Antitesi n.00Ideologia borghese e teoria del proletariato

Interventismo

Oggi come ieri l’imperialismo italiano è sul piede di guerra

“Ideologia borghese e teoria del proletariato” da Antitesi n.00 – pag.64


E’ da mesi che assistiamo ad una campagna interventista rispetto alla Libia condotta a livello governativo, inaugurata dalle dichiarazioni del Ministro degli Esteri Gentiloni che, a febbraio, affermava “non possiamo accettare che a poche miglia da noi ci sia una minaccia terroristica attiva…siamo pronti a combattere”. Prima ancora che fossero state sollevate critiche alle dichiarazioni guerrafondaie del governo, è intervenuto dalla sua pensione d’oro, l’ex-presidente Napolitano. Difendendo l’intervento militare del 2011, ha affermato in un’audizione al Senato che il grave errore fu solo “il disimpegno dell’Ue nella fase successiva a Gheddafi”, ribadendo che anche oggi “non possiamo tirarci indietro”.

Se questa è la posizione che emerge dagli ambienti governativi, alla crociata guerrafondaia contro la Libia si unisce anche Berlusconi, dichiarando che “serve un intervento militare in Libia” e che “Il governo non deve abdicare alle responsabilità che ci derivano dal ruolo che il nostro paese deve avere nel Mediterraneo”. Questo è il clima sciovinista in cui trovano spazio e legittimazione le azioni e la propaganda dei vari partiti fascisti e reazionari da Fratelli d’Italia alla Lega fino a Forza Nuova. Mentre tutti i loro leader, da Salvini, alla Meloni, a Fiore e CasaPound, chiedono lo stop degli sbarchi con ogni strumento necessario, perché temibili “terroristi dell’Isis” potrebbero altrimenti sbarcare in Italia, alcuni tra loro si spingono oltre. Fratelli d’Italia, ad esempio, ha organizzato in diverse città fiaccolate per richiedere un intervento militare volto a “pacificare” la Libia. Forza Nuova, sbandierando lo slogan “Riprendiamoci la Libia!”, sostiene la necessità di “richiamare i propri reparti dagli altri scenari di guerra e riaffermare la propria presenza senza aspettare le lungaggini dell’ONU”.

Ed è proprio in tal senso che si sta di fatto muovendo il governo di sedicente sinistra in ambito europeo, ottenendo che, all’interno della nuova “agenda immigrazione” varata dall’Ue il 12 maggio, vengano previsti interventi di polizia internazionale contro gli scafisti, anche nelle acque territoriali e sul territorio libico.

Dietro all’allarme terrorismo e immigrazione, si nascondono ovviamente i grandi interessi economici del capitale italiano in Libia, Eni in testa, che vanno a scontrarsi con la situazione di permanente instabilità nel paese nordafricano.

Insomma, le fanfare dell’interventismo hanno iniziato a suonare esprimendo tutto lo slancio con cui la borghesia imperialista italiana intende impegnarsi nella nuova campagna di Libia. Sembra che dal 1911 quella terra sia rimasta nelle brame colonialiste italiane e che i vari regimi che si sono succeduti da Giolitti a Mussolini fino a Berlusconi nel 2011, si siano soltanto passati il testimone di mano in mano fino a consegnarlo nelle mani di Renzi, oggi promotore delle nuove mire sulla Libia.

Quattro anni fa l’intervento militare della Nato e l’uso strumentale del successivo conflitto civile – oggi sfuggito completamente di mano agli imperialisti – distrussero un paese sovrano, che utilizzava la rendita derivata dalle esportazioni energetiche per lo sviluppo interno e promuoveva l’autonomia dell’Africa dal dominio imperialista.

Le maschere della guerra imperialista: il nazionalismo sciovinista e la retorica democratica

Certo il ruolo di propagandisti dell’interventismo a nome della borghesia imperialista che oggi i fascisti si aggiudicano, facendo leva sulla necessità di difendere la cristianità da bravi neo-crociati o molto più schiettamente sulla necessità di difendere gli interessi economici, non è che un ricalcare il ruolo che storicamente hanno svolto. Infatti la culla reazionaria da cui nacque il movimento fascista nel 1919 con i fasci di combattimento, che diverrà poi partito nel ’21, è proprio il nazionalismo sciovinista.

Il nazionalismo sciovinista rappresentava un movimento antiproletario e sostenitore di una politica imperialista che sorse all’inizio del 1900, riunendosi in partito nel ’10, e si sviluppò ulteriormente ai tempi della campagna di Libia (1911-1912). Esso può essere considerato l’espressione della piccola e media borghesia le cui fila però venivano tirate dall’alto dai grandi capitalisti agrari e soprattutto industriali. Una delle sirene propagandistiche per giustificare le mire coloniali, che risuonavano dalle colonne dei giornali e delle riviste come “Il Regno” di Corradini, era “la lotta tra le nazioni proletarie contro quelle capitalistiche”.

Tale contenuto, assorbito poi dalla propaganda fascista, mirava a contrastare la parola d’ordine dei socialisti che rilanciava la lotta di classe sotto la bandiera dell’internazionalismo. Va anche sottolineato come il Partito Nazionalista, che nel ’23 si fuse con quello fascista, si impegnò in vari modi, dalla propaganda alle azioni violente, per promuovere l’entrata dell’Italia nel primo conflitto imperialista mondiale.

Successivamente lo sviluppo del fascismo, dal 1919 all’ascesa al potere, consistette nel fare propria sempre più marcatamente l’ideologia e la pratica nazionalista e sciovinista. Il fascismo, movimento della piccola e media borghesia, al servizio dell’alta borghesia, nutrito da miti revanscisti di cui la “vittoria mutilata” del ’18 ne era il simbolo, perseguì sul piano pratico gli obiettivi della mobilitazione reazionaria, sia contro le lotte di classe in Italia sia rispetto alle mire colonialiste.

La grande borghesia, tanto agraria quanto industriale, trovò nel fascismo prima la sua milizia armata contro le leghe agrarie e contro le lotte sindacali e operaie nelle fabbriche e poi, una volta insediatosi al potere, il fedele esecutore dei suoi progetti imperialistici in politica estera e la garanzia di una imposta pace sociale in politica interna. Nel ’32 Mussolini con chiarezza esponeva le posizioni del fascismo rispetto al colonialismo: “Lo Stato fascista è una volontà di potenza e d’imperio. […] Per il fascismo la tendenza all’impero, cioè all’espansione della nazione, è una manifestazione di vitalità, il suo contrario è un segno di decadenza: popoli che sorgono o risorgono sono imperialisti, popoli che muoiono sono rinunciatari. […] Ma l’impero chiede disciplina, coordinazione degli sforzi, dovere e sacrificio; questo spiega molti aspetti dell’azione pratica del regime e l’indirizzo di molte forze dello Stato e la severità necessaria contro coloro che vorrebbero opporsi a questo moto spontaneo e fatale dell’Italia nel secolo XX e opporsi agitando le ideologie superate del secolo XIX”. [1]

Una volta ricostruito il percorso storico che dal nazionalismo condusse al fascismo, ciò che è importante sottolineare sono le ragioni che, per poter continuare a perseguire e tutelare i propri interessi, hanno portato gli industriali e gli agrari a operare il salto autoritario nello stato fascista. Le ragioni vanno ricercate nella guerra imperialista e in quello che rappresentò per il proletariato.

La prima guerra imperialista mondiale, se grazie alla produzione bellica aveva arricchito i magnati dell’industria pesante, e i banchieri che li finanziavano, per lavoratori e proletari significò solo miseria in patria, morte e mutilazioni nelle trincee.

Fin dal 1916 contro la guerra, la classe operaia italiana si rende protagonista di agitazioni, spesso guidate da proletarie, nelle quali le rivendicazioni contro la guerra si uniscono a quelle economiche come l’aumento dei salari. Le giornate di Torino dell’agosto ’17 ne furono un grande esempio.

Grazie agli eventi russi dell’ottobre ’17, le mobilitazioni aumentarono di intensità. Dal gennaio del ’18 un’ondata di scioperi politici di massa e di dimostrazioni contro la guerra si diffuse in tutta l’Europa centrale da Vienna a Budapest, fino in Germania. La Rivoluzione d’Ottobre dimostrò l’efficacia della linea di Lenin: trasformare la guerra imperialista in rivoluzione era possibile.

Il capitalismo cessò di essere l’unico sistema economico-sociale esistente. Per il proletariato di tutto il mondo diventava molto più concreta la possibilità che, attraverso la lotta di classe guidata da un partito comunista rivoluzionario, si potesse strappare il potere dalle mani della borghesia e costruire una società socialista. Ciò contribuì all’esplosione di un’ondata rivoluzionaria in tutta Europa che continuò anche negli anni successivi alla fine del conflitto – in Italia questi eventi presero il nome di Biennio rosso – e che a tratti sembrò poter prendere il sopravvento su di una borghesia impaurita e per questo pronta alla più sanguinaria repressione.

Se tra il ’17 e il ’21 contro la Russia rivoluzionaria vennero finanziate le armate controrivoluzionarie bianche e inviate truppe da parte di tutte le grandi potenze europee, contro le mobilitazioni operaie si scatenò la repressione poliziesca e vennero finanziate le squadracce fasciste. La risposta della borghesia italiana al Biennio rosso fu Benito Mussolini.

La distanza che ci separa da quegli eventi si accorcia improvvisamente se pensiamo al ruolo ricoperto dai gruppi fascisti e nazisti nella crisi ucraina come “avanguardie armate” della strategia di espansione della Nato verso Est. Se oggi in Italia, pur lasciando ampia agibilità e legittimazione ai partiti e ai movimenti fascisti, la borghesia non ha ancora avuto bisogno di ripercorrere chiaramente la strada della mobilitazione reazionaria attiva, come fu con lo squadrismo fascista negli
anni venti, non è certo perché se ne sia pentita, ma è perché il livello del conflitto di classe non richiede ancora tali strumenti, nonostante gli attacchi alle condizioni di vita dei proletari si fanno sempre più duri – al contrario della capacità del movimento di classe di contro-attaccare – e i venti di guerra sempre più insistenti. Infatti, a partire dal biennio 1968-1969, quando la lotta operaia e studentesca emerse nuovamente, immediatamente la borghesia imperialista ricorse alla manovalanza fascista, armandola non solo per condurre aggressioni squadristiche, ma anche nell’ambito della “strategia della tensione”.

In occasione e durante lo scoppio del primo conflitto mondiale, il nazionalismo sciovinista non fu il solo a tentare di dividere e confondere il proletariato.

La socialdemocrazia italiana ed europea dimostrò tutto il suo opportunismo rendendo evidente la sua funzione di agente della borghesia tra le fila del movimento operaio. L’unità con le forze borghesi che propagandava facendo richiamo ad un ingannevole patriottismo, si tradusse nella sottomissione della classe operaia agli interessi dei suoi sfruttatori. Una sottomissione che non solo immolò il proletariato europeo sull’altare della guerra imperialista, ma che, durante lo sforzo bellico, fu funzionale a garantire per un certo periodo la pace sociale interna ai paesi belligeranti.

Un atteggiamento che non si scosta da quello di una certa “sinistra” che oggi, ricoprendosi di medagliette da paladini dei valori laici contro i barbari terroristi islamici tagliatori di teste, sostiene senza battere ciglio le guerre “democratiche”.

Purtroppo le sirene della propaganda borghese interventista si ripetono monotone con poche lievi variazioni sul tema, infatti all’epoca della Prima guerra mondiale si sosteneva la necessità di fare la guerra per imporre il modello liberale “progressista” sullo stile francese e inglese contro il modello tradizionale e reazionario dell’impero asburgico e tedesco.

Ciò ci dimostra che oggi come ieri la guerra è la risposta che la borghesia dà alla crisi e che fascisti e opportunisti su questo terreno si adoperano per sostenere gli interessi della borghesia.

Oggi come ieri, l’opposizione alle forze fasciste e alla mobilitazione reazionaria deve puntare al contrasto delle mire imperialiste, senza farsi offuscare e confondere dall’opportunismo di chi, in nome di una falsa libertà e di una “democrazia” basata sullo sfruttamento, giustifica e auspica aggressioni militari chiamate, nel più classico esempio di mistificazione propagandistica, “missioni di pace”.


Note:

[1] B. Mussolini, La Dottrina del Fascismo, Milano-Roma, Treves-Treccani-Tumminelli, 1932.


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