Antitesi n.17Controrivoluzione ed egemonia di classe

Figli all’imperialismo

Riflessioni sull’attacco all’aborto tra crisi e militarismo

“Controrivoluzione ed egemonia di classe” da Antitesi n.17 – pag.65


Cosa c’è dietro al riaccendersi globale dell’attenzione e, soprattutto, dell’attacco verso la conquista dell’aborto legale? C’è solo il ruolo di settori reazionari della borghesia imperialista, quali ad esempio i circoli evangelici negli Usa e la chiesa cattolica in Italia, come vorrebbe farci credere parte della propaganda liberale? Oppure, una buona fetta della classe dominante prende parte a questa crociata, rispondendo al contesto preciso che si sta determinando, cioè quello della guerra imperialista dispiegata?
Riteniamo oggi di trovarci di fronte ad un attacco ideologico e politico generale contro la conquista dell’aborto. Gli Usa, paladini dei diritti civili e capofila dell’occidente democratico, con la sentenza della Corte suprema del 2022, si trovano privi di una garanzia costituzionale sull’aborto. La borghesia imperialista, e ogni sua fazione, vuole imporre un proprio costrutto egemonico sul modello familiare e femminile: si va dal tradizionalismo della destra repubblicana statunitense e della Russia cristiana-ortodossa di Putin, al progressismo ideologico e strumentale della sinistra imperialista, che proclama la “crociata libertaria” per liberare donne e gay a livello globale. In entrambi i casi si tratta di modelli da spendere in funzione delle politiche di guerra, della loro giustificazione, mistificazione e radicamento nelle masse popolari.
L’attacco all’aborto viene giustificato dalla propaganda borghese anche come risposta al calo delle nascite, che colpisce in primo luogo i paesi dell’occidente imperialista, le cui le radici affondano nell’avvitarsi della crisi e, dunque, nelle conseguenti difficoltà materiali e sociali a mantenere dei figli per ampi strati delle masse popolari.
In realtà, l’aspetto principale, nella situazione presente e concreta, soprattutto per le classi dominanti occidentali, è costruire un’egemonia di guerra, cioè una cultura di massa giustificante il coinvolgimento sempre più forte delle popolazioni nel conflitto mondiale che tali classi dominanti stanno preparando. La possibilità di disciplinamento ideologico delle masse e la loro mobilitazione in nome degli “interessi della nazione e della comunità” fino al sacrificio della vita non è cosa da poco, ordinaria, per una borghesia imperialista occidentale che aveva promesso, in nome del suo dominio, addirittura la “fine della storia”. E, in tal senso, la vecchia cultura del “dio, patria e famiglia” non può che essere utile e in qualche modo necessaria, con annessa la criminalizzazione – sul piano innanzitutto ideologico di conquiste storiche delle donne, a partire dall’aborto. A questo disciplinamento ideologico e politico si prestano i rappresentanti della borghesia imperialista che investono apertamente sul nazionalismo e la reazione, come la cricca di Meloni in Italia.
Sempre sul piano egemonico, non va dimenticato come invece parte dei rappresentanti della borghesia imperialista giochi la carta opposta in nome di un’immagine culturale che valorizzi la “laicità e i diritti”, come bandiere da spendere sul piano propagandistico. La Francia di Macron, con l’inserimento del diritto all’aborto in costituzione, procede in tal senso, per giustificare la contrapposizione ipocrita del cosiddetto “occidente progredito” al resto del mondo, barbaro e integralista.
Pertanto, come comunisti, è fondamentale sviluppare una chiara linea di classe sulla questione dell’aborto, che favorisca la formazione e il dibattito, fornendo elementi utili per la costruzione di una nostra linea di intervento particolare tra le donne e le masse popolari.

