Antitesi n.11Classi sociali, proletariato e lotte

Fronte del Porto

Cosa succede nei porti del nostro paese?

“Classi sociali, proletariato e lotte” da Antitesi n.11 – pag.27


Nel maggio di quest’anno i portuali di Genova, Livorno, Ravenna e Napoli si rifiutano di caricare le navi israeliane che trasportano materiale bellico. L’iniziativa è parte dell’ampia solidarietà al popolo palestinese e colpisce direttamente gli interessi sionisti in Italia. Il gesto dei portuali colpisce nel segno, tanto che l’Histadrut, il più grande sindacato sionista, da ordine di non caricare navi italiane nei porti di Ashdod e Haifa provocando un incidente diplomatico (subito messo a tacere). Non solo, l’azione e l’appello dei portuali italiani, innescano un boicottaggio internazionale che ha travalicato i confini e coinvolto altri porti come ad Oakland in California e Durban in Sud Africa.

Questo accade in un contesto in cui all’interno delle banchine da tempo si registra una ripresa della mobilitazione legata alle conseguenze dei processi di ristrutturazione del settore portuale collegati al ruolo che questi hanno nell’infrastruttura logistica del capitalismo. Ristrutturazione condizionata dalla competizione tra oligopoli collegati ai diversi aggregati imperialisti e che mette al centro, in definitiva, la necessità da parte del grande capitale di scaricare sulla classe lavoratrice il costo delle misure per far fronte alla crisi capitalistica.

La trasformazione dei porti

I porti sono parte fondamentale dell’infrastruttura logistica del capitalismo, essi rappresentano il maggior impulso all’internazionalizzazione dei cicli del capitale. Dalla “rivoluzione dei container1 ad oggi, la ristrutturazione dei porti, aumentando la produttività del lavoro, riduce il tempo di circolazione della merce e di conseguenza permette la riduzione del tempo di rotazione del capitale complessivo2 e determina la possibilità che esso sia reinvestito più velocemente.

Ne consegue che, nell’ambito della crisi di sovraccumulazione di capitale, in corso da alcuni decenni, i porti assumano un ruolo strategico. Vi si gioca la concorrenza tra capitalisti con la corsa a processi di ristrutturazione volti alla sempre maggior riduzione del tempo di circolazione, al maggior sfruttamento dei lavoratori e all’abbassamento del costo della manodopera.

C’è inoltre da considerare che la “rivoluzione dei container” e l’abbassamento del costo dei trasporti marittimi è stato il fattore che ha accelerato la delocalizzazione delle produzioni, rendendo più profittevole spostare le stesse dove il costo del lavoro era più basso rispetto ad altri fattori prima principali, come la vicinanza dei siti produttivi con i mercati di riferimento, le materie prime o le fonti energetiche. Lo sviluppo tecnologico del comparto logistico – marittimo ha quindi concorso concretamente all’attuale assetto delle catene del valore e della divisione internazionale del lavoro.

Nel contesto della cosiddetta globalizzazione l’intero comparto logistico, con i porti in prima linea, ha visto un enorme impulso e la realizzazione di una nuova organizzazione integrata su scala internazionale, con un drastico aumento dei volumi su lunga distanza; basti pensare che attualmente il 90% del commercio di merci esterno dell’Ue viaggia via mare, favorito anche da una sempre maggiore standardizzazione, dallo sviluppo delle tecnologie informatiche e dall’introduzione del just in time.

I porti italiani sono organici alla politica europea dei “corridoi” Trans European Network (Ten) definita nel 1994 dal Consiglio Europeo. Le Ten sono la risposta alle necessità di integrazione dell’insieme delle infrastrutture logistiche (treni, strada, aerei e navi) dell’aggregato imperialista europeo per far fronte alla concorrenza globale. Infatti se, come si è detto, lo sviluppo tecnologico del sistema di trasporto merci è connesso alla globalizzazzione e ne ha favorito lo sviluppo, è altrettanto vero che ne ripercorre le contraddizioni e la necessità di muovere più merci in meno tempo e a meno costo è diventata un fattore sempre più strategico nello scontro per la sopravvivenza tra capitali nell’ambito della crisi generale di sovrapproduzione.

In questo quadro si possono delineare una serie di passaggi chiave che hanno modificato l’assetto dei porti italiani e di conseguenza delle condizioni dei lavoratori. A partire dagli anni novanta si modifica profondamente la struttura del lavoro, dei volumi e della tipologia di traffico gestiti nel porto. Ad esempio la movimentazione dei contenitori passa da poco più di 2 milioni del 1991 ai circa 10 milioni attuali, assume un ruolo fondamentale l’import – export del Made in Italy delle piccole e medie imprese e l’aumento della movimentazione di macchine e manufatti, mentre diminuisce drasticamente il traffico dei prodotti petroliferi. I grandi impianti siderurgici e petroliferi e in generale gli impianti industriali in prossimità delle sedi portuali scompaiono o vengono ridimensionati.

All’interno del mercato dei servizi portuali si impongono le figure dell’agente marittimo (intermediario per conto dell’armatore) e dello spedizioniere (intermediario per conto delle imprese di trasformazione) al posto del superato Ente porto.

