Egemonia dei comunisti, Rivoluzione passiva, Rossobrunismo
“Glossario” da Antitesi n.06 – pag.55
Egemonia dei comunisti
Il termine egemonia è strettamente legato alla questione del potere. Così come la borghesia mantiene il proprio dominio tramite l’ausilio della forza e del consenso esercitando la propria direzione su tutta la società, così i comunisti devono lavorare in funzione del processo che porti la classe operaia e il proletariato ad esercitare la propria direzione, anche verso le altre classi dominate (piccola borghesia, contadini, sottoproletariato, ecc.) per la presa del potere politico.Il concetto di egemonia può essere sostituito con quello di capacità di direzione senza coercizione. Quindi per le classi dominanti l’egemonia è una delle variabili del proprio esercizio di potere (l’altra principale è la coercizione). Per le classi dominate, ovvero per le proprie avanguardie politiche, l’egemonia da un lato è oggettivamente obbligata perché non hanno, in linea generale, sufficienti capacità coercitive, essendo il potere concentrato nelle mani delle classi dominanti. Dall’altro lato, l’egemonia è soggettivamente necessaria perché la coercizione, tramite l’erosione del monopolio della violenza, deve essere esercitata tendenzialmente solo verso la classe dominante e i suoi apparati, e perché solo una direzione senza coercizione pone le basi per costruire il fronte delle classi oppresse sotto la direzione operaia, per mobilitare tutte le forze antagoniste della società e costruire un processo di liberazione sociale che rovesci il potere della borghesia imperialista e i rapporti capitalistici.
Per i comunisti, l’egemonia ha come referenti la classe operaia in primis e tutte le classi oppresse in secundis, nelle quali radicarsi e delle quali divenire avanguardia politica rivoluzionaria cioè la parte che ne dirige il processo di scontro con la borghesia imperialista, per distruggere il potere di quest’ultima e imporle il potere del proletariato. In altre parole, l’egemonia della grande borghesia è un risvolto del dominio sulla società, quella del proletariato è un aspetto del processo di liberazione della società o meglio delle classi e dei gruppi sociali oppressi. [1]
[1] Per approfondire il termine egemonia vedi Antitesi n. 4 EGEMONIA, pp. 68 ss.
Rivoluzione passiva
Per rivoluzione passiva s’intende il processo di trasformazione politico-sociale che non muta sostanzialmente, ma aggrava o semplicemente ridefinisce nella forma, nelle modalità e nel metodo i rapporti di produzione, di classe e nella società, a vantaggio delle classi dominanti ed egemoni o comunque di quella loro parte che dirige tale processo. Sinteticamente possiamo definire la rivoluzione passiva come una “finta” rivoluzione o una rivoluzione-restaurazione, svolta per conservare, rafforzare ed estendere il potere delle classi dominanti che la conducono. La categoria di rivoluzione passiva venne inclusa nel patrimonio del movimento comunista grazie all’opera teorica di Antonio Gramsci che a sua volta la riprese da Vincenzo Cuoco (1770 – 1823) rivoluzionario e saggista napoletano. Sicuramente però tale categoria concettuale sviluppa l’analisi della dialettica dei processi sociali che già Marx ed Engels formularono: “La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, dunque i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. La prima condizione di esistenza di tutte le precedenti classi industriali era invece la conservazione immutata del vecchio modo di produzione. L’ininterrotta trasformazione della produzione, il continuo sconvolgimento di tutte le istituzioni sociali, l’eterna incertezza e l’eterno movimento distinguono l’epoca della borghesia da tutte le epoche precedenti”. [2] Infatti Gramsci nei Quaderni del carcere, per formulare la categoria di rivoluzione passiva, partì dall’assioma della dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione: “Il concetto di “rivoluzione passiva” deve essere dedotto rigorosamente dai due principi fondamentali di scienza politica: 1) che nessuna formazione sociale scompare fino a quando le forze produttive che si sono sviluppate in essa trovano ancora posto per un loro ulteriore movimento progressivo; 2) che la società non si pone compiti per la cui soluzione non siano già state covate le soluzioni necessarie”. [3] A partire da tale base teorica, Gramsci individuò la dialettica tra le classi e le forze politiche ed ideologiche loro rappresentanti, come la contraddizione che segna il procedere della società verso la rivoluzione o la rivoluzione passiva; la sua analisi è incentrata sul Risorgimento italiano, con la borghesia sabauda come forza di rivoluzione passiva e con l’ala democratica del movimento risorgimentale (Pisacane, Mazzini, Garibaldi…) come potenzialmente foriera di cambiamento rivoluzionario o comunque di unità tra liberazione nazionale e liberazione sociale.