Inquadrare la questione: il diritto all’aborto per i comunisti

L’interruzione volontaria di gravidanza, praticata alla luce del sole o meno, è sempre stata una realtà in tutte le società storicamente conosciute. Che fosse una libera scelta della donna o, più probabilmente, un’imposizione dettata dalle condizioni materiali o dai costumi sociali, l’aborto è sempre stato praticato in tutte le epoche e da tutte le civiltà. Il dibattito attorno alla questione dell’aborto, pertanto, riguarda principalmente il fatto di poterlo praticare legalmente e in maniera sicura. A dispetto di tutte le argomentazioni moraliste o etiche, anche l’Oms, nei suoi ultimi rapporti, ha evidenziato come limitare l’accesso agli aborti non ne riduca il numero, ma spinga le donne a praticarlo in modo meno sicuro. [1] Sempre secondo dati dell’Oms, ad oggi la maggior parte dei paesi consente l’aborto solo in circostanze specifiche, e spesso con moltissime limitazioni, mentre in circa 20 Stati l’aborto è totalmente illegale.
Sebbene lo sviluppo della scienza e della consapevolezza sociale dei rischi connessi ad un aborto illegale abbiano favorito il dibattito attorno al tema, è bene chiarire che la legalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza è il frutto di decenni di lotte che le donne hanno portato avanti per la propria emancipazione. Storicamente, infatti, solo quando le donne sono scese in campo con la lotta hanno ottenuto conquiste e diritti. Anche il diritto all’aborto è una conquista storica delle donne lavoratrici: il diritto di poter scegliere se portare avanti o meno una gravidanza, di poter disporre del proprio corpo e decidere del proprio futuro, è intimamente legato alla lotta per la propria emancipazione da una condizione di subalternità e da un sistema economico, politico e valoriale che relega la donna al ruolo di madre e moglie.
Il movimento comunista è stato pioniere nell’analisi della questione femminile e da sempre protagonista delle lotte per la sua emancipazione. Una pietra miliare dell’analisi marxista sul tema è sicuramente L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato di Friedrich Engels. Il testo indaga la condizione della donna nel processo storico, ponendola intimamente in relazione alla proprietà dei mezzi di produzione, alla famiglia, in quanto unità economica della società e allo Stato, cioè l’apparato che organizza legalmente queste relazioni e le impone sostenendole con la forza. Ai fini dello scopo dell’articolo non ci interessa ora approfondire l’analisi di Engels sul problema femminile, [2] quanto piuttosto inquadrare la questione in termini marxisti, fondamentale per orientare il nostro lavoro oggi.
Seguendo la tesi fondamentale del marxismo sulla questione femminile, dimostrata nel testo di Engels, la condizione subalterna della donna ha origine nei rapporti di proprietà e la sua oppressione deriva dalla nascita della proprietà privata, quindi dalla divisione in classi della società. Questa tesi ha due importantissime implicazioni. Da una parte, la reale emancipazione della donna si pone come possibile solo con l’abbattimento del sistema capitalista, sgomberando il campo da tutte le deviazioni riformiste del femminismo borghese. Dall’altra, questa tesi lega indissolubilmente la questione dell’emancipazione della donna alla causa della rivoluzione: uno storico slogan afferma “Non c’è emancipazione della donna senza rivoluzione, non c’è rivoluzione senza emancipazione della donna”.
Il diritto all’aborto, quindi, legandosi a doppio filo alla questione dell’emancipazione della donna, è da sempre una rivendicazione del movimento comunista e delle donne lavoratrici, storicamente legata all’avanzata del socialismo e ai rapporti di forza che il proletariato ha saputo mettere in campo. Non a caso è stato riconosciuto per la prima volta nella Russia rivoluzionaria del 1920, uno dei molti primati dell’Unione Sovietica in tema di conquiste delle donne (solo per citarne alcuni, si pensi alla parità salariale tra uomo e donna, al diritto di voto, al diritto al divorzio, ecc.), per poi approdare anche nelle società capitaliste sull’onda delle lotte operaie e per l’emancipazione femminile. Solo per avere un termine di paragone, il Regno Unito ha legalizzato l’interruzione volontaria di gravidanza nel 1968, gli Usa nel 1973, mentre l’Italia solo nel 1978. È importante ribadire come tale riconoscimento sia avvenuto a seguito di forti mobilitazioni di cui le donne si sono rese protagoniste, entro un contesto in cui i rapporti di forza della classe proletaria erano favorevoli. Sono gli anni delle lotte sociali ed operaie, dell’autunno caldo, del protagonismo studentesco, in cui le masse portavano nelle piazze la volontà di abbattere questo sistema e la convinzione di poterlo fare; anni in cui la rivoluzione non era solo un’idea, ma un progetto politico che si praticava. È fondamentale porre l’accento su questo punto perché la storia dimostra che solo quando le lotte hanno saputo mettere realmente in discussione i rapporti di potere tra le classi si sono ottenute importanti conquiste, come appunto il diritto, almeno formale, per le donne di poter decidere sul proprio corpo.