Nei primi anni 2000 parallelamente agli assestamenti normativi sul lavoro procede spedita la privatizzazione dei porti che passa da una dimensione nazionale ad una internazionale. Ad aprire questo fenomeno e stata la vendita da parte del gruppo Fiat di Sinport, la società concessionaria del Terminal Container di Voltri, all’Autorità Portuale di Singapore (Psa) e, a seguire, la vendita da parte della famiglia Ravano della Contship, titolare delle concessioni di La Spezia e Gioia Tauro, alla tedesca Eurogate. Attualmente la maggior parte dei porti italiani vedono una presenza straniera che si concentra tra i principali Global carrier: Psa, Maersk, Msc, Cma – Cgm, Cccc, ecc. Un fenomeno che successivamente all’avvitamento della crisi del 2008 ha portato non solo all’aumento della presenza ufficiale di questi oligopoli, ma soprattutto all’acquisto da parte degli stessi di quote maggioritarie di players piccoli e medi locali, lottizzando di fatto e imponendo il proprio potere all’interno dei porti. Un fenomeno, questo, ovviamente contraddittorio, da un lato economicamente auspicato dal padronato all’interno della competizione tra snodi portuali, capace di attrarre ingenti investimenti di capitali, dall’altro tenuto d’occhio e terreno di scontro sul piano di radicalizzazione della contraddizione tra imperialismi contrapposti. Come ad esempio le varie prese di posizione Usa sul ruolo dei cinesi nei vari porti come Venezia o Taranto, dove ad esempio il Gruppo Ferretti (di proprietà per l’86% dal gruppo statale cinese Weichai Group) punta ad espandere la propria presenza. Si tratta di uno degli snodi principali della forze imperialiste atlantiche nel Mediterraneo e dove è collocata una base Nato fondamentale del Standing Naval Force (Snf), sul quale pendono ampi progetti di ampliamento.

La “lottizzazione” dei porti italiani da parte degli oligopoli internazionali è il prodotto della concentrazione e centralizzazione dei capitali come risposta alla crisi del settore e come fenomeno “naturale” di sviluppo del sistema logistico globalizzato. Infatti i Global carrier puntano non solo a monopolizzare il sistema portuale, ma anche tutti i nodi del sistema intermodale integrato, così da poter sfruttare le economie di scala, ovvero la riduzione del costo unitario tramite l’aumento della scala di produzione. All’interno del quadro appena delineato si comprendono il ruolo che assumono la deregolamentazione dei porti e una loro ulteriore privatizzazione e liberalizzazione, soprattutto per quanto riguarda la produttività del lavoro, con la spinta a introdurre nuove tecnologie e automazioni che aumentino sempre più il coefficiente di carico spostato per operatore.

Autoproduzione e automazione

L’obiettivo dei terminalisti è soprattutto quello di ridurre il tempo di circolazione della merce e i costi annessi alla movimentazione della stessa. Su questi due punti si determina la competizione tra le varie multinazionali del mare, il conseguente sviluppo dei porti e le ricadute sullo sfruttamento dei lavoratori.

Gli elementi principali già accennati in precedenza sono l’introduzione di una sempre maggiore automazione che riduca i tempi nei quali la nave sta in porto e la liberalizzazione dei servizi portuali in funzione di un abbassamento dei costi e una maggiore flessibilità della manodopera.

In questo senso l’automazione e l’autoproduzione3 vanno legate assieme. Infatti, puntando a costruire porti con caratteristiche tecnologiche che permettono al terminalista, che è anche armatore, di essere autonomo e veloce nelle operazioni di banchina, ne consegue che viene favorito il suo interesse ad utilizzare il personale imbarcato anche per le operazioni di rizzaggio e derizzaggio. Si punta così in ultima analisi ad eliminare gradualmente la figura del portuale, mantenendo solo delle unità iperflessibili che aspettano la chiamata laddove servano figure in aggiunta in considerazione della mole di lavoro.

All’interno di questo piano si sviluppa il fenomeno del “gigantismo navale”, che abbiamo imparato a conoscere dopo i fatti di Suez4, tendenza che sta orientando anche la ristrutturazione del sistema portuale italiano, dato che deve porsi in grado di attrarre l’arrivo di queste grandi navi.

Secondo un rapporto costi – benefici rispetto alla costruzione della Diga Foranea di Genova stilato dall’Autorità portuale cittadina, l’83% dell’offerta mondiale di stivaggio è in mano a dieci aziende, le quali utilizzano solo il 51% delle navi, segno che le principali società utilizzano sempre più navi di grandi dimensioni. La Maersk e la Msc, unite nell’alleanza 2M, dispongono da sole di un terzo della capacità di stiva a livello mondiale. Per i porti di tutto il mondo, ciò comporta la necessità impellente di dragare i propri porti, ampliare le proprie banchine, acquistare nuove gru in grado di accogliere questi giganti, pena la perdita di competività e la fuga da parte dei principali Global carrier mondiali5.

Il fenomeno del “gigantismo navale” ci permette di sottolineare la contraddizione insanabile nel capitalismo legata allo sviluppo delle forze produttive. I grandi oligopoli si stanno direzionando verso uno sviluppo di navi sempre più grandi e con porti sempre più automatizzati: basti pensare che fino a 20 anni fa l’attracco di una nave significava la movimentazione di circa 800 Teu6, oggi siamo a 4000 Teu, ma il tempo di sosta non si è allungato significativamente.

È importante sottolineare come navi più grandi impieghino ovviamente più tempo a percorrere le tratte da porto a porto, motivo per cui, il tempo perso in mare va recuperato in porto accelerando i tempi di carico e scarico, riducendo le toccate, aumentando la produttività delle gru. Inoltre, dato che il tempo di percorrenza aumenta, le mega-navi, devono toccare meno porti possibili in grado di operare con estrema velocità. Ne consegue il taglio del personale e l’aumento del tasso di sfruttamento per chi ci rimane a lavorare.

