Note di fase n.14
Primavera 2016
Sulla situazione interna: se non vediamo il positivo delle lotte che ci sono, non supereremo mai tutto il resto del negativo che c’è!
“La manovra espansiva sul credito varata dalla Bce serve a comprare tempo dalla politica”; queste le parole pronunciate a marzo dal governatore della banca d’Italia, Ignazio Visco sulla situazione economica nel nostro paese. Nonostante i roboanti proclami del governo Renzi, che non perde occasione per presentarsi come “il governo del fare per rilanciare l’economia”, lo stallo economico di questi ultimi anni non ha cambiato verso e a poco sono servite anche le manovre finanziarie dell’aggregato Ue, incarnate dalla politica della Bce, per cercare di risollevare le economie europee dal perdurante ristagno. E in Italia i risultati complessivi del governo Renzi, anche portando sempre più a fondo l’attacco alle condizioni di vita e di lavoro dei proletari, principalmente con la legge del jobs act, non hanno raggiunto gli obiettivi che padroni e governo si erano prefissati e avevano propagandato.
Un’economia ancora stagnante, che vede le proiezioni di rilancio continuamente ribassate, con una prospettiva del Pil per il 2016 all’1,1%, e una situazione internazionale che è ancora avviluppata appieno nella crisi del sistema capitalista. Nella relazione di gennaio del bollettino economico trimestrale della banca d’Italia, si legge: “le prospettive sono in miglioramento nei paesi avanzati, ma la debolezza delle economie emergenti frena l’espansione degli scambi globali che continua a deludere le attese e contribuisce a comprimere i prezzi delle materie prime. I costi petroliferi sono scesi sotto i livelli minimi raggiunti nella fase più acuta della crisi del 2008-09. Le proiezioni dell’attività mondiale prefigurano per l’anno in corso e per il prossimo una modesta accelerazione rispetto al 2015; all’inizio del 2016 sono tuttavia emerse nuove e significative tensioni sul mercato finanziario in Cina, accompagnate da timori sulla crescita dell’economia del paese”.
E infatti, in questa situazione internazionale, l’attacco nei confronti del proletariato è portato avanti secondo linee comuni dalle diverse borghesie dei singoli paesi, in particolare in Europa, come sta accadendo in queste settimane in Francia con il progetto di legge El Komri (dal nome della ministra che l’ha proposto) che è paragonabile al jobs act attuato in Italia, con modifiche del codice del lavoro che prevedono licenziamenti più facili e meno costosi per le aziende e una limitazione ai ricorsi al giudice per il reintegro dei lavoratori licenziati. La mobilitazione dei lavoratori e degli studenti è molto forte ed estesa, con manifestazioni e scioperi in tutto il paese. Questa differenza, rispetto alla situazione italiana, nella capacità di lotta espressa dal proletariato francese è da ricondursi anche al ruolo soggettivo della Cgt, il maggior sindacato francese, che non accetta di vedere ridimensionata la propria posizione di controparte trattante (come hanno invece accettato i confederali in Italia) e ciò deriva, a sua volta, dai margini di manovra oggettivi che ancora sono presenti nel sistema imperialista francese, come formazione economico – sociale più solida, anche per la sua forte proiezione in senso neocolonialista verso l’Africa e il Medio Oriente. Inoltre, la forza della mobilitazione deriva anche da un patrimonio di lotte sviluppate negli ultimi anni, come ad esempio la battaglia vincente nel 2006 contro il “contratto di primo impiego” (contrat premiere embauche – cpe). L’insegnamento positivo che ci dà la Francia è che le masse lavoratrici e popolari, in tempi di crisi e di attacco padronale, sono capaci di forti mobilitazioni, aprendo così spazi anche per le forze politiche di classe, nonostante chi le diriga, come la Cgt, lo faccia per proprio interesse e non intende assolutamente sviluppare in senso conflittuale e antagonista il movimento. Ed è proprio il motivo per cui, nell’oggettiva situazione attuale della società italiana, i confederali fanno di tutto per non mobilitare le masse!
In Italia, comunque, se non si può sicuramente dire che i lavoratori e le masse popolari stiano esprimendo un livello di lotta equivalente alla portata degli attacchi di governo e padroni, vi sono alcuni esempi significativi da cui trarre insegnamento.
