Strike

Strike n.00

organizzarsi e lottare
contro lo stato di guerra

numero 0 anno I


INDICE

Perché un foglio per lavoratrici e lavoratori?

La guerra la stiamo pagando noi

I numeri del governo Meloni

Trattori o cannoni?

CCNL metalmeccanici: un rinnovo cruciale

Lo sciopero di ottobre

Volkswagen: la lotta ferma i licenziamenti

Chiediamo ancora pane, pace e libertà

PRESENTAZIONE

Perché un foglio per lavoratrici e lavoratori?

Ogni situazione di lavoro è diversa e ha delle sue caratteristiche precise. Anche lavorando insieme, sotto lo stesso tetto, molto spesso non abbiamo lo stesso contratto di riferimento e gli stessi diritti.
Tutto ciò per dire che noi lavoratori, dai punti di vista economico e sindacale, siamo oggettivamente frammentati. Ecco che gli strumenti sindacali, le forme e i livelli di lotta, necessari per difendersi ogni giorno, non possono essere uguali per tutti. Una cosa, però, che sicuramente ci accomuna tutti, indipendentemente da dove e come lavoriamo, è la necessità di unirci ed essere più forti per contrapporci al padrone. E i rapporti di forza non coincidono con il colore della tessera sindacale, bensì si costruiscono giorno dopo giorno, insieme ai colleghi di lavoro, organizzandosi e lottando insieme.

Un’altra cosa che ci accomuna tutti è il sistema economico nel quale viviamo, continuamente in crisi, basato sul profitto e sullo sfruttamento. A noi lavoratori sta riservando il peggioramento continuo delle condizioni di lavoro e di vita, l’erosione dello stato sociale e di molti diritti conquistati con la lotta in passato, e un futuro dove tutto è incerto tranne la tendenza alla guerra mondiale. E quando il futuro è incerto aumentano la precarietà e quindi il ricatto, la paura e l’isolamento.

Strike nasce proprio per cercare invece di invertire questa tendenza: la condivisione di esperienze dirette, l’analisi di avvenimenti che ci riguardano in quanto lavoratori, il recupero della nostra memoria storica, vogliono essere tutti strumenti per favorire il dibattito e l’organizzazione tra lavoratori e lavoratrici.
Costruire unità e ritrovare il protagonismo nella lotta sono elementi indispensabili, oggi più che mai, per organizzare la resistenza contro questo sistema che privilegia i padroni e ci sta trascinando in guerra.

Ecco perché un foglio, cartaceo, in piena era social. Il preferire la distribuzione “a mano”, incentivando il fatto di vedersi di persona con altri colleghi e/o altri lavoratori, ci auguriamo possa essere più funzionale a raggiungere gli obiettivi appena esposti.
Tutti possiamo contribuire al progetto, attivandoci per la diffusione nei luoghi di lavoro e avanzando idee e suggerimenti per la stesura degli articoli.

EDITORIALE – LA GUERRA LA STIAMO PAGANDO NOI

Nella notte tra il 14 e il 15 febbraio 2025, un’esplosione dolosa ha colpito una petroliera, che permetteva alla Russia di aggirare l’embargo sul proprio petrolio, al largo di Savona, provocando uno squarcio allo scafo e riversando sostanze inquinanti in mare. Un atto di guerra sul suolo italiano portato avanti dall’Ucraina, davanti al quale tutti i media e le istituzioni hanno taciuto. Se questo episodio lo inseriamo all’interno di un’Unione Europea che sta proponendo un piano di riarmo militare da 800 miliardi di euro, mentre lo scacchiere mondiale è pronto ad esplodere capiamo bene che la guerra non è più una cosa lontana da noi, ci riguarda e ci investe da tutti i punti di vista.
L’attuale governo “sovranista”, in linea coi precedenti esecutivi, sta facendo di tutto per portarci in guerra e le ricadute non si vedranno solo nel futuro, ma si stanno già avendo, immediate e tangibili sulle nostre vite di proletari.
Il governo ha annunciato decine di miliardi per la “difesa” e il complesso militare, ma da dove arriveranno?

Ci costringono ad affrontare altri anni di distruzione della spesa pubblica e dei servizi essenziali: pochissimi soldi per un Servizio Sanitario Nazionale al collasso, nell’istruzione continuano con tagli di personale e chiusura degli edifici, sostenendo invece le scuole private, mentre le pensioni vedono un aumento ridicolo di fronte all’impennarsi dei costi della vita, incentivando l’uso di fondi pensionistici privati. Assistiamo a tagli di bonus per mutui, affitti, auto, studenti e disabili, mentre quelli di cui si vantano, come il bonus natalità, di fatto sono temporanei e poco strutturali, non riuscendo ad affrontare le reali problematiche di chi non arriva a fine mese, figuriamoci mettere su famiglia.

Al collasso del patrimonio pubblico si affiancano precarietà, licenziamenti, cassa integrazione e stipendi sempre più bassi, aggravati proprio dalle scelte politiche del governo Meloni. Se la crisi economica è presente già da tempo, tutta una serie di manovre che “tamponavano” la situazione ora non vengono più portate avanti: assistiamo quindi alla fine degli incentivi per diversi settori industriali, uno su tutti quello automobilistico, con i fondi che verranno invece dirottati nel comparto militare. Il 2024 si chiude con 21 mesi consecutivi di calo della produzione e un aumento del 30% della cassa integrazione. Per uscire da questa crisi diverse fabbriche stanno trasformando la produzione civile in militare: l’unica strada che può ancora garantire dei profitti e che probabilmente renderà ancor più “disciplinato” il luogo di lavoro, coincidendo con una qualsiasi caserma dal punto di vista dell’irrigidimento e del controllo. Non è un caso che la repressione del dissenso e la chiusura di spazi di agibilità siano un cavallo di battaglia del governo, che sta per approvare il DDL 1660, che va a colpire chiunque vorrà scioperare in modo efficace con picchetti o blocchi e comprimerà ancor di più le poche libertà rimaste, andando a pacificare la popolazione che deve essere pronta e silente per le prossime mosse di guerra.
Perciò, è indispensabile opporci a questo stato di cose e organizzarci per resistere, individuando e bloccando i mandanti di questa guerra, nel nostro paese e al di fuori. Padroni, borghesia e imperialismo sono facce della stessa medaglia e sta a noi opporci, a partire dai nostri posti di lavoro, per essere la sabbia tra i loro ingranaggi bellici.

TRATTORI O CANNONI? UN CONTRIBUTO DALLE FABBRICHE

Il settore delle macchine agricole sta vivendo un periodo di profonda crisi. Da oltre un anno i lavoratori del settore fanno più o meno lunghi periodi di cassaintegrazione, si annunciano chiusure di aziende importanti del settore, licenziamenti o interinali lasciati a casa dall’oggi al domani.

Eppure fino a qualche anno fa si parlava di boom economico del trattore con aumenti del fatturato anche del 16% tra il 2020 e il 2021 e in costante crescita negli anni successivi. I padroni hanno portato a casa profitti record e hanno spremuto noi operai come hanno potuto con ricorso continuo agli straordinari, alla flessibilità e carichi di lavoro sempre più pesanti. Le vacche si sono ingrassate per bene e al massimo per i lavoratori è arrivata una pacca sulla spalla e qualche briciola caduta dal tavolo.

Cosa è cambiato? Nel 2023 si è concluso il Piano di transizione 4.0 e sono scadute delle misure del Piano di Sviluppo Rurale: una montagna di incentivi pubblici, di bandi e finanziamenti che hanno spinto all’acquisto di mezzi agricoli e che poi sono stati tagliati. Per fare un esempio, grazie a tutte queste misure il costo di un trattore poteva ridursi anche oltre del 50% del suo prezzo di listino. Costi coperti dai soldi pubblici, soldi nostri per intenderci.
Queste misure hanno dopato la domanda con quel fenomeno chiamato di “pre-vendita”. Le industrie agricole hanno rinnovato il proprio parco mezzi prima che questi fossero rotti o avessero finito il proprio ciclo di vita, anticipando l’acquisto futuro.
I padroni, mai sazi di fare profitti, pensavano che alla fine degli incentivi 4.0 venissero approvati quelli 5.0 o in alternativa venissero messe in campo ulteriori misure di finanziamento pubblico. Hanno quindi riempito i magazzini delle aziende con mezzi pronti ad essere venduti. Così non è stato perché le necessità della guerra e del riarmo hanno dirottato le risorse e chiuso i rubinetti.

Come sempre, fintanto che le cose vanno bene ci ripetono che siamo tutti sulla stessa barca e che se l’azienda va bene, va bene anche per noi lavoratori. Quando però le cose vanno male ci ricordano che la barca è come il Titanic dove i padroni sono in prima classe e si salvano il fondoschiena e noi lavoratori siamo quelli che muoiono affogati. La fine degli incentivi, l’aumento della concorrenza sopratutto indiana e
l’aumento del costo delle materie prime hanno determinato la crisi del settore con il ricorso alla cassaintegrazione e la perdita di salario e posti di lavoro.

Adesso, dopo che la guerra ha dirottato gli incentivi verso le armi tagliando quelli per l’agricoltura, sembra che sempre la guerra diventerà
la soluzione…

Alla Berco, azienda di proprietà della multinazionale ThyssenKrupp che fino a ieri produceva cingolati per macchine agricole, sono stati dichiarati ad ottobre centinaia di esuberi e ovviamente la revisione del contratto integrativo, leggasi tagli ai salari. Con l’annuncio del programma di riarmo europeo sembra che l’azienda verrà convertita alla produzione bellica come già accaduto al vicino stabilimento della Faber, ex Simmel che è passata dal produrre cappe da cucine a ogive e bossoli.

Messe da parte tutte le favole sulla transizione energetica, quella che rimane sul tappeto è la transizione all’economia di guerra, che per quanto eviterà di perdere posti di lavoro peggiorerà le nostre condizioni di lavoro. La guerra infatti diventerà la giustificazione per restringere gli spazi di agibilità sindacale alla deroga dei contratti interni ma anche nazionali.

CCNL METALMECCANICI: UN RINNOVO CRUCIALE

Il rinnovo del Contratto Collettivo Nazionale (CCNL) dei metalmeccanici rappresenta un momento cruciale per tutti i lavoratori del paese. La Confindustria è ben consapevole che i trattamenti economici e i diritti conquistati dai lavoratori nel settore metalmeccanico sono le punte più alte rispetto agli altri settori. Questo come risultato della lotta di classe e dei rapporti di forza che negli anni la categoria è riuscita ad esprimere. Ecco che per gli industriali “sfondare sui metalmeccanici significa sfondare a cascata su tutti gli altri settori”. Ad oggi il tavolo è chiuso e non c’è alcuna trattativa in corso. In questi mesi ci sono stati diversi scioperi e mobilitazioni ma, ad oggi, la situazione non sembra sbloccarsi.
Federmeccanica non vuole discutere la piattaforma votata dai lavoratori, respingendo, tra le varie cose, la richiesta di un aumento salariale di 280€, mirato a recuperare parte del potere d’acquisto perso negli anni. Oltre all’aspetto economico, che rimane uno dei punti focali delle rivendicazioni sindacali, nella piattaforma si vogliono discutere anche una serie di punti altrettanto importanti come la lotta al precariato, la riduzione dell’orario settimanale, salute e sicurezza. La contro-proposta di Federmeccanica prevede solo aumenti legati parzialmente all’inflazione e attacca moltissimi istituti del contratto nazionale: dagli scatti d’anzianità, all’elemento perequativo legato alla produttività, fino alla gestione dei permessi personali. Tutti diritti conquistati dai lavoratori e dalle lavoratrici che oggi vengono messi in discussione.
L’obiettivo è chiaro: ridurre ancora il costo del lavoro, attaccando i diritti e indebolendo il contratto, o addirittura tentando di disfarsene.
Il contratto nazionale è uno strumento fondamentale di difesa dei diritti contro gli interessi padronali e di solidarietà tra lavoratori. Gli scioperi finora hanno avuto una buonissima adesione, anche se oggettivamente pesano la cassa integrazione e l’instabilità generale che stiamo vivendo, dovute alla fase di crisi e guerra. I padroni lo sanno, e su questo sicuramente stanno facendo leva!

Il risultato della contrattazione, come sempre, dipenderà dal livello di scontro che sarà messo in campo. E sicuramente il livello va alzato! A maggior ragione oggi, nella fase di tendenza alla guerra che stiamo vivendo. Con questo rinnovo contrattuale i padroni ci stanno mettendo alla prova: vogliono vedere se siamo disposti a cedere, ad arretrare sui diritti e a sottometterci al futuro che ci stanno preparando, fatto di guerra, repressione, tagli e miseria.
Organizziamoci nelle aziende per incentivare la partecipazione alla lotta, portiamo il tema del CCNL anche fuori dalle fabbriche, riscopriamone l’importanza storica, sindacale e politica specie con i lavoratori più giovani.
Dobbiamo riscoprire l’unità e la solidarietà tra lavoratori per difendere il CCNL oggi, consapevoli che la sfida in atto non riguarda solo il contratto, bensì la capacità di contrastare il futuro di lacrime e sangue che padroni e governo ci vogliono imporre. In questo sistema basato sul profitto nessun diritto è garantito. Mentre è certo che solo la lotta di classe può essere, per noi lavoratori, strumento di emancipazione e giustizia.

LO SCIOPERO DI OTTOBRE: UN CONTRIBUTO DALL’ACCADEMIA DI VENEZIA

Il 31 ottobre 2024 è stata una giornata di lotta storica per le lavoratrici e i lavoratori dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, frutto di una mobilitazione faticosa ma appagante che per la prima volta ha visto il totale blocco operativo, amministrativo e didattico in tutte le tre sedi; l’adesione unanime allo sciopero da parte del personale operatore è riuscita a mettere in crisi anche l’apertura al pubblico del padiglione della Biennale d’arte (ospitato per oltre 7 mesi nel chiostro della sede centrale) nonché dell’area espositiva ai Magazzini del Sale. Due vetrine di grandi capitali che gonfiano i bilanci della classe dirigente ma pesano sulle spalle della classe operaia e studentesca in termini di accrescimento di mole di lavoro e responsabilità e di riduzione degli spazi per la collettività.
Ma come si è arrivati uniti a questo risultato?
L’elezione delle nuove RSU nell’aprile del 2022 apre a un cambiamento decisivo nell’ambiente accademico. La contrattazione integrativa, passa dal diventare una questione per “addetti ai lavori”, ad una piena condivisione con i lavoratori e le lavoratrici. Ad ogni fase si accompagna un’assemblea sindacale: sono i colleghi e le colleghe al centro delle decisioni e intanto, insieme, ci formiamo! Si comincia a parlare di diritti, ci si interroga su quali possono essere gli strumenti di lotta quando le rivendicazioni non vengono ascoltate. Sondiamo il terreno, cerchiamo soluzioni ma siamo ancora molto frammentati all’interno dei nostri rispettivi ruoli. Sicuramente un po’ più consapevoli continuiamo le contrattazioni con un discreto risultato.
A settembre 2023, il cambio della direzione amministrativa, con parole d’ordine come “Da adesso in avanti cambierà tutto”, scarica addosso agli operatori un’oppressione mai vista prima. I turni di lavoro fino a qui equamente distribuiti, i diritti acquisiti negli anni grazie alla fermezza di colleghe e colleghi vengono completamente trasformati peggiorando di fatto le condizioni di lavoro. Non siamo disposti a retrocedere, nessun accordo, si resiste!

Cerchiamo solidarietà nel tessuto sociale dell’accademia e la troviamo, ci dà forza ma ci scontriamo anche con ostilità a cui tentiamo di non dare peso per non disperdere energie. Non sono loro il nostro nemico. Nel mezzo della lotta impariamo come combattere e dopo due mesi, uniti vinciamo! L’ostilità era solo paura, poi avranno modo di ricredersi.
Passa un anno difficile: la direzione pressa i lavoratori tentando di negare diritti contrattuali. Le assemblee si intensificano. Siamo fortemente sotto organico con tre sedi operative, molti colleghi sono precari e ad altri vengono ancora offerti contratti atipici. Alle nostre modelle storiche, dopo più di 30 anni di precariato e a 3 anni dal pensionamento, non viene rinnovato il contratto. Il ministero introduce i corsi di dottorato che si traducono in un aumento della mole di lavoro senza assunzione di nuovo personale.

Sappiamo bene che la nuova legge di bilancio non stanzierà sufficienti risorse per il rinnovo contrattuale e imporrà tagli alla spesa pubblica. L’inflazione al 17% si traduce in una perdita di 3.500 euro sui nostri salari e in tutto questo le spese militari schizzano arrivando ad un investimento per il biennio 24/25 di 34 miliardi di euro. Siamo arrabbiati, adesso ci sentiamo tutti dalla stessa parte. Ci guardiamo negli occhi e capiamo che indipendentemente dal ruolo che ricopriamo all’interno dell’Accademia siamo quel tessuto sociale a cui lo Stato sta sparando un colpo dietro l’altro. Forse si è accesa la fiamma della coscienza di classe. Nel bel mezzo dell’approvazione al Senato del DDL 1660 – atto a depotenziare ogni forma di lotta in un’ondata di repressione senza precedenti – siamo pronti all’azione, prepariamo un volantino.

Contro guerra e repressione, le lavoratrici e i lavoratori della conoscenza incrociano le braccia per dire BASTA all’alta formazione ad alto sfruttamento e al precariato a tempo indeterminato.
31 ottobre 2024: sciopero, il portone resta chiuso. Ce l’abbiamo fatta ma è solo l’inizio in un percorso che vede l’alternarsi dell’avanzata della classe operaia a quella dirigente e di nuovo la frammentazione delle lavoratrici e dei lavoratori. Contro le ingiustizie, per amore di un modello di società solidale e contro l’oppressione si resiste con i più determinati oggi, per vincere tutti uniti domani.

VOLKSWAGEN GERMANIA: AVANTI CON LA LOTTA CONTRO I LICENZIAMENTI

“I nostri risultati di nove mesi riflettono un contesto di mercato impegnativo […] Il brand Volkswagen ha riportato un margine operativo di solo il 2% dopo nove mesi. Ciò evidenzia l’urgente necessità di significative riduzioni dei costi e recuperi di efficienza”, queste le dichiarazioni del responsabile finanziario di Volkswagen, azienda leader nel settore auto con 12 marche di 7 Paesi europei: Volkswagen, Audi, Lamborghini, Porsche, Ducati ecc. Nel 2024 il gruppo ha consegnato 9.027.400 auto contro le 9.239.500 del 2023, un  calo del 2,3%. In particolare il mercato della Cina ha registrato un -9,5%, forte della crescita di aziende locali che stanno superando i marchi occidentali per rapporto qualità-prezzo, soprattutto sui veicoli elettrici.

Sappiamo bene cosa significa “ridurre i costi”: o si accettano i tagli o si procederà alla chiusura degli stabilimenti spostando la produzione all’estero, perché in Europa i costi energetici sono troppo alti. Il piano proposto dalla dirigenza è il solito ricatto: la possibile chiusura di tre stabilimenti in Germania, il taglio di circa 35 mila lavoratori con la riduzione degli stipendi del 10%.
Con queste premesse crolla il mito del modello tedesco, cioè la partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori alla direzione dell’impresa. Si tratta di un sistema nato per regolare il conflitto sindacale ed evitare che le organizzazioni dei lavoratori più combattive, come i comunisti, prendessero il sopravvento. Prevede che i rappresentanti dei lavoratori siano informati e consultati in caso di assunzioni, licenziamenti, condizioni di lavoro e che votino al pari dei proprietari dell’azienda. Ma la storia non cambia: i profitti sempre agli imprenditori (tra il 2021 e il 2023 sono stati distribuiti agli azionisti circa 22 miliardi di euro di dividendi), e la crisi la devono pagare gli operai.

Coinvolgere i lavoratori nelle scelte padronali ha lo scopo di azzerare il conflitto di classe impedendo lo sviluppo di pratiche di sciopero e di lotta. Questo è il tentativo dei padroni: usare i sindacati per co-gestire i licenziamenti. Padrone e lavoratore non possono stare allo stesso tavolo da pari, perché uno si arricchisce e l’altro fatica e fa sacrifici.

Le armi che abbiamo sono l’unità di classe e la lotta, ed è proprio quello che è successo in Germania: fallita ogni ipotesi di accordo, i sindacati dei lavoratori metalmeccanici tedeschi hanno indetto uno sciopero a oltranza e senza precedenti che ha visto la partecipazione di oltre 100mila lavoratori e il blocco della produzione in diversi stabilimenti. L’azienda è stata costretta a ritrattare in fretta: nessun licenziamento né chiusure fino al 2030.

8 MARZO 1917- 8 MARZO 2025: CHIEDIAMO ANCORA “PANE PACE E LIBERTÀ”

Nel dibattito pubblico e sindacale si sente spesso parlare dell’impatto del lavoro di cura di famiglia e casa sulle lavoratrici. Ma quanto effettivamente questo pesa su di noi? Quali sono le ricadute? Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro in Italia il 75% del lavoro di cura ricade sulle spalle di noi donne, mentre in generale nel mondo sono 750 milioni le donne che per questo motivo sono disoccupate. In più, dopo aver avuto un figlio, una donna impiega quasi 15 anni prima di tornare ad una retribuzione pre-maternità (dati Istat 2020): le mamme devono ricorrere ad assenze, permessi e part-time che si traducono in media in 11 settimane in meno di lavoro, rendendo inaccessibili aumenti o premi e aumentando così il gap salariale.

A tutto ciò si aggiungono i continui tagli ai servizi pubblici che, finanziaria dopo finanziaria, si abbattono su noi lavoratrici e lavoratori: pensiamo all’aumento delle rette di asili nido o case di riposo e agli aumenti dell’Iva sui prodotti per l’infanzia (già costosi di per sé). Tagli che, uniti all’inflazione, continueranno ad aumentare in virtù dei finanziamenti al settore militare, strategico per una classe dirigente che ci sta conducendo allo scontro militare aperto. La proposta della controparte è retribuire il lavoro domestico o aumentare il flusso migratorio per delegare il lavoro di cura delle donne italiane. Tuttavia questa non ci sembra una soluzione al problema: nel primo caso la donna rimarrebbe relegata tra le mura domestiche e isolata socialmente, mentre nel secondo caso questo lavoro verrebbe delegato ad altre donne.

Per questo è importante guardare alle conquiste della rivoluzione sovietica dove il protagonismo delle donne, che le ha viste scendere per le strade l’8 marzo 1917 al grido di “pane pace e libertà” e dare il via alle mobilitazioni che portarono alla presa del potere da parte del proletariato, ha fatto sì che la società tutta cambiasse e il lavoro di cura venisse socializzato tramite la creazione di istituti popolari.

Mense, lavanderie, giardini d’infanzia e asili nido popolari hanno permesso alle donne russe di realizzarsi sul piano professionale ma anche scolastico e politico. La base per far sì che questo avvenisse fu la parificazione sostanziale e non più formale della donna, introducendo diritti impensabili in quegli anni come quello all’aborto, al divorzio e la parificazione salariale.

La “giornata internazionale della donna” non può essere declassata ad una giornata di festa come vorrebbe la borghesia ma deve tornare ad essere memoria di lotta per tutte noi lavoratrici e lavoratori.