Dall’altra parte il “gigantismo navale” è alla base della stessa crisi del settore, avendo prodotto una bolla finanziaria simile a quella della Lehman Brothers. Come il riflesso della crisi generale sul mercato mondiale accade che navi sempre più grandi viaggino spesso e volentieri con container vuoti o carichi più leggeri determinando una dinamica che ha prodotto una caduta nel guadagno per unità di carico trasportato. Il calo vertiginoso del commercio mondiale, aggravato anche dalla pandemia Covid, ma già presente in precedenza con la diminuzione dell’export cinese, ha creato quella che molti analisti hanno definito la tempesta perfetta del settore marittimo. A farne le spese come fu per la Lehman Brothers nel 2008 è stata per prima l’azienda sudcoreana Hanjiin fallita nel 2017. Lo spazio di mercato lasciato libero dal fallimento della Hanjiin è stato immediatamente riempito dalle 2M e come è stato per le bolle immobiliari, la dinamica speculativa continua ad alimentarsi.

Composizione dei portuali

Dal punto di vista dei lavoratori a partire dal 1983 viene ridotto il numero di addetti dei porti tramite esodi incentivati, prosciugando il bacino delle maestranze associate o dipendenti delle Compagnie Portuali, la cui consistenza passa da 21 mila unità nel 1983 a poco più di 4 mila nel 1997. Tramite gli esodi è stato favorito un repentino turn over e una redistribuzione dei nuovi assunti in una pluralità di aziende. Ma è solo 11 anni dopo, con la legge 84 del 1994, che viene sancita la fine del monopolio delle compagnie portuali nella gestione e organizzazione della forza lavoro nei porti. Questa legge introduce tre figure nel porto autorizzate ad operare dall’Autorità Portuale o marittima di competenza: art. 16 ovvero le imprese di servizi autorizzate a svolgere le operazioni portuali per conto proprio o conto terzi; art. 17 le imprese di lavoro temporaneo che svolgono operazioni portuali a chiamata (pool); art. 18 i concessionari di aree e banchine, i cosiddetti terminalisti, che possono disporre di proprio personale per l’espletamento delle operazioni portuali. La riduzione del personale delle storiche Compagnie Portuali tramite gli esodi incentivati ha determinato l’erosione dei rapporti di forza delle stesse e la possibilità quindi di rompere la resistenza all’ingresso di nuove aziende all’interno delle banchine. Da metà degli anni novanta in poi sono aumentati i dipendenti delle imprese terminaliste concessionarie di aree demaniali e delle imprese di servizio che fornivano manodopera nei porti.

La legge 84/94 formalizza il processo di ristrutturazione dei porti passando da un modello pubblico di organizzazione del lavoro ad un modello pressoché privato. La legge puntava a regolamentare il ruolo dei vari attori presenti nel porto. L’impresa terminalistica (privata) opera nell’area portuale (pubblica) tramite una concessione, per le operazioni di carico e scarico delle merci è provvista di una propria forza lavoro e può disporre anche di una riserva (detta anche pool) di manodopera temporanea autorizzata dall’articolo 17 della suddetta legge per affrontare l’oscillazione costante della domanda derivante dai traffici. Il pool può essere organizzato come un’impresa di fornitura della manodopera temporanea o come un’agenzia per il lavoro. Le Compagnie Portuali diventano di conseguenza delle imprese a metà strada tra pubblico e soprattutto privato sui quali i terminalisti ammortizzano le pressioni a seconda dell’aumento o della diminuzione dei volumi. Inoltre, sorgono aziende private di manodopera temporanea come Intempo che fa capo alla Randstad che fornisce manodopera interinale al sistema portuale e logistico.

L’iter della legge 84/94, che dal punto di vista del padronato doveva liberalizzare completamente i porti (“europeizzarli”) si è scontrato con l’esigenza di mantenere la pace sociale negli stessi e di garantire un ruolo a ciò che rimaneva delle Compagnie Portuali, soprattutto dove queste hanno mantenuto una forza di rilievo come Genova. In generale nei porti italiani si assiste a delle enormi differenze nella gestione della manodopera, soprattutto riguardo al pool, da porto a porto, situazione che ha come principale ricaduta la forte frammentarietà del settore. Inoltre i processi di specializzazione e automazione differenti da porto a porto rendono la composizione degli addetti molto differente.

Ad esempio, a livello generale le imprese terminaliste assorbono il 53% della manodopera, ma sono assenti nei porti di Bari e Palermo, le imprese di servizi assorbono circa il 32%, mentre il pool il restante 13%, ma non è presente nei porti di Gioia Tauro e La Spezia7.

Il quadro che si delinea è quello di una forte disomogeneità di condizioni e organizzazione, prodotto diretto della competizione tra capitali, che si traduce anche in competizione tra porti o all’interno dello stesso porto. In alcuni casi le imprese terminaliste riducono al minimo il ricorso all’apporto esterno di manodopera e al pool come nel caso di Conateco a Napoli, in altri la quota del ciclo portuale gestito da imprese di servizio supera il 50% come nel porto di Trieste.

Entriamo nel merito prendendo in esame tre realtà molto differenti: Genova, Trieste e Livorno.

Il porto di Genova vede al suo interno circa 2 mila lavoratori suddivisi tra un migliaio dipendenti dei terminal e il restante 50% socio o dipendente della Compagnia Portuale (Culmv). Quest’ultima grazie al rapporto di forza storico e al patto sociale cittadino, non ancora del tutto eroso, continua ad essere il perno operativo dello scalo. Tutti i 2 mila portuali operano nei cicli produttivi in maniera interdipendente, utilizzando però gli stessi mezzi e obbedendo alla stessa organizzazione del lavoro in termini di ritmi e turni. I lavoratori alle dipendenze delle imprese terminaliste sono inquadrati nel Ccnl Porti e inoltre hanno un contratto migliorativo di secondo livello, sono inquadrati meglio professionalmente e conservano la precedenza sulle operazioni specialistiche. Inoltre, a differenza degli altri, non subiscono conseguenze a causa dell’eventuale diminuzione del lavoro, dato che questa diminuzione viene fatta ricadere sui lavoratori della Culmv (pool).