Con lo sciopero generale di 24 ore del 18 marzo scorso dei sindacati di base vi è stato un importante segnale di avanzamento nelle parole d’ordine della lotta, in quanto oltre alle rivendicazioni specifiche dei settori lavorativi che si sono mobilitati, si è aggiunta la parola d’ordine della lotta contro la tendenza alla guerra che si sta sviluppando nelle politiche dei governi e contro il prospettato intervento dell’esercito italiano in Libia, denunciandone la relazione diretta rispetto all’aggravamento delle condizioni economiche e sociali dei lavoratori. Pur essendo stata di fatto una mobilitazione parziale in quanto le dimensioni e le capacità di mobilitazione dei sindacati di base non riescono, in questa fase, ad assumere una rilevanza quantitativa generale di mobilitazione dei lavoratori, vi sono state importanti manifestazioni a Milano, Roma, Napoli, Torino, Bologna. In questa mobilitazione ancora una volta è stato trainante il settore della logistica dove i facchini in lotta, oltre alla partecipazione allo sciopero e alla manifestazione, hanno attuato anche picchetti nei magazzini, bloccandone di fatto le attività.
Sul fronte delle lotte, al di fuori del controllo confederale, è da segnalare la lotta dei lavoratori della Almaviva, fornitrice di call center, tra cui principale committente è Telecom, contro i prospettati 3 mila licenziamenti, di cui 1600 nella sola città di Palermo. Proprio in Sicilia vi è la mobilitazione più forte con blocchi stradali e cortei non autorizzati a Palermo per far conoscere alla città le proprie rivendicazioni e porre un problema di ordine pubblico per esercitare rapporti di forza vincenti nella vertenza.
L’attacco generale alle condizioni dei lavoratori da parte del padronato si sta ora concretando nella vertenza di rinnovo del ccnl dei lavoratori metalmeccanici, il settore più ampio di lavoratori in Italia.
In questa vertenza è stata ritrovata l’unità tra i burocrati sindacali di Cgil, Cisl e Uil, ovviamente al ribasso per gli interessi dei lavoratori, con l’indizione dello sciopero nazionale di quattro ore dei lavoratori metalmeccanici del 20 aprile. Uno sciopero unitario che non avveniva da otto anni e che tra l’altro, nelle riunioni preparatorie tra i confederali, vedeva esprimere i timori della segreteria Fim in merito ai comportamenti dei militanti Fiom “se dovessero verificarsi ancora tensioni o violenze fra i membri dei diversi sindacati”. Come a dire che ad essere temuta è proprio la lotta stessa degli operai, quando diventa effettiva, militante e fuori dai compromessi stipulati tra i bonzi dei vertici sindacali. E infatti, lo sciopero del 20 è stato costruito senza puntare a porre in campo i reali rapporti di forza e rilanciare la volontà di lotta e determinazione dei lavoratori, convocandolo senza organizzazione di manifestazioni, a parte nelle principali città, risolvendosi nella maggior parte dei casi con presidi davanti alle fabbriche, tenendo così isolate le richieste e la visibilità dei metalmeccanici in lotta e senza allargare il fronte rispetto ad altri settori sociali, come ad esempio gli studenti. Sull’adesione a questo sciopero le fonti confederali parlano di una percentuale del 75% che dimostrerebbe comunque la volontà dei lavoratori di continuare nella lotta per la bocciatura di questo rinnovo capestro del contratto dei metalmeccanici.
Ad ogni modo la ritrovata unità dei burocrati sindacali, che ha portato alla proclamazione di questo sciopero, si è formata sulla piena accettazione delle richieste di Federmeccanica in merito alla istituzione della sanità integrativa e al rafforzamento della previdenza complementare. Su questi aspetti i confederali dimostrano ancora una volta di volersi proporre come cogestori, insieme a governo e padronato, del capitale finanziario che si sviluppa dalla rapina sui salari e che viene poi investito in queste forme assicurative rappresentate dalla previdenza complementare e dalla sanità integrativa (tra l’altro quest’ultima forma è già passata in precedenti contratti, ad esempio in quello dei chimici). Invece che puntare al rafforzamento della sanità pubblica e sviluppare percorsi di lotta in questo senso, i burocrati confederali si adoperano per rilanciare le forme di sanità privata, con i prelievi dai salari operai per pagare questa privatizzazione del servizio sanitario, entrando con i propri funzionari a far parte della gestione di queste sanità integrative, proprio come già fanno parte della gestione dei fondi pensione e dunque partecipando con i loro apparati allo sfruttamento dei lavoratori.
L’attuale opposizione dei confederali alle proposte padronali riguarda la quantificazione degli aumenti salariali e il rimando alla sola contrattazione aziendale per la definizione degli effettivi incrementi di salario in cambio della produttività, che nei piani dei padroni deve assumere il ruolo principale nella contrattazione. Questo è l’attacco che i padroni vogliono portare per affossare ciò che il contratto nazionale ha rappresentato in tutti questi anni per la difesa del salario per i lavoratori, difficile da far accettare persino alle burocrazie confederali perché, dopo il jobs act, sarebbe il definitivo colpo al loro ruolo di mediatori sullo sfruttamento dei lavoratori, o quantomeno lo legherebbe alle singole dinamiche aziendali, sbarazzandosene a livello nazionale.