Diciamo questo perché da sempre, la rivendicazione del diritto all’aborto (come molte altre) è una rivendicazione “trasversale” all’interno del panorama femminista, nel senso che è fatta propria anche dal femminismo borghese. Quest’ultimo tende in generale ad incentrare sul genere la questione della donna e delle sue rivendicazioni, unendo di fatto le donne in una lotta che pone al centro il patriarcato e non il sistema economico capitalista. Questa impostazione sbagliata ha importanti e distruttive ripercussioni sul piano della lotta: fallendo nel cogliere l’origine del problema, cioè i rapporti di proprietà tra le classi, devia l’attenzione dalla questione principale (quella di classe appunto), creando così una farlocca unità di genere interclassista. Oltre a ciò, porre la questione di genere come principale divide la classe del proletariato e diventa un’eccellente arma nelle mani della borghesia per cooptare le lotte e utilizzarle per la costruzione della propria egemonia. “La lotta d’emancipazione della donna proletaria non può essere una lotta simile a quella che conduce la donna borghese (…); la sua è la lotta insieme all’uomo della sua classe contro la classe dei capitalisti”. [3]
Mettere al centro la questione di classe, invece, deve sempre essere la nostra priorità. D’altra parte, l’unità di genere è una grande menzogna. Anche rispetto all’aborto, l’effettivo riconoscimento e la piena garanzia di questo diritto hanno un carattere di classe. La negazione del diritto all’aborto, infatti, colpisce principalmente le donne proletarie e la situazione italiana fornisce un esempio lampante di questa differenza di classe. In un contesto in cui più dell’80% dei medici sono obiettori di coscienza (in alcune regioni si sfiora addirittura il 100%, come le Marche) [4], e i consultori sono tagliati all’osso e presi d’assalto dai cosiddetti prolife, le donne per poter abortire in sicurezza sono costrette ad andare in regioni diverse da quella dove abitano o a rivolgersi a costose cliniche private. Si determina così una situazione in cui l’aborto legale diventa un lusso di chi ha la possibilità economica per poterselo permettere. Oggi come ieri, infatti, diritto all’aborto e garanzia di accesso effettivo all’aborto sono due cose ben diverse. La stessa legge 194 del ‘78, che dovrebbe garantire il diritto all’aborto in Italia, determina una forma vergognosa di mediazione che, prevedendo l’obiezione di coscienza per i medici, ha di fatto reso tale garanzia mai effettiva. Anche durante la gestione autoritaria del Covid-19 abbiamo visto come la classe dominante non si sia fatta scrupoli a sospendere di fatto l’accesso all’aborto, garantendone la possibilità solo alle donne che potevano permettersi economicamente di ricorrere alla sanità privata. [5]
Mettere al centro la questione di classe vuol dire anche levare uno scudo nei confronti dell’egemonia della classe dominante: la borghesia imperialista e la sinistra borghese al suo servizio storicamente cercano di sussumere ciò che è più funzionale al mantenimento della propria egemonia, dividendo la classe. Parafrasando Clara Zetkin, ciò non vuol dire che le donne proletarie non debbano appoggiare le rivendicazioni del movimento femminile borghese, ma la realizzazione di queste rivendicazioni rappresenta solo “lo strumento come mezzo per il fine, per entrare in lotta ad armi pari a fianco del proletario”. [6] Anzi, riteniamo che la lotta per i diritti possa essere una potente leva se condotta con l’obiettivo di rafforzare la lotta generale della classe contro il sistema capitalista, ma una condizione necessaria affinché questo avvenga è che le donne proletarie si riconoscano come parte della classe.
Questo è ciò per cui, come comunisti, dobbiamo lavorare. Dobbiamo mettere al centro la questione di classe per costruire una nostra egemonia tra le masse e non lasciare che la questione di genere venga usata dalla classe dominante per il rafforzamento della propria egemonia di guerra.