I lavoratori della Culmv godono di una certa autonomia che gli permette di non accettare alcune chiamate e ricorrere all’indennità di mancato avviamento (Ima)8 o di integrare il proprio salario duplicando e triplicando i turni giornalieri di lavoro. Questi lavoratori, ad esempio, non sono provvisti nemmeno di badge per definire l’inizio o la fine del turno. I soci sono regolati da un sistema interno di retribuzione che, fatte salve le paghe per le giornate di lavoro integrate eventualmente dall’Ima, deve anche contribuire a mantenere la struttura di impresa con l’unico ricavo delle tariffe erogate dalle imprese terminaliste. Un ricavo, quest’ultimo, sempre più basso, conseguente al continuo abbassamento delle tariffe stesse, nell’intento di attrarre la presenza di nuovi carrier nei porti. Questo abbassamento ha determinato il fatto che l’Autorità Portuale genovese sia stata costretta ad intervenire per ripianare i bilanci della Culmv.

A Livorno operano circa 1500 lavoratori suddivisi tra la Age.L.P. Srl (ex art. 17) che ne impiega 64, tredici imprese di servizi (ex art. 16) che ne impiegano 615 e quindici imprese terminaliste (ex art. 18) che conta un organico complessivo di altri 810 dipendenti

La ex Compagnia Portuale, oggi impresa di servizi (ex art. 16) partecipa a sette delle principali imprese terminalistiche, detenendo una partecipazione azionaria che in alcuni casi raggiunge il 100%. Per esse svolge operazioni in esclusiva. Nel porto si registrano forme di autoproduzione non autorizzate dall’Autorità Portuale, la presenza di cooperative che effettuano lavori senza autorizzazioni e un ricorso continuo al lavoro a chiamata che invece di essere rivolto alle imprese di pool (ex art. 17) coinvolge le imprese di servizio (ex art. 16). Il dato principale da sottolineare è, oltre all’estrema frammentazione e caos nell’organizzazione del lavoro, anche il ruolo differente svolto proprio dall’ex Compagnia Portuale, che a differenza di quella genovese ha assunto la forma dell’agenzia del lavoro privata.

Trieste rappresenta il modello organizzativo opposto a quello genovese. L’organico è composto da circa 1500 dipendenti suddiviso tra 683 dipendenti di 18 aziende terminaliste, 137 divisi tra due aziende di Lavoro Temporaneo (ex art. 17) e circa altri 700 divisi tra circa una trentina di imprese di servizi (ex art. 16). Questo organico è ampiamente frammentato al suo interno, dato che vi è una forte presenza di cooperative caratterizzate da un’offerta di forza lavoro molto flessibile alle chiamate e con salari più bassi rispetto alle altre imprese. La presenza nelle banchine di queste cooperative, inizialmente relegate all’area di Porto Emporio, ha portato ad una competizione interna giocata sulla tariffa, il cui effetto è stato oltre al fallimento di alcune società, la perdita in termini di sicurezza. I terminalisti, a fronte della grossa offerta di manodopera e servizi, determinano di fatto la tariffa.

La vecchia Compagnia Portuale rimasta art. 17 è risultata molto marginale, al punto da essere stata liquidata e sostituita di recente da una nuova Compagnia collegata in termini societari a quattro tra i principali terminalisti dello scalo.

Gli esempi di Genova, Livorno e Trieste ci servono per sottolineare quella che è una forte disomogeneità di condizioni e organizzazione del lavoro, oltre che a una molteplicità di soggetti che operano, all’interno dei porti italiani. Situazione non a caso definita da più di qualcuno un vero e proprio far west. Il dato generale che ne possiamo trarre è che la legge 84/94 e le sue successive modificazioni hanno puntato a distruggere quella che era la forza e le strutture storiche dei lavoratori portuali. Le Compagnie portuali hanno perso terreno, ma resistendo, laddove i rapporti di forza erano più forti, si sono adattate alla privatizzazione, diventando imprese private a tutti gli effetti o sono sparite dove i rapporti di forza erano più deboli.

Lotte e prospettive

La frammentazione e la disomogeneità del mondo dei porti non significa la pace sociale. Anzi, le privatizzazioni, le liberalizzazioni, l’ingresso di nuovi padroni determina nuove contraddizioni e nuove lotte. Le mobilitazioni però non riescono a tradursi quantitativamente sul piano nazionale proprio per la disomogeneità descritta prima.

La legge 84/94 e la fine del monopolio delle Compagnie portuali ha portato come elemento principale la concorrenza spietata tra i diversi attori che vendono la forza lavoro all’interno dei porti. Aumento dello sfruttamento, perdita in termini di sicurezza, aggravamento del precariato sono tutti risultati dell’evoluzione della 84/94, anche se come abbiamo detto, l’organizzazione del lavoro e la sua distribuzione nelle varie aziende varia da porto a porto.

In prospettiva possiamo dire che le sfide che hanno difronte i portuali non sono di poco conto. In primis lo scontro che si consuma tra Roma e Bruxelles sul ruolo delle Autorità Portuali. Una questione cruciale per il futuro dei porti, in quanto ad oggi, l’Autorità Portuale è considerata in Italia come una parte dell’amministrazione pubblica ai sensi dell’articolo 74 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi e svolge un ruolo di gestione, amministrazione e organizzazione di beni e servizi nella rispettiva area di competenza. Ne consegue ad esempio che le Autorità Portuali non sono tenute a pagare l’Ires, l’Imposta sul reddito delle società allo Stato italiano e possono quindi applicare tariffe concorrenziali rispetto ai porti del Nord Europa. L’Antitrust europea ha già bacchettato più volte l’Italia su questo punto utilizzando la questione come grimaldello per imporre la privatizzazione delle Autorità Portuali sul modello nordico. Ciò avrebbe conseguenze enormi proprio per il ruolo che questi enti svolgono nella gestione e organizzazione del lavoro all’interno del porto.