Attraverso la lente della rivoluzione passiva possiamo leggere tutti i passati e presenti processi di cambiamento sociale e politico che in realtà confermano o addirittura aggravano il dominio delle classi dominanti, prevenendo il movimento rivoluzionario delle classi oppresse. In tal senso rivoluzione passiva si pone in rapporto stretto, nel suo sviluppo concreto, con la categoria di controrivoluzione preventiva. [4] Ad esempio, il passaggio politico dal regime fascista a quello costituzionale-democratico-parlamentare, può essere letto come una rivoluzione passiva condotta dalle stesse classi che avevano dato il potere a Mussolini, per prevenire gli sviluppi potenzialmente rivoluzionari della caduta del fascismo e della guerra partigiana e allo stesso tempo contenere costruire un cosiddetto involucro democratico per il capitalismo, che contenesse al meglio le spinte in senso antagonistico e rivoluzionario da parte del proletariato. Sul piano attuale, le cosiddette “rivoluzioni arancioni”, eteroguidate dall’imperialismo Usa e delle potenze europee (Ucraina, Libia, Siria…) così come la cosiddetta “esportazione della democrazia”, possono essere viste come concretizzazioni di rivoluzioni passive per le mire aggressive neocolonialiste. Anche il sorgere e l’affermarsi dei fenomeni politici del populismo e del sovranismo possono essere intesi come rivoluzioni passive, cioè cambiamenti di facciata e in senso reazionario nei regimi di controrivoluzione preventiva negli Usa e in Europa, per rimodulare l’egemonia della grande borghesia su masse popolari in preda al malcontento, a fronte del perdurare della crisi del capitalismo, e come riflesso dell’aggravarsi delle contraddizioni tra singole frazioni nazionali della grande borghesia (come ad esempio nel riemergere dei nazionalismi all’interno della Ue).
[2] Engels F., Marx K., Il Manifesto del Partito Comunista, 1848,
https://www.liberliber.it/mediateca/libri/e/ engels/il_manifesto_del_partito_comunista/html/testo_01.htm
[3] Gramsci A., Quaderni del carcere – Il moderno Principe: noterelle sulla politica del Macchiavelli, in Scritti Politici, a cura di P. Spriano, editori riuniti, terza edizione maggio 1971, p. 797.
[4] Vedi Antitesi, n° 0, pp. 54 ss.
Rossobrunismo
Con la definizione di rossobrunismo si può indicare un magma di posizioni che in qualche modo si riconoscono in un intreccio ideologico comprendente sovranismo, antiglobalizzazione, attacco alla Ue e simpatia per la Russia di Putin.
Alla base di questo tipo di concezioni c’è l’idea di un socialismo “nazionale”, fusione tra socialismo e nazionalismo, sinistra nazionale più destra sociale. La “sinistra” a cui fa riferimento il rossobrunismo è solo superficialmente quella del movimento comunista, poiché la teorizzazione politica e l’analisi della società propugnate non si fondano sui concetti materialisti di classe e rapporti tra le classi, ma o li ignorano o li equiparono, in nome di un interclassismo sostanziale, ad altre categorie come “popolo”, “nazione”, “comunità”. Di fatto dunque, si tratta della funzionalizzazione del patrimonio del movimento comunista ad una visione ideologica piccolo-borghese, che vorrebbe in astratto unificare la classe operaia e i cosiddetti ceti medi contro il grande capitale, ma che ne finisce inevitabilmente e concretamente per riprodurne il dominio, come sta dimostrando l’attuale governo populista-sovranista.
L’intenzione di operare un mix tra idee di destra e di sinistra affonda le radici nel socialismo idealista di George Sorel (1847-1922) revionista del marxismo e teorico dell’anarcosindacalismo.
Riferimenti successivi sono: Jacque Dorot che dopo aver militato nel Partito Comunista Francese fondò il filofascista Partito Popolare Francese e coniò l’espressione “né destra, né sinistra”; il gruppo neofascista Terza Posizione negli anni ’70 in Italia; Nouvelle Droite di Alan Benoist in Francia; Alexander Dugin in Russia, ideologo vicino a Putin e ispiratore dei nazionalisti di Zirinovskij.
In Italia il riaffioramento recente porta il nome del filosofo di origine marxista Costanzo Preve, che alla fine degli anni ’70 ripropose la commistione, e attualmente quello del suo allievo Diego Fusaro che si autodefinisce marxiano (quindi non politicamente marxista, ma semplicemente utilizzatore delle categorie di Marx) e che collabora con il periodico di Casa Pound, “Il primato nazionale”.
Fusaro è ideologo riconosciuto da entrambe le forze del governo giallo-verde ed è stato negli ultimi anni promosso largamente dai mass media del grande capitale italiano.
Rispetto al rossobrunismo occorre, infine, svolgere un’ultima riflessione. Tanto il rossobrunismo costituisce un mezzo per la destra borghese reazionaria di fagocitare il patrimonio del movimento comunista, quanto quest’ultimo è stato abbandonato e vituperato dalla “sinistra” borghese finto progressista e dai movimenti da essa egemonizzati ideologicamente e, talvolta, diretti politicamente. Pensiamo ad esempio alla demonizzazione di tutto quanto rimanda al concetto di “nazione”, come le lotte di liberazione nazionale, e a categorie politiche più o meno vaste come “antimperialismo” o specifiche come “antisionismo”, o a elementi base della fenomenologia politica quali “violenza”, “forza”, “dittatura”, “egemonia”…fino ad arrivare, nei casi più gravi, alla stessa nozione di “classe”. Insomma se dall’alto la sinistra borghese faceva propria l’ideologia neoliberista, dal basso i movimenti finivano in molti casi a costituirne il codazzo quantomeno ideologico, adottando il linguaggio tipico del liberalismo e della democrazia borghese, con le categorie interclassiste di “società civile”, “moltitudini”, “diritti umani”, “individui”, “cittadinanza universale” ecc. ecc.. Il movimento contro la guerra imperialista, ad esempio, ne è uscito profondamente indebolito perché, in molte sue parti, non ha saputo respingere le infami tesi dell’equidistanza e del pacifismo, per cui tra aggressori e aggrediti non è giusto schierarsi, visto che fra gli aggrediti vi è chi contraddice le categorie liberali e democratiche borghesi di cui sopra. E quindi quando si dice “né con Israele né con Hamas”, “né con gli Usa né con Assad”, “né con Kiev né con i filorussi”, “né con la Nato né con i Talebani” di fatto non solo si riduce le lotte di resistenza e liberazione nazionale dei popoli ad una loro espressione politica, ma si contribuisce oggettivamente alla dominante egemonia bellicista degli aggressori, accettandone la visione occidentalista del nemico barbaro da curare con la democrazia dei droni e dell’uranio impoverito. Il tutto con relative e infamanti accuse di “rossobrunismo” a forze politiche e compagni/e che si schierano giustamente e incondizionatamente dalla parte dei popoli aggrediti.
Per questo, da un lato bisogna vigilare contro il rossobrunismo che vuole utilizzare a fini reazionari le categorie del movimento comunista, dall’altro bisogna vigilare contro l’egemonia ideologica della borghesia di “sinistra” che vuole sostituire tali categorie con quelle del liberalismo e del cosmopolitismo.