La messa in discussione del diritto all’aborto

Nella fase attuale, in cui la guerra imperialista guida le politiche di tutte le borghesie, la messa in discussione generale del diritto all’aborto è ormai sotto gli occhi di tutti. Storicamente, infatti, il modello “dio, patria e famiglia” è stato utilizzato dalla classe dominante in tempo di guerra perché meglio risponde all’esigenza di disciplinamento ideologico ed irrigidimento dei rapporti sociali che la guerra richiede sul fronte interno.
Il rafforzamento della destra a livello mondiale (Meloni in Italia, Trump in Usa, Le Pen in Francia e così via) si lega al tentativo di affermazione di questa linea egemonica e di un modello sociale tradizionalista e patriarcale. Un tentativo di fascistizzazione della società che non investe solo la famiglia e il ruolo della donna (pensiamo al lavoro e alla chiusura degli spazi di contrattazione reale, al crescente autoritarismo nel mondo dell’istruzione, alle riforme sovrastrutturali e così via), ma che trova nell’attacco ideologico e politico alla conquista dell’aborto legale un tassello importante di questo puzzle. Gli esempi, purtroppo, sono tanti.
Nel 2022 la Corte suprema statunitense ha abolito la storica sentenza Roe v. Wade del 1973 che garantiva, almeno formalmente, il diritto all’aborto negli Usa a livello federale. “La Costituzione non conferisce il diritto all’aborto”, si legge nella sentenza, rimettendo ai singoli Stati la possibilità di legiferare in materia. Ad oggi sono tredici gli Stati in cui è già stato imposto un divieto totale all’aborto, e altri undici vorrebbero procedere sulla stessa strada. Si tratta di una svolta reazionaria importante, volta a ricostruire e consolidare il ruolo subalterno della donna e la sua immagine di madre e moglie, nel paese capofila dell’imperialismo occidentale.
Sempre nel 2022, l’Ungheria dell’ultrasionista Orban ha approvato un decreto che impone alle donne che intendono abortire di ascoltare il battito fetale.; nella Polonia russofoba l’aborto è praticamente illegale già dal 2020, quando una sentenza della Corte costituzionale ha bocciato la legge, già molto conservatrice, del 1993 che permetteva l’interruzione della gravidanza entro le 12 settimane, per gravi e irreversibili malformazioni del feto o sindromi che ne minacciassero la vita.
Anche nel campo dei Brics le cose non vanno meglio, anche laddove l’aborto legale è una conquista ereditata dalla fase socialista. Nella Russia di Putin, sono continui gli attacchi della chiesa ortodossa e della politica alla conquista ereditata dall’epoca sovietica. In Cina, si è passati dall’infame politica del figlio unico alla promozione dell’aborto solo per scopi terapeutici, come affermano le nuove linee guida delle autorità sanitarie nel 2022. E in paesi dove la conquista dell’aborto non è mai di fatto passata, come nel Brasile cattolico, avanza la legge che equipara penalmente all’omicidio qualsiasi aborto realizzato dopo 22 settimane di gestazione.
In tutto questo, il fattore demografico riveste un’importanza strategica non da poco, soprattutto in una fase di guerra dispiegata. Il peso quantitativo della popolazione autoctona all’interno dello Stato è, infatti, strettamente legato alla possibilità, per i servi più reazionari della borghesia imperialista, di giocare la carta sciovinista dell’identità nazionale e tradizionale per egemonizzare le masse. La drammatica decrescita della natalità che investe tutto l’occidente è un’evidenza ormai da anni. Solo per fare alcuni esempi, secondo le ultime statistiche Istat, nel 2023 le nascite in Italia sono calate del 3,6% rispetto all’anno precedente e del 34,2% rispetto al 2008; [7] negli Stati Uniti le stime ufficiali dell’Us Census Bureau riportano un tasso di natalità ai minimi storici dal 1900. [8] Dati che rappresentano il risvolto materiale, sociale ed esistenziale della crisi economica che investe i paesi a capitalismo avanzato e che produce impoverimento, precarietà, guerra e futuro incerto, soprattutto per i più giovani. La crisi demografica, che rischia sul lungo periodo di sostanziarsi in una crisi di riproduzione della forza lavoro, viene utilizzata dalla classi dominanti per misure che accentuano le sue stesse cause: immissione di forza lavoro immigrata a basso costo salariale, concorrenziale quindi con gli autoctoni, innalzamento dell’età pensionabile, chiusura di scuole. [9] Un cane che si morde la coda e di cui siamo noi a pagare il prezzo.