La prospettiva che si delinea è quindi di un approfondimento delle contraddizioni fin qui delineate, con un ruolo sempre maggiore dei Global carrier, in una situazione in cui non vi è più solo la subordinazione a loro dell’attività portuale, ma del porto in quanto tale. Non è un caso quindi che tra i punti salienti del Ddl Concorrenza il governo Draghi abbia inserito l’abrogazione del divieto all’autoproduzione e cerchi di eliminare gli ostacoli che impediscono ai concessionari portuali di fondere le attività in concessione in diversi porti di grandi e medie dimensioni. La tendenza chiara è quella della concentrazione e centralizzazione dei capitali in funzione della massimizzazione del profitto dei grandi players mondiali, i quali grazie al controllo di ogni punto dell’infrastruttura logistica intermodale possono ridurre costantemente i costi di produzione e scaricare in ultima analisi sui lavoratori i costi. Vediamo, quindi, come all’interno del quadro della crisi del sistema capitalista la lotta tra la vita e morte degli oligopoli si traduce direttamente in aumento dello sfruttamento e peggioramento delle condizione generale di vita per i lavoratori.

Data l’erosione dei rapporti di forza generali, Genova continua a rimanere una sorta di ultimo bastione nel quale la capacità di mobilitazione dei portuali arriva fino ad oggi. Non è un caso quindi che da qui sia partita la lotta contro l’attracco delle navi che trasportano materiale bellico. Vogliamo sottolineare che questo è un importante esempio di ‘lotta politica’ di un settore di classe operaia in cui si pone la relazione dialettica tra la lotta dei portuali in prima linea contro il potere dei padroni del mare e la lotta in solidarietà ai popoli oppressi. Un esempio di soggettività politica di massa della classe, che ha saputo esprimersi come critica pratica del ruolo che i porti investono all’interno dell’infrastruttura logistica del capitalismo, non solo dal punto di vista commerciale, ma anche bellico.

A dispetto delle condizioni interne che vedono i portuali divisi sul piano nazionale sulle questioni più sindacali, la mobilitazione politica contro le navi che portavano armi ai sauditi contro il popolo yemenita e quelle che portavano armi all’entità sionista ha portato ad un piano di unità oltre che nazionale anche internazionale. Una mobilitazione che di volta in volta è cresciuta di numero e ha coinvolto più porti in Italia e nel resto del mondo.

D’altra parte, proprio i rapporti di forza accumulati in questa mobilitazione costituiscono un rafforzamento per i lavoratori impegnati nelle vertenze nei singoli porti e contribuiscono, quindi, a superare la difficoltà che questi lavoratori incontrano, ad accumulare rapporti di forza vincenti in un contesto frammentato e disomogeneo come quello descritto sopra.

Fondamentale in questo passaggio è il ruolo svolto dai compagni del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali e lo sforzo operato da questi di andare oltre al piano della lotta economica, raccogliendo la tradizione storica dei camalli genovesi di darsi una autonomia rispetto alla degenerazione neocorporativa del sindacato confederale e del Pci revisionista. Autonomia che ha contribuito a preservare parzialmente i rapporti di forza storici, a differenza di altre città dove proprio gli epigoni del Pci revisionista e della Cgil collaborazionista hanno svenduto i portuali ai padroni, come ad esempio è successo a Trieste. Ma anche a Trieste oggi, nonostante questa svendita, stanno esprimendo una nuova autonomia della classe.

Questa esperienza, caratterizzata dall’idea di strutturare un collettivo che spostasse il piano del dibattito da quello sindacale ad un piano più generale, ha evidentemente dato bei frutti. Dal loro lavoro possiamo e dobbiamo trarre insegnamento.


1 Negli anni ’60 con l’introduzione del container il mondo della logistica subisce una trasformazione epocale. Il container permette di standardizzare a livello globale le dimensioni di stivaggio nelle navi e le operazioni ad esse connesse nelle banchine, riducendo drasticamente i costi e i tempi della movimentazione. Una “rivoluzione” che, ad esempio, ha portato nel giro di 20 anni alla riduzione di due terzi della forza lavoro complessivamente impiegata a bordo e in banchina nella costa orientale statunitense.

2 Vedi Glossario

3 Per autoproduzione s’intende la possibilità da parte dell’armatore di effettuare le operazioni di rizzaggio e derizzaggio, ovvero le attività volte a legare e slegare i beni trasportati, utilizzando il personale di bordo della nave al posto di quello in servizio al porto.

4 A fine marzo 2021 la nave Ever Green con capacità di 20 mila Teu si incaglia bloccando il porto di Suez, uno dei principali snodi della logistica portuale mondiale.

5 In Italia è il caso della Diga Foranea di Genova, un’opera faraonica a spese pubbliche, della quale beneficerebbe principalmente la Msc e il Gruppo Spinelli, di cui è previsto il finanziamento da parte del Recovery Plan, con uno stanziamento prospettato di 500 milioni di euro a fronte di un’opera che secondo le stime più positive dovrebbe attestarsi sui 2 miliardi di euro.