I vertici della Cgil, compresa la dirigenza Fiom, l’unico sindacato confederale con una base che ha dimostrato, nonostante tutto, di essere combattiva e non arrendersi supinamente alle manovre padronali, ma sempre tradita dalle “concertazioni” dei burocrati, tentano di sviare la mobilitazione dei lavoratori con la proposta di istituire una “carta dei diritti dei lavoratori” per via parlamentare, tramite leggi di iniziativa popolare, quindi cercando di portare ogni potenziale conflittualità operaia sul terreno parlamentare. Un’ottica da sindacato stile vecchio Pci, quando venivano persuasi i lavoratori che con le iniziative parlamentari del “partito operaio” si potevano risolvere i problemi che le contraddizioni del sistema capitalista scaricavano sulla pelle dei lavoratori. Se questa politica riformista ha dimostrato il suo fallimento negli anni in cui sindacato e Pci avevano molti consensi e forza di pressione e soprattutto in una fase di ciclo economico ben più favorevole, dove i margini di trattativa erano più ampi ed era possibile ottenere miglioramenti salariali e conquiste per i lavoratori, non si capisce quale possa essere il risultato oggi, in una fase di crisi economica acutizzatasi, e quando i lavoratori non hanno nessuna forza politica che ne supporti le istanze nemmeno in senso riformista, neanche nella camera di compensazione borghese che è il parlamento e avendo ormai anche il Pd messo all’angolo la Cgil. Un’operazione che può essere compresa solo nella intenzione da parte del sindacato confederale di offrire il destro a qualche coagulo di ceto politico presuntamente a sinistra di Renzi, imbrogliando di fatto i lavoratori perché si abdica dal ruolo di difesa delle conquiste e si cerca invece il consenso in questo percorso di falso, in quanto impossibile da praticare, riformismo politico.
Una considerazione ulteriore di quanto sia inefficace una ipotesi riformista in questa fase di crisi generale del sistema capitalista e di quanto sia utopistico demandare alle istituzioni borghesi la risoluzione delle rivendicazioni sociali è da fare anche in merito al recente risultato del referendum sulle trivelle dello scorso 17 aprile che ha fallito nel suo obiettivo, non raggiungendo il quorum. Questo nonostante potesse contare anche sull’effetto mediatico dello scandalo della corruzione per i pozzi di petrolio in Basilicata (Tempa Rossa) che ha portato alle dimissioni del ministro Guidi e soprattutto ha mostrato ancora una volta il ruolo di garante degli interessi delle multinazionali e il livello di corruzione del governo Renzi.
Questo fallimento è dovuto principalmente al fatto che l’indizione del referendum non è nata da un percorso di lotta reale per il miglioramento delle condizioni ambientali che abbia coinvolto i lavoratori e le massi popolari, ma è sorto da una contraddizione tra organismi dello stato, in particolare tra governo e regioni rispetto alle competenze nella gestione delle concessioni alle aziende estrattive.
Se confederali e revisionisti riescono, in linea generale, ancora ad imbrigliare le lotte dei lavoratori nelle fabbriche, così non è nel terreno della lotta per il diritto alla casa. Su questo fronte di lotta numerose sono state le operazioni repressive e gli sgomberi attuati per cercare di intimidire e bloccare lo sviluppo della lotta, da Milano a Roma a Bologna. Ultimo è il caso degli arresti al Comitato di Lotta per la Casa di Padova, lo scorso 19 febbraio, dove questura e magistratura hanno cercato di reprimere una realtà di lotta che in un anno è riuscita a resistere a numerosi sfratti esecutivi di famiglie e ad occupare appartamenti pubblici sfitti. In risposta a questa operazione repressiva vi è stata una forte mobilitazione da parte dei movimenti di lotta e degli occupanti, culminata con la manifestazione del 27 febbraio scorso, con la partecipazione di altri organismi di lotta a livello nazionale e che ha visto poi la magistratura dover recedere dai provvedimento di arresto verso i tre compagni e la compagna.
Come riflessione generale è da tenere presente che la classe dominante, sulla questione della casa, non ha organismi di controllo sulla classe, come ad esempio nelle fabbriche con i confederali, e quindi reagisce con la repressione ai tentativi di organizzazione autonoma che si danno i proletari in questa lotta, (anche con castelli giudiziari come quella di associazione a delinquere usata dalla magistratura padovana).
Quello della mancanza del diritto alla casa per i proletari è una diretta conseguenza della crisi del sistema capitalista che si sta scaricando sulla pelle dei lavoratori, avanzando in maniera più acuta di quanto sia la capacità della classe dominante di trattare e gestire la contraddizione. In questo senso la questione della casa per i proletari rappresenta un terreno di sviluppo per l’intervento delle soggettività che si danno forme di organizzazione autonome e creano un rapporto e un percorso di lotta diretto con i proletari, perlopiù quelli espulsi dal lavoro a causa della crisi, che poi finiscono inevitabilmente per perdere anche il tetto.
Sul fronte specifico del movimento di classe, importanti sono state le manifestazioni dello scorso 9 aprile a Firenze, contro l’operazione repressiva che è stata attuata nei confronti di circa ottanta militanti del movimento antagonista fiorentino (anche qui l’accusa usata dalla magistratura è quella di associazione a delinquere), la manifestazione contro l’operazione Frontex della Ue nel mar Mediterraneo tenutasi a Catania il 16 aprile scorso, le mobilitazioni del 25 Aprile che hanno contrastato il tentativo sionista di egemonizzare la ricorrenza della Liberazione, così come quella del 7 maggio al Brennero, in risposta alla blindatura della frontiera da parte del governo austriaco, durante la quale la combattività dei compagni è riuscita comunque a limitare i danni difronte a rapporti di forza concreti estremamente sfavorevoli.
In questo senso saranno molte e importanti le occasioni di mobilitazione, per prima la manifestazione del 15 maggio contro il Muos in Sicilia, per promuovere la mobilitazione contro la guerra imperialista, per contrastare i piani di intervento dell’imperialismo italiano e del governo Renzi in Libia e negli altri teatri di guerra. Certo è che il movimento di classe potrà crescere e svilupparsi solo se riuscirà a darsi una linea di massa, cioè a dare una prospettiva di lotta e politica a settori popoli e proletari, tramutando il malcontento in ribellione attiva e tagliando le gambe al tentativo di tramutarlo in reazione, convogliandolo cioè verso il razzismo, il nazionalismo e il consenso alla guerra imperialista.
Sulla situazione internazionale: tanto cala il prezzo del petrolio, quanto aumenta la tendenza alla guerra
“La ripresa globale si è ulteriormente indebolita a fronte di un aumento delle turbolenze finanziarie e di un calo dei prezzi degli asset”. Così affermava il Fondo Monetario Internazionale (FMI), facendo notare come dopo un “inatteso” rallentamento dell’attività economica mondiale a fine 2015 ci sia stato un ulteriore indebolimento a inizio 2016. A gennaio il Fondo aveva già ridotto le previsioni globali dello 0,2% sia per il 2016 e il 2017, date rispettivamente al +3,4% e al +3,5%.
Le motivazioni principali riguardano i rischi generati dal calo del prezzo del petrolio (e di tutte le materie prime), dalla stretta monetaria avviata dalla Federal Reserve, dalla crisi del credito e dalla frenata dei paesi emergenti, Brics compresi. Nei confronti di questi ultimi, il cui peso sul Pil mondiale è stato stimato del 58% nel 2015, il FMI rilevava il dato peggiore: più che in Cina, che ha visto confermate le sue prospettive di crescita sui valori indicati lo scorso ottobre (+ 6,3% nel 2016 e + 6% nel 2017), i focolai di crisi sembrano annidarsi in America Latina e Russia. Il Brasile è il paese che ha subito il taglio delle previsioni più drastico. Quelle per il 2016 sono state ridotte del 2,5% e ora il Pil è atteso in calo del 3,5%; nel 2017 è invece prevista crescita zero. Il Fondo vede un rallentamento della crescita in Messico, Colombia e soprattutto in Venezuela; nel complesso il Centro-Sud America dovrebbe chiudere il 2016 a meno 0,3%, portando a casa il secondo anno consecutivo di arretramento come non accadeva dal 1983.
Anche la Russia naviga in cattive acque, essendo alle prese con il crollo dei prezzi del petrolio e del gas, che sta trascinando al ribasso le quotazioni del rublo. Il suo caso è quello più vistoso tra i Brics perché si tratta di una potenza chiaramente in ascesa sul piano politico e militare mondiale, ma la cui economia, basata prevalentemente sulle enormi risorse energetiche, si sta rivelando tremendamente fragile; una condizione condivisa da pressochè tutti gli altri produttori di greggio e gas naturale.
Infatti, guardando agli andamenti del prezzo del petrolio possiamo accorgerci del salto avvenuto negli ultimi anni. Nel giugno 2014, il prezzo del petrolio raggiungeva 106 dollari al barile. Esattamente un anno dopo, nel giugno 2015, precipitava a 40 dollari e ha continuato a scendere per tutti i primi tre mesi di quest’anno. Perché?
Siamo di fronte alla cosiddetta deflazione, ovvero un abbassamento generalizzato dei prezzi, della domanda, dei salari e dell’occupazione che ha un’origine molto chiara per i marxisti: la crisi per sovrapproduzione di capitali e di merci, per la quale non esistono soluzioni “pacifiche” nel sistema capitalista nello stadio monopolistico-imperialistico. La sovrapproduzione, nel caso in questione, riguarda quella che possiamo considerare la merce fondamentale dell’attuale sistema capitalista internazionale, la “merce delle merci”, poiché utilizzata nella produzione di gran parte delle altre: il petrolio. Le dinamiche che hanno portato al crollo del prezzo del greggio costituiscono la manifestazione della feroce competizione tra i paesi capitalisti, che porta al tentativo di ognuno di uscire dalla crisi a scapito degli altri. Attraverso guerre commerciali e finanziarie sempre più aggressive, volte alla ripartizione dei mercati e all’affossamento dei concorrenti, si tende a determinare un clima mondiale che sfocia sempre più facilmente in guerra aperta.
E infatti i centri della guerra economica coincidono con quelli della guerra militare, a partire dal Medio Oriente che, dalla Prima guerra del Golfo del 1991 ad oggi, è stato al centro delle contraddizioni globali. Il paese egemone in campo arabo, l’Arabia Saudita, ha scatenato una vera e propria “guerra dei prezzi predatoria”, forte di detenere le riserve di petrolio più grandi del mondo e i costi medi di produzione più bassi, tanto da indurre gli analisti economici a definirla “un nuovo shock petrolifero”, dopo quelli del 1973 (guerra del Kippur) e del 1979 (rivoluzione iraniana e guerra Iran-Iraq). I paesi del Golfo, con alla testa Riad, stanno mantenendo la produzione petrolifera al massimo per tagliare le gambe ai concorrenti di mercato, puntando sui costi di estrazione molto più bassi. Finiscono così in serie difficoltà i paesi produttori con prezzi di estrazione ben più elevati come il Brasile e il Venezuela, la cui instabilità economica viene utilizzata dagli imperialisti Usa per mutarla in destabilizzazione politica, al fine di rimettere le mani sul subcontinente latinoamericano, la Russia, dove invece Putin rimane comunque saldamente al potere e gli stessi Stati Uniti, poiché l’estrazione di shale oil presenta ancora dei costi piuttosto alti ed è quella che più preoccupa le petromonarchie mediorientali non solo dal punto di vista della concorrenza commerciale, ma anche perché l’indipendenza energetica di Washington le rende meno influenti e indispensabili nella politica estera di quest’ultimo.
E’ importante sottolineare che l’aggressività economica di Riad non va a solo a penalizzare i paesi concorrenti, ma ha delle inevitabili ricadute anche sul fronte interno: l’impennata del debito dello stato, conseguente al crollo delle entrate petrolifere (stimata intorno al -23%), impone politiche di austerity che vanno a pesare sulle condizioni di vita della popolazione del paese. E ciò determina nuove strette repressive, da parte del regime saudita, per mantenere il controllo della società, come dimostra l’esecuzione di massa a inizio anno di 46 militanti accusati di “terrorismo”, tra cui uno dei capi politici dell’opposizione sciita filoiraniana, l’imam Nimr al Nimr, la cui uccisione ha portato al massimo livello la già fortissima tensione tra il regno saudita e la Repubblica Islamica dell’Iran.
Che il fondamento di questo scontro non sia la lotta interconfessionale tra sciiti e sunniti, ma la contraddizione interborghese tra le classi dominanti dei due paesi, lo attesta principalmente proprio la questione della produzione e commercializzazione del petrolio. Del resto, le recenti scoperte di giacimenti petroliferi in Iran, ne fanno oggi il secondo paese per riserve all’interno dell’Opec dopo Riad. La Repubblica Islamica, strozzata per anni da un embargo petrolifero internazionale che ha mutilato le sue esportazioni, oggi sta avviando un massiccio riposizionamento sui mercati mondiali, che ne fa il concorrente probabilmente più pericoloso per l’Arabia Saudita, anche perché dichiaratamente ostile dal punto di vista politico. E infatti i due ultimi vertici tra i produttori di greggio del 16 febbraio e del 17 aprile sono falliti nell’intento di diminuire l’offerta petrolifera mondiale proprio per le tensioni tra Riad e Teheran, con quest’ultima che non ne vuole proprio sapere di congelare la produzione, ora che le sanzioni sono state tolte. Mahdi Asali, rappresentate iraniano all’Opec, al vertice di febbraio scorso, ha affermato che, se proprio bisogna tagliare la produzione, allora sia l’Arabia Saudita a farlo per prima. La guerra economica combattuta sul prezzo del petrolio è infatti solo uno dei fronti del conflitto che vede Arabia Saudita e Iran fronteggiarsi indirettamente nelle guerre civili in corso in Siria, Iraq e Yemen.
L’altro attore in campo nella contesa sul prezzo del petrolio è la Russia, fortemente danneggiata, come dicevamo, a livello monetario, ma anche a livello di stabilità finanziaria generale, tanto che è ormai chiaro come gli statunitensi e i sauditi, i primi avendo mutato il proprio status energetico con la massiccia estrazione da scisto, i secondi non rallentando la propria produzione, stanno tentando di tramutare questo dato economico in fonte di indebolimento e destabilizzazione politica contro il regime di Putin.
Sia Washington che Riad hanno infatti visto i loro piani di abbattimento di Assad in Siria fallire proprio grazie all’intervento russo, schieratosi al fianco del cosiddetto asse sciita, formato dalle forze governative siriane, i combattenti del Partito di Dio libanese e i volontari in armi nonchè il personale di supporto e di addestramento militare giunto dall’Iran.
Con la copertura aerea di Mosca, questo fronte ha liberato Palmira, tagliando allo Stato Islamico la principale via d’accesso alla Siria centro-occidentale, lungo l’asse stradale Damasco-Aleppo e riducendo potenzialmente il “califfato” a forza locale, stanziata a Nord (Raqqa) e a Est (Dayr Al Zor). Anche le altre forze dell’insurrezione armata hanno subito pesantissime sconfitte, venendo travolte in tutta la Siria centro-occidentale, tanto che oggi le truppe governative stanno puntando alla liberazione totale di Aleppo. I successi militari dell’asse Damasco – Mosca vengono confermati dalla debolezza della linea politica che gli Usa stanno mettendo in campo, con la proposta di implementare continue tregue, le quali dovrebbero servire a rompere la continuità dell’avanzata dell’Esercito Arabo Siriano, preservando il più possibile le posizioni delle forze ribelli e configurando dei rapporti di forza sul campo che possano essere base per una trattativa diplomatica che porti alla “soluzione politica” del conflitto. Ovviamente, secondo gli Usa quest’ultima dovrebbe concretizzarsi con la spartizione del paese, secondo linee etnico-confessionali, e con la perdita o comunque l’indebolimento della sua collocazione non allineata alle strategie statunitensi per la regione, che politicamente si è fondata sul potere del Partito Baath e della borghesia nazionale stretta attorno al clan Assad. Corrispettivamente ma in senso opposto, il parziale ritiro militare di Mosca annunciato a marzo è volto certamente a rafforzare una via diplomatica alla soluzione del conflitto, ma che deve tener conto della mutata situazione sul campo, dunque senza la precondizione della liquidazione del regime baathista che gli Usa, i sauditi e le altre forze che hanno animato la guerra per procura alla Siria vorrebbero imporre. In ogni caso, gli imperialisti russi si sono comunque assicurati che le basi militari impiantate nella provincia di Latakia rimangano permanenti, oltre che averle rifornite a livello aeronautico e missilistico in modo da costituire una barriera di fuoco difficilmente valicabile nel caso di sortite atlantiche verso Damasco. E, soprattutto, il ritiro russo non ha riguardato le operazioni contro lo Stato Islamico e al Nusra. Costituendo il primo il maggior gruppo dell’opposizione armata – che controlla il più vasto insieme di territori – ed essendo il secondo alleato militare sul campo a gran parte delle altre formazioni “ribelli”, queste due “eccezioni” rispetto al ritiro russo ne danno una dimensione del tutto di facciata, confermata dal fatto che le operazioni dell’aviazione russa stanno continuando a spron battuto.
Inoltre, l’annuncio del ritiro, peraltro successivo alla tregua iniziata il 27 febbraio scorso, ha permesso al regime di Putin di creare le condizioni politiche internazionali perché venissero isolate le posizioni più estreme all’interno del campo di sostegno all’insurrezione contro Assad, in particolare quella della Turchia. A differenza degli Stati Uniti e delle altre potenze atlantiche e molto di più dell’Arabia Saudita e degli altri regimi petromonarchici del Golfo, Ankara ha subito l’intervento russo come un attacco ad una propria sfera di influenza ed espansione diretta nel nord della Siria, tramite il sostegno, più o meno dichiarato, a tutti i gruppi insurrezionali e contrastando il progetto di autonomia del Kurdistan siriano. Erdogan ha reagito con una serie di provocazioni, la più grave delle quali è stato l’abbattimento a novembre del bombardiere russo presso il confine siriano-turco, volte a determinare una china di guerra aperta tra Mosca e la Nato e a dare l’avallo statunitense ad un’invasione da parte turca della Siria settentrionale. Sia la Russia che gli Stati Uniti non hanno però seguito Erdogan su questo terreno, che avrebbe in breve mutato la Siria da conflitto regionale mondializzato in guerra mondiale vera e propria, puntando invece a gestire le vicende nel paese arabo dispiegando sia interventismo politico-militare sia trattativa diplomatica. Questo non perché le due potenze non si muovano entrambe sulla linea dello scontro interimperialista, ma perché al momento vogliono che esso rimanga ancora in una fase di guerra di posizione su scala mondiale e di guerra di movimento all’interno di singoli scenari (la Siria per l’appunto, ma anche l’Ucraina, il Caucaso…).
La crisi capitalistica internazionale provoca l’inasprimento della concorrenza come lotta per la ripartizione dei mercati, che a sua volta si muta in spartizione delle sfere d’influenza politica e di intervento militare, ricadendo infine sul piano nuovamente economico attraverso guerre finanziarie-commerciali come quella in corso sul mercato globale del greggio. Più la dimensione della guerra guerreggiata si acutizza, più le ricadute economiche sono strette e accelerate: se il conflitto in Ucraina tra Usa e Ue da una parte e Russia dall’altra ha fatto saltare il corridoio energetico strategico del South Stream, lo scontro tra Russia e Turchia sulla Siria ha fatto saltare il Turkish Stream, che doveva essere, secondo i piani di Putin, sostitutivo del primo.
L’assurgere della guerra ad aspetto principale delle contraddizioni mondiali ovviamente non determina solo, di riflesso, l’acutizzarsi degli scontri sul fronte economico e via via più repentini cambi nell’ambito della lotta per il controllo delle risorse energetiche, ma anche inediti passaggi sul piano delle relazioni politiche globali.
Ad esempio, il recente accrescimento del ruolo di Mosca in Medio Oriente non si limita solo all’asse sciita; si sta rafforzando sempre di più il legame tra la Russia e l’Egitto – che un tempo era il più solido alleato Usa nella regione – con l’incremento degli scambi commerciali, progetti d’investimento della multinazionale russa del petrolio Lukoil, rifornimenti da parte di quella del gas Rosfneft e accordi per le forniture di sistemi d’arma. Preoccupate della concorrenza e dello spostamento di sfera d’influenza del paese, potenze come gli Usa, l’Italia e l’Inghilterra (ma non la Francia che rimane comunque alleato principale di al Sisi) hanno iniziato a strumentalizzare la vicenda dell’omicidio di stato di Giulio Regeni per aprire una campagna di pressione sull’Egitto governato dai militari, fino ad oggi invece appoggiato pressochè incondizionatamente nella durissima repressione interna.
In questo senso non sfugge nemmeno il viaggio ufficiale di Netanyahu a Mosca il 21 aprile scorso, interessato a ottenere garanzie per gli interessi sionisti rispetto alla situazione in Siria e in particolare ad assicurarsi che l’intervento russo non possa andare a vantaggio di Hezbollah nella lotta contro Israele. L’assassinio di Samir Quntar, dirigente di Hezbollah, con un’operazione da parte dell’aviazione sionista in territorio siriano, lo scorso 19 dicembre, ha fatto ritenere che la Russia abbia dato una specie di “via libera” a sortite israeliane contro il Partito di Dio, pure in territorio siriano, anche se, di fatto, Tel Aviv colpisce così un alleato sul campo di Mosca.
Gli sviluppi rispetto allo “spartiacque siriano” [1] ci dicono che la leadership unipolare da parte Usa è fallita e che la Russia si pone come sua reale alternativa, inserendosi nelle debolezze della superpotenza a stelle e strisce e proponendosi, a suon di guerra, come protagonista in quella che viene definita gestione multipolare del mondo. E, in Medio Oriente, per Putin ciò non può non significare che puntare da un lato a sostenere i propri alleati principali, ovvero l’asse sciita, ma dall’altro assumere nuova influenza su altri paesi (l’Egitto) e tendere a garantire un equilibrio di forze anche agli storici alleati statunitensi, come Israele, per chiarire che la propria leadership non rappresenta una rottura nei loro confronti e per incunearsi nelle contraddizioni che le recenti mosse dell’imperialismo Usa hanno determinato riguardo all’entità sionista, in particolar modo rispetto agli accordi sul nucleare iraniano.
Parallelamente all’evidente crescita del protagonismo russo nell’area mediorientale, si sottolineano infatti le grandi difficoltà dell’imperialismo statunitense, che tentenna anche sul paventato intervento militare in Libia, il quale dovrebbe svolgersi in concorso con l’imperialismo italiano, al fine di normalizzare il paese e rilanciare la produzione di petrolio e gas. Ma i tentativi di mettere in piedi un governo “legittimo”, ovvero servo degli interessi neocoloniali di Usa e Italia, per dare il via successivamente alle operazioni militari, viene delegittimato tutti i giorni da scontri tra fazioni, in una Libia devastata dalle conseguenze del precedente intervento imperialista del 2011, oltre che dall’azione di altre potenze e attori locali, come la Francia e l’Egitto, che continuano a sostenere il governo di Tobruk.
In questa situazione di affermazione globale della tendenza alla guerra anche i paesi aggressori, da cui essa si sviluppa, che dovrebbero essere sicure retrovie da cui dirigere l’attacco e nei quali incamerare “in pace” i profitti così conseguiti, vengono investiti dai rimbalzi dell’aggressione, divenendo d’un tratto anch’essi fronti di guerra aperta.
Lo dimostra la situazione della Turchia, oramai costantemente investita dalle fiammate del conflitto in Siria, non solo con le azioni di combattenti jihadisti, intensificatesi dopo che Erdogan ha concesso agli Usa la base Nato di Incirlik per colpire lo Stato Islamico, ma anche con gli attacchi della Resistenza Curda e dei partiti comunisti turchi e curdi, in lotta contro il regime e i suoi progetti espansionistici. [2]
Per quanto riguarda l’Europa, lo hanno dimostrato gli attentati di marzo a Bruxelles da parte di militanti dello Stato Islamico, in ritorsione ai bombardamenti dell’aviazione belga in Iraq condotti a partire dall’ottobre 2014: ancora una volta la guerra imperialista delle potenze europee ritorna loro in casa, con massacri di massa. Conseguentemente, in tutto il vecchio continente, il clima di guerra si sta manifestando con una stretta repressiva generalizzata, con leggi sempre più liberticide, con l’aumento dei partiti xenofobi che soffiano sul fuoco della mobilitazione reazionaria per deviare il malcontento e creare consenso alla guerra imperialista. Ma in Europa accade anche altro, come la lotta in Francia contro la “riforma” del mercato del lavoro (un jobs act d’oltralpe), che ha coniugato la ribellione delle classi lavoratrici e degli studenti nei confronti delle politiche di austerità, al rifiuto dello stato di polizia permanente, promulgato a partire dagli attentati dello scorso 13 novembre dal governo di Hollande.
In conclusione, possiamo dire che il gioco al massacro commerciale/finanziario sul prezzo del petrolio è una manifestazione economica del massacro reale, sulla pelle di milioni di esseri umani, che sta già avvenendo con le guerre imperialiste in corso e che lo sviluppo delle contraddizioni, specie quelle tra vecchie e nuove potenze, sicuramente amplierà fino ad un nuovo conflitto mondiale. L’alternativa è ancora quella della formula “comunismo o barbarie” e la prospettiva, di conseguenza, non può che essere quella tracciata dallo sviluppo della lotta di classe, a partire dai movimenti di massa come quello che sta attraversando le strade della Francia, che può darsi linea strategica rivoluzionaria solo con la costruzione di veri partiti comunisti, come quelli che in Turchia stanno combattendo contro il regime di Erdogan. Queste forze insegnano concretamente che per opporsi alla guerra ingiusta degli oppressori, degli imperialisti e dei loro lacchè, va praticata la guerra giusta, quella delle masse popolari dirette dalla classe lavoratrice e dalle sue organizzazioni politiche, per la costruzione di una società senza classi, né sfruttamento.
A noi qui spetta il compito immediato di proseguire il lavoro di solidarietà internazionalista alla resistenza dei popoli, per la ricomposizione di un movimento di classe che sappia coniugare la lotta contro le politiche di lacrime e sangue imposte dai padroni a quella contro la barbarie della guerra imperialista.
CONTRO PADRONI E GOVERNO DIFENDERE OGNI CONQUISTA DEI LAVORATORI, DIFENDERE I CONTRATTI COLLETTIVI NAZIONALI!
COSTRUIRE IL MOVIMENTO CONTRO LA GUERRA IMPERIALISTA!
ALLA CRESCITA DELLA REAZIONE BISOGNA RISPONDERE COMBINANDO LA CRESCITA DELLA LOTTA CON LO SVILUPPO DELLA LINEA DI MASSA!
Collettivo Tazebao
11 maggio 2016
[1] Vedi http://www.tazebao.org/lo-spartiacque-siriano-nella-tendenza-globale-alla-guerra/
[2] A marzo è stata annunciata la formazione del ‘Movimento rivoluzionario unito dei popoli’, un coordinamento politico e militare tra il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e nove organizzazioni marxiste turche che si prefigge l’abbattimento del regime turco e la cacciata di Erdogan dal potere.