Il fattore demografico, infatti, da una parte attiene alla struttura concretizzandosi nel peso quantitativo delle forza-lavoro da cui estrarre plusvalore, dall’altra, su un piano sovrastrutturale, si lega indissolubilmente al disciplinamento ideologico delle masse in funzione di una loro mobilitazione per gli “interessi nazionali”. Per condurre la guerra sul fronte esterno, non serve soltanto carne da macello, è necessario, infatti, che le masse sul fronte interno siano pacificate e ben disposte ad accettare e, se possibile, supportare i progetti bellici. Il problema demografico si pone quindi, in primo luogo, in termini di egemonia politica, soprattutto nella fase attuale di avvitamento della crisi strutturale e di egemonia in cui l’occidente imperialista versa da tempo.
La maggior parte delle democrazie occidentali si trova oggi a dover fare i conti con il fatto che un’importante fetta dei propri giovani è costituita da immigrati di seconda o terza generazione [10] e il fallimento dei modelli di integrazione capitalistici, volti all’imposizione della cultura occidentale e alla pacificazione sociale, è ormai un’evidenza. Pensiamo alle rivolte nelle banlieue francesi o all’importanza che i giovani con in prima fila tanti immigrati di seconda e terza generazione – hanno avuto nelle mobilitazioni a sostegno della Resistenza Palestinese in tutto l’occidente imperialista. Si tratta di due esempi evidenti della crisi di egemonia delle borghesie occidentali, soprattutto tra i più giovani, a cui da destra a sinistra si cerca di porre rimedio.
Ed infatti, se una parte della borghesia imperialista rafforza l’attacco politico ed ideologico al diritto all’aborto in nome di concezioni patriarcali e della difesa della stirpe nazionale, sul fronte opposto un’altra fazione di borghesia cerca di costruire la propria egemonia giocando invece la carta della “difesa dei diritti”. È il caso della Francia di Macron che, dopo l’inserimento del diritto all’aborto in costituzione, si è autoproclamato paladino dei diritti delle donne e sotto questo vessillo si sta facendo promotore di una crociata per il riconoscimento formale del diritto all’aborto in Europa e non solo. “Combatteremo questa lotta nel nostro continente e oltre l’Europa, lotteremo affinché questo diritto sia universale e effettivo. Combatteremo questa lotta per tutte le donne”, [11] sono le pompose dichiarazioni del presidente francese. Il tentativo è chiaro: costruire un’immagine culturale laica e progressista in contrapposizione ai popoli dell’est e del sud globale che l’occidente “ha il dovere di civilizzare”. Una retorica che conosciamo molto bene e che è da lungo tempo utilizzata sul piano propagandistico dall’occidente imperialista, per foraggiare le proprie guerre in tutto il mondo, e che oggi trova il nemico diretto nella Russia e nell’islam politico.
Si scontrano due modelli che rappresentano due facce della stessa medaglia. Uno scontro usato in modo strumentale anche in occasione del G7 tenutosi in Italia a giugno, in cui il tema del diritto all’aborto è entrato a gamba tesa, nonostante i temi principali fossero la guerra in Ucraina e in Medio Oriente, innescando un siparietto tutto mediatico tra questi due modelli incarnati, per l’occasione, da Macron e da Meloni. In entrambi i casi, si tratta di modelli funzionali alle politiche di guerra, alla loro giustificazione, mistificazione e al radicamento egemonico nelle masse popolari.
Infine, è importante sottolineare la modalità con cui, quantomeno nel nostro paese, avviene l’attacco diretto all’aborto, foraggiato da settori governativi e istituzionali borghesi più reazionari. Questo affondo non è portato avanti nei termini di una formale illegalizzazione, che sarebbe probabilmente controproducente, ma quanto più incentrato sulla promozione di una cultura antiabortista. Il governo Meloni ha spalancato le porte dei consultori alle associazioni antiabortiste utilizzando un emendamento all’articolo 44 del decreto Pnrr per cui le regioni, nell’organizzare i servizi dei consultori, potranno “avvalersi anche del coinvolgimento di soggetti del terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità”. Un emendamento reso possibile delle varie falle della legge 194 che dovrebbe garantire il diritto all’aborto in Italia, ma che tanto sulla carta quanto nella pratica pone importanti limitazioni alla sua applicabilità. “Io non cancellerò la 194 e non modificherò la 194” [12] rassicura la Meloni, ma lo scenario che si paventa per le donne che intendono abortire è sicuramente peggiorato. Infatti, agli spostamenti di regione in regione per cercare un ospedale in cui sia possibile accedere all’operazione, ora si aggiungeranno quelli per la ricerca di un consultorio che permetta di ottenere il certificato di interruzione volontaria di gravidanza senza subire la vessazione delle associazioni antiabortiste.

Contro la reazione, per la rivoluzione

“La democrazia borghese è una democrazia fatta di frasi pompose, di espressioni altisonanti, di promesse magniloquenti, di belle parole d’ordine di libertà e di uguaglianza, ma tutto ciò in effetti dissimula la mancanza di libertà e di uguaglianza per i lavoratori e gli sfruttati”, scriveva Lenin. [13] Queste sue parole restano attuali più che mai.
Le “democrazie” occidentali vivono una crisi senza precedenti che trova soluzione solo nella guerra imperialista. Oltre alla crisi strutturale, la classe dominante deve affrontare l’acuirsi della crisi sul piano egemonico, per cui ogni borghesia imperialista ed ogni sua fazione ha bisogno di imporre un proprio costrutto egemonico per legittimare i propri piani di guerra. Sulla questione del diritto all’aborto si alimenta la contraddizione tra la difesa formale del diritto all’aborto per la propria legittimazione imperialista e l’attacco diretto come strumento per la mobilitazione reazionaria. Da una parte, quindi, la sinistra imperialista borghese cerca di sussumere le istanze di emancipazione delle donne, come la rivendicazione del diritto all’aborto, per la propria legittimazione imperialista; dall’altra, la destra reazionaria cerca di costruire la propria egemonia promuovendo una cultura antiabortista e la difesa della famiglia tradizionale in funzione della mobilitazione bellica. Due facce della stessa egemonia volta a giustificare e mistificare la guerra imperialista, per pacificare il fronte interno e fare in modo che le masse accettino e supportino i progetti bellici.
Dobbiamo essere in grado di smascherare questi tentativi della borghesia imperialista di insinuarsi nella classe, di utilizzare la contraddizione di genere e le istanze di emancipazione delle donne per i propri piani. Dobbiamo essere in grado, allo stesso tempo, di lavorare per costruire una nostra egemonia tra le masse e per neutralizzare i tentativi di costruzione di una mobilitazione reazionaria funzionale alla guerra imperialista.
Ribadiamo che lo Stato borghese non potrà mai garantire altro che diritti formali, che troveranno sempre il loro limite invalicabile in questo sistema economico che produce sfruttati e sfruttatori. Diritti in buona parte negati di fatto ai proletari e alle donne proletarie in particolare e che, comunque, sono sempre pronti ad essere ritrattati quando le esigenze lo impongono e o i rapporti di forza lo consentono.
Occorre imparare a parlare alle masse mettendo sempre al centro il discorso di classe; rivendicare tanto il diritto all’aborto reale per tutte, quanto il diritto alla maternità che questo sistema non potrà mai garantire. E soprattutto ribadire che la vera emancipazione potrà essere raggiunta solo con la rivoluzione, la quale può essere realizzata solo con il fondamentale ruolo attivo delle donne proletarie.


Note:

[1] Oms, Abortion care guideline, who.it, 2022

[2] Per una completa trattazione rimandiamo ad Antitesi n° 6, Donne e lotta di classe, p. 21

[3] C. Zetkin, La questione femminile e la lotta al riformismo, Gabriele Mazzotta Editore, 1972, p. 86

[4] E. Cirant, Marche, obiezione quasi al 100% e ostacoli all’aborto farmacologico: le storie delle donne costrette a spostarsi. E la Regione non si adegua alle linee ministeriali, ilfattoquotidiano.it, 15.6.24

[5] Per un approfondimento consigliamo la lettura dell’opuscolo Donne e guerra, disponibile trai materiali scaricabili dal sito antitesirivista.org

[6] Zetkin, op. cit., p. 86

[7] Istat, Indicatori demografici – Anno 2023, istat.it

[8] J. Nix, U.S. Births Last Year Fell to Lowest Since 1979, 25.4.24, time.it

[9] P. Ferrario, Negli ultimi dieci anni chiuse 1.162 scuole. Il dramma delle aree interne, avvenire.it, 30.3.24

[10] Secondo dati Eurostat, nel 2014 gli adulti nati in Europa, ma figli di persone nate in paesi extra-Ue, erano già più di 2,7 milioni. Fonte: elaborazione Openpolis su dati Eurostat, openpolis.it

[11] Corriere della Sera, Macron: «Vogliamo l’aborto nella Carta dei diritti dell’Ue. Non è la fine della storia, ma l’inizio della battaglia», video.corriere.it, 8.3.24

[12] Meloni: “Daremo alle donne il diritto di non abortire”. È polemica. Iv: “Come Orban”. SiVerdi: “In Umbria casi di ascolto del battito del feto”, repubblica.it, 15.9.22

[13] Lenin, L’emancipazione della donna, Edizioni Rapporti Sociali, 1998, p. 60


Il femminicidio sionista e la Resistenza delle donne

Non c’è genocidio senza sterminio di massa delle donne, di coloro cioè che hanno la possibilità di riprodurre l’esistenza stessa di un popolo. Sono proprio le donne uno dei primi bersagli dell’entità sionista. La volontà di sterminio coloniale, infatti, passa anche per quello che il Palestinian Feminist Collective definisce “genocidio riproduttivo”, che si concretizza nell’insieme dei crimini commessi in particolare contro le donne, col chiaro e mirato intento di annientarle moralmente, psicologicamente e fisicamente, per impedire la perpetuazione di un popolo sulla sua terra. Parliamo di violenze sistematiche che includono stragi di massa e omicidi selettivi, violenze sessuali e minacce di stupro, carcerazioni in condizioni inumane e degradanti, tra cui la privazione di cibo, medicine e prodotti igienici femminili, il divieto di vedere i figli partoriti in carcere, perquisizioni, torture, distruzioni delle abitazioni e delle strutture sociali come asili, scuole, ospedali, limitazioni al movimento, continue incursioni e assillanti controlli di polizia.
I funzionari del Ministero della Salute di Gaza riferiscono che ogni giorno 180 donne partoriscono senza acqua, antidolorifici e anestetici per il taglio cesareo e in condizioni di fortuna; non c’è elettricità per far funzionare le incubatrici e poiché l’approvvigionamento idrico è stato tagliato dall’inizio della guerra, la scarsità di acqua e di cibo favorisce il proliferare di diverse malattie. Persino le stime Onu riportano che a Gaza, su oltre 40.000 palestinesi uccisi, circa il 70% sono donne e bambini.
Però, è fondamentale sottolineare che le donne sono nel mirino sionista non solo perché fonte di riproduzione dell’esistenza stessa del popolo palestinese, bensì perché sono da sempre un soggetto attivo della Resistenza, parte di un processo reale che vede la stessa lotta al sionismo come aspetto principale di emancipazione della loro condizione femminile. Sono tanti, infatti, gli esempi di donne che hanno deciso di abbracciare la lotta armata, trovando nella lotta di liberazione anche la strada per la propria emancipazione. Il contributo delle donne alla lotta assume inoltre le forme più disparate: dal sostegno economico e logistico, alla solidarietà, fino alla propaganda e non solo. Le donne rivestono un ruolo fondamentale nel mantenere saldo e compatto il tessuto sociale palestinese: attraverso le relazioni sociali che riescono ad intessere, rivestono un ruolo chiave nel garantire la continuità della lotta, anche grazie alla loro capacità organizzativa e cooperativa e alle reti di solidarietà che sanno mettere in atto. Allo stesso modo sono il cuore pulsante della società palestinese, preservandone l’identità culturale di generazione in generazione ed educando i loro figli alla lotta: il fatto stesso di essere madri diventa un atto di resistenza.
Il coraggio e la determinazione delle palestinesi sono un grande insegnamento per tutte le donne del mondo: legando strettamente la lotta per la loro emancipazione alla lotta di liberazione coloniale ci insegnano ogni giorno che solo combattendo per cambiare questo sistema le donne proletarie potranno raggiungere la vera emancipazione e che, solo con il loro prezioso contributo, gli sfruttati vinceranno.