6 Il Teu è l’acronimo di twenty-foot equivalent unit, è l’unità di misura che indica la lunghezza standard di un container, pari a 20 piedi

7 A. Appetecchia, Far west Italia, Il futuro dei porti e del lavoro portuale. Osservatorio nazionale sul trasporto merci e la logistica, Rapporti Periodici, 2011

8 L’Ima è una sorta di cassaintegrazione erogata dall’Inps inoltrata dalle singole Autorità portuali al ministero dei trasporti e concessa ai dipendenti delle aziende che offrono lavoro temporaneo e quindi regolate dall’art. 17 della legge 84/94.


Intervista a un compagno del Calp di Genova

Come, quando e perché nasce il Collettivo Autonomo dei Lavoratori Portuali?

Il primo collettivo è nato intorno agli anni 70, non era un vero e proprio collettivo, ma una specie di consiglio di fabbrica, si chiamava Collettivo dei Portuali (l’esperienza finisce attorno agli anni ’80, ndr). Tramite Stefano Rossi, un compagno storico genovese, nasce una prima assemblea che poi va a scemare. Dopo la morte di Enrico Formenti (nel 2007, ndr), portuale che è venuto a mancare a causa di un incidente sul lavoro, e le forti proteste conseguenti, nel 2009 sono state messe in piedi una serie di iniziative mirate a costituire un ruolo più agile degli Rls (Rappresentanti dei lavoratori per la Sicurezza, ndr) e dei delegati e raccogliere il grosso contributo da parte dei lavoratori e principalmente di quelli che oggi sono nel Calp.
La costituzione reale del Calp avviene il 15 ottobre 2011, di ritorno da una manifestazione indetta a livello europeo a cui partecipammo. Aderimmo alla manifestazione chiamata su Roma, ci furono bei scontri e giornate abbastanza concitate. Al ritorno si cominciò a ragionare sulla necessità di slegarci dalla logiche degli attivi dei delegati della Cgil. Quei pochi momenti all’anno che organizzava la Cgil non ci bastavano, avevamo l’esigenza di avere un contatto continuo tra di noi delle varie banchine per mettere in relazione tutti quelli che lavorano nel porto di Genova. Questo perché all’interno del porto di Genova ci sono circa 13 banchine nelle quali lavorano 2 mila portuali. E, quindi, si decise di darci un’organizzazione collettiva con la partecipazione di lavoratori di ogni banchina e una presenza capillare e radicata nel porto. Così cominciò questa esperienza del Calp.
Negli anni abbiamo costruito consenso e siamo cresciuti. La partecipazione varia a seconda dei periodi, delle vertenze e delle lotte in corso. Attualmente diciamo che siamo tra i 25 e i 30 componenti di tutte le realtà che compongono il porto. Una ventina più militante e una decina di ragazzi che sono a contratto a tempo determinato. Decidiamo di volta in volta anche chi esporre e come, proprio perché ci sono situazioni di maggiore ricattabilità. Diciamo che la forma attuale è quella che preferiamo perché c’è il giusto equilibrio e riusciamo a capirci solo guardandoci negli occhi.

Come nasce e si sviluppa la mobilitazione contro le navi da guerra e come viene vissuta in porto?

Il Calp si è dato alcuni paletti: l’internazionalismo, l’antifascismo e l’anticapitalismo. Il Collettivo è composto da varie anime, ci sono dentro compagni comunisti, anarchici, libertari, semplici delegati che non masticano politica, ci sono lavoratori interessati principalmente alle questioni sindacali, ma con un forte sentimento antifascista, e c’è chi si avvicina a noi per le azioni e le rivendicazioni fatte nel tempo e che ci hanno permesso di portare a casa delle vittorie.
Intorno al 2014 arrivò a Genova una delle prime navi cariche di carri armati, elicotteri e di ogni materiali necessario alla guerra. L’iniziativa in quel caso fu da parte dell’Autorità Portuale. Non si lamentavano del fatto che questa nave era diretta in teatri di guerra ovviamente, ma si lamentavano del fatto che una nave carica di armamenti non era stata dichiarata all’interno del porto di Genova. Quindi non tanto per una questione etica, ma più per una questione di comunicazione.
Da lì abbiamo cominciato a percepire e a vedere con i nostri occhi un aumento del traffico di armi nelle banchine, anche perché era il periodo tra il 2014 e il 2019 qundo i teatri di guerra si sono moltiplicati: Libia, Siria, Yemen, ecc.
Il moltiplicarsi dei teatri di guerra ha innalzato i traffici di armi all’interno dei porti italiani e nello specifico di quello genovese. Da li abbiamo detto: qua sta diventato un problema perché comunque se con le nostre ore di lavoro dobbiamo essere organici a quella che è la guerra, noi a questo non ci vogliamo stare.
Nel senso che non vogliamo essere quel piccolo ingranaggio che mobilita le truppe nei vari territori. E, quindi, abbiamo iniziato una serie di relazioni con alcuni gruppi politici del territorio e abbiamo avviato un approfondimento sul flusso delle armi nel porto di Genova, fino ad arrivare al 2019 dove abbiamo cercato di contrastare concretamente il traffico del materiale bellico nei porti.

Quali son state le conseguenze giudiziarie della mobilitazione?

