StrikeVolantini e comunicati

Strike n.01

il voto ha perso
l’unica via è la lotta!

numero I anno I


INDICE

Non siamo tutti sulla stessa barca

Amazon: rispedire il contratto al mittente

Trump il “pacifista” e la corsa al riarmo

Trenitalia: no al cambio dei turni

Noi non siamo sfruttati

Difendere lo statuto dei lavoratori

EDITORIALE

Le leggi non sono altro che la fotografia dei rapporti di forza tra le classi presenti nella società. Per cambiare le leggi ingiuste e difendere quelle giuste servono rapporti di forza. Solo con la lotta e la mobilitazione possiamo costringere padroni e Governo a cambiare la loro legalità o strappargli una parte della loro ricchezza. Il referendum di giugno ha sancito che i rapporti di forza delle lavoratrici e dei lavoratori in questa fase sono deboli. Lo possiamo vedere da come le controriforme sul lavoro procedano spedite da oltre vent’anni.

I 5 quesiti erano tutti su tematiche di classe: quattro contro Jobs Act e precarietà e per la sicurezza e il quinto contro il ricatto della cittadinanza, condizione che affligge milioni di lavoratrici e lavoratori stranieri. Il referendum ha perso perché le carte per vincerlo erano molto poche. In più ha pesato anche che i principali “sponsor” del referendum (Pd in testa) sono coloro che quelle leggi le hanno votate o hanno fatto poco per opporvisi, con ben poca credibilità da parte dei lavoratori. Un fattore che sicuramente ha influito nella percezione di un voto a favore di questi soggetti, scoperti adesso come paladini dei diritti, dopo averli negli anni totalmente smantellati.

La sconfitta del referendum legittima ora i padroni ed il Governo ad andare alla carica nei loro piani di lacrime e sangue. La controparte padronale, con maggiore arroganza, potrebbe tentare una ulteriore offensiva ai diritti e alla sicurezza lavorativa, partendo ad esempio dai rinnovi dei contratti collettivi. Ci hanno già provato numerose volte, e anche stavolta bisognerà rispondere con gli scioperi e con la lotta, colpo su colpo, perché sono gli unici strumenti che abbiamo per far sentire la nostra voce e rifiutare i sacrifici che ci chiederanno.

La sconfitta del referendum non può essere motivo di arretramenti o sfiducia. In un paese con salari fermi, inflazione galoppante e produzione industriale in calo, riarmo e decreti sicurezza sempre più restrittivi non c’è tempo per stare fermi. Gli scioperi e le lotte devono continuare con maggiore determinazione: dai portuali contro la guerra ai metalmeccanici per il rinnovo del Ccnl, dai ferrovieri ai lavoratori Amazon fino ai lavoratori delle università contro la riforma Bernini. Mobilitazioni che parlano di crisi economica, stato di guerra e tagli al welfare, mostrando la forza dei lavoratori davanti all’arroganza padronale e governativa. Il voto ha perso, la lotta è l’unica via che abbiamo per accumulare rapporti di forza e fermare questo sistema di guerra e sfruttamento.

NON SIAMO TUTTI SULLA STESSA BARCA

Oltre sei milioni di lavoratrici e lavoratori italiani guadagnano meno di mille euro al mese. È quanto emerge da uno studio dell’ufficio Economia della Cgil nazionale. Nello specifico, sono 6,2 milioni (35,7%) i dipendenti del settore privato che nel 2023 hanno percepito un salario inferiore ai 15 mila euro lordi annui, guadagnando nel migliore dei casi mille euro netti al mese. Nel complesso, i lavoratori che guadagnano meno di 25 mila euro lordi annui sono circa 10,9 milioni (62,7%). Cifre che definiscono una vera e propria povertà lavorata. Come spiega la ricerca, tra gli elementi più penalizzanti della questione salariale vi sono la tipologia contrattuale, sempre più diversificata e precarizzante, le qualifiche più basse e la discontinuità lavorativa. Lo studio sottolinea poi come a incidere sui salari sia anche la bassa retribuzione oraria (circa 2,8 milioni di lavoratori dipendenti prendono meno di 9,5 euro lordi all’ora).

Ma non tutti stanno male: i profitti dei padroni, in particolare nel periodo post pandemia (dati rilevati dal 2020 al 2023), sono aumentati del 14% mentre il costo del lavoro (cioè l’insieme dei salari) è sceso del 12%. E questo non deve stupirci: la ricchezza che viene prodotta dai lavoratori nel ciclo produttivo è suddivisa tra salario e profitto. Se cresce uno, diminuisce l’altro!

E nessuna legge stabilisce in quali misure, bensì solo la lotta di classe. In altre parole, i dati ci dicono che la lotta di classe i padroni la stanno conducendo a loro favore, e che per difendere i loro profitti non hanno altra strada se non quella di comprimere i salari, aumentando lo sfruttamento e riducendo i diritti di noi lavoratori. Questa è la verità!

Dal palco dell’Assemblea di Confindustria di fine Maggio, il presidente Orsini ha lanciato il solito appello all’unità tra istituzioni, politica, sindacati e imprese per rilanciare la crescita del Paese. Questo continuo appello alla coesione sociale è funzionale solo ai padroni, specie in questa fase di crisi e tendenza alla guerra. Sono ben consapevoli che i sacrifici e il peggioramento delle nostre condizioni di vita, funzionali ai loro interessi, potrebbero innescare lotte e mobilitazioni. E di questo hanno paura. Ci vogliono far credere che “siamo tutti sulla stessa barca”, così da prevenire e soffocare il conflitto sociale. In tal senso va vista anche la recente approvazione della “Legge Sbarra” al Senato, che impegna il governo a stanziare risorse per incentivare la partecipazione dei lavoratori alla gestione, al capitale e agli utili delle imprese. Anche questa sarà una fregatura per noi lavoratori, proprio perché gli utili delle aziende esistono solo grazie allo sfruttamento del nostro lavoro (vedi pagina 4). E il caso Volkswagen in Germania ce lo dimostra (vedi Strike n. 0).

Il miglioramento delle nostre condizioni di vita e di lavoro passa attraverso la mobilitazione, l’organizzazione nei posti di lavoro e la determinazione nel lottare per i nostri interessi. Gli esempi positivi ci sono e vanno valorizzati: dai metalmeccanici in lotta per il rinnovo del Ccnl ai lavoratori precari dell’università che si mobilitano da mesi per i loro diritti e contro la guerra.

Questo sistema economico, continuamente in crisi, può sopravvivere solo peggiorando le nostre condizioni materiali di vita e di lavoro. Per questo è giusto opporsi ai sacrifici che ci vengono imposti ed è altrettanto giusto disertare ogni tipo di patto sociale “per l’interesse collettivo”. Altro che interessi comuni, dobbiamo organizzarci a partire dai nostri posti di lavoro per imporre i nostri di interessi! Consapevoli che nessuna conquista è garantita finché sarà in piedi questa società basata sul profitto.