Organizzarsi per resistere e vincere
“Editoriale” da Antitesi n.19 – pag.3
A due anni dall’operazione Diluvio Al Aqsa, l’entità sionista e le classi dominanti imperialiste hanno tentato a più riprese di sottomettere la Resistenza Palestinese. Tramite bombardamenti indiscriminati, blocchi alimentari e nuove operazioni militari, l’esercito d’occupazione ha devastato la striscia di Gaza. Il culmine di questo modus operandi genocidiario si è visto con l’incursione dentro Gaza City, manifestazione della volontà di mettere in campo la “soluzione finale” contro il popolo palestinese.
Nonostante la devastazione e la sofferenza inferta, anche quest’offensiva non è riuscita ad estirpare la Resistenza Palestinese, che non sta solo mettendo in crisi la strategia dell’entità sionista, ma sta anche minacciando l’egemonia delle borghesie imperialiste occidentali sue alleate, a partire da quella italiana.
Sono falliti i tentativi della classe dominante nostrana di legittimare il genocidio attuato dai sionisti: ampi settori di masse popolari del nostro paese si sono mosse con decisione per ostacolare il collaborazionismo del governo.
Dall’inizio dell’offensiva sionista contro Gaza, in Italia abbiamo visto giovani proletari di “seconda generazione” identificare la loro subalternità di classe qui, nelle metropoli imperialiste, con l’oppressione dei palestinesi, scendendo in piazza ed esprimendo la loro rabbia sociale verso un sistema che li condanna a precarietà, povertà e discriminazione. Oltre a questa componente, abbiamo visto il rifiorire delle intifade studentesche in università, delle occupazioni delle scuole e di mobilitazioni e scioperi portati avanti da operai di varie categorie. Similmente, ma in tutt’altro contesto sociale, anche i ricercatori dell’università hanno coniugato la lotta contro la riforma Bernini al sostegno alla Resistenza Palestinese e all’opposizione alla tendenza alla guerra.
Negli ultimi mesi, non si può negare il ruolo che la Global Sumud Flotilla ha rivestito nel catalizzare il protagonismo delle masse, le quali, in solidarietà alla Resistenza Palestinese, hanno accompagnato parti della Flotilla con cortei di decine di migliaia di persone tra Genova e Catania. Al grido di “Blocchiamo tutto!” i portuali genovesi hanno lanciato una sfida importante alla classe dominante nostrana durante queste manifestazioni, minacciando la logistica che, soprattutto dai porti italiani, alimenta l’entità sionista e la sua macchina da guerra.
La partecipazione agli scioperi generali del 22 settembre e del 3 ottobre ha visto numeri oceanici: da Milano fino a Catania, si sono contate decine di migliaia di persone in ognuna delle principali città italiane. Ma più che il dato quantitativo, interessa quello qualitativo relativo alla conflittualità dimostrata dalle masse in piazza. Infatti, in quelle giornate, abbiamo assistito al blocco di porti importanti, autostrade come l’A1 e stazioni ferroviarie. Nelle città dove il livello di conflitto si è alzato fino agli scontri, i manifestanti hanno espresso una determinazione che dimostra la rabbia di settori di massa e la determinazione a colpire i complici del genocidio sionista. Inoltre, in vista del corteo nazionale del 4 ottobre, gli scioperi e i blocchi sono proseguiti in varie città, con lo scopo di ostacolare gli interessi della nostra borghesia imperialista colpendo i suoi nodi logistici. Il 4 ottobre, a Roma, un milione di persone ha animato la più grande manifestazione di massa degli ultimi anni, con una fortissima presenza giovanile.
Si è messo così a nudo lo scollamento tra gli interessi delle classi dominanti e il sentimento popolare diffuso: seguendo la scia del sangue del popolo palestinese, la parte più cosciente delle masse ha iniziato a identificare chiaramente il nemico di classe, rappresentato oggi in primis dal governo Meloni. Questo scollamento ha reso le contraddizioni inerenti all’austerità di guerra e al keynesismo militare del nostro paese più visibili che mai e dimostra come il movimento per la Palestina sia il principale movimento di massa, in opposizione non solo al sionismo, ma anche allo stesso imperialismo italiano.
Quest’ultimo è lungi da essere uno spettatore passivo a livello globale: dagli accordi bilaterali con gli stati dell’Asia Centrale, passando per il Piano Mattei per mettere le mani sull’Africa, fino ad arrivare al sostegno pressoché incondizionato all’entità sionista, l’Italia sta portando avanti attivamente le sue politiche imperialiste nella condizione globale dettata dal multipolarismo di guerra. L’obiettivo è ritagliare un “posto al sole” per il grande capitale nostrano, costi quel che costi: dagli accordi di Eni con i sionisti per rubare ai palestinesi i giacimenti di gas nelle acque al largo di Gaza, fino all’accordo strategico tra Leonardo e Baykar, multinazionale turca del settore militare, retta dal genero di Erdogan, per aprirsi il fiorente mercato dei droni e ampliarne la dotazione all’esercito italiano.
Inoltre, il governo Meloni si è configurato come il principale referente dei rapporti tra il polo imperialista statunitense, attualmente retto da Trump, e l’aggregato imperialista europeo. È un tentativo di confermare il ruolo della Nato, nonostante le contraddizioni interne, come sovrastruttura internazionale che possa unire le due sponde dell’Atlantico, sotto la guida di Washington, e promuovere concretamente il riarmo dei singoli paesi europei. È l’ennesima dimostrazione di come la classe dominante italiana abbia sempre rappresentato un anello fondamentale nella catena imperialista a guida statunitense, dal momento che la penisola ospita dalla fine della Seconda guerra mondiale più di 120 installazioni militari degli Usa e della Nato, facendone oggi il retroterra di fatto sia del supporto bellico all’entità sionista sia il regime ucraino.
Ma il processo di riarmo, con il conseguente travaso di spesa pubblica dal sociale al militare, rischia di essere l’altro grande fattore di debolezza egemonica del governo Meloni, dopo il suo allineamento politico al regime sionista. Alla fase del keynesismo militare, bisogna quindi tentare di affiancare una rinnovata egemonia, che tende ad essere schiettamente di guerra. Tale egemonia bellicista passa sempre di più per parole d’ordine quali “sicurezza”, identitarismo, remigrazione, propagandate verso le masse che vedono precipitare la loro condizione socioeconomica. Questo rafforzarsi della retorica di destra è la risposta naturale di una borghesia imperialista che – in crisi economica e di consenso – vuole reindirizzare la rabbia delle masse verso un nemico di comodo che le divide al loro interno: gli immigrati e gli islamici in particolare, “quinta colonna” del nemico esterno, “terrorista e barbaro”. Nell’Europa segnata dalla tendenza alla guerra sempre più forte, stiamo assistendo all’insorgere di vere e proprie mobilitazioni reazionarie: basti pensare alla manifestazione Unite the Kingdom a Londra, che il 13 settembre scorso ha portato in piazza centomila persone.
La retorica securitaria è l’ambito dal quale rafforzare gli apparati del dominio della borghesia imperialista, per sopperire ad un’egemonia che traballa di fronte alla crisi e al procedere della guerra imperialista. In Italia il decreto sicurezza non ha fermato le lotte popolari, in particolare il movimento in solidarietà alla Palestina. Se allarghiamo ancora lo sguardo all’Europa e anche agli Usa, si sta assistendo progressivamente alla messa fuorilegge del comunismo, da ultimo in Repubblica Ceca, ma anche dell’antifascismo, con il provvedimento specifico voluto da Trump rispetto al movimento Antifa.
Le classi dominanti statunitensi ed europee hanno bisogno della reazione e della repressione per adeguarsi al processo di guerra imperialista in corso e alle sue ricadute in termini di aggravamento delle contraddizioni sul fronte interno. I ripetuti richiami all’articolo 4 del Trattato Nord Atlantico suonano come un avanzamento pesante della tendenza alla guerra, che tende ad allargarsi non solo in Medio Oriente, con il progetto della “Grande Israele” propugnato da Netanyahu, ma anche in Europa, a partire dal conflitto russo-ucraino.
In questo scenario di crisi, guerra e malcontento popolare, la spinta delle masse, soprattutto sull’onda dell’appoggio alla Palestina, ha raggiunto un livello positivo, ma non possiamo limitarci alla spontaneità. Le mobilitazioni spontanee vanno considerate come un terreno in cui stabilire relazioni politiche, organizzare l’indignazione e la rabbia che esprimono i settori di classe più avanzati. Stabilire simili relazioni permette a noi comunisti di allargare la visione della fase di guerra nei suoi termini più generali, resistere alla reazione e alla repressione, rilanciando contemporaneamente la lotta al nostro nemico principale: l’imperialismo italiano.
Il compito dei comunisti, in situazioni di forti mobilitazioni spontanee, è sempre quello di porsi nuovi obiettivi politici e organizzativi: noi ci troviamo in questa posizione adesso. Mantenersi su un piano di spontaneità, senza fare il salto di qualità organizzativo e politico, minerebbe ogni aspirazione rivoluzionaria. Solo l’organizzazione comunista ci può permettere di sfruttare le crepe in seno alla borghesia imperialista e di accumulare forze per la rivoluzione socialista. Dirigere le masse in tal senso è fondamentale in una congiuntura storica in cui le vie d’uscita dalla crisi dell’imperialismo occidentale sono sempre più schiacciate sulla dicotomia guerra-rivoluzione. La possibilità della fase rivoluzionaria è una prospettiva concreta, che necessita tuttavia di quadri e dirigenti capaci di indirizzare la tendenza positiva delle masse verso la rivoluzione e contro la guerra imperialista.
È l’organizzazione, con la sua linea strategica, la sua progettualità di sviluppo e il radicamento tra le masse dei suoi quadri, a preparare la fase rivoluzionaria, agendo all’interno delle mobilitazioni. Ce lo insegna la Resistenza Palestinese: la sintesi tra la linea di massa da una parte e la linea rivoluzionaria dall’altra è il terreno sul quale far avanzare la contraddizione tra la nostra classe e la classe dominante, fino a sconfiggere quest’ultima.
