Segreti d’Italia
Menzogne fasciste e verità della Resistenza
“Ideologia borghese e teoria del proletariato” da Antitesi n.00 – pag.67
Negli ultimi mesi in diverse sale cinematografiche sparse per la penisola, è stato trasmesso l’ultimo lavoro del regista Antonello Belluco “Il segreto d’Italia”, preannunciato da 4 anni, tra non poche – e doverose – polemiche.
“Il cuore nel pozzo” firmato Rai, “Magazzino 18” di Simone Cristicchi e ancor prima i testi di Gianpaolo Pansa, sono solo alcuni degli esempi delle fiction, degli spettacoli e delle pubblicazioni che precedono questo film e che mirano a riscrivere il passato, camuffati dai ben più nobili intenti di “voler rivelare tutta la verità” o di “voler emozionare” (come dichiarato da Cristicchi).
Come altre produzioni di simile contenuto, questo film ha riscosso scarso successo, ma la sua stessa produzione e la grande promozione a suo favore rendono bene l’idea della pervasività del processo di riscrittura storica in atto nel nostro paese.
Il lungometraggio ambientato a Codevigo, in provincia di Padova, tratta dell’esecuzione di 136 militi della Guardia Nazionale Repubblicana, delle Brigate Nere e aderenti al Fascio da combattimento, tra il 28 aprile e la metà di giugno del 1945.
L’ex sindaco di Codevigo Gerardo Fontana, scomparso due anni fa, coautore della sceneggiatura, ha proposto la storia al regista Belluco, figlio di profughi fiumani, il quale, dal canto suo, ha dichiarato di aver colto l’occasione di mettere in scena la sofferenza che molti italiani hanno dovuto patire e che, altrimenti, sarebbe stata “dimenticata”. In alcune delle interviste rilasciate, Belluco afferma infatti che la gente necessita, oltre ai libri, anche “dell’immagine” e lui ne ha fatto senz’altro un uso politico ben preciso. Il concetto da lui espresso ricorda molto il Gasparri intervistato in merito alla produzione sopra menzionata “Il cuore nel Pozzo”: quando gli venne chiesto il motivo della scelta di una fiction e non di un documentario, l’allora Ministro delle Telecomunicazioni, che tanto aveva voluto un film sulle foibe, dichiarò proprio che il popolo necessita di identificarsi empaticamente nei protagonisti: anche (o soprattutto, se a parlare è Gasparri) se i protagonisti sono fascisti.
Nel film “Il Segreto d’Italia”, i partigiani appaiono come feroci assassini, responsabili di irruzioni nelle case di famiglie “normali”, di stupri e di fucilazioni notturne sommarie in mezzo alla campagna. La vita di una giovane, che porta come nome nientepopodimeno che “Italia”, allora quindicenne, viene stravolta dalla “ferocia” comunista. In questo frangente, saltano particolarmente all’occhio le grottesche espressioni facciali adottate dagli “attori” che interpretano i resistenti.
Questi ultimi sono, secondo il regista, gli esecutori materiali di una “strage di innocenti”. Ma innocenti quei morti non lo sono affatto. Nel maggio 1962, infatti, l’Associazione nazionale famiglie caduti e dispersi della Repubblica Sociale Italiana inaugurò un ossario nel cimitero di Codevigo, in cui sono seppelliti i resti di 114 corpi (tra cui solo 16 ignoti). L’identità politica dei restanti 98 corpi è, dunque, chiara: erano repubblichini che, in combutta con l’occupante nazista, furono responsabili di crimini, quelli sì indiscriminati, contro la popolazione civile e il movimento di Resistenza.
La decontestualizzazione, le consapevoli falsità e l’anticomunismo che traspaiono da “Il segreto d’Italia”, unite dal solo fine di dipingere i fascisti come innocue vittime e i partigiani come spietati carnefici, non possono non ricordare l’opera di revisionismo storico più eclatante del nostro tempo, la “Giornata del ricordo”, data voluta e pompata in maniera bipartisan dalle forze politiche di destra e di “sinistra”, in cui si ricordano i fascisti giustiziati e talvolta gettati nelle foibe carsiche durante la fine della Seconda guerra mondiale “in quanto italiani” – e pertanto “brava gente” – discreditando in questo modo la Resistenza partigiana comunista sia italiana che jugoslava.
Così come, anno dopo anno in occasione del 10 febbraio, la cosiddetta “Giornata del ricordo”, aumentano magicamente i numeri degli infoibati (arrivando a condurre intere scolaresche in visita alla foiba di Basovizza, dove in realtà non è mai stato infoibato nessuno), così anche per l’esecuzione di Codevigo le cifre si rincorrono di anno in anno. C’è chi parla di 136 vittime, chi di 168 e chi di 365. Mentre un documento dell’arcidiocesi di Ravenna-Cervia ipotizza addirittura la cifra di 900 morti! Ovviamente si tratta molto spesso di dati citati da fonti, come “Il Giornale” (!), poco attendibili, per usare un eufemismo.
La storiografia filofascista azzera il tempo dei fatti, perché non considera il passato e il presente, annullando i legami causali tra un evento o un processo, rimuovendo e occultando ciò che non è funzionale si sappia. Si assiste ad un rovesciamento delle parti: ai fascisti vengono trovate innumerevoli giustificazioni per le loro scelte più orrende. Mentre la memoria di chi li combattè, a costo della propria vita, viene infangata: libri e libri sono stati pubblicati negli ultimi anni da dubbi “storici” sul cosiddetto “Triangolo della morte”, “le Foibe”, “Via Rasella”, “Piazzale Loreto” a voler nascondere invece i crimini del fascismo in Italia e nei paesi invasi e occupati come i massacri, le deportazioni, gli stupri, le distruzioni, l’italianizzazione forzata.
Non deve stupire, però, che oggi la memoria partigiana sia infangata e mistificata. Questo è un processo di lunga durata e in continuità con un passato che risale addirittura ai primissimi anni successivi alla Liberazione. La linea politica che la dirigenza del Partito Comunista Italiano ebbe fin da subito dopo la conclusione della guerra di Resistenza – in particolare con l’amnistia ai fascisti (già allora si parlò di pacificazione) varata nel giugno del 1946 da Togliatti in quanto Ministro della Giustizia – tese a impedirne la continuità, innanzitutto negando la necessità dell’epurazione dall’intera società degli esponenti del passato regime e della Repubblica Sociale. Fu, all’opposto, proprio la volontà di annientare questi nemici del popolo che spinse gli antifascisti a fare giustizia delle bestie nazifasciste, in continuità con la vittoria appena ottenuta grazie alla sollevazione in armi. A Liberazione avvenuta la scelta del ceto dirigente del Pci dell’epoca vanificò la volontà del Clnai (e dei Cln locali) di procedere alle sentenze e ad una decisa epurazione dagli incarichi pubblici o societari di chiunque fosse stato corresponsabile con la dittatura prima, e con la Rsi e l’occupazione nazista poi. Successivamente, il tradimento generale e storico delle aspettative di giustizia popolare che l’amnistia di Togliatti rappresentò, va inquadrata come primo passo della linea revisionista della “via italiana al socialismo” che mutò definitivamente la natura del Pci da partito comunista a partito riformista.
Già nella guerra di liberazione, il Pci aveva rinunciato alla propria autonomia di programma e di prospettiva – pur rappresentando con i propri quadri e militanti la vera struttura reale dell’attivismo partigiano, in nome di una linea che sacrificava tutto per il fronte antifascista e antitedesco. [1] Appaiono esplicite, a tal proposito, le disposizioni impartite il 3 agosto 1944 dal Comando generale dei Distaccamenti e delle Brigate d’assalto “Garibaldi” a tutte le proprie formazioni: la bandiera è il tricolore italiano, il saluto è quello militare in vigore nell’esercito italiano (si eviti il saluto a pugno chiuso), si cantino canzoni patriottiche, non si indossino distintivi, nessuna bandiera di partito, niente stelle rosse, niente falci e martello, niente bandiere rosse, in nome di una “lotta comune di tutti i patrioti uniti”. Beninteso, anche quando effettivamente l’identità comunista dei resistenti fu messa da parte, gran parte dei militanti diedero la vita o la rischiarono nella prospettiva politica che la lotta contro gli occupanti e i collaborazionisti fosse una tappa ineludibile nell’emancipazione dal capitalismo, che vent’anni prima aveva dato il potere a Mussolini per eliminare il movimento operaio. Questo dato, che è esso stesso politico nel senso di indicarci quale fu la spinta reale, di classe, alla battaglia contro il nazifascismo, è fermamente presente nella memoria di quelli che furono i combattenti di allora, nonostante settant’anni di retorica picista e democratico-patriottico-borghese l’abbia voluta cancellare.
Per la classe dominante e i suoi servi revisionisti si trattava di slegare la Resistenza partigiana dalle sue radici storiche che affondavano nelle lotte del Biennio Rosso e nell’antifascismo proletario; uno svuotamento di contenuti che aiutò i diversi governi “democratici” succedutisi nel dopoguerra a riabilitare e reinserire i fascisti all’interno delle istituzioni. I dirigenti statali in carica durante il ventennio furono in gran parte ricollocati nelle nuove strutture della repubblica;
in particolare nel corpo della polizia in cui, in soli cinque anni, furono epurati gli oltre cinquemila partigiani arruolatisi, mentre gli agenti dell’Ovra (la polizia politica fascista) vennero collocati nei servizi italiani e nella Cia statunitense. [2]
È in quella fase di restaurazione capitalistica, di ripresa del controllo politico-sociale da parte della borghesia che si passò al «fascismo democratico”, con la repressione degli operai e degli studenti, i licenziamenti politici delle avanguardie di lotta, gli arresti e l’incarcerazione di tantissimi ex partigiani e proletari e finanche alle stragi poliziesche contro le manifestazioni operaie e ad anticipare, con il massacro di Portella della Ginestra nel 1947, quella che divenne poi la “strategia della tensione” in reazione alla grande stagione di lotta degli anni Settanta.
La borghesia operò in tal senso per fermare la spinta per la trasformazione sociale che derivava proprio dal movimento partigiano e dalla classe operaia nella Resistenza.
Anche oggi, oltre a ribadire la verità sulla guerra di resistenza, va colta la situazione concreta e le contraddizioni in campo: in questa fase aumentano le pubblicazioni, gli spettacoli, le fiction e i film tesi a smantellare la memoria di classe antifascista, al fine di disarmare politicamente e culturalmente le masse. Per la borghesia questa è una priorità perché, in una fase di crisi dalla quale non riesce ad uscire, non può che mistificare e cancellare il patrimonio storico della lotta di liberazione antifascista, affinché nessuno lo recuperi e per poter attuare altre misure economiche e sociali antipopolari, incontrando una resistenza debole perché priva di strumenti di analisi, di comprensione, di risposte concrete e di prospettiva.
Sul piano interno la borghesia mira a perpetrare lo sfruttamento del proletariato, azzerando la coscienza di classe, controllando e reprimendo chi alza la testa, se serve utilizzando ancora i fascisti come bassa manovalanza; mentre sul fronte esterno proseguono le missioni d’aggressione, un tempo missioni colonizzatrici “portatrici di civiltà” ed oggi altresì dette “peace keeping”, contro i popoli che resistono. Così come si stravolgono i termini e i loro significati per legittimare le aggressioni militari, così il passato viene riscritto per poter dominare il presente.
Oggi, comprendere e mobilitarsi contro la riabilitazione del fascismo a livello storico e culturale, recuperando e difendendo il patrimonio della guerra partigiana e del movimento comunista, è priorità di ogni vero antifascista. Non per mera commemorazione, ma per attualizzare, nella fase attuale di crisi del capitalismo, gli insegnamenti dei combattenti che hanno lottato, non solo per la liberazione dal nazifascismo, ma per la liberazione da una società basata sullo sfruttamento di una classe su un’altra.
Note:
[1] Per una ricostruzione della deriva opportunista e riformista del Pci che lo portò a liquidare la potenzialità rivoluzionaria che le masse popolari del nostro paese espressero nella lotta al nazifascismo vedi S. Solano, Il piano inclinato, Pedara (Ct), Saverio Moscato Editore, 2003.
[2] L’utilizzo dei fascisti fu, infatti, sostenuto a suo tempo dall’allora capo del servizio segreto statunitense in Italia, James Angleton, che si attivò personalmente per salvare i dirigenti del regime mussoliniano, tra cui il futuro golpista Borghese, e reclutarli nella CIA, anche durante la guerra, man mano che le truppe americane risalivano la penisola. Sul punto vedi, ad esempio, N. Tranfaglia, Come nasce la Repubblica. La mafia, il Vaticano e il neofascismo nei documenti americani e italiani 1943-1947, Milano, Bompiani, 2004.