddito stesso o addirittura inferiori. Sempre con la legge di bilancio 2023 il governo ha disposto delle misure che hanno aggravato ulteriormente la precarietà dei contratti lavorativi con la reintroduzione dei voucher e con l’aumento dei possibili rinnovi per i contratti a tempo.
Di pari passo invece arrivano i favori all’impresa con l’introduzione della flat tax, con una riduzione delle aliquote da 4 a 3; mentre per incoraggiare gli investimenti e nuove assunzioni si prevede l’abbattimento al 15% (dal 24%) dell’aliquota Ires per le società. Nonostante gli sforzi però, il governo non è riuscito a tutelare i padroni dalla crisi: ad aprile per esempio, i dati segnavano una riduzione del 7% della produzione industriale su base annua, dove sicuramente hanno pesato sia le misure antinflattive della Bce, sia il calo delle esportazioni a causa delle sanzioni contro la Russia. In linea generale questo è il risultato in cui versano tutte le economie europee, in primis la Germania. Se è vero che si registra un calo del debito pubblico, è altrettanto vero che questo non tiene conto del rialzo del costo della valuta che porterà ad interessi più alti nella restituzione del debito, dunque, anche su questo piano, la situazione è tutt’altro che in risalita.
Ciò su cui si concentrano però gli sforzi in materia economica del governo Meloni sono i significativi aumenti delle spese militari, a sfavore dei finanziamenti all’istruzione e alla sanità, con il traguardo di arrivare a destinarne il 2% del Pil per soddisfare le richieste dell’Alleanza atlantica. Come previsto dalla legge di bilancio, alle spese militari è stato destinato 1 miliardo in più arrivando così alla cifra di 26,5 miliardi di euro. Ovviamente i diretti beneficiari di tutto ciò sono i grandi gruppi dell’industria bellica, come ad esempio Leonardo Spa, di cui l’attuale ministro della difesa Crosetto è stato Senior Advisor, oltre che essere presidente della Federazione Aziende Italiane per l’aerospazio, la difesa e la sicurezza di Confindustria. È così che il “keynesismo militare” diventa l’asset principale su cui si struttura l’economia dell’imperialismo italiano, da una parte per la sua partecipazione al processo di guerra globale e dall’altra per spazi di valorizzazione garantiti grazie all’aumento della spesa pubblica nel complesso militare industriale
e al rinnovato impegno al riarmo bellico che contraddistingue lo scenario internazionale. A titolo di esempio, dobbiamo leggere nella stessa direzione il rinnovato interesse verso il ponte sullo stretto di Messina. L’opera, infatti, è stata dichiarata di alto interesse strategico e militare per l’Italia e ciò significa che poco importa se il ponte tecnicamente non si potrà fare, ma sicuramente una gran parte di fondi stanziati serviranno a costruire quelle opere che serviranno alla sua difesa da un eventuale attacco militare.
Il Pnrr, aldilà delle retoriche governative, svolge la funzione di ristrutturare l’industria italiana attraverso un ulteriore salto della composizione organica di capitale con livello tecnologicamente avanzato, concentrando e centralizzando l’industria, selezionandone i settori più profittevoli e politicamente strategici, come nel caso del complesso militare industriale. È così che i monopoli italiani dell’industria militare (come Leonardo, Fincantieri, Iveco, Beretta, Fiocchi, Benelli) si accaparrano, grazie all’espansione del mercato bellico, un ruolo maggiore nel capitalismo italiano.
Dobbiamo tenere presente che la guerra piega a sé non solo l’industria, ma anche la formazione e la ricerca. Infatti, con il Pnrr sono stati finanziati ambiti di ricerca sull’industria aereospaziale “sostenibile” con un implicito doppio scopo sia civile che militare. L’aerospazio rappresenta uno dei campi d’azione principale, tanto che la Nato ha indicato la necessità di lavorare in questo settore per costruire “forze armate spaziali” finanziando laboratori di ricerca tecnologicamente avanzati (come ad esempio a Torino all’interno della Città dell’Aerospazio) per tecnologie da impegnare in campo bellico. A sottolineare il sempre più stretto legame tra mondo accademico e militare sono numerosi gli accordi d’intesa tra aziende militari, tra cui spicca ancora una volta in primo piano la Leonardo, e le università. Il coinvolgimento degli atenei nell’ambito della ricerca con scopi militari è funzionale a stabilire un livello “culturale” idoneo al dispiegamento di manovre politiche ed ideologiche per favorire l’accettazione delle necessità strategiche dello Stato e a determinare le condizioni per un ulteriore salto in avanti nelle politiche di guerra e repressione. La “cultura della difesa” e “la cultura della sicurezza” sono gli elementi chiave della volontà di foraggiare un sentimento comune dell’interesse nazionale o meglio verso gli interessi della classe dominante in tutte le sue declinazioni.
Il governo Meloni rappresenta a pieno il superamento della retorica della “guerra umanitaria” in favore di una propaganda che divulga apertamente la necessità delle politiche di rapina e guerra del capitale in nome “dell’interesse nazionale” con l’obiettivo di ricercare una maggiore mobilitazione in senso reazionario del fronte interno. È in questa logica che si ascrivono le frasi nazionaliste di La Russa sulla difesa della “razza italica” o del made in Italy del ministro Lollobrigida che incarnano al meglio il ruolo di uno stato belligerante che deve governare il fronte interno con il pugno di ferro e stroncare sul nascere ogni forma di opposizione “all’interesse del paese”.
STATO DI GUERRA
Come già affermato, col proseguire della guerra sul fronte esterno si rafforza lo Stato di Guerra nel fronte interno. Un esempio lampante in questo senso è stata la gestione legata alla detenzione di Alfredo Cospito, in cui il governo, andando anche contro la magistratura, ha adottato la linea del “nessun cedimento possibile”. L’abbiamo visto anche con gli attacchi repressivi da parte della questura di Genova ad agosto e della questura di Cosenza a giugno, con l’uso molto frequente dell’arma dei reati associativi, funzionale per attaccare, disarticolare e distruggere esperienze che si collocano nel campo rivoluzionario e antagonista.
La verità è che la borghesia imperialista non è mai tornata indietro dal fascismo: i reati associativi coniati nel ventennio, ma ampliati e ammodernati dalla “democrazia” borghese, sono stabilmente usati contro chi si oppone a questo sistema di guerra e sfruttamento, come potente arma di controrivoluzione preventiva. Non è la prima volta che lo Stato borghese attacca la parola scritta, anche se, nella propaganda di guerra nella quale siamo immersi, i pennivendoli prezzolati strillano contro la censura esercitata, a detta loro, dai “regimi” con i quali il blocco occidentale e la Nato di volta in volta sono in guerra. È importante tenere presente che le questioni sul fronte esterno e sul fronte interno sono in continuo collegamento.
È così che dall’“emergenza pandemica” siamo saltati all’“emergenza guerra”, segnando un piano di continuità rispetto al disciplinamento sociale come imprescindibile paradigma per governare le contraddizioni sociali che l’attuale fase di crisi porta con sé. Un esempio è anche l’ultimo decreto Caivano, pubblicizzato come decreto contro l’emergenza delle baby gang, ma che in realtà punta a criminalizzare ulteriormente le masse giovanili: Daspo urbano dai 14 anni, aumento della sanzione per lo spaccio di lieve entità con l’arresto in flagranza del minore, ammonimenti questurini ai dodicenni, abbassamento da 9 a 6 anni della soglia della pena che consente di applicare la custodia cautelare, arresto fino a due anni per chi non manda i figli a scuola.
Dall’altra parte lo sviluppo di un’ampia mobilitazione in opposizione alla guerra, alla sua economia e alle sue conseguenze sulle condizioni di vita delle masse popolari, pur presente, tarda a trovare la sua dimensione massificata. Infatti, se da una parte il prezzo che le masse popolari sono costrette a pagare per mantenere la macchina bellica è salatissimo, dall’altra, complici i sindacati confederali che rappresentano un freno allo sviluppo di un’ampia mobilitazione, le masse popolari faticano a porsi su un terreno concreto di opposizione alla guerra in favore dei propri interessi. Questo non perché le masse siano ignoranti o impotenti, ma perché non vedono via d’uscita, una strada che le porti concretamente a vincere, un riferimento autorevole e credibile a cui unirsi.
Ciononostante esistono esempi positivi e significativi di mobilitazione come quelle di febbraio scorso a Niscemi contro la presenza del Muos e a Genova lanciata dal Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali, a cui hanno partecipato ampie aree di movimento e del sindacalismo di base. Entrambe le mobilitazioni hanno saputo strutturarsi su una linea chiara, ponendo come principale contraddizione quella con il proprio imperialismo e con la sua catena di comando, articolandola concretamente contro la fornitura di armi al regime di Kiev e contro la presenza delle basi militari Nato/Usa sul nostro territorio.
Il valore di queste mobilitazioni è stato proprio quello di aver messo la guerra al centro colpendo l’imperialismo di casa nostra su due elementi cardine della sua macchina bellica: il commercio di armi e la presenza di basi militari sul territorio. Altri esempi positivi, seppure non ancora in una forma massificata, sono quei movimenti territoriali contro la presenza delle basi militari in Sardegna, a Coltano (Pisa), ad Aviano e, da poco, a Firenze.
La lotta contro la presenza delle basi militari è d’imprescindibile importanza per lo sviluppo di un’ampia mobilitazione contro la guerra ed è quindi compito dei comunisti parteciparvi attivamente, ribadendo che la questione non può essere affrontata senza mettervi al centro l’opposizione alla Nato, alla guerra imperialista e la sua trasformazione in guerra rivoluzionaria.
Oltre a partecipare attivamente a queste mobilitazioni di estrema importanza, per la loro natura di classe e antimperialista, purtroppo ancora lontane da rappresentare un movimento contro la guerra massificato, occorre battersi, applicando la linea di massa, contro quelle posizioni caratterizzate da una sostanziale equidistanza come paradigma analitico “né con la Nato né con la Russia”. Quest’impostazione appoggia direttamente o indirettamente gli interessi della nostra borghesia imperialista poiché non coglie l’elemento cardine della contraddizione principale; ovvero la guerra e come questa modifica concretamente la realtà in cui agiamo. Quest’impostazione si traduce in un sostanziale immobilismo che lascia spazio all’egemonia atlantista del governo Meloni o in un’aperta propaganda contro la guerra, ma solo quella di Putin, a suon di armi da inviare a Kiev.
Se da una parte è fondamentale tenere in considerazione la dialettica delle forze in campo nello scacchiere internazionale, dall’altra è nostro compito di comunisti combattere le posizioni campiste, di destra e di sinistra, poiché il nostro obiettivo non è la vittoria della guerra da una parte piuttosto che da un’altra, ma la sconfitta della borghesia imperialista italiana e della sua sovrastruttura statuale, mantenendo una visione chiara dei nostri interessi strategici.
La tesi dei sovranisti, secondo cui il coinvolgimento italiano nel conflitto è da ricondurre unicamente alle imposizioni statunitensi, cozza con la realtà; infatti, la partecipazione italiana nello scontro imperialistico si colloca sì nell’ambito della catena di comando a guida USA, ma è pur sempre in favore degli interessi della borghesia imperialista di casa nostra, nel tentativo di ritagliarsi i propri spazi nella ripartizione dei mercati globali: il nostro compito è quindi combattere contro i suoi interessi. Il nostro ruolo di opposizione alla guerra imperialista non deve essere quello di trovare una via d’uscita alle contraddizioni interne ed esterne della nostra classe dominante, né pensare ad una diversa collocazione italiana nel contesto internazionale, ma la trasformazione della guerra per gli interessi imperialistici della nostra classe dominante in guerra di classe per gli interessi strategici delle masse popolari.
CONCLUSIONI
Crisi economica del sistema capitalista e guerra, nella loro perversa dialettica distruttrice, stanno segnando il passo a ritmi incalzanti e impongono con forza le agende di governo di tutto il mondo.Il cosiddetto “Occidente Collettivo”, cui il nostro paese appartiene, è in enorme difficoltà di consenso e di egemonia sia politica che economica.
E’ incalzato dalle nuove formazioni emergenti che ne contendono lo storico dominio mondiale e ciò, se da una parte sta positivamente aprendo spazi per l’emancipazione dei popoli dal vecchio imperialismo, dall’altra acuisce enormemente la contraddizione tra potenze, che non può che assumere la forma antagonista del conflitto aperto.
La storia sta cambiando sempre più velocemente e proprio dalla storia dobbiamo trarre gli insegnamenti fondamentali: dobbiamo avere la capacità di leggere il presente e cogliere, nei momenti di profonda crisi della nostra controparte, la possibilità di margini d’azione sia da parte della classe proletaria nei paesi imperialisti nei termini della rottura rivoluzionaria, sia da parte dei popoli oppressi nella loro lotta di liberazione dall’oppressione coloniale, perpetrata dalle vecchie fazioni imperialiste per decenni.
Schierarsi oggi dalla parte dei popoli africani che si stanno liberando dai gangli dell’imperialismo significa concretamente lottare noi contro il nostro stesso imperialismo.
Proprio per questo dobbiamo considerare il paradigma della guerra come un ampio spazio di agibilità per l’azione politica dei comunisti nel rafforzare una prospettiva rivoluzionaria sconfiggendo l’influenza ideologica che la borghesia esercita anche sul proletariato. Essendo dunque il paradigma della guerra a plasmare l’attuale divenire storico, è proprio la guerra che deve essere messa al centro dell’analisi e dell’agire politico di qualunque soggettività, organizzazione o movimento, per sgombrare il campo da ogni ambiguità e prendere una posizione chiara rispetto a questa. Non farlo apre necessariamente al collaborazionismo, diretto o indiretto che sia, con il fronte imperialista.
È dunque necessario colmare il ritardo della soggettività comunista, svelare e recidere i nodi delle contraddizioni in seno al movimento contro la guerra e alla classe, come riflesso dell’ideologia dominante: è nostro compito indicare come unica alternativa al capitalismo la costruzione di una società socialista, trasformando la guerra imperialista in guerra di classe rivoluzionaria.
La linea da seguire l’ha ben delineata il compagno Lenin di fronte alla prima guerra mondiale:
“Il carattere reazionario di questa guerra, l’impudente menzogna della borghesia di tutti i paesi, che maschera i propri scopi di rapina con un’ideologia “nazionale”, tutto ciò, sul terreno di una situazione obiettivamente rivoluzionaria, crea inevitabilmente nelle masse degli stati d’animo rivoluzionari. È nostro dovere contribuire a rendere coscienti questi stati d’animo, approfondirli e precisarli. Questo compito è espresso in modo giusto soltanto dalla parola d’ordine di trasformare la guerra imperialista in guerra civile; ed ogni lotta di classe conseguente in tempo di guerra, ogni tattica di “azione di massa” seriamente applicata, conduce inevitabilmente a questo […] in ogni caso è nostro preciso dovere lavorare sistematicamente e con perseveranza proprio in questa direzione.”
Leinin “Il socialismo e la guerra”
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