Il Calp è un collettivo i lavoratori, non è da intendersi come un collettivo politico. Poi tutti siamo organici a Genova Antifascista. Quindi riusciamo a muoverci nell’ambito lavorativo per quanto riguarda le vertenze, ma anche per quanto riguarda gli scioperi politici e il contrasto alle aperture delle sedi di fascisti, o comunque alle mobilitazioni antifasciste a Genova.
Questa cosa dal 2017 al 2020 ha fatto mobilitare la Questura, che ha ragionato come se questa nostra attività su più fronti d’intervento fosse un’associazione a delinquere perché avevamo a disposizione mezzi, strutture e soldi. I mezzi sarebbero le nostre macchine, le strutture sono le nostre sedi e i centri sociali che frequentiamo per riunioni o iniziative e i soldi sono il frutto dell’autofinanziamento.
L’associazione a delinquere, per come è spiegata nel plico che abbiamo ricevuto, deriverebbe dal fatto che noi siamo inscalfibili, che non abbiamo intenzione di arretrare e su come noi possiamo utilizzare mezzi soldi e strutture per effettuare pratiche criminose. Tutto questo senza però fare nessun tipo di ragionamento o fare riferimento a nessun reato: quindi è una specie di teoria su come noi potremmo fare qualcosa.
Poi, in un secondo momento, abbiamo ricevuto gli atti dei crimini che secondo la Questura avvallano l’associazione a delinquere e si tratta di accensione di fumogeni, manifestazioni non autorizzate, lanci di oggetti durante le manifestazioni, cose che quando c’è un conflitto sociale accadono quotidianamente. Il reato un po’ più grave, secondo il mio punto di vista, è interruzione di pubblico servizio, legato al blocco della nave Bahri, ma dico che è grave perché quella nave non è un servizio pubblico, ma è un servizio privato per privati.
Quindi le forze repressive hanno messo in piedi questo modo molto macchinoso per far sì che noi, per i prossimi 10 anni, saremo dentro una bolla giuridica. Per il primo reato, che avvalla la loro teoria, potremmo avere ripercussioni più pesanti tipo la sorveglianza speciale, i domiciliari e, per i casi più gravi, per due di noi, addirittura il carcere. Quindi vogliono mantenerci in questo trip giudiziario per cercare di tagliare la testa a quei movimenti che creano veramente conflitto sociale.
Praticamente quello che è accaduto la mattina del 24 febbraio alle 5 del mattino circa, a 5 di noi è questo: ci entra in casa la Digos, perquisendoci casa come se dovessero trovare chissà che cosa, sequestrandoci i cellulari, i tablet dei figli in alcuni casi, documenti politici, agende, tutto quello che poteva essere un riferimento alla loro teoria. Non han trovato niente in casa e quindi ci han portato giù in porto dove noi avevamo una nostra sede, con all’interno una palestra per i portuali, l’ufficio dove facevamo le nostre riunioni, le docce: era la nostra sede all’interno del porto. Era un po’ in stile occupazione, perché questa palazzina fa capo all’Autorità Portuale e quindi del demanio. Da li poi ci hanno spostato in un’altra area, per perquisire anche quella, dove tenevamo i nostri striscioni, tutta la roba per le manifestazioni, ma anche chitarre e giradischi. A tutta questa operazione hanno partecipato centinaia di poliziotti, era presente praticamente tutta la Digos di Genova, quella legata all’area politica, la scientifica, la cinofila e gli artificieri. È stata veramente un’operazione che a Genova non si vedeva forse dal 2001 con le operazioni post G8.
Hanno fatto questa maxioperazione perché dovevano in qualche maniera far capire a tutti che stavamo rompendo il cazzo per quanto riguarda la nostra attività sindacale nei posti di lavoro e per quanto riguarda gli scioperi politici, come quelli contro le navi da guerra che da 30 anni non si vedevano all’interno del porto. I padroni i nostri scioperi li han sentiti forte perché l’azienda che non traffica armi subisce una perdita a causa di chi invece accoglie navi destinate al traffico di armi. Una cosa che ha fatto iniziare a scricchiolare le sedie di quelli che hanno percepito soldi per le loro campagne elettorali in cambio della “pace sociale” nei porti. Quindi c’è stata una pressione anche da parte della politica genovese sulla Questura che ha fatto scattare questa maxi operazione repressiva.

Quali sono, oltre al discorso antimilitarista, internazionalista, le vertenze che state portando avanti dentro al porto di Genova?

Allora, faccio un passo indietro temporale: noi siamo tutti delegati sindacali, da circa 7 anni abbiamo portato avanti una serie di questioni vertenziali. Ti faccio due esempi per noi i più simbolici: uno quando abbiamo iniziato a contestare quella che è l’autoproduzione a bordo delle navi, dove di fatto qua a Genova l’abbiamo vinta, nel senso che ogni qualvolta che si ripropone a Genova c’è una forte mobilitazione. L’autoproduzione è quando una nave in fase di attracco fa svolgere ai marittimi le operazioni di rizzaggio e derizzaggio, quindi di fatto depotenziando le ore di lavoro dei portuali e pesando sulle spalle dei marinai che hanno magari settimane di navigazione e che hanno il loro bel da fare: le pulizie, le riparazioni durante la navigazione e tutta una serie di operazioni che vanno fatte in sede di carico e scarico. Con l’autoproduzione le aziende risparmiano sui 4 mila euro a nave, a pensarci bene non è tanto, ma è la logica che va contrastata.
C’è un’altra vertenza, anzi altre due molto simboliche, tutte e due legate alla questione Covid. Una è stata all’indomani del Dpcm che ha messo l’Italia in zona rossa dichiarando come comportarsi nei posti di lavoro in termini di sicurezza e di salute. Noi abbiamo fatto il primo sciopero bianco, cioè abbiamo fatto una sospensione del lavoro, quindi dicendo agli operai di timbrare, ma non lavorare finché nei posti di lavoro non fossero stati garantiti sicurezza e salute.
Questa cosa ha fatto veramente un gran casino nell’area portuale perché metteva alle strette l’azienda e i lavoratori salvaguardavano lo stipendio. Le aziende in quel momento chiedevano alle nostre segreterie di dichiarare sciopero. Noi abbiamo detto no: noi non paghiamo due volte la mala sanità di questo paese. Quindi noi timbriamo, ci pagate, ci garantite la salute e la sicurezza sul posto di lavoro, una volta che ci saranno garantite tutte le disposizioni stabilite all’interno del Dpcm torneremo a lavorare. Questa vertenza è durata ventiquattro ore circa, abbiamo creato tutte le piattaforme di discussione su quali fossero i protocolli corretti da applicare, questo perché ogni lavoro ha le sue peculiarità. Poi questa piattaforma è diventata a livello nazionale il punto di riferimento di tutti i porti d’Italia.
L’altra vertenza che abbiamo portato avanti è sulla questione della cassa integrazione nel periodo Covid. Succedeva in pratica che le aziende, visto l’abbassamento del carico di lavoro che c’è stato tra aprile e maggio, chiedevano la cassa integrazione. Però, non era un calo legato alla perdita di fatturato o alla diminuzioni degli introiti. Per fare un esempio, Psa (società terminalista), nel 2020 ha chiuso l’anno a 36 milioni di utili, quest’anno chiuderanno a 34 milioni di utili. Psa non ha una perdita sulle spese attive dell’azienda, ha una perdita sui guadagni. E quindi chiedevano la cassa integrazione per andare a risparmiare ulteriormente sui loro introiti di fine anno; cioè volevano far pagare metà stipendio allo Stato con la cassaintegrazione e parallelamente mantenere attivi gli straordinari, la chiamata straordinaria dei portuali, e tutta una serie di cose. Quindi, in quel momento ci siamo incazzati parecchio: c’era tanta gente che diceva “no vabbè, ma andiamo in cassa, me ne sto a casa a pagato”, a tutti fa piacere stare a casa, ma per noi era il principio sbagliato. Quando il padrone decide di farti stare a casa, in cassa integrazione con i soldi nostri, perché la cassa integrazione deriva tutta da chi ha la busta paga fondamentalmente, non è giusto.
Oggi stiamo portando avanti anche una questione di sicurezza all’interno del porto: abbiamo avuto una serie di incontri, che mi gestisco io in quanto delegato, ma di cui parliamo sempre collettivamente, riguardanti lo spostamento di tutta la parte del petrolchimico dall’area di Pegli all’interno del porto di Genova, a soli 200 metri da dove attracca la Bahri. Quindi, oltre a una questione di sicurezza legata alla presenza di una nave carica di materiale bellico, immaginate come il rischio aumenti con accanto cisterne di petrolio. Si viene a creare una situazione da bomba nucleare ad orologeria. Si rischia veramente di vedere le immagini dell’esplosione del porto di Beirut dell’agosto 2020. Su questo stiamo cercando di creare una mobilitazione sia all’interno del porto sia della città di Genova. Poi stiamo facendo anche un lavoro coi pompieri, che uscirà a breve; anche loro lamentano il fatto che non hanno, in caso di incendio a bordo di navi che trasportano materiale bellico, una formazione su come operare. Cioè non è perché non sanno come farlo, ma perché non sanno come gestire missili, proiettili, agenti chimici e tutta una serie di cose, dato che l’addestramento del pompiere in Italia si basa su questioni civili e non militari. Quindi nel caso dovesse accadere il peggio bisogna allertare un reparto militare che attualmente dovrebbe arrivare da La Spezie a circa 80 km dalla città, quindi immaginate in una situazione di pericolo cosa potrebbe succedere alla città di Genova.

Quali sviluppi vedete nel movimento dei lavoratori portuali, a livello sia nazionale che internazionale?

Allora, le sensibilità in porto ci sono e sono tante, poi devi sempre partire tu per primo, deve sempre metterci la faccia qualcuno, non c’è una massa di persone che si muove spontaneamente. Noi ci muoviamo in autonomia e nel momento in cui noi ci muoviamo la gente ci viene dietro, però aspetta sempre, soprattutto su questioni più politiche come questa delle armi, che ci muoviamo noi.
Però, devo dire che ci ha dato molta forza in questo senso l’assemblea dell’8 maggio che ha messo in relazione tutti i portuali d’Italia, creando il Coordinamento Nazionale Porti dell’Usb, che ci ha permesso di avere un dialogo più puntuale e agile, un po’ come è successo con la nascita del Calp. Poi, di fatto, ci aggiorniamo in chat, o sui cellulari, e quando c’è l’esigenza ci si incontra o a Bologna o a Livorno per una questione logistica. Genova è molto scomoda per quanto riguarda lo spostamento delle persone. Da lì, abbiamo incominciato a ragionare sull’importanza di mettere in collegamento tutte le lotte perché, tra l’8 maggio e la prima vertenza che abbiamo fatto contro le navi di Israele, abbiamo cominciato a ricevere notizie di tutta un’altra massa di portuali in giro per il mondo che facevano delle mobilitazioni simili. Poi c’è chi si concentra di più alla solidarietà verso il popolo palestinese, chi invece come noi è proprio contro la guerra imperialista. E, ci tengo a precisare che noi non siamo pacifisti, ma antimilitaristi e internazionalisti: a noi le armi servono, ma non servono ad aggredire altri popoli, servono a difendersi un po’ in stile Cuba, Venezuela, Nord Corea e un po’ tutte queste situazioni dove è legittima l’autodifesa di un popolo per l’autodeterminazione.
Adesso, quindi, stiamo girando e prendendo contatti, a Marsiglia e con altri gruppi e portuali in giro per il mondo, per costruire una grossa mobilitazione internazionale, questo autunno, contro il flusso di materiale bellico nei porti e in solidarietà ai popoli che subiscono l’aggressione imperialista.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *