Note di fase n.33
Febbraio 2025
TRUMP E IL MULTIPOLARISMO DI GUERRA
L’insediamento di Trump alla Casa Bianca, nel suo secondo mandato, sta aprendo una nuova fase nelle relazioni tra le formazioni capitaliste a livello globale. Gli attacchi, per ora a suon di roboanti dichiarazioni, nei confronti di Danimarca, Canada, Panama, Messico e, in generale, contro l’Unione Europea potrebbero essere archiviati come una boutade, vanno invece letti come parte del processo di ridefinizione dei rapporti nel quadro del multipolarismo di guerra.
L’imperialismo Usa, sotto la guida di Trump, punta a ristabilire la propria supremazia globale a partire da una maggiore subalternità delle formazioni “alleate” agli interessi economici e politici yankee. Se l’egemonia, intesa in senso gramsciano, è un costante equilibrio di consenso e forza, Trump vuole rispondere alla crisi dell’egemonia Usa mettendo da parte la ricerca del consenso in favore dell’uso della forza (economica, politica e militare) e imponendo quindi il proprio dominio.
Questo passaggio si rende necessario per rinsaldare, su nuove basi, la catena di comando imperialista. Trump esprime nella maniera più adeguata le necessità dell’imperialismo Usa all’interno della nuova fase. Quest’ultima è rappresentata dalla fine del “mercato libero” mondiale, nel campo economico, e della politica delle “mani libere” nel campo delle alleanze. Infatti, i vecchi accordi strutturati subiscono spinte destabilizzatrici e di ristrutturazione su nuove basi, mentre si afferma un’economia di alleanze ad hoc, limitate nello spazio e nel tempo, per il conseguimento di obiettivi specifici. Ne è un esempio l’immediata uscita degli Usa dall’Oms, dal trattato di Parigi sul clima e dai protocolli Ocse in materia fiscale, rivendicando la piena sovranità.
All’interno di questo nuovo paradigma, si comprendono le dichiarazioni e le misure assunte da Trump nei primi giorni di insediamento. Groenlandia e Panama, attualmente insidiate dal capitale cinese e fonte di profitti (per la presenza di materie prime essenziali nel primo caso e snodo logistico fondamentale nel secondo) vanno senza mediazioni messe sotto il controllo degli States. La guerra economica contro Canada e Messico, che prende di mira gli accordi commerciali già in essere, usa la leva economica per piegare le scelte politiche in materia di sicurezza e difesa.
Trump, con la politica dei dazi che prende di mira tutte quelle formazioni che hanno una bilancia commerciale favorevole verso gli Usa, punta a un riequilibrio di essa a tutto vantaggio dei monopoli a stelle e strisce. I dazi al 25% emessi al primo febbraio vanno in questa direzione. Queste mosse hanno l’obiettivo di rafforzare la propria egemonia su un paradigma nuovo: non più quello ipocrita in salsa democratica che cercava il consenso tramite accordi multilaterali, figli della globalizzazione e della fase dell’unipolarismo statunitense; ma quello nuovo sotto il capello dell’American First nel quadro del multipolarismo di guerra. L’uso dei dazi e della guerra commerciale segna un vero e proprio salto nella ridefinizione dei rapporti interatlantici.
Sullo sfondo di questo nuovo paradigma emerge sempre più chiaramente lo scontro strategico con la Cina e la sua rete di alleanze, con nuove minacce di aggressione economica tramite dazi.
Il tracollo finanziario dei monopoli dell’high tech, avvenuto a fine gennaio dopo la presentazione dei dati raggiunti dalla cinese DeepSeek nel campo dell’intelligenza artificiale, è sintomatico di due fattori. Il primo è il livello raggiunto dalle aziende cinesi nel campo dello sviluppo tecnologico: la Cina non è più solo la “fabbrica del mondo”, nella quale vengono prodotte le merci a basso valore aggiunto, ma compete globalmente per la supremazia tecnologica e scientifica.
