Il nemico è in casa nostra!
“Editoriale” da Antitesi n.18 – pag.3
La classe dominante del centro imperialista è in difficoltà: non può più procedere come faceva prima, deve operare delle rotture e dei salti rispetto all’ordinario corso degli eventi storici. Questi salti sono necessari per rispondere alle crisi che attraversano le formazioni occidentali sul piano economico strutturale e, di riflesso, sul piano politico ed egemonico.
Il governo Meloni, che godeva sino a ieri di una certa stabilità, è oggi messo in difficoltà, costretto a mediare tra l’Unione Europea e il cambio di corso della politica statunitense. L’esecutivo cerca di mantenere una posizione di mediazione, sempre più difficile da conservare con l’aggravarsi della crisi del sistema nel suo complesso. I problemi non mancano all’interno della maggioranza, dove la Lega di Salvini spinge per mettersi alla coda di Trump e le altre forze intendono fare da garanti per Bruxelles. La cosiddetta opposizione è divisa: si va dagli europeisti guerrafondai come Calenda ai pacifinti come Conte, con in mezzo il Pd che spinge per la difesa comune europea invece del piano di riarmo centralizzato ma appaltato ai singoli Stati.
In ogni caso, la svolta di Trump ha obbligato il dibattito pubblico europeo a mettere al centro la questione della guerra. La mobilitazione reazionaria europeista del 15 marzo né è un esempio, tentando di costruire un patto corporativo di guerra con i vertici di Cgil, Cisl e Uil. Il vecchio adagio imperialista “se vuoi la pace prepara la guerra” è diventato il mantra di tutti quelli che cercano di fronteggiare la crisi implementando un’economia di guerra, mascherando la scelta guerrafondaia e il rilancio imperialista antirusso con ornamenti pacifisti. Nella situazione attuale vanno in crisi le varie forze e linee riformiste, sindacati in testa e sinistri vari, costretti a piroette di ogni tipo per mettersi alla coda dell’imperialismo europeo. Landini e la burocrazia della Cgil spicca in questo ruolo: mentre si prepara ai referendum primaverili contro alcuni articoli del Job Act, si muove al fianco di chi quella riforma l’ha proposta, votata e difesa sino ad oggi.
I vari tentativi di cooptazione nei piani di riarmo si scontrano, però, con il rifiuto genuino delle masse popolari a questi progetti, con la stessa base dei sindacati confederali e dell’Anpi che non vogliono essere arruolati. Il consenso attorno alla guerra non c’è. Da qui la necessità di imporlo con un sempre maggior ricorso al dominio, con il restringimento degli spazi di agibilità, con i pacchetti sicurezza, le zone rosse e tutto quello che spinge il fronte interno verso lo Stato di guerra.
La crisi in Europa tende a inasprirsi per la particolare conformazione dell’aggregato imperialista Ue. La concorrenza tra i diversi monopoli nazionali stenta a far prevalere l’uno sull’altro, attraverso politiche protezioniste e keynesismi nazionali, in una fase nella quale l’interventismo statale è diventato regola per i concorrenti statunitensi e cinesi. L’ordoliberismo europeo era il consensus politico nel quale “naturalmente” l’imperialismo tedesco esercitava la supremazia economica su tutta Eurolandia, trascinandola nella competizione globale.
Ma la perdita della scommessa della guerra alla Russia, ovvero dello sfondamento ad est per allungare le mani sulle risorse dell’Eurasia come canale di uscita dalla crisi, ha scompaginato tutto. Il suo riverbero sulla Germania si sta trasmettendo all’Ue intera e trova espressione nell’instabilità dei governi e nella perdita di consenso delle formazioni politiche tradizionali.
L’appello di Draghi al parlamento europeo al grido di “fate qualcosa!” e il programma Rearm Europe da 800 miliardi di euro presentato da Ursula von der Leyen, riflettono l’urgenza e il rischio che l’aggregato Ue imploda o perda qualsiasi spazio di autonomia nel contesto attuale. Il destino del vecchio continente ruota attorno al farsi spazio a livello mondiale grazie a un’enorme leva finanziaria debitoria a favore dell’acquisto di armi. Le scelte che le formazioni europee sono chiamate a fare chiederanno dei salti qualitativi imprevedibili sul piano strutturale e sovrastrutturale, approfondendo in maniera sempre più precisa il passaggio allo Stato di guerra che l’instabilità multipolare impone. Sulla necessità del keynesismo militare pare che non ci sia alcun dubbio; ciò che divide le classi dominanti a livello continentale è chi dovrà pagare l’indebitamento comune e come questo verrà utilizzato, se a livello nazionale o sovranazionale, se per formare un esercito europeo oppure per armare gli eserciti nazionali, se questo piano rientra nella sempre più divisa Nato o se si pone come alternativa. Insomma, ceduta la trincea ucraina, devono trincerare l’Ue intera.
A fare le spese della sconfitta in Ucraina nel confronto con la Russia sono anche gli Usa che avevano investito sull’offensiva a est con l’amministrazione Biden. A fronte di ciò, oggi, la nuova amministrazione Trump decide di trattare con Putin, puntando a capitalizzare i successi fin qui raggiunti nel disaccoppiamento economico tra Ue e Russia. Trump vorrebbe sospendere la guerra portando a casa altri risultati: l’assunzione della responsabilità economica e militare dell’aggregato europeo nel contenere l’imperialismo russo; assicurarsi la dipendenza energetica europea verso gli Usa (conseguente alla rottura delle relazioni euro-russe); e, infine, il saccheggio delle risorse dell’Ucraina, o di quello che ne rimane, come contropartita del sostegno militare dato.
L’obiettivo di colpire la Russia per colpire tutti i Brics non è stato raggiunto, anzi, il legame tra Mosca e Pechino si è rafforzato così come il loro sistema di alleanze. Nel prenderne atto, la nuova linea di Washington oggi punta a dividere la Russia dalla Cina, all’interno di un programma che mira a disarticolare il campo di alleanze che il dragone si è costruito, sfruttando la perdita di egemonia statunitense.
Il mondo di oggi si sta ridefinendo sulla base delle caratteristiche del caotico multipolarismo di guerra, nel quale ogni attore gioca la propria partita. Trump sfrutta il caos per costruire un ordine su nuove basi, con un riflesso chiaro nelle relazioni con il proprio campo alleato: lo dimostra l’atteggiamento frastornato delle cancellerie europee al nuovo corso della politica statunitense. La nuova amministrazione statunitense punta alla concentrazione imperialista del capitale dentro i confini nazionali. La politica di dazi, anche verso i tradizionali alleati, serve a riportare la produzione in patria, per tentare di dare una base, nei termini di produzione di plusvalore, all’altrimenti sempre più insostenibile indebitamento statunitense e, in generale, a una sfera finanziaria sovraccumulata. Quanto detto dimostra come l’inversione di Washington, puntando alla concentrazione imperialista del capitale, è tutt’altro che l’apertura ad una fase di “pace multipolare” che si vuole dipingere. Lo sanno bene i palestinesi, gli yemeniti e tutti i popoli del Medio Oriente che stanno resistendo ad una nuova fiammata di aggressione genocida yankee e sionista. Solo sull’appoggio all’entità sionista l’occidente è tuttora compatto, con qualche distinguo formale di Bruxelles e con l’entusiasmo per la pulizia etnica di Gaza da parte di Trump. Su tutto il resto, America First divide le due sponde dell’Atlantico e minaccia il futuro stesso della Nato, come alleanza che va da Washington ad Ankara passando per Bruxelles.
L’aggravamento delle contraddizioni tra Usa e Ue crea dei problemi al piano del governo Meloni che ha cercato di ritagliarsi il proprio spazio nel multipolarismo di guerra. Il mantenimento dei contingenti in Mali e Niger, le relazioni bilaterali con le petromonarchie arabe, il piano Mattei, l’alleanza con Tripoli, il rapporto privilegiato con Trump ecc. hanno l’obiettivo di incunearsi in maniera creativa negli spazi che le contraddizioni offrono, guadagnando una propria autonomia, frutto di una diplomazia economica e interventismo militare.
Il governo Meloni cerca di dare un colpo al cerchio ed uno alla botte: da un lato rivendica il sostegno militare all’Ucraina e dall’altro cerca di porsi come mediatore con gli strappi di Trump. Dal punto di vista interno, siamo in una situazione in cui i riverberi della guerra continuano a mordere sotto ogni punto di vista: dal costo del gas che ha ripreso a lievitare, all’aumento delle spese per le esigenze belliche, alla crisi del settore manifatturiero che ha raggiunto due anni consecutivi di calo, portando i livelli di produzione industriale al periodo della pandemia. Da nord a sud si moltiplicano le ore di cassa integrazione e le vertenze contro i licenziamenti. L’unico comparto che si salva è quello alimentare che trema di fronte ai dazi statunitensi. Settori di borghesia industriale italiana, uno dei referenti del governo in carica, non vedrebbero l’ora di poter tornare a fare affari con Mosca, sopratutto adesso che la locomotiva tedesca è in forte rallentamento. La posizione di Salvini vuole rappresentare queste istanze, ma le sanzioni rimangono e dunque solo il piano di riarmo europeo rappresenta un trampolino per lo sviluppo industriale nel quadro del capitalismo di guerra. Lo Stato e l’economia di guerra vanno a definirsi maggiormente modificando la struttura e la sovrastruttura così come la conoscevamo: questo legame che va a configurarsi fatto di piani di conversione delle fabbriche da civile a militare, leggi sempre più repressive, militarizzazione, militarismo e mobilitazione reazionaria servono al nostro nemico per rappresentarsi più forte di quello che è.
Il nostro nemico principale – sia chiaro – non sono gli eurocrati di Bruxelles, la tanto criminale quanto contraddittoria Nato e neppure l’imperialismo statunitense o i macellai sionisti. Il nostro nemico principale è la classe dominante italiana, ovvero l’imperialismo italiano e dunque il suo Stato, che oggi è incarnato dal governo Meloni e ha la sua continuità di linea reazionaria nella presidenza Mattarella. Ue, Usa, Nato e regime sionista sono il sistema di alleanza che questo nemico detiene per ricavarsi lo spazio globale nel processo di guerra imperialista, partecipando e talvolta promuovendo tale stesso processo. Il nostro compito di comunisti all’interno della formazione economico-sociale italiana è combattere la classe dominante italiana, colpire l’anello italiano nella catena dell’imperialismo globale, come contributo all’internazionalismo proletariato nell’attuale fase di guerra. È il nemico che abbiamo davanti, a casa nostra, quello che colpisce direttamente la nostra classe, che ci vuole arruolare per la guerra e che reprime le nostre lotte. D’altronde mai come ora, la classe dominante italiana rappresenta, nel suo sistema di alleanze, una sintesi dei principali nemici dei popoli del pianeta, visto l’obbiettivo di Meloni di essere referente di Trump, garante per Bruxelles e fedele alleato per Netanyahu. Combattendo la classe dominante italiana, combattiamo le peggiori forze reazionarie globali di questa fase storica.
Per fare la rivoluzione proletaria dobbiamo abbattere il nemico in casa nostra, la “nostra” borghesia imperialista. È una consapevolezza necessaria per raccogliere e organizzare su una linea rivoluzionaria una leva di comunisti che possano rimettere l’assalto al cielo all’ordine del giorno.