Il nemico alla testa
Per l’autonomia ideologica dei movimenti
“Controrivoluzione ed egemonia di classe” da Antitesi n.11 – pag.48
In continuità con i precedenti numeri, in cui abbiamo affrontato il nodo dell’egemonia di classe nella sua definizione gramsciana, vogliamo provare ad affrontare il tema della necessità di un’autonomia ideologica della classe proletaria, in particolare all’interno dei movimenti di cui come compagni facciamo parte.
La gestione borghese dell’epidemia ha palesato l’aggravamento di tutte le contraddizioni del sistema capitalista: quella di classe in primo luogo, quelle di genere e di razza e, a livello mondiale, quella tra paesi imperialisti e popoli oppressi e tra imperialismi rivali.
In particolare, guardando all’Italia, va registrato un inasprirsi del ricatto tra salute e lavoro, mentre aumentano esponenzialmente i morti sul lavoro, un accesso alla sanità fortemente compromesso, come pure quelli all’istruzione e al diritto alla casa. La contraddizione di genere, in particolare, si è evidenziata con un aumento delle violenze patriarcali contro le donne: dall’inizio di quest’anno ne sono state uccise più di 80 e le storie di queste persone dimostrano come i cosiddetti meccanismi di denuncia e protezione siano illusori, in un contesto in cui la violenza di genere è profondamente sistemica.
Purtroppo si è palesata una mancata autonomia politica dei movimenti rispetto alla gestione da parte della borghesia imperialista dell’epidemia da Covid19. Buona parte del movimento antagonista non ha preso fin da subito posizione contro le misure di disciplinamento di massa durante il lockdown prima e l’imposizione delle zone a colori poi. Mentre cresceva l’arbitrio delle forze dell’ordine e le massicce pratiche ed esercitazioni di controllo sul fronte interno prendevano corpo. L’accettazione del coprifuoco, dei divieti e dei restringimenti degli spazi di agibilità politica è un elemento che ci deve far riflettere e ci permette di evidenziare la tendenza a piegarsi all’egemonia della borghesia. Tanti “compagni” diventavano “sbirri di se stessi”, ridimensionando fortemente le proprie iniziative, anche quando queste potevano essere svolte in sicurezza. Alcune componenti addirittura esaltavano il lockdown come soluzione, quando questa misura colpiva esclusivamente il piccolo capitale (coerentemente agli interessi della grande borghesia) e ha invece preservato in larghissima parte le aperture delle attività legate al grande capitale.
In ulteriori casi più recenti, non poche prese di posizione espresse hanno mancato un’analisi di classe del Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) che in questo numero di Antitesi affrontiamo nella prima sezione e che prevede una pioggia di miliardi per la “transizione ecologica”. Anzi, alcuni hanno già iniziato a reclamare le briciole che possono arrivare dal recovery plan, senza criticarne l’impianto e le relative linee d’azione, accettando implicitamente l’idea di una ristrutturazione riformista da parte della borghesia imperialista che si appropria dei concetti di ecologia, salute, inclusione e parità di genere.
Un altro esempio attuale e pesante di subordinazione ideologica alle politiche del governo Draghi e della Confindustria lo abbiamo vissuto con l’istituzione del green pass.
Gran parte delle forze soggettive della sinistra di classe e del cosiddetto movimento antagonista non si è presa la briga nemmeno di fare una minima inchiesta in queste mobilitazioni, ma a priori ha sposato la narrazione mediatica che mette masse contro masse e dipinge i manifestanti come no vax tout court, persino laddove si susseguivano parole d’ordine d’unità tra vaccinati e non contro il lasciapassare verde, nonché tacciando le mobilitazioni come di destra, manipolate dai fascisti. Invece la classe lavoratrice, come si è visto con gli operai dell’Electrolux di Susegana (Tv) e i di portuali di Trieste, si è mobilitata contro questa misura autoritaria e non sanitaria, facendo chiarezza più di mille analisi e discorsi.
È interessante leggere le numerose contraddizioni che l’obbligatorietà del green pass ha scatenato all’interno del movimento stesso: abbiamo registrato un’invettiva plurale persino contro il collettivo Wu Ming, “reo” di dare uno sguardo oltralpe. “In Francia i Gilet Gialli sono contrari al pass sanitaire e alla gestione securitaria della pandemia assieme a tutti i partiti di sinistra Frabce Isoumise, il Partito comunista francese, il Nouveau Parti Anticapitaliste, Lutte Ouvrière ma si aggiunge anche il più grande sindacato intercategoriale, la Cgt, e il sindacato contadino Confederatino Paisanne, oltre, naturalmente, avverbio che qui in Italia non potremmo usare, alle più svariate realtà di movimento, anticapitaliste e della critica radicale. Collettivi di compagne/i intervengono alle mobilitazioni contro il pass per non lasciare spazio a soggetti più ambigui o di destra, e per fornire letture diverse da quelle di certo cospirazionismo sui vaccini. Non si tratta di “fulmini a ciel sereno”: oltralpe, anche nei momenti più cupi del 2020, non si è capitolato al pensiero unico virocentrico. (…) Qui invece “a sinistra” e nei giri “di movimento” (…) fin dal principio sono state egemoni letture ben diverse da queste, anzi, proprio opposte. Il virus è stato considerato, come imponeva la narrazione mainstream, l’unico problema di cui ci si dovesse occupare, “punto”. Ciò ha prodotto un deficit di critica ai provvedimenti governativi e alla gestione securitaria e diversiva dell’emergenza. (…) In molti casi si è trattato di sostegno esplicito al governo, di adesione a misure tanto repressive quanto epidemiologicamente insensate. Misure che indicavano all’opinione pubblica capri espiatori. Misure improntate alla demonizzazione dell’aria aperta, dove il contagio rasenta l’impossibilità, e c’erano già tutti gli elementi per capirlo l’anno scorso, mentre al chiuso si continuava a pendolare e lavorare”1.
Uno scenario, questo, in cui non pochi compagni plaudono al green pass senza vedere il salto autoritario in atto, il ricatto imposto ai lavoratori, la massima discrezionalità lasciata ad ogni tipo di tutore dell’ordine pubblico: in una parola il lasciapassare viene addirittura letto come soluzione alla pandemia e non come strumento di egemonia e di controllo in mano al nemico di classe.
Da tutto questo emerge chiaramente l’assenza dell’analisi delle contraddizioni di classe e della nemicità delle politiche del governo contro noi proletari. Questa mancanza di autonomia ideologica è un grande ostacolo per la nostra classe e un enorme favore alla classe dominante che tutela e preserva il sistema capitalista in cui viviamo.
La favola del capitalismo green
Se, come dicevamo, la pandemia ha palesato le contraddizioni sistemiche in cui siamo immersi, emerge con forza il ricatto tra salute e lavoro, interconnesso alla contraddizione capitale/ambiente.
La devastazione ambientale capitalista si evidenzia chiaramente dagli indicatori di atmosfera, oceani e ghiacci e che, nel nostro piccolo, vediamo ad ogni inondazione e con il forte aumento delle temperature.
“Il continuo aumento del livello del mare è uno dei fenomeni dei cambiamenti climatici già in atto, ‘irreversibili in centinaia o migliaia di anni’, affermano gli scienziati del Gruppo di lavoro dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc), nel rapporto “Cambiamenti climatici 2021 – Le basi fisico-scientifiche”, la prima delle tre parti del Sesto Rapporto di Valutazione che sarà completato nel 2022. Per le aree costiere ci si attende un continuo aumento del livello del mare per tutto il ventunesimo secolo che potrebbe portare inondazioni più frequenti e gravi e all’erosione delle coste. Eventi estremi riferiti al livello del mare che prima si verificavano una volta ogni cento anni, entro la fine di questo secolo potrebbero verificarsi ogni anno. (…) Con 1,5 gradi di riscaldamento globale, ci si attende un incremento del numero di ondate di calore, stagioni calde più lunghe e stagioni fredde più brevi. Con un riscaldamento globale di 2 gradi, gli estremi di calore raggiungerebbero più spesso soglie di tolleranza critiche per l’agricoltura e la salute. (…) Durante i lockdown dovuti alla pandemia si è avuta la riduzione in tempi brevissimi delle emissioni di inquinanti atmosferici e gas serra, ma mentre la riduzione delle emissioni inquinanti ha portato a un seppur temporaneo miglioramento della qualità dell’aria a livello globale, la riduzione del 7% delle emissioni globali di Co2, una riduzione enorme mai sperimentata nei decenni passati, non ha prodotto alcun effetto sulla concentrazione di Co2 in atmosfera e, conseguentemente, nessun apprezzabile effetto sulla temperatura del pianeta”. Così gli esperti dell’Ipcc spiegano che, mentre la riduzione delle emissioni dei principali inquinanti, che permangono in atmosfera per alcuni giorni o, al massimo, per alcuni mesi, ha un rapido effetto sulla loro concentrazione con un considerevole beneficio sulla salute umana e sull’ambiente in generale, al contrario, per contrastare il riscaldamento climatico sono necessarie riduzioni della concentrazione di Co2, che permane in atmosfera per centinaia di anni, e degli altri gas serra che siano sostenute nel tempo e di grossa entità fino alla completa decarbonizzazione”2.