Il secondo fattore è la manifestazione della crisi di sovraccumulazione che innerva il sistema finanziario Usa. Sono bastati i timori della perdita del primato tecnologico, a vantaggio di una start up cinese, per bruciare 600 miliardi di dollari di capitalizzazione del titolo dell’azienda di semiconduttori Nvidia. In poche ore sono stati bruciati capitali pari a poco meno dell’intero valore della Borsa di Milano. L’iper – capitalizzazione delle aziende tecnologiche riflette la bolla finanziaria che aleggia sopra New York, pronta a scoppiare di fronte a ogni timore degli investitori o di qualche evento destabilizzante. Si comprende, quindi, perché i signorotti della Silicon Valley, storicamente legati alle consorterie democratiche, siano saliti sul carro del vincitore e sperino che l’impronta sovranista di Trump li protegga dal mare che minaccia tempesta.
In questo quadro vediamo come la spirale crisi – guerra – crisi tenda costantemente ad avvitarsi su sé stessa. La crisi di sovraccumulazione di capitali è all’origine della tendenza alla guerra, quest’ultima esprime la risposta del blocco dei monopoli occidentali alla perdita di egemonia e alla concorrenza delle formazioni emergenti. La guerra aggrava la condizione di crisi delle formazioni in una spirale di costante aggravamento.
L’EUROPA IN ARMI
“È ora di passare a una mentalità di guerra, è inaccettabile rifiutarsi di investire nella difesa, anche se significa spendere meno per le altre priorità, le pensioni, la sanità, la previdenza sociale”. Queste le parole di Mark Rutte, neo segretario della Nato pronunciate il 3 dicembre a Bruxelles al meeting dei ministri degli esteri dei paesi che aderiscono all’alleanza atlantica. Pensiamo che non si debba aggiungere altro: la guerra è la strada che le borghesie imperialiste occidentali hanno scelto per uscire dalla crisi.
La Russia resta in primo piano insieme agli altri due paesi dell’asse del “male”, Iran e Corea del Nord ma la Cina resta l’obiettivo principale. Con Trump alla Casa Bianca si fa strada la possibilità di un disimpegno americano nei confronti della Nato che potrebbe diventare a trazione europea.
Questo scenario potrebbe essere il cambio di un paradigma nel rapporto tra Usa e Ue: non più alleati in cerca di un equilibrio, ma concorrenti nel mercato mondiale. Uno scenario carico di contraddizioni per la borghesia europea: da una parte c’è chi scommette sull’unilateralismo di Trump e vorrebbe aggregarsi, come è chiaro dalle mosse della Meloni, unica leader europea presente all’insediamento del neo presidente Usa.
Dall’altro lato il discorso fatto dalla Von der Layen a Davos in occasione del World Economic Forum prospetta la necessità di un’ulteriore integrazione europea in vista della concorrenza a tutto spiano non solo con Cina e Russia ma anche con l’economia statunitense che a suon di dazi vuole mettere in discussione le relazioni commerciali. La strada è quella del Competitiveness Compass presentato a gennaio 2025 dalla Von der Layen e che recepisce quanto indicato da Mario Draghi qualche mese fa. La nuova strategia mira principalmente ad eliminare la dipendenza energetica dalla Russia e recuperare il gap tecnologico dell’Ue da Usa e Cina. Temi questi che dovrebbero trovare una ulteriore elaborazione nel Clean Industrial Deal che verrà presentato a fine febbraio.
Le ricette proposte, per ora, fanno ancora affidamento allo schema seguito fino all’inizio dell’operazione militare russa in Ucraina e alla fine delle forniture a basso costo di Mosca. In sostanza l’obiettivo principale è aumentare la diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico tramite il finanziamento di produzioni spacciate per “green” come la fusione nucleare, la geotermia, ecc. che hanno come target principale sviluppare l’autonomia strategica necessaria per rispondere alle dipendenze esterne in una fase di instabilità nella relazione tra formazioni.
Nel piano si comprende come la tanto sbandierata decarbonizzazione altro non sia che un tentativo di “difendere” una parte dell’industria europea regolamentando in senso restrittivo e con un sistema di penalizzazioni l’ingresso di merci non decarbonizzate, inoltre, costringendo le amministrazioni pubbliche a rispettare percentuali di acquisto di beni decarbonizzati negli appalti. In questa maniera si crea un “mercato guida” o meglio un mercato tutelato per le merci europee, un mercato che oggi vale oltre 2000 miliardi di euro, quasi il 15% dell’intero Pil dell’Ue; questo è in soldoni il piano protezionista in salsa europea.
Una cosa mette finora tutti d’accordo: l’economia di guerra è il volano per rispondere alla crisi. La proposta per arrivare al 2% del Pil come spesa per ogni membro è quella di emettere obbligazioni, i cosiddetti Eurobond, cioè debito comune per finanziare la difesa. A beneficiarne le multinazionali della guerra che vedranno incrementati i loro ricavi del 9% con le industrie europee del settore, come Leonardo, che crescono più velocemente di quelle statunitensi.
La strada verso l’emissione degli Eurobond non è ancora arrivata al traguardo tanto che per ora l’ipotesi più immediata è chiedere alla Bei, ovvero la Banca Europea degli Investimenti, di ampliare i propri finanziamenti al settore della difesa e della sicurezza. In una lettera inviata da 19 paesi membri all’ente si chiede di estendere la possibilità di finanziamento dei progetti verso l’industria bellica I progetti militari e di difesa sono esplicitamente esclusi dall’elenco delle attività che possono essere finanziate dalla Bei e i 27 governi dell’Ue dovrebbero accettare di cambiare il regolamento. La banca, ad oggi, può concedere prestiti solo per progetti a duplice uso civile – militare, come infrastrutture di trasporto o droni. L’obiettivo è quindi ampliare la definizione di ciò che può essere definito dual use e al contempo far rientrare in questa definizione progetti che hanno sempre meno a che fare con finalità civili.
In termini numerici il volume della spesa totale degli Stati membri dell’Ue per la difesa tra il 2021 e il 2024 è aumentata di oltre il 30%. Nel 2024 ha raggiunto una quota stimata di 326 miliardi di euro ed è destinata ad aumentare di ulteriori 107 miliardi. Una crescita esponenziale destinata ad aumentare di anno in anno. Il keynesismo militare europeo oltre a scontrarsi con il reperimento delle fonti di finanziamento risulta un’arma quantomeno spuntata come volano per la crescita. Ad oggi, infatti, il complesso militare industriale europeo risponde solo parzialmente al rifornimento degli stati membri, a farla da padrone sono le aziende statunitensi come Lockheed Martin che genera quasi gli stessi ricavi (60 miliardi di euro) pari all’intero settore bellico dell’Ue (70 miliardi). Le enormi dipendenze delle filiere europee, non solo in campo militare, da aziende extra – Ue fa sì che buona parte degli investimenti venga capitalizzato da altre formazioni riducendone l’impatto economico. Il keynesismo militare diventa quindi un volano attorno al quale ridefinire il ruolo dell’Unione Europea e dei paesi aderenti in un’ottica di maggiore integrazione e organizzazione dei sistemi produttivi.
QUADRANTE MEDIORENTALE
La caduta di Assad del dicembre scorso è stata causata dal venir meno dei due principali appoggi che avevano permesso al governo di resistere al tentativo di regime change sponsorizzato dagli imperialisti: il fronte di alleanze interne e quelle internazionali.
In primis, è venuto meno l’appoggio popolare al regime, rappresentato dal fronte nazionale patriottico composto da forze eterogenee votate alla difesa dell’unità nazionale siriana dalle ingerenze del blocco occidentale. Il fronte si è sfaldato a causa del tradimento delle promesse che Assad aveva fatto in precedenza alle forze che lo componevano: riforma del regime e aperture democratiche verso le forze dell’opposizione. La situazioni interna si è aggravata, con il peggioramento delle condizioni di vita delle masse, a seguito della guerra e delle sanzioni occidentali. Il venir meno del sostegno si ampi settori di massa si registra nel disfacimento dell’Esercito Arabo Siriano e di quelle strutture di resistenza popolare attive sino a qualche anno prima.
Inoltre, dopo essersi opposto al disegno russo di spartizione della Siria nei colloqui con la Turchia, Assad ha perso il sostegno strategico che riceveva dalla Federazione Russa. Invece, l’alleanza con l’Iran ha risentito della posizione (nei fatti) tiepida assunta dal regime baathista nel quadro dello scontro tra l’Asse della Resistenza e l’entità sionista, probabilmente sotto pressione dei paesi del Golfo che avevano promesso in cambio la rimozione delle sanzioni.
L’aggravamento della contraddizione secondaria tra regime baathista e le masse popolari ha determinato le condizioni nelle quali la contraddizione principale tra difesa dell’unità nazionale e spartizione del paese si è incuneata portando alla disfatta del regime e alla balcanizzazione della Siria. Il governo Assad, espressione dittatoriale di una frazione della borghesia burocratica siriana, non è riuscito o non ha voluto rispondere alle esigenze di cambiamento poste dalle masse siriane e dalle forze di opposizione, determinando le condizioni nelle quali le potenze imperialiste sono riuscite ad insinuarsi. L’insieme di frazioni della borghesia compradorizzata siriana che puntava al rovesciamento di Assad, legate alla Turchia, alle petromonarchie e all’entità sionista, sono riuscite a compattare le forze e sopraffare le forze lealiste.
Il processo di balcanizzazione della Siria è al momento in corso con la Turchia, le petromonarchie e l’entità sionista che si spartiscono il bottino. Il nuovo governo siriano non sembra opporsi, anzi ha permesso ad Israele di devastare l’aeronautica e la marina dell’esercito di Assad. Dopo la caduta di Damasco, l’entità sionista ha eseguito centinaia di attacchi aerei che hanno completamente distrutto le capacità militari siriane, avviando persino un’aggressione via terra risultata nella cattura di alcune aree. Nel silenzio totale del nuovo governo che si definisce “non interessato alle ostilità con Israele”.
L’unità territoriale e l’indipendenza politica del paese sono minacciate anche dalla Turchia, la quale sembra farsi sempre più convinta di avviare una pesante offensiva terrestre ed area contro le aree controllate dalle Sdf a guida prevalentemente curda e ampliare il proprio controllo nella regione. Questi ultimi si ritrovano adesso ad essere l’unica forza rimasta ad arginare l’egemonia turca nella Siria, dall’altro lato però la contraddizione dell’appoggio che hanno ricevuto dagli Stati Uniti sta ora implodendo. Infatti, l’opportunismo tattico dell’alleanza Sdf – Usa, divenuto poi un sodalizio strategico, mostra tutte le criticità di una simile politica: una volta cessata l’utilità delle Sdf in funzione principalmente anti – Assad e secondariamente anti – Isis, il blocco imperialista si è quasi del tutto disinteressato di loro. I principali sponsor delle Sdf, gli Usa, non sembrano attualmente interessati a sostenere questa alleanza e la minaccia dell’invasione turca (sventata in questi anni molto probabilmente dalla presenza delle forze americane) sembra presagire proprio un lasciapassare statunitense. Intanto, i sionisti dichiarano in funzione anti – turca il pubblico sostegno alle forze curde. A conti fatti, nelle alte sfere delle Sdf, oggi ha prevalso l’idea di una alleanza “a tempo indeterminato” con gli Usa. Un’alleanza destinata a sgretolarsi, in quanto l’imperialismo yankee non ha alcun obiettivo nel sostenere il popolo curdo. Le zone controllate dalle Sdf sono servite agli Usa per delimitare un proprio avamposto nella Siria di Assad, all’interno del quale hanno preso il controllo dei giacimenti petroliferi e costruito le proprie basi militari. Con la caduta di Assad la presenza statunitense e lo sfruttamento dei giacimenti è garantita anche dal nuovo governo lasciando isolata la dirigenza curda contro le mire espansionistiche turche e jihadiste.
Intanto, subito dopo il suo insediamento Al-Jolani ha ordinato alle fazioni palestinesi presenti nel proprio territorio di abbandonare le loro sedi, giustificato dallo scioglimento totale di tutte le milizie armate nel paese che adesso dovranno scegliere tra confluire nelle forze di sicurezza del nuovo governo o subire la repressione. In particolar modo, la Jihad Islamica Palestinese aveva una particolare presenza in territorio siriano, con numerosi dei suoi leader collocati a Damasco. Questo cambio di direttiva potrebbe influire sulla Resistenza, in particolar modo nei territori occupati della Cisgiordania. Non è un caso che due giorni dopo il cessate il fuoco a Gaza, entrato in vigore il 19 gennaio, l’entità sionista abbia lanciato una vasta aggressione a Jenin, prendendo di mira particolarmente la Jihad Islamica. In questo solco si è inserita anche l’Anp, che – poco prima del cessate il fuoco a Gaza – ha dato conferma della sua natura collaborazionista dando vita ad un’incursione sempre su Jenin volta a estirpare la resistenza palestinese nella città. Una simile mossa tiene naturalmente conto del nuovo equilibrio di potere nella regione, con l’Anp che ricerca il sostegno delle potenze che sono emerse vincitrici dalla caduta di Assad: gli Stati Uniti e i paesi del Golfo e cerca di sponsorizzarsi come il miglior alleato dell’entità sionista sul campo.
La caduta del governo di Assad non corrisponde alla definitiva sconfitta della resistenza ai processi di balcanizzazione e distruzione della Siria. La contraddizione principale, quella dell’unità e dell’autodeterminazione del popolo siriano contro il processo di distruzione del paese, è ancora sul piatto. Alla caduta delle forze governative corrisponderà la presa in carico di questa resistenza da parte di altre forze.
La caduta di Assad rappresenta la prima vittoria sul campo che Usa e sionisti portano a casa nel progetto del Nuovo Medio Oriente. La fase attuale caratterizzata dal multipolarismo di guerra apre a scenari nuovi e inediti. La crisi dell’egemonia Usa e l’emergere di nuove potenze aprono spazi anche a piccole e medie potenze regionali per poter perseguire i propri disegni strategici. È il caso, ad esempio, della Turchia e del suo progetto neo-ottomano, il quale prima o dopo entrerà in contraddizione con i piani imperialisti di Usa-occidente e sionisti.
Inoltre, in questa situazione di multipolarismo di guerra, si afferma un nuovo paradigma in cui emerge una spregiudicata economia di alleanze e di convergenza di interessi ad hoc delimitata nello spazio e nel tempo, come è il caso di quella tra Usa, Turchia, sauditi e sionisti. I sionisti, dopo la brutta sorpresa trovata all’ingresso del Libano, hanno ripiegato su un’avanzata spedita sulle alture del Golan, piazzandosi a ormai meno di 20 km da Damasco. Per l’entità sionista questa è una vittoria preziosa, sia dal punto di vista dell’espansione del colonialismo d’insediamento, nel quadro strategico del progetto della Grande Israele, sia perché le permette da subito di avere una posizione più avanzata verso Libano e Giordania.
La vittoria sionista in Siria è stata velocemente oscurata dalla sconfitta riportata a Gaza. Le immagini delle forze della Resistenza che consegnano i prigionieri sionisti nel quadro degli accordi dimostra visivamente il fallimento della campagna genocidiara contro il popolo palestinese e soprattutto il fallimento militare di tutta l’operazione. Le recenti dichiarazioni di Trump su un possibile ruolo diretto degli Usa nell’occupazione di Gaza e nella deportazione dei palestinesi nei paesi limitrofi certifica l’impossibilità del sionismo di portare avanti il colonialismo d’insediamento come fatto fin’ora. La Resistenza palestinese e Libanese escono politicamente rafforzate dal confronto con l’entità sionista, rappresentando un esempio per tutti i popoli che vogliono opporsi all’imperialismo.
IL GOVERNO MELONI ALLA PROVA DEI CONTI
La legge di bilancio 2025 si dimostra essere la cartina torna sole delle scelte strategiche della classe dominante per affrontare la fase di guerra attuale. Infatti, per quanto riguarda le spese militari, vengono stanziate risorse per assicurarsi che l’andamento della spesa sia coerente con le necessità di guerra della borghesia imperialista, nel periodo successivo all’utilizzo delle risorse del Pnrr e del Fondo Sviluppo e Coesione. L’impianto della manovra è volta a tagliare il tagliabile per indirizzare i fondi verso la difesa e il complesso militare industriale.
I finanziamenti riguarderanno principalmente il potenziamento degli investimenti nel settore della difesa, per un valore complessivo di 35 miliardi nel periodo 2025-2039, misura che si aggiunge al finanziamento, per la prima volta permanente, delle “missioni internazionali di pace”. Se il keynesismo militare rappresenta l’unica strada economica percorribile, fuori dalla retorica del governo, non c’è un provvedimento che possa arginare la crisi galoppante nel paese.
In materia fiscale sono presenti i soliti favori alle imprese, come l’ampliamento della flat tax e la riduzione dell’aliquota Ires, ma che restano comunque insufficienti per arginare le profonde crisi aziendali.
Si confermano le solite misure di decompressione salariale a sostegno però dei “redditi medio bassi” necessari come tentativo per rallentare lo sviluppo del conflitto di classe nel paese, gettando fumo negli occhi ai proletari con aumenti irrisori in busta paga senza mettere mano ai contratti collettivi nazionali. Anzi, la modifica del taglio del cuneo contributivo a taglio del cuneo fiscale porterà ad una perdita fino a 1200 euro all’anno, avvantaggiando invece i redditi oltre i 35.000.
L’incremento per i salari, oltre ad essere irrisorio vista l’inflazione, è solo fittizio perché a questo corrisponde la perdita sul fronte dei servizi pubblici. L’attacco alle condizioni di vita delle masse popolari continua con le modifiche delle quote di incremento degli investimenti nella sanità pubblica che prevedono una diminuzione progressiva fino al 2030.
In pari tempo invece continuano a incrementare finanziamenti pubblici verso soggetti privati; oltre ad introdurre un fondo di rimborso alle imprese per incentivare la realizzazione di programmi di screening e di prevenzione delle malattie. L’inasprimento dei requisiti per accedere alla NASpI rende più difficile per i disoccupati ottenere un sostegno economico, aggravando ulteriormente la ricattabilità lavorativa.
Parallelamente, nonostante il discorso politico del governo sottolinei un presunto rafforzamento degli investimenti verso il Sud Italia, nella pratica queste risorse sembrano essere deviate o insufficientemente allocate, lasciando irrisolte le profonde disparità territoriali. Inoltre, il bonus natalità appare come una soluzione temporanea e poco strutturale, che non affronta le reali problematiche legate al calo demografico e alla mancanza di servizi per le famiglie.
Sul fronte pensionistico il governo è riuscito nell’impresa di traghettare il sistema verso la piena applicazione, se non addirittura il peggioramento, della legge Fornero. Nella legge di bilancio vengono ridotte al lumicino le opzioni a cui potevano accedere donne e lavoratori precoci, certificando la condizione per cui i lavoratori dovranno lavorare sempre di più e percepire pensioni sempre più basse. Un problema questo, che l’attuale esecutivo punta a risolvere ricorrendo ai fondi pensionistici privati.
La nuova legge di bilancio rispecchia una visione classista e privatizzatrice anche per il sistema dell’istruzione pubblica, con tagli significativi ai finanziamenti destinati alle Università e alla ricerca. Questo ridimensionamento delle risorse è accompagnato da assunzioni sempre più precarie e ricattabili nel settore accademico e della ricerca. Al contempo, il sostegno finanziario alle scuole paritarie riflette la chiara volontà di favorire gli interessi dei privati sottraendo risorse alla scuola pubblica che dovrebbe invece essere il pilastro di un’istruzione gratuita e accessibile a tutti.
Anche in questa finanziaria il mantra del governo, che si parli di spese belliche o d’infrastrutture, segue il principio di socializzare le perdite e privatizzare i profitti. Questi investimenti, orientati a sostenere le imprese del settore edile e i grandi gruppi economici, sono la dimostrazione plastica di quali interessi si fa curatore anche questo governo.
È evidente come queste scelte rispecchino una politica che favorisce l’accumulazione di profitti per pochi, a scapito del benessere pubblico. In ultima istanza possiamo dire che anche questa legge di bilancio tiene accuratamente al riparo i padroni con continue decontribuzioni, ma senza reali finanziamenti per l’industria. Per i proletari invece il solito gioco delle tre carte per mistificare l’attacco che il governo sta portando avanti contro i salariati di questo paese, in cui vengono concesse briciole sempre più esigue, ma in pari tempo si riduce sempre di più la spesa sociale.
Il governo Meloni si presenta con una legge di bilancio a costo zero, in continuità con gli esecutivi precedenti, che puntano in generale a ridurre il peso del carico fiscale al padronato per salvaguardarne i profitti andando a recuperare le cifre tagliando qua e là.
L’INDUSTRIA IN CRISI
Lo scorso dicembre Meloni brindava per l’aumento dei posti di lavoro, incensata dai principali istituti di analisi e dalla stampa di regime. L’aumento di 874.00 occupati, principalmente nel settore turistico, della ristorazione e in generale del terziario, stride con la crisi che sta attraversando tutto il comparto industriale che chiude il 2024 con 21 mesi ininterrotti di calo della produzione e un aumento del 30% su base annua delle ore di cassa integrazione richieste.
La sola industria dell’auto nel 2024 registra un calo pari al – 26%, contrazione che ha visto quest’autunno le segreterie sindacali impegnate nel gestire l’enorme ondata di licenziamenti e ricorsi alla cassa integrazione ordinaria e straordinaria in decine di aziende su tutto il territorio nazionale. Abbiamo visto sospendersi la produzione in comparti simbolo del settore come le linee della Panda, ferme per nove giorni a novembre 2024, e altre linee di produzione ferme per periodi ben più lunghi. Il ricorso alla cassaintegrazione permette di “socializzare le perdite”, scaricando sullo stato e suoi lavoratori che si vedono decurtati di parti di salario, il prezzo della crisi.
Stellantis si conferma capofila nella crisi industriale italiana con un ricorso alla cassa integrazione per il periodo gennaio-settembre 2024 del +60% nel solo Piemonte e +87% nella sola città di Torino rispetto all’anno precedente. A fronte di questo crollo della produzione è utile sottolineare la decisione da parte dell’esecutivo di decurtare per ben 4,6 miliardi di euro fino al 2030 il Fondo nazionale per la riconversione della filiera dell’auto nato nel 2022. Una sforbiciata dell’80% al Fondo in favore di 11,3 miliardi di euro (fino al 2039) iniettati al settore bellico. Fondi che andranno ad esempio nelle nuove fregate Fremm, produzione Fincantieri, che assicurano all’Italia un ammodernamento nella propria flotta militare d’accordo con le indicazioni Nato e Ue in termini di sicurezza dei confini strategici. La direzione del governo Meloni in termini di politica industriale è chiara, usare il settore bellico come volano per la ripresa.
La crisi dell’industria non nasce di certo oggi. La sua base materiale va ricercata nella caduta tendenziale del saggio medio di profitto che attanaglia le formazioni a capitalismo avanzato, Italia compresa, elemento che strutturalmente non può essere superato. Nella fase attuale assistiamo ad un suo aggravamento e avvitamento determinato dalla fine di alcuni dei fattori che fino a ieri agivano in funzione anti – ciclica rispetto alla crisi stessa, calmierando la crisi di profitto e rallentandone il crollo.
– Fine o ridimensionamento degli incentivi. Le politiche europee e nazionali in materia di innovazione tecnologica, efficientamento, industria 4.0, ecc hanno rappresentato una enorme emissione di capitali a favore degli industriali che hanno potuto godere di condizioni di favore per operare un salto tecnologico. La fine del “capitalismo verde” a favore di quello militare, come dimostra anche il caso italiano citato in precedenza, porta con sé ad un crollo della domanda di macchinari e apparecchiature industriali e di tutto il settore ad esso connesso.
– Aumento del costo delle materie prime. La crisi energetica scoppiata prima e aggravatasi con l’inizio dell’operazione speciale russa in Ucraina ha determinato un aumento del costo delle materie prime che ha inchiodato l’industria europea. Aumenti salatissimi per acciaio, frumento ma soprattutto energia ha obbligato l’Europa a cercare fonti di rifornimento alternative che non hanno riportato i prezzi ai costi fortemente competitivi del gas russo e che garantivano un vantaggio competitivo alla manifattura.
– La crisi tedesca. A farne le spese è stata la locomotiva tedesca alla quale una buona parte delle aziende italiane è legato per un valore pari al 12,5% dell’export complessivo. La crisi dell’auto ad esempio che sta investendo la Germania ha quindi ricadute dirette nell’industria della penisola. Ulteriore fattore di aggravamento è la linea di transizione energetica a tappe forzate imposta dall’Ue. Resta il fatto che il tracollo dell’auto in Germania trascina con sé quella parte di manifattura che produce parti o prodotti intermedi.
– La competizione internazionale. In questa spirale di crollo economico va inserito ancora un ultimo elemento, la competizione mondiale. La Cina da paese capace di essere competitivo nella produzione a basso valore aggiunto, come nel tessile, ha “scalato” le catene del valore riuscendo a competere proprio nei settori ad alto valore aggiunto come l’automotive erodendo quote di mercato alle aziende europee. Prendendo ad esempio il settore auto, in soli 5 anni le importazioni dalla Cina sono passate da meno