Note di fase n.34
luglio 2025
AMERICAN FAILURE?
L’American First! tanto sloganato da Trump durante la propria campagna elettorale, a sei mesi dall’insediamento alla Casa Bianca, sta mostrando tutti i suoi limiti. Il trumpismo, come linea politica di “rottura” con le precedenti amministrazioni, che aveva il compito di riportare l’imperialismo americano in una situazione di recupero della propria egemonia globale sta fallendo.
Sul fronte interno va registrato l’aggravamento della crisi strutturale della formazione statunitense certificata dal presidente della Fed Jerome Powell che ha dichiarato il debito federale Usa non più sostenibile. Il costo del debito Usa infatti aumenta vertiginosamente a causa degli interessi e a fronte della svalutazione del dollaro. La svalutazione del dollaro ha un duplice aspetto, da un lato riduce il valore del debito, dall’altro mette in crisi il dollaro come moneta di riserva, determinando le condizioni per un deflusso degli investimenti titolati in dollari, in particolare i titoli di debito Usa, spingendo al rialzo i tassi di interesse per il loro rifinanziamento. In prima battuta quindi la svalutazione del dollaro porta dei vantaggi perché riduce il debito, ma in seconda battuta aggrava ulteriormente la crisi portando all’aumento dei tassi di interesse sul debito stesso. Va tenuto conto che l’amministrazione Biden aveva riempito il debito Usa di titoli a breve scadenza, lasciando una pesante eredità che costringe l’attuale amministrazione a trovare circa 9 mila miliardi di dollari per ottemperare le scadenze o in alternativa rinnovare le scadenze ad un prezzo molto più alto, posticipando il problema. La drammaticità della situazione è stata registrata anche dalle agenzie di rating che per la prima volta dal 1919 hanno declassato il debito Usa togliendoli la tripla A. Un passaggio “storico” per la principale potenza capitalista del mondo che da un lato si trova sommersa da un debito di circa 37 mila miliardi a rischio insolvenza, dall’altro manifesta la frattura interna al capitale finanziario Usa e tra i principali attori finanziari, BlackRock, Vanguard e State Street (il cui peso sulle agenzie di rating è enorme) e l’amministrazione Trump. Un altro punto di frattura interna alla classe dominante Usa si è manifestato nell’approvazione della legge di bilancio, approvata grazie al voto del vicepresidente Vance. La finanziaria prevede un aumento del deficit federale di ulteriori 3,3 mila miliardi di dollari nei prossimi dieci anni a fronte di tagli delle tasse, resi strutturali, a tutto vantaggio dei redditi più alti; un aumento vertiginoso delle spese militari; un poderoso taglio del welfare a partire dal progetto Medicaid che porterà circa 12 milioni di persone a perdere le coperture sanitarie e dei sussidi alimentari di cui beneficiano circa 45 milioni di persone.
Il voto della legge di bilancio, spinta da Trump a suon di minacce, ha visto l’opposizione oltre che dei democratici anche di settori del tycoon, in primis Musk, con il quale si è delineata la frattura definitiva.
La crisi della formazione Usa è evidente anche nella gestione del fronte interno. Ne sono manifestazioni chiare lo scontro con le università come Harvard, colpevoli di sostenere e ospitare i principali centri di mobilitazione di solidarietà con il popolo palestinese e colpite da un taglio dei finanziamenti di oltre 2 miliardi di dollari. Università come Harvard sono i centri di formazione della futura classe dirigente e l’attacco subito va letto nel quadro di disciplinamento delle stesse al trumpismo e nella repressione verso le mobilitazioni in solidarietà alla Palestina. Non è un caso che tra le azioni contro le facoltà ci fosse la revoca della possibilità di iscrivere studenti stranieri, i quali sono costretti a trasferirsi in un’altra università per non perdere il proprio status legale.
Esemplificativo è stato il caso di Mahmoud Khalil, studente palestinese fra i principali organizzatori della lotta universitaria per la Palestina, sequestrato l’8 marzo dall’Ice e minacciato di espulsione, poi rilasciato.
La stessa Ice protagonista della guerra all’immigrazione clandestina che ha preso di mira principalmente la classe lavoratrice immigrata: testimonianze video mostrano blitz in bar, ristoranti ed altre attività in cui i lavoratori e le lavoratrici venivano sequestrati con la forza. Queste aggressioni xenofobe non sono casuali ma prendono di mira principalmente chi lavora: con la scusante della cosiddetta irregolarità, l’amministrazione Trump tenta di frammentare la classe cercando di raccogliere il consenso dei lavoratori bianchi. L’operazione militare ha trovato però la risposta del proletariato di Los Angeles con rivolte, sparatorie e mobilitazioni durate giorni.
La crisi strutturale e le fratture interne alla classe dominante Usa si riversano nella relazione con le altre formazioni. Solo a partire da questo dato si comprende l’atteggiamento contraddittorio di Trump, dettato dalla necessità di rispondere alle fratture interne e le politiche economiche aggressive, anche contro gli storici alleati, tramite i dazi per recuperare produzioni e liquidità.
La politica dei dazi va letta principalmente come strumento per scaricare la crisi sulle altre formazioni, da qui la necessità di rompere le vecchie regole multilaterali e sfidare ogni singolo stato nel tentativo di scaricargli addosso quanto più possibile i costi della crisi. Ne sono una prova i recenti accordi tra Usa e Ue in cui si sancisce, ancora una volta, il rapporto di vassallaggio tra le potenze del vecchio continente e l’alleato a stelle e strisce. Il 27 luglio scorso, infatti, Von der Leyen e Trump hanno finalizzato un accordo commerciale che impone una tariffa del 15% sulla maggior parte delle esportazioni dall’Ue verso gli Stati Uniti e, allo stesso tempo, elimina i dazi su alcune importazioni dagli USA: acciaio e alluminio in primis. Inoltre l’Ue si è impegnata a collocare 600 miliardi di dollari in nuovi investimenti statunitensi e 750 miliardi di dollari in acquisti energetici a lungo termine.
La politica dei dazi, così come tutte le politiche protezionistiche, sono strategie dal fiato corto perché nel lungo periodo aggravano la crisi generale del capitalismo, colpendo anche chi le promuove. Inoltre, non tutte le formazioni accettano che le venga scaricata addosso la crisi, portando gli Usa a capitalizzare successi come con gli stati europei, ma anche delle sonore sconfitte. Il tentativo di guerra economica contro il nemico principale, la Cina, si è invece dimostrato un fallimento, costringendo l’amministrazione statunitense ad un dietro front dopo la risposta uguale e contraria della controparte. Il crollo delle esportazioni cinesi (circa un meno 60%) a seguito dei dazi al 145% hanno creato più danni dei vantaggi, costringendo alla chiusura di un accordo che garantisse le forniture. La guerra economica con la Cina è quindi sfumata. L’aggressione economica verso le altre formazioni, soprattutto asiatiche e africane, ha dato la possibilità a Pechino di insinuarsi come partner affidabile e come difensore del libero mercato e degli accordi di mutuo vantaggio. Il fallimento oltre che economico è stato anche politico.
Il trumpismo che doveva costruire un nuovo ordine globale sta invece aggravando il procedere della tendenza alla guerra. L’amministrazione si era data come “obiettivo primario” sul fronte esterno, durante la corsa alle presidenziali, la mediazione delle guerre e i conflitti principali in corso: dalla fine della guerra fra Russia e Ucraina fino ai tentativi di accordo sul nucleare con l’Iran. Donald Trump si era posto come presunto pacificatore, spacciandosi per un benefattore che avrebbe posto fine alle ostilità e ricondotto il caos mondiale in un quadro utile agli obiettivi imperialisti Usa. I propositi di Trump partivano dalla considerazione che gli Usa sono ancora una potenza in grado di porre degli out out tali da costringere le altre potenze, alleate e non, ad assecondare i suoi ordini. L’amministrazione yankee si è scontrata però nei vari scenari con il nuovo quadro del multipolarismo di guerra, nel quale, per difendere la propria egemonia invece di chiudere dei fronti di guerra, li ha dovuti aumentare.
Con l’Iran ad esempio, l’amministrazione americana si era posta l’obiettivo di trovare un nuovo accordo sul nucleare attraverso colloqui con delegati persiani. Obiettivo ad oggi non raggiunto a seguito della guerra dei 12 giorni su iniziativa sionista culminata con un attacco americano diretto contro le basi nucleari.
In generale sul Medio Oriente, l’amministrazione Trump non ha ottenuto i risultati ai quali ambiva: ad aprile, la fine della campagna di aggressione contro lo Yemen è cessata per merito di un accordo con gli Houthi mediato dall’Oman. La resistenza yemenita ha cessato le operazioni contro le navi americane nel Mar Rosso, portando gli Usa a terminare l’aggressione. Tuttavia, le operazioni Houthi contro Israele sono continuate. Pertanto, gli americani hanno ottenuto l’esclusivo beneficio di non vedere intaccati i propri interessi marittimi nella regione. Non solo, su Gaza, lo sbandierato progetto “Trump Gaza” che promuoveva l’espulsione forzata dei palestinesi dalla propria terra e la costruzione di resort è rimasta un’ambizione al momento soltanto ideale per l’imperialismo Usa. Questo progetto prevederebbe quantomeno una riedizione degli Accordi di Abramo e una normalizzazione dei rapporti tra l’entità sionista e le petromonarchie arabe, opzione attualmente, quantomeno in salita. Basti vedere come la visita di Trump alla corte di Riad, conclusa con un accordo di investimenti per mille miliardi di dollari, non ha portato passi avanti nei rapporti tra sauditi e sionisti.
Sul fronte russo-ucraino le contraddizioni sono ancora più evidenti: l’incontro alla Casa Bianca fra Donald Trump e il presidente ucraino Zelensky è stato particolarmente acceso. La strategia della guerra d’attrito di Mosca ha fatto fallire il tentativo di sfondamento ad est rendendo sempre più costoso il prezzo del mantenimento del fronte ucraino. L’amministrazione riconosce che il conflitto in Ucraina è una guerra della quale non vuole più farsi carico dei costi economici in una situazione in cui i margini di capitalizzazione sono minimi. O meglio, in un quadro nel quale tutto quello che c’era da prendere è già stato preso, a partire dagli accordi sui minerali e le terre rare imposto a Kiev e la vendita delle armi made in Usa agli alleati. Chi oggi sta mettendo in discussione questo piano è la Russia, la quale con l’avanzata in corso, compromette l’accordo sulle terre rare firmato a maggio, questo spiega l’irritazione di Trump verso Putin e il via libera alla fornitura di armi a lungo raggio per Kiev e l’ultimatum di 50 giorni per ulteriori sanzioni.
Questo scenario si colloca coerentemente con la sua imposizione di dazi all’Unione Europa, alla quale ha scaricato i costi del conflitto. Le contraddizioni tra Usa e Ue sul conflitto in Ucraina esprimono due interessi divergenti. L’aggregato europeo punta al proseguo della guerra, coltivando l’illusione di logorare la Russia sacrificando fino all’ultimo ucraino, accollandosene i costi, con l’obbiettivo secondario di puntellare la propria crisi economica con il keynesismo militare. Gli Usa invece puntano ad un disimpegno per rivolgere le proprie forze sul Medio Oriente e soprattutto sull’indo – pacifico.
L’American First! che doveva determinare per gli Usa una “nuova età dell’oro”, li sta gettando ancora di più nella crisi, aggravando ulteriormente, con la progressiva perdita di egemonia statunitense, la fase di multipolarismo di guerra a livello globale e la tendenza alla guerra. Tutte le formazioni imperialiste tradizionali sono investite da questa crisi nella quale Trump si sta rivelando fattore di ulteriore destabilizzazione e precipitazione della crisi globale con il conseguente deterioramento del vecchio ordine e l’emergere di ulteriori contraddizioni che alimentano la tendenza alla guerra.
RIARMO EUROPEO
La linea di Trump di disimpegno statunitense dal fronte ucraino era stata annunciata a gran voce dal candidato presidente durante la propria campagna elettorale, sicuro di poter chiudere il conflitto in 24 ore. Per gli Usa, il sostegno a Zelensky ha rappresentato un enorme dispendio economico non più necessario alla luce del raggiungimento di uno dei principali obiettivi: il disaccopiamento dell’economia Ue dalle materie prime russe e l’acquisto obbligato delle stesse dagli Usa.
Il disimpegno statunitense ha posto i paesi dell’Ue con le spalle al muro, costringendoli a scegliere tra il continuare la guerra sostituendosi agli Usa come procuratori o accettare l’umiliante sconfitta. In questo quadro si inserisce il piano di riarmo e i vari tentativi di formare alleanze intra – europee che paventino una autonomia strategica da Washington.
Infatti, se è sbagliato parlare di un’uscita totale degli Usa dalla guerra con la Russia è comunque innegabile che lo scontro venga per il momento affidato alle potenze europee. Queste ultime sembrano essere le meno intenzionate a cedere sullo scontro aperto con la Russia, vedendo lo sfondamento a est come cruciale.
La “coalizione dei volenterosi” guidata da Inghilterra e Francia, ha proprio l’obbiettivo di compattare le potenze occidentali, principalmente europee, in un fronte che sostenga l’Ucraina anche senza il supporto Usa.
Per l’aggregato imperialista europeo questa diventa anche l’occasione per puntellare la propria crisi economica attorno al keynesismo militare ovvero usare l’indebitamento comunitario e dei singoli stati come leva attorno alla quale dare una boccata d’ossigeno alla crisi industriale e attirare i capitali finanziari in fuga dai rally di Wall Street.
Le potenze europee giocano la carta del Rearm Europe (o Readiness 2030): 800 miliardi da stanziare alla difesa entro il 2030, di cui 150 miliardi dovrebbero essere ottenuti tramite l’indebitamento collettivo (sullo stile del Recovery Fund) e i restanti 650 saranno messi dagli stati tramite i patti di stabilità e verosimilmente tramite tagli alle spese pubbliche, con conseguenze drammatiche per le condizioni di vita delle masse. Questa strada è confermata dall’accordo Nato per l’aumento della spesa militare fino al 5% del Pil imposto dagli Usa all’ultimo meeting all’Aja.
La guerra è la scelta strategica con cui la borghesia imperialista cerca di affrontare la crisi strutturale, riorganizzando tutta l’economia in funzione della guerra e accantonando le politiche messe in campo precedentemente, come l’ormai defunta transizione energetica. Il piano di riarmo risponde principalmente alle esigenze del fronte esterno, ovvero al procedere della tendenza alla guerra globale, ma assume anche il compito di rispondere alle necessità che la crisi interna delle formazioni capitaliste occidentali impone.
Nell’imperialismo e soprattutto nei periodi in cui i venti di guerra soffiano con maggior vigore, il settore bellico, garantisce profitti solidi. Le armi, avendo come acquirenti gli stati e avendo una richiesta continua e una produzione di fatto pianificata, permettono di avere una realizzazione di profitto assicurata, tale da attirare gli appetiti del capitale finanziario. Con il keynesismo militare e l’aumento abnorme della spesa bellica, il settore militare diventa un mercato sicuro che garantisce profitti senza pari e al riparo dall’insicurezza e dall’instabilità dei mercati finanziari. Per fare esempi concreti i titoli di Leonardo hanno registrato un +65% nei soli ultimi sei mesi e un +111% in un anno, la tedesca Rheinmetall un +147,5% negli ultimi sei mesi e +259,9 in un anno, numeri da far impallidire i titoli di alcune delle principali Big Tech statunitensi.
La guerra inoltre aiuta ad affrontare la crisi anche dal punto di vista della produzione industriale. La crisi produttiva dell’industria europea, ai massimi storici, rappresenta ad oggi una delle manifestazioni più concrete della crisi generale del capitalismo. Il settore auto, devastato dalla crisi, sta già iniziando un percorso di riconversione al militare. L’avanguardia in questo tipo di variazione d’uso è attualmente la Germania che ha già avviato questo processo. La Rheinmetall si sta tuffando a capofitto in questa opportunità e si è già attivata per l’acquisizione di stabilimenti Volkswagen. L’azienda mira ad acquistare lo stabilimento di Osnabrück e in futuro quello di Neuss a Berlino per convertirlo in fabbrica di veicoli blindati e carri armati. La stessa Volkswagen ha espresso apertura alla riconversione di impianti verso la produzione militare o come partner nella difesa, oltre a partecipare già alla joint venture Rheinmetall MAN. A questo si aggiunge l’intenzione di altre aziende del tenore di Porsche di siglare accordi con il settore difesa e la conversione di tutto l’indotto automobilistico che comprende aziende come Bosch e Continental.
Il programma di riconversione industriale, già avviato in Germania, è facile che venga applicato anche altrove; il governo francese ha invitato Renault a collaborare nella produzione di droni destinati all’Ucraina, e anche qui in Italia, il Ministro Urso ha caldeggiato la riconversione del settore automobilistico. Ogni formazione cerca di sfruttare al meglio le possibilità offerte dal keynesismo militare, piegandolo alle proprie esigenze.
Dal piano di riarmo europeo chi sembra guadagnarci di più al momento è l’imperialismo tedesco. È evidente come i monopoli tedeschi siano in prima linea in questo processo e come lo Stato tedesco stia svolgendo una funzione di guida, che dopo ottant’anni riprende a riarmarsi. La Germania, uscita sconfitta dalla seconda guerra mondiale, non ha mai avuto una reale indipendenza strategica sul piano militare. Il suo esercito è sempre stato di fatto appendice dell’esercito statunitense, presente nel Paese con 70 basi e oltre 60 mila soldati e ad oggi non aveva mai sviluppato una capacità militare paragonabile ad altre potenze imperialiste come Francia o Gran Bretagna. Per cui il piano europeo porta per l’imperialismo tedesco l’ingresso in una nuova fase, caratterizzata da una produzione industriale maggiormente incentrata sul militare e una crescita della capacità bellica che dovrà riflettersi anche sul piano dell’autonomia strategica, per quanto ad oggi non emerga.
Per l’ingresso in questa nuova fase, la figura di Merz alla guida del paese sembra la cosa ideale, l’annuncio che la Germania dovrà avere l’esercito più forte d’Europa va esattamente nella direzione indicata. La sua fedeltà agli interessi dell’imperialismo occidentale è ben affermata nelle dichiarazioni pubbliche, sia sulla necessità di rifornire l’Ucraina di armi “senza limitazione di gittata”, sia sul contesto mediorientale e sull’Iran quando ha affermato che “Israele sta facendo il lavoro sporco per tutti noi”. Merz, da sempre così severo sul freno al debito, a marzo 2025 ha varato una riforma costituzionale in cui viene esclusa dal vincolo del debito la spesa militare oltre l’1% del pil con lo slogan “per la difesa a qualunque costo”. La stessa riforma prevede l’istituzione di un fondo di 500 miliardi per difesa e transizione energetica (400 miliardi alla difesa e 100 alla transizione energetica) che vanno ad aggiungersi a quelli stanziati da Bruxelles.
Il Rearm Europe rappresenta dunque una svolta epocale nella politica di guerra delle formazioni europee. Oltre a riarmare Stati “disarmati” da decenni, costituirà forse la più concreta applicazione dell’economia di guerra e del keynesismo militare, e le conseguenze saranno sulla pelle delle masse popolari, che saranno le prime a pagare questo riarmo. Se ci fossero dei dubbi basta vedere le recenti proposte del primo ministro francese Bayrou con tagli alla spesa pubblica per 43,8 miliardi, congelamento di aliquote fiscali e pensioni, il taglio di 3 mila posti di lavoro nel pubblico e l’eliminazione di due festività nazionali. Tagli e misure draconiane che escludono il settore difesa, al quale verrà invece aumentato il budget per oltre 3,5 miliardi di euro.
OLTRE IL MEDIO ORIENTE, LA POLVERIERA MONDIALE
La notte del 13 giugno l’entità sionista, sostenuta dagli Usa, avvia un’operazione in grande scala contro l’Iran, colpendo siti missilistici e strategici e uccidendo in poche ore decine tra scienziati del programma nucleare e figure di rilievo della catena di comando del corpo dei Pasdaran assieme alle loro famiglie. La motivazione pubblica della quinta aggressione in un anno a danno di una vicina nazione, espressa dal boia Netanyahu e ripresa dalle testate e capi di governo di tutto l’Occidente, è la poco originale nuova crociata contro il dittatore di turno, dotato di armi di sterminio di massa, in questo caso il nucleare, l’entità sionista ripropone la “guerra agli stati canaglia” legittimata dal proprio diritto ancestrale all’autodifesa. Tutto il fronte occidentale, nel quale si intravede ogni tanto qualche piccola crepa nella difesa senza sé e se ma della colonia sionista, si è ricompattato attorno a Tel Aviv, sostenendo apertamente l’aggressione, come ha detto Merz “Israele sta facendo il lavoro sporco per l’Occidente”.
Propaganda a parte l’entità sionista si gioca il tutto per tutto, puntando a ridefinire il proprio ruolo come potenza regionale puntando alla creazione del Grande Israele. Il progetto strategico comprende lo sterminio e la deportazione della popolazione di Gaza, l’annessione di tutti i territori palestinesi, compresa tutta la Cisgiordania, l’espansione in Libano, Siria e chissà cos’altro.
Dopo la dimostrazione del fallimento simboleggiato dalle immagini vittoriose delle fazioni della Resistenza dopo la conquista della tregua, da maggio l’entità sionista ha inaugurato una nuova fase del genocidio. L’entità sionista ha avviato un’ampia operazione di terra denominata “Carri di Gedone”. Con il pieno appoggio dell’amministrazione Trump, l’entità sionista ha estromesso l’Onu e qualsiasi controllo internazionale sugli aiuti e affidato la distribuzione degli stessi alla Ong americana Gaza Humanitarian Foundation trasformando i punti di distribuzione in trappole mortali che hanno provocato in 2 mesi quasi mille martiri e migliaia di feriti. Inoltre ha finanziato e armato gruppi criminali palestinesi presenti a Gaza in chiave anti-resistenza, come quella capeggiata da Abu Shabab, diretti carnefici accertati di palestinesi in attesa degli aiuti e artefici di sabotaggi nei mesi precedenti ad alcuni dei pochi camion umanitari entrati. Di fronte alla strategia sistematica di annientamento fisico e psicologico messa in atto, le fazioni della Resistenza mantengono la loro presenza e capacità offensiva provocando continue vittime tra le fila sioniste. L’intensità delle operazioni della Resistenza a Gaza, che han visto addirittura triplicare gli attacchi e sabotaggi quotidiani da inizio giugno, continuano a far vedere al mondo che dopo due anni di massacri e distruzione la Resistenza rimane forte e ininterrotta.
L’attuazione del progetto del Grande Israele passa necessariamente per l’eliminazione di quegli attori che possono ostacolarlo a partire dalle forze della Resistenza e quei governi che la sostengono. Oggi vediamo meglio come la balcanizzazione della Repubblica Araba Siriana, ridotta ad arena nella quale si consuma una drammatica guerra civile e la persecuzione delle minoranze etniche e religiose, abbia portato un enorme vantaggio all’entità sionista. Da un lato è stato interrotto il canale di rifornimento e retroterra strategico della Resistenza libanese e palestinese, dall’altro ha aperto lo spazio per l’espansionismo sionista e la costruzione del “Corridoio di Davide”, un percorso che parte dalla Siria meridionale, attraversa le province di Sweida e Quneitra e, passando per le aree controllate dalle forze curde sostenute dagli Usa nella Siria nord – orientale, raggiunge la regione del Kurdistan iracheno e i confini con Iran e Turchia. Un piano che punta a ridisegnare i confini, l’influenza e la capacità operativa del sionismo come punta di lancia dell’imperialismo Usa e occidentale nel Medio Oriente. L’attuale ginepraio vede scontrarsi sul campo, tramite i propri referenti locali, le varie potenze regionali: turchi e sauditi, quali difensori politici, militari e finanziari dell’attuale governo di Damasco e dell’integrità territoriale siriana, e dall’altra i sionisti che perseguono la linea della balcanizzazione e dello spezzettamento. Questi ultimi, tramite il supporto delle minoranze druse e tramite attacchi dell’Idf contro obiettivi siriani punta ad espandersi ulteriormente. Nell’attuale guerra civile in Siria si sostanzia la fattibilità o infattibilità dei nuovi accordi di Abramo e la normalizzazione dei rapporti tra entità sionista e petromonarchie.
È facilmente inquadrabile quindi l’aggressione all’Iran, il quale oltre ad essere il promotore dell’Asse della Resistenza, grazie alla quale i piani sionisti e statunitensi hanno avuto sonore battute d’arresto, è anche la terza più grande riserva petrolifera che detiene il controllo del principale snodo marittimo da cui il mondo si rifornisce attraverso le petromonarchie affacciate sul Golfo Persico. Inoltre, è un alleato chiave dei nemici dell’occidente per eccellenza, Russia e Cina: dal punto di vista statunitense, oltre a garantire il dominio sionista nell’area, la caduta dell’Iran avrebbe significato colpire un membro dei Brics, la principale minaccia economica all’egemonia occidentale.
Il tentativo di un veloce annichilimento della linea di comando e delle capacità offensive iraniane per aprire le porte alla destabilizzazione interna si è scontrato con una incredibile tenuta sociale, militare e politica intorno alla difesa dell’autodeterminazione del popolo iraniano.
Dopo i primi due giorni di colpi subiti il popolo iraniano ha reagito con una forte mobilitazione di difesa nazionale che ha ricompattato anche le schiere più ostili al governo e ha iniziato a lanciare il proprio arsenale missilistico sui territori occupati. Il tentativo di regime change che voleva sfruttare le mobilitazioni delle donne e delle masse iraniane contro il regime dell’Ayatollah e utilizzare i curdi come testa di ponte è fallito miseramente.
La rappresaglia iraniana ha mandato in collasso i sistemi difensivi sionisti, riuscendo a penetrare nonostante il supporto di Usa, Gb, Francia e Giordania. Nei 12 giorni di guerra l’entità sionista ha visto la propria economia congelata, centinaia di migliaia di cittadini trasferiti per giorni nei bunker, il bombardamento dell’unica raffineria, dei tre porti e dell’unico aeroporto del paese, con un tentato esodo di massa dei coloni bloccato scompostamente dal governo. I danni subiti sono stati tali che la propaganda sionista ha cercato di censurare qualsiasi notizia a riguardo.
L’intervento diretto degli Usa ha fotografato la debolezza dell’entità sionista, incapace di raggiungere i suoi obbiettivi contro il nemico, e sancito la sua sconfitta. La toccata e fuga dei famigerati B2 americani sul sito di Fordow la notte del 22 giugno, le successive rassicurazioni sull’assenza di ulteriori attacchi e la veloce mediazione per un cessate il fuoco ufficializzato 2 giorni dopo, ha palesato l’urgenza per Israele di una parvenza di vittoria per congelare l’escalation e correre ai ripari.
La guerra all’Iran è stata una sconfitta per l’asse americano – sionista e ci mostra il precipitare dei contrasti internazionali verso la terza guerra mondiale. La copertura atomica offerta dal Pakistan, le preoccupazioni turche sui piani di espansione del sionismo o il supporto nascosto della Cina, oltre ad aver mostrato un Iran non isolato di fronte all’aggressione imperialista, fa emergere il carattere centrifugo della guerra dei 12 giorni con possibili escalation su scala sempre più ampia. Questo carattere centrifugo, inaugurato con la guerra in Ucraina, è un tratto che tende a riproporsi nel multipolarismo di guerra, per cui conflitti locali assumono un carattere di guerra mondiale in miniatura, nei quali le principali potenze si confrontano costantemente. Lo abbiamo visto con le fiammate tra India e Pakistan e più recentemente tra la Thailandia, storicamente legata all’Occidente e la Cambogia che condivide stretti legami con la Cina. Questo carattere si scontra con la capacità degli Usa e delle potenze imperialiste occidentali di mantenere aperti più fronti contemporaneamente, a causa dell’eccessiva domanda e relativo costo nella produzione e fornitura di armamenti, costringendoli a chiudere e ritirarsi dai fronti, in ultimo quello contro l’Iran e in un’ottica di economia delle forze da rivolgere contro il nemico principale.
LA POLITICA A TRE GAMBE DEL GOVERNO MELONI
Raggiunti gli oltre mille giorni di governo, l’attuale esecutivo si candida ad essere uno dei più longevi e solidi nella storia repubblicana. Neanche il referendum promosso dalla Cgil, che ha comunque mobilitato 14 milioni di voti, è riuscito a mettere pressione alla coesione interna dell’asse Fdi, Lega e Fi. L’unico terreno sul quale si vedono contraddizioni all’interno della maggioranza è sul piano della politica estera, nella quale le tre forze esprimono linee e tendenze divergenti, per quanto al momento la premier riesca a rappresentarne una sintesi, l’aggravamento della crisi e delle contraddizioni a livello globale possono riflettersi portando i nodi a stringersi. La Meloni cerca di tenere fuori dalla politica interna le pressioni derivanti dal piano internazionale per evitare che queste si saldino con la crisi strutturale della formazione italiana e si riversino come fattore di aggravamento, diventando un elemento di instabilità per il governo e portino a convergenze di interessi tra settori della maggioranza e dell’opposizione. La fotografia ci proviene dal voto sulla mozione di sfiducia alla von der Leyen nel parlamento europeo dove FI e ampi settori del Pd hanno votato contro, FdI, minoranze del Pd e Avs si sono astenute, mentre Lega, M5s hanno votato a favore. Questo voto riflette le divisioni interne alla classe dominante italiana, come espressione delle frazioni che compongono la borghesia monopolista e finanziaria del nostro paese (vedi Antitesi 18, Lo stivale nel sangue, pag. 53) e come questa si riversa trasversalmente nei propri referenti politici. Fi e il Pd esprimono la linea più europeista, mentre la Lega è quella che oggi guarda più ossessivamente a Trump. In questa situazione Fdi rappresenta una linea di pragmaticità delle scelte che cerca di mediare le spinte unilaterali e punta a rappresentarne una sintesi.
In questa contesto il governo si muove nello scenario più ampio del multipolarismo di guerra poggiando su tre gambe: fedeltà a Washington, autorevolezza a Bruxelles e ricerca di spazi di autonomia con il piano Mattei verso Africa e Asia. La strategia del governo non è priva di contraddizioni, anzi, basti pensare all’ultimo summit della “coalizione dei volenterosi”, guidata da Francia e Regno Unito in sostegno all’Ucraina, da cui l’Italia è rimasta esclusa. Che l’esclusione sia dovuta alla volontà della Meloni di non esporsi o dalla sfiducia nei confronti dell’esecutivo degli altri leader europei, poco cambia: il governo e la borghesia imperialista italiana stanno provando a negoziare la loro posizione nel conflitto ucraino cercando di trovare un collocamento che non produca strappi né con gli Usa né con gli alleati europei.
Da un lato, c’è la necessità di garantirsi un ruolo di primo piano all’interno dell’UE, sostenendo la linea di difesa ad oltranza di Kiev, in vista anche della spartizione del bottino del Rearm Europe. Dall’altro, la Meloni ha bisogno del lasciapassare Usa per coltivare le proprie velleità di autonomia in Africa e Asia, posizionandosi come il referente trumpiano per eccellenza in Europa. Non solo, la Meloni cerca di sfruttare questa posizione per ritagliarsi un ruolo di mediatrice nella frattura che il conflitto in Ucraina e i dazi yankee hanno aperto tra USA e UE, come dimostrato con la convocazione a Roma del vertice trilaterale con Vance e la von der Leyen.
Questa posizione è stata platealmente manifestata dalla Meloni anche il 24 giugno, quando in Senato ha respinto l’idea franco – tedesca di un’alleanza militare europea parallela alla Nato come una “inutile duplicazione”. Sulla falsa riga della Meloni, lo stesso ministro della difesa Crosetto è intervenuto ad un convegno all’Università di Padova dichiarando che sebbene la Nato debba adeguarsi allo stato di cose attuali (il multipolarismo di guerra), l’Unione Europea deve allinearsi al suo alleato statunitense. Vediamo così l’espressione di una contraddizione all’interno della borghesia italiana che cerca di non fare strappi o salti in avanti, per evitare che questi si riversino sulla delicata situazione economica interna. Anche la linea italiana sui dazi segue la medesima posizione di cautela e ricerca di un accordo. L’Italia, dopo la Germania, è la formazione che subirebbe i danni maggiori dal protezionismo di Washington, motivo che ha portato la premier a cercare un punto di mediazione direttamente con Trump. Il peso dell’accordo però è mal digeribile dagli alleati e prevede la liberalizzazione dei servizi, l’esenzione dall’Iva e l’eliminazione della Web Tax, ovvero quei pochi strumenti di pressione che l’aggregato UE può opporre agli USA in termini di difesa dei propri interessi.
La distanza tra Meloni e l’UE si coglie anche nell’appiattimento sulla politica bellica e genocidaria di Netanyahu nella retorica di Tajani, proprio mentre i media e politici europei stavano iniziando a discostarsi dagli “eccessi” dell’entità sionista. Non a caso, a maggio, il governo italiano, insieme a quello tedesco, si è espresso contrario alla revisione degli accordi commerciali preferenziali tra l’UE e l’entità sionista, anzi il governo mira ad un rinnovo tacito del Memorandum ventennale tra Italia – Israele, scaduto l’8 giugno ma che formalmente dovrà essere rinnovato ad aprile 2026.
Lo stato dell’arte non deve quindi far pensare a un imperialismo “straccione”, quanto piuttosto ad una potenza imperialista in crisi che cerca di trovare una propria strada nel quadro dei limiti imposti dalla catena di comando imperialista occidentale e dalle opportunità offerte dal multipolarismo di guerra. L’Italia, come le altre formazioni, tenta di utilizzare la guerra per puntellare la propria crisi di sovraccumulazione, puntando a rafforzare la propria posizione cercando un equilibrio nell’instabilità data dalla crisi di egemonia e dalle contraddizioni che attraversano il campo occidentale. Vanno in questa direzione gli accordi e i programmi di collaborazione internazionale tra Leonardo e Rheinmetall o tra Leonardo, Bae Systems e Mitsubishi (Gcap) per la costruzione dei caccia di sesta generazione. Per stessa ammissione della Leonardo, questa progettualità farà da volano per i capitali italiani sempre più invischiati nella filiera bellica. Sebbene per ora l’obiettivo sia quello di raggiungere il 2% del Pil aggiungendo tra i 10 e gli 11 miliardi alla spesa militare, che già si aggira sui 35 miliardi, l’Italia si sta gradualmente adeguando ai dettami atlantisti volti a far aumentare la spesa militare al 5% del Pil. Ciò significherebbe investire oltre 70 miliardi di euro nel settore bellico, che a sua volta comporterebbe una macelleria sociale in cui istruzione, sanità e salari saranno sacrificati in nome della “difesa comune”.
A fronte di queste spese, la Meloni agisce per favorire l’esportazione dei capitali e l’apertura di nuovi mercati siglando accordi con paesi dell’Asia Centrale (Kazakhistan, Uzbekistan, ecc.) su materie prime, investimenti finanziari e infrastrutture energetiche ed idriche. Simili accordi sono stati siglati con l’Arabia Saudita, ammontando a 10 miliardi di euro e sempre con al centro le risorse energetiche e l’apertura di nuovi spazi per investimenti ed esportazioni dei capitali italiani nelle infrastrutture saudite. Similmente, tramite il piano Mattei è da un anno che il governo – nel nome dei “partenariati su base paritaria” – cerca di assicurarsi investimenti e partenariati strategici nel continente africano, nel tentativo di diventare “il punto di congiunzione tra l’Occidente e il Sud del mondo”. In poche parole, mentre il governo Meloni prova a tenere dritta la rotta sull’Ucraina e su Israele, navigando le tensioni tra UE e USA per non perdere i suoi interessi strategici “tradizionali”, guarda anche verso nuovi mercati sfruttando la filiera bellica ed energetica per sostenere la sua oligarchia finanziaria aggravata dalla crisi. Come abbiamo detto il percorso non è privo di insidie, anzi, la tendenza alla guerra e la crisi globale sono il principale fattore di instabilità per l’esecutivo e per le linee che lo attraversano.
IL POST REFERENDUM E L’ATTACCO AI SALARI
Il referendum dell’8 – 9 giugno non ha raggiunto il quorum, al di là dell’esito formale, il voto ci consegna una fotografia utile per comprendere la fase attuale e i rapporti di forza in campo. Per chiarezza, anche in caso di vittoria del sì, non sarebbe cambiato l’equilibrio strutturale tra chi sfrutta e chi viene sfruttato. Nessuna norma o codice può abrogare e abolire la sostanza di questo sistema, ma solo il superamento degli attuali rapporti di produzione. Va detto però che una vittoria del referendum avrebbe rappresentato un miglioramento delle condizioni di milioni di lavoratrici e lavoratori, in una fase segnata dalla precarietà, dalla compressione dei diritti e dalla perdita del valore reale dei salari. La comprensione di questo dato materiale sta alla base del risultato che registra la partecipazione di 14 milioni di persone al voto, un risultato non da poco per la sola Cgil, sostenuta da settori del sindacalismo di base, ma isolata da Cisl e Uil.
I motivi della sconfitta vanno ricercati nell’assenza di mobilitazione sui temi e sulla delegittimazione dei promotori agli occhi delle masse. Il dato che emerge dall’esito dei referendum ci ricorda che anche una battaglia per le riforme quando non sostenuta da rapporti di forza, dalla mobilitazione della classe è destinata alla sconfitta. È il caso di questo referendum, ideato dai bonzi della Cgil con l’obiettivo di ricostruirsi una verginità, fuori tempo massimo, verso la classe lavoratrice. Attorno ai temi del referendum non è in corso nessuna mobilitazione, la classe ha vissuto questo referendum e le questioni che agitava come spettatrice passiva, mobilitata al voto dallo stesso sindacato che quando doveva fare le barricate non le ha fatte e che all’epoca mise in campo qualche passeggiata di salute solo per salvare la faccia.
Inoltre, non è passata inosservata l’operazione politica di saldatura del campo largo sui temi del lavoro in funzione anti – Meloni. Per ampi settori di massa, il referendum, è stato visto come un’operazione di facciata nella quale il campo promotore, con il PD in testa e il sostegno di strutture sindacali ormai delegittimate ha tentato di recuperare legittimità dopo anni di complicità con le politiche che hanno smantellato le tutele sul lavoro: dal Jobs Act alla legge Fornero. Questo tentativo è apparso per ciò che è, un’operazione compattamento elettorale, e non ha suscitato fiducia in chi quelle scelte le ha subite sulla propria pelle.
Padroni e governo sono in una fase di attacco alle condizioni della classe lavoratrice su molteplici piani e godono dell’alleanza con il secondo sindacato con più iscritti in Italia, la Cisl.
La cosiddetta “legge Sbarra”, figlia del patto tra governo Meloni e il sindacato verde, va letta in questo quadro: una ristrutturazione autoritaria della rappresentanza sindacale, finalizzata a rendere residuale ogni sindacalismo conflittuale. Questa legge punta a costruire un sistema neocorporativo, dove il conflitto viene neutralizzato, sostituito da accordi gestiti dall’alto, dentro meccanismi di potere che servono solo al capitale. È un ritorno, in forma aggiornata, alla logica fascista della collaborazione di classe. In questo schema si inserisce la nomina di Luigi Sbarra a sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega al Sud: un passaggio da “sindacalista” a uomo di governo che certifica i comuni interessi tra governo padronale e burocrazia sindacale. Altro che rappresentanza: è co-gestione dell’oppressione.
La legge Sbarra promuove un nuovo “patto sociale” per garantire la pace interna, perché nel frattempo il governo prepara il conflitto esterno e il costo della guerra ricadrà sulle spalle dei lavoratori. Per sostenere questa traiettoria servono lavoratori docili, impoveriti, disciplinati: una forza – lavoro che produce molto, rivendica poco e rinuncia al conflitto. Una classe operaia pacificata. Questo è l’obiettivo perseguito, al quale la legge Sbarra non è detto risponda poi nella pratica rischiando di rimanere solo sulla carta, tanto che il presidente di Confindustria Orsini dal palco dell’assemblea padronale di Bologna ha rivolto un accorato appello ad un nuovo patto sociale. Il destinatario dell’appello è Landini, Confindustria è consapevole che senza un sostegno totale della Cgil, qualsiasi patto sarebbe monco e le colombe all’interno del sindacato sono molte e pronte a rispondere positivamente, tanto più che l’attuale segretario è a fine mandato e l’anno prossimo si aprirà la fase congressuale. La Cisl ha già garantito la propria disponibilità a rompere qualsiasi collaborazione e unità sindacale, la strada intrapresa nel settore pubblico e semipubblico, dove ha firmato vari contratti (Ccnl Pubblico Impiego, Ccnl Poste italiane, Ccnl Sanità Pubblica) di propria iniziativa baypassando le altre sigle confederali e avallando nei fatti i piani statali di contenimento di salari e diritti, di aderenza ideologica e di sottomissione ai manager da parte dei lavoratori, ne sono la prova.
La linea del governo di comprimere ulteriormente i salari è emersa anche con l’inserimento di norme capestro all’interno del Dl Salva Ilva, nel quale l’esecutivo ha cercato di inserire dei limiti al recupero dei crediti che i lavoratori avanzano nei confronti dei padroni e limitando il ruolo dei giudici nella definizione di retribuzione proporzionata ai sensi dell’art. 36 della Costituzione. Con un colpo di mano, poi ritirato, il governo dava un segnale ai padroni invitandoli a fare carta straccia di contratti nazionali, garantendo l’impunità anche rispetto a quelle poche norme e obblighi per i padroni che esistono e puntando ad estendere la fascia di lavoratori poveri.
La necessità di garantire una pace sociale granitica è legata alla possibilità di capitalizzare i fondi del piano Rearm Europe, alla transizione da civile a militare delle fabbriche e al mantenimento della competitività dell’industria nostrana data esclusivamente dai bassi salari. I margini per coltivare un’aristocrazia operaia elargendo qualche briciola sono risicatissimi, sia dal punto di vista padronale, che non ha alcuna intenzione di cedere parti dei propri profitti, sia dal punto di vista governativo che deve indirizzare la spesa pubblica verso le spese militari. Anche Confindustria ammette che i salari sono troppo bassi, ma la risposta è sempre la stessa: nessun aumento fisso in busta paga. Gli unici contratti che oggi portano a casa degli aumenti, sono quelli che durante gli ultimi anni di pesante inflazione non avevano sistemi di compensazione. Tradotto in altri termini, anche portando a casa qualche soldo in più e ancora troppo poco rispetto al costo della vita.
Salari bassi significano anche meno contributi versati all’Inps, meno consumi e meno entrate fiscali, di conseguenza problemi nella tenuta nei conti pubblici. E cosa propone il governo? Una misura che è un vero e proprio scippo: utilizzare il Tfr dei lavoratori per coprire i buchi della previdenza. Formalmente resterebbe ai lavoratori, ma nei fatti verrebbe gestito pubblicamente, vincolato e sottratto quindi alla disponibilità, non verrebbe più anticipato per una casa o per spese urgenti. L’altra soluzione è l’allungamento dell’età pensionabile con l’eliminazione delle agevolazioni per le uscite anticipate, i bonus per chi decide di rimanere a lavorare e c’è in campo pure l’ipotesi di rendere obbligatoria la pensione integrativa.
In questo quadro l’obiettivo della Meloni è evitare che lavoratrici e lavoratori scendano in campo, rappresentando una variabile che rischia di far saltare il banco, mettendo attivamente i bastoni fra le ruote ai piani di guerra e ai profitti padronali. Il pericolo è concreto ed è esemplificato da tutti quei settori in mobilitazione: dai portuali, ai ricercatori universitari, ai ferrovieri, alla logistica e alle tante lotte che si sviluppano su tutto il territorio.
Lo abbiamo visto anche il 20 giugno, durante lo sciopero dei metalmeccanici per il rinnovo del contratto nazionale e lo sciopero generale dei sindacati di base, quando 10 mila metalmeccanici a Bologna hanno invaso la tangenziale. L’iniziativa operaia ha violato apertamente il Dl Sicurezza di recente approvazione ponendo alla controparte politica un grosso problema: reprimere gli operai o far finta di nulla, nel primo caso il rischio era una possibile escalation della mobilitazione, dall’altro significava accettare uno schiaffo politico a tutta la prosopopea repressiva dell’esecutivo. La linea della Meloni è stata per ora sulla seconda, convocando in fretta e furia le parti sociali per il giorno seguente per la riapertura della trattativa. L’incontro non ha dato inizialmente gli esiti sperati dalla premier con Confindustria ferma sulla posizione di chiusura a trattare di aumenti salariali. Solo successivamente il tavolo si è riaperto in un’ottica di congelamento momentaneo del conflitto.
Gli scioperi dei metalmeccanici, arrivati a 40 ore dalla rottura del tavolo, hanno registrato alte adesioni per quanto la partecipazione non si riflettesse nelle piazze.
La disponibilità alla lotta da parte della classe operaia c’è anche se ad oggi non ha ancora trovato la strada per far emergere fino in fondo il proprio protagonismo rompendo gli argini che l’opportunismo sindacale spesso gli impone.
LEGARSI ALLE MASSE, SVILUPPARE LA PROSPETTIVA RIVOLUZIONARIA
Il terreno della lotta contro la guerra imperialista ha visto un importante sviluppo. La mobilitazione in solidarietà al popolo e alla Resistenza in Palestina ha creato il terreno fertile nel quale coltivare l’opposizione al riarmo europeo, all’aumento delle spese militari e in generale alla guerra imperialista.
La sinistra borghese si è trovata costretta a scendere in campo per tentare di non perdere terreno a fronte del dissenso della maggioranza delle masse ai piani di riarmo e alla tendenza alla guerra. Infatti, i partiti del campo largo, dal Pd, al M5s, ad Avs, in questi mesi hanno partecipato e promosso numerose iniziative a favore di Gaza, della Palestina e di una generica pace.
Dopo il fallimento della manifestazione europeista di marzo, una piazza dichiaratamente schierata per il riarmo, la mobilitazione No Rearmeurope del 21 giugno rappresenta il tentativo di raccogliere il consenso delle masse che sono contrarie alla guerra e al piano di riarmo europeo, per collocarlo dentro un generico pacifismo che non metta in discussione la partecipazione italiana ai piani dell’UE e alla Nato e al processo di guerra imperialista in corso.
La sinistra borghese, costituzionalmente pro-Ue, pro-Nato, sionista sino al midollo, a favore del riarmo e parte integrante del progetto imperialista, è costretta a prendere parte della mobilitazione, provando a mettersi alla testa della stessa per darsi una nuova legittimità agli occhi delle masse e per tenere la lotta nel campo della compatibilità con gli interessi della classe dominante. La sinistra borghese porta avanti questo processo con tutto il carico di contraddizioni che comporta, in un quadro di debolezza strategica e senza un progetto egemonico.
Non solo in Italia, ma in tutto il mondo, la sinistra borghese cerca di riportare il movimento di solidarietà verso la posizione opportunista della soluzione “due popoli due stati”, parlando unicamente in termini umanitaristici di quello che avviene a Gaza, tralasciando volutamente ciò che succede in Cisgiordania e in tutti i territori occupati, slegando il genocidio dagli interessi economici che lo muovono. Quest’operazione è funzionale a rilegittimare il sionismo e la colonia d’insediamento, impersonificando in Netanyahu il colpevole, oltre che impedire a tutti i costi che la solidarietà nei confronti della Palestina si trasformi realmente in un movimento contro la guerra imperialista.
Infatti, nei mesi precedenti, le mobilitazioni per la Palestina si erano contraddistinte per la loro radicalità, rivendicando la posizione della Resistenza Palestinese “Palestina libera, dal fiume al mare” e costruendo quella solidarietà internazionale basata non solo su un sentimento umanitario, ma sul riconoscere nel sionismo un nemico comune e quindi nell’opposizione degli interessi che legano lo stato italiano a “Israele” nelle università, nel settore bellico e nella logistica.
Il punto più avanzato in questo senso è quello dalle piazze del 25 aprile che in tutta Italia si sono caratterizzate nel sostegno alla Resistenza Palestinese, tracciando una linea rossa di continuità con chi 70 anni fa lottava armi in pugno contro fascismo e nazismo, contestando la partecipazione della brigata ebraica e di chi voleva utilizzare quelle piazze per giustificare il genocidio in corso a Gaza e la tendenza alla guerra.
Il dato che va raccolto è che la scesa in campo della sinistra borghese e dei suoi apparati è il risultato della mobilitazione reale delle masse in favore della Palestina e contro le politiche di guerra. Una scesa in campo che per debolezza strategica della prospettiva neoriformista e per la delegittimazione della quale queste forze godono agli occhi delle masse apre spazi che noi dobbiamo imparare a utilizzare per perseguire i nostri obiettivi: accumulare forze, raccoglierle su un piano di organizzazione dei comunisti, legarci alle masse e favorire le condizioni per il protagonismo e crescita delle stesse nella lotta contro la guerra e l’imperialismo di casa nostra.
L’aggravamento della condizioni di vita delle masse e l’imporsi della tendenza alla guerra come problema materiale, concreto dei proletari, che emerge in maniera sempre più tangibile è il contenuto sul quale sviluppare la resistenza tra le masse popolari e soprattutto tra le lavoratrici e i lavoratori e sul quale accumulare forze per la prospettiva rivoluzionaria nel nostro paese.