Consci di una diffusa consapevolezza tra le masse, in particolare giovanili, di questa situazione, numerosissime multinazionali e altrettante aziende hanno iniziato ad eliminare la plastica dai prodotti, a dotare i propri dipendenti di borracce e a stanziare fondi per piantare nuovi alberi, scatenando la fiera dell’ipocrisia del capitalismo green.
Oltre a queste operazioni di marketing, il capitalismo green significa soprattutto ristrutturazione industriale coperta da fondi pubblici e da ipocrisia ideologica, come già dicevamo nell’articolo di prima sezione. Si pensi al caso di Eni, in testa alla classifica delle aziende che emettono maggiori gas climalteranti, con in cantiere altri due mega progetti spacciati per verdi. Infatti la multinazionale del cane a sei zampe vorrebbe costruire a Ravenna un enorme impianto Carbon Capture and Strorage: ovvero “cattura e stoccaggio di carbonio”: “un sistema per captare i fumi emessi da impianti industriali, separare l’anidride carbonica da altri gas, convogliarla in un impianto di raccolta, infine iniettarla nei giacimenti di idrocarburi ormai esauriti che si trovano di fronte alla costa adriatica. (…) Nelle intenzioni della multinazionale italiana, quello di Ravenna sarà il più grande impianto del genere in Europa e un hub per il sud Europa e il Mediterraneo. L’Eni afferma che costerà circa due miliardi di euro e per realizzarlo cerca finanziamenti pubblici. Per questo il progetto è candidato ai bandi del Fondo europeo per l’innovazione e soprattutto al Piano nazionale di ripresa e resilienza: circa 209 miliardi di euro di cui il 37% sarà destinato alla “transizione ecologica” per combattere il cambiamento del clima3.
Questa tecnologia, spacciata per “verde”, stimolerebbe gli investimenti verso le fonti fossili, perché la Co2 che si vuole immettere è prodotta da queste stesse, giustificata dalla scusa di controllare una parte delle emissioni. Catturando la Co2 si può arrivare alla produzione di idrogeno da combustibile fossile, ovvero il cosiddetto idrogeno blu, il cui sviluppo, non a caso, è previsto dai finanziamenti nel Piano di Ripresa e Resilienza. Il vantaggio per Eni sarebbe doppio, perché sotterrando la Co2 nei pozzi di trivellazione al largo di Ravenna eviterebbe i costi della loro dismissione, o della loro possibile riconversione, spostando il peso della manutenzione a lungo termine e della responsabilità dalle società energetiche al capitale pubblico del Pnnr. Un altro esempio, legato ad Eni e al sostegno istituzionale, è la “bioraffineria” di Stagno, in provincia di Livorno. Qui il progetto consiste nell’affiancare un progetto “waste to fuel” alla raffineria già esistente per bruciare i rifiuti di plastica ottenendone metanolo, un additivo del carburante. In sintesi, la Co2 sarebbe stata solo spostata dalla plastica in discarica ai motori delle automobili.
Spostandoci nel campo della finanza che si tinge di verde, non possiamo non nominare l’esempio di Banca Intesa San Paolo: dal 2015 la banca ha speso 12,2 miliardi di euro in progetti legati all’economia del fossile e dal 2017 al 2019 ben 2,6 miliardi di euro in progetti finanziati a sostenere il carbone4. Nonostante ciò l’istituto restituisce un’immagine di un ente sensibile alla sostenibilità ambientale, garantendo numerosi prodotti finanziari green: dai mutui agevolati per case di classe energetica A o B fino alla creazione di un Sustainability Bond per gli investitori, finalizzato a promuovere energie rinnovabili.
Questi esempi ci rimandano ad aziende che i movimenti ambientalisti e le avanguardie di lotta giustamente contestano con molta costanza e con numerose azioni dimostrative. Tuttavia, è bene sottolineare che le operazioni di greenwashing oggi non sono limitate e circoscritte a poche aziende senza scrupoli, bensì divengono pratica strutturale e sistemica, utilizzata ideologicamente per mantenere l’egemonia della classe dominante. Infatti, di fronte al ricatto tra lavoro e tutela ambientale, la borghesia imperialista prova a fornire la sua exit strategy nella “transizione verde”, anche come arma di distrazione di massa per ripulirsi la faccia e difendere il proprio modello di produzione; per ribadire, in ultima analisi, come il sistema capitalista sia l’unico possibile, persino quando le evidenze delle catastrofi “naturali” ne dimostrano la sua incompatibilità con la vita del pianeta.
Ancora una volta le parole sono importanti e ci dicono in quale direzione la borghesia imperialista voglia andare: prendiamo proprio il caso della “just transition”, ovvero l’idea di una transizione energetica giusta, che “non abbandoni nessuno” e si faccia carico delle comunità su cui peserà maggiormente l’impatto della decarbonizzazione. Un’idea che arrivava dai movimenti sindacali e ambientalisti d’oltreoceano, dagli Stati Uniti, a partire dagli anni Novanta e che oggi viene utilizzata dalle istituzioni europee, assieme al “Green Deal”. Come scritto sopra, dietro alla promozione di un’economia circolare che incentivi la produzione di energia da fonti rinnovabili, abbandonando le fonti fossili, l’Unione Europea afferma di voler ridurre le emissioni dei gas serra (del 40% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990) e arrivare alla neutralità carbonica entro il 2050. Questa transizione non viene più definita solamente energetica, bensì anche sociale ed è su questo doppio piano che l’Unione Europea ha promosso e diffuso l’idea del Green Deal.
La Presidente della Commissione Ue, Ursula Von Der Leyen, ha presentato a Strasburgo il nuovo Fondo per una transizione equa da 7,5 miliardi per gli anni dal 2021 al 2027 e il Piano di investimenti per la sostenibilità in Europa che vorrebbe mobilitare 100 miliardi negli stessi anni grazie al Just Transition Mechanism, arrivando a mille miliardi in dieci anni. La Commissione ha stimato che per raggiungere i target climatici energetici previsti per il 2030 serviranno 260 miliardi all’anno di investimenti aggiuntivi. Ad essere presi in maggiore considerazione sono quei settori e quei territori maggiormente dipendenti dalle fonti fossili, o che hanno una struttura industriale che produce alte quantità di gas serra (si veda l’esempio della produzione dell’acciaio). La stessa Commissione Europea stima che la decarbonizzazione potrebbe costare la perdita di 78 mila posti di lavoro a danno della classe operaia legata all’estrazione e all’utilizzo del carbone solamente nella parte polacca della Slesia, al confine con la Repubblica Ceca e la Germania. Se per questo l’Ue preventiva un sistema di ammortizzatori sociali che graveranno sulla collettività e non certo sulle aziende che finora hanno impunemente devastato ambiente e clima nel loro complesso, come compagni sarà necessario sostenere le resistenze che i lavoratori metteranno in campo, non per difendere le produzioni nocive, ma per puntare il dito contro i soli responsabili della crisi climatica. La linea di massa della borghesia che accompagna la cosiddetta just transition punta invece a richiedere la collaborazione di classe e a rimodulare i comportamenti individuali. Va chiarito, all’opposto, che il problema non risiede nei comportamenti delle singole persone: un proletario, o tanto meno un sottoproletario, non può scegliere se vivere in centro o in periferia, se mangiare biologico o fare la spesa al discount, se comprare un’abitazione coibentata o ad alta dispersione termica. La realtà è fatta di sempre più proletari spinti a vivere in periferia, dove i canoni degli affitti sono più bassi, ma allo stesso tempo scarseggiano i servizi e le reti di trasporto pubblico; di conseguenza l’auto si rende indispensabile, con un aumento delle emissioni di carbonio.
La questione della transizione verde nella ristrutturazione capitalista va letta anche nel rapporto che essa ha con il piano militare: il rincaro delle bollette, l’inquinamento, la ricerca e lo sfruttamento ambientale sono tutte facce della stessa medaglia che, ad esempio, la già citata Eni ben rappresenta. In un contesto di aggravamento della crisi del sistema capitalista, la grande borghesia non può che rispondere con le sue stesse ricette: riforme lacrime e sangue sul fronte interno e guerra imperialista sul fronte esterno. Dietro la nuova maschera green, come abbiamo scritto sopra, si presenta un programma di ristrutturazione strategica e speculativa del capitale. L’istituzione del ministero della transizione ecologica è lì a dimostrarcelo: è il tentativo della borghesia di riassestamento, con una nuova veste che nasconda le nefandezze e l’indissolubile legame con la guerra imperialista. Questo dicastero è stato istituito proprio quest’anno, andando a sostituire il ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e ha assunto la competenza strategica sulle questioni energetiche, prima assegnate al ministero dello sviluppo economico. Parliamo di un cambiamento repentino legato non tanto all’obiettivo della decabornizzazione, quanto alla necessità di rapido accaparramento dei fondi del Recovery Plan.
In questo contesto, alla faccia del “green”, il ministro Roberto Cingolani, si è espresso a favore dell’idrogeno prima citato, nonostante sia una “soluzione” già messa in dubbio proprio per la scarsa sostenibilità. In particolare, durante un evento di Italia Viva, si è spinto ad affrontare il tema del nucleare dichiarando che “si stanno affacciando tecnologie di quarta generazione, senza uranio arricchito e acqua pesante. Ci sono paesi che stanno investendo su questa tecnologia, non è matura, ma è prossima a essere matura. Se a un certo momento si verifica che i chili di rifiuto radioattivo sono pochissimi, la sicurezza elevata e il costo basso è da folli non considerare questa tecnologia”. Senza fornire dati in merito, il ministro, che dovrebbe occuparsi di transizione verde, ha affermato: “Il mondo è pieno di ambientalisti radical chic ed è pieno di ambientalisti oltranzisti, ideologici: loro sono peggio della catastrofe climatica verso la quale andiamo sparati, se non facciamo qualcosa di sensato. Sono parte del problema, spero che rimaniate aperti a un confronto non ideologico, che guardiate i numeri”5.
Si tratta di affermazioni in cui non c’è nulla di cui stupirsi o indignarsi, se guardiamo al curriculum vitae del ministro dove rintracciamo, tra le altre, la nomina alla posizione di Chief Technology & Innovation Officer di Leonardo, azienda leader nella produzione di velivoli da combattimento, come i noti cacciabombardieri già acquistati da Israele6.
In questa società non esiste bene comune e, per sgomberare il campo dalle illusioni di una transizione giusta, va sottolineato chiaramente che capitalismo e sopravvivenza della specie non possono convivere.
L’oppressione imperialista è la causa dell’immigrazione
Anche l’opposizione alle guerre imperialiste che notoriamente sono legate allo sfruttamento delle materie prime è un tema profondamente interno al movimento di classe. Lo dimostrano le mobilitazioni contro basi e poligoni, contro le servitù militari o contro i traffici di armi a cui i lavoratori portuali, a partire da Genova, si sono opposti, come abbiamo visto nella seconda sezione di questo numero. Tuttavia, anche in questo caso, il campo va sgomberato dalle influenze delle ideologie borghesi all’interno dei movimenti. È il caso dell’emigrazione dalle periferie verso i centri imperialisti, che viene considerata spesso solo sotto la lente d’ingrandimento della “libertà di movimento” e non in quanto diretta conseguenza delle guerre e dei saccheggi imperialisti nei paesi aggrediti. Inoltre non viene considerato la ricaduta principale di questo fenomeno, che determina il formarsi di forza lavoro sottopagata da immettere nel mercato del lavoro, con conseguente abbassamento generale dei salari.
Il controllo dei flussi migratori è funzionale proprio alla gestione di masse di diseredati, aprendo o chiudendo i rubinetti a seconda delle fasi economiche e politiche, selezionandoli e ponendo già in essere una pressione coercitiva che dovrebbe accelerare il loro adeguarsi ad essere manodopera sottopagata nei centri imperialisti. Nel Mediterraneo, i periodici attacchi giudiziari alle attività di soccorso non direttamente riconducibili agli Stati rientra in questo processo. Pensiamo all’apertura, dal 2004 ad oggi, di circa venti inchieste persino contro le organizzazioni non governative, accusate di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Molti compagni si sdegnano di fronte a queste accuse, enormemente amplificate dai mass media. Da parte di questi ultimi assistiamo, infatti, al rafforzamento della tendenza a sovrapporre la tratta di esseri umani che implica costrizione e sfruttamento (trafficking) e il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, che invece fa riferimento unicamente alla facilitazione dell’attraversamento dei confini (smuggling). In questo senso è utile fare un salto indietro, ad otto anni fa quando il naufragio del 3 ottobre a Lampedusa costò la vita a 368 persone (oltre ad altri dispersi). La gestione umanitaria che ne seguì fu il pretesto per promuovere la missione militare di soccorso nostrana, denominata Mare Nostrum, sul fronte esterno e un’accelerazione securitaria nel dibattito pubblico interno inerente alla questione immigrazione. Un percorso che sfocerà nell’adozione del Decreto Sicurezza Bis tanto caro a Salvini, particolarmente impegnato nella chiusura dei porti e dei sequestri amministrativi delle navi. Tuttavia ciò che talvolta è sfuggito a parti del movimento è il continuum che Salvini ha rappresentato: arriva dopo il mandato di Minniti nel governo Gentiloni, artefice di accordi per contenere l’emigrazione con metodi detentivi, e viene confermato anche dal governo Pd-Cinque Stelle, che mantiene le sanzioni contro le Ong e la competenza sul divieto di ingresso nelle acque territoriali nelle mani del ministro dell’interno.
Arrivando ad oggi, sottolineiamo che tuttora, col governo Draghi, senza troppo clamore, proseguono i morti in mare e i fermi amministrativi della Guardia costiera a danno delle navi delle organizzazioni non governative, con i conseguenti lunghissimi fermi e i relativi costi.
Quindi ciò che si palesa è la corrispondenza, ai vari cambi di colore di governo, delle medesime politiche securitarie, espressioni delle necessità della borghesia di controllo dei confini e di scarico del malcontento sociale sugli immigrati, con l’obiettivo di mettere masse contro masse e fomentare la mobilitazione reazionaria, sviando così l’attenzione dai veri problemi della classe lavoratrice che potranno essere affrontati solo con l’unità di tutta la classe sfruttata.
E se ciò accade sul fronte interno, da parte nostra, da comunisti, serve affermare e conseguentemente praticare forme di lotta contro la guerra imperialista, al fianco dei popoli aggrediti, pena lo sfruttamento e il saccheggio indisturbato di territori e risorse e il conseguente abbandono della propria terra da parte degli autoctoni.
La guerra va chiaramente inquadrata e letta come necessità del capitalismo e non come disgrazia casuale: fintanto che esisterà questo sistema, le sue crisi strutturali potranno sfociare nella guerra imperialista. Questa consapevolezza non è scontata, tanto meno diffusa, se pensiamo che persino tra compagni, in occasione di presidi solidali con il popolo afghano o con quello palestinese, è facile rintracciare una retorica sulla pace che non punta il dito contro il nemico principale di tutti i popoli: l’imperialismo occidentale con a capo gli Usa. E sono occasioni in cui, a oltre cent’anni di distanza, le parole di Lenin ritornano ancora attuali: “Il pacifismo e la propaganda astratta della pace sono una delle forme di mistificazione della classe operaia. In regime capitalistico, e specialmente nella fase imperialista, le guerre sono inevitabili. D’altra parte i socialdemocratici (inteso come comunisti, ndr) non possono negare l’importanza positiva delle guerre rivoluzionarie (…)”7.
La necessità di un’autonomia ideologica
“Le crisi economiche (…) possono creare un terreno più favorevole alla diffusione di certi modi di pensare, di impostare e risolvere le questioni che coinvolgono tutto l’ulteriore sviluppo della vita statale”8.
Lo vediamo nella situazione attuale di accelerazione della crisi nella quale si sviluppano mobilitazioni e proteste, le masse riflettono sulla loro situazione e cercano risposte. Il terreno è fertile per seminare le idee giuste, quelle della nostra classe. Ed è in questo senso che le lotte che si sviluppano dalle contraddizioni oggettive per i compagni e per le masse possono diventare “scuole di comunismo”. I comunisti possono imparare a relazionarsi dialetticamente con i movimenti, a leggere la realtà facendo inchiesta, per poi elaborare una linea concreta per agirvi all’interno. Solo agendo dentro ai movimenti con una linea concreta e come componente di classe si potrà ostacolare il tentativo da parte della borghesia, in particolare della sinistra borghese, di esercitare la sua egemonia. Questo può avvenire solo scrollandosi di dosso le influenze dell’ideologia della classe borghese di cui abbiamo scritto finora. Le masse possono imparare, con la lotta, che per vincere devono organizzarsi e che anche se vinceranno su obiettivi particolari sarà una vittoria a breve termine e dovranno lottare per cambiare il sistema: i comunisti devono loro prospettare questa soluzione avendo ben chiaro che il loro compito non è quello di risolvere le contraddizioni dei capitalisti, scadendo nel riformismo, ma quello di esacerbarle.
Da comunisti va dato sempre sostegno alle spinte antagoniste delle masse: la questione principale non è il fine e/o la modalità di mobilitazione delle masse popolari, ma risiede nel fatto stesso che esse si muovano e nelle condizioni che tale movimento mette in discussione. Le lotte economiche vanno considerate in dialettica con la lotta politica per la prospettiva di rovesciamento del sistema capitalista. In altre parole i comunisti si relazionano ad esse perché sono indispensabili al radicamento tra le masse, la rivoluzione la fanno le masse dirette dai comunisti e la nostra azione immediata è subordinata all’accumulazione rivoluzionaria. Ciò che muoviamo oggi nel concreto per contrastare la classe dominante serve principalmente per rovesciarne il potere domani.
In conclusione, dalla subordinazione ideologica alla borghesia imperialista, in quanto classe dominante, si esce solo con l’egemonia della classe operaia, che può ergersi a classe d’avanguardia delle masse popolari nel suo complesso. Non si può pretendere di esercitare un ruolo rivoluzionario se si ci subordina ideologicamente alla borghesia imperialista: un’egemonia autenticamente antagonista a quella della classe dominante si costruisce solo a partire dall’autonomia soggettiva rispetto a quest’ultima.
1 Wu Ming, Kit antifascista contro il green pass, wumingfoundation.org, 17.8.2021
2 Centro Studi per la Scuola Pubblica Padova, Cambiamenti climatici Il rapporto 2021, cesp-pd.it, 10.8.2021
3 M. Forti, Ravenna è il banco di prova per il futuro energetico in Italia, internazionale.it, 13.4.2021
4 Extintion Rebellion Torino, Azione Intesa San Paolo, extinctionrebellion.it, 12.6.2020
5 Ambiente, il ministro Cingolani apre al nucleare: “Da folli non considerarlo”. Ma Bonelli: “Lo sconsiderato è lui”, repubblica.it, 1.9.2021
6 Si veda anche A. Mazzeo, Caccia italiani di Leonardo-Finmeccanica per l’infinita guerra in Nagorno-Karabach, pressenza.com, 21.10.2020
7 V. Lenin, La conferenza delle sezione estere del Partito Operaio Socialdemocratico Russo, 1915, marxist.org
8 A. Gramsci, Quaderni dal carcere, edizioni Einaudi, 1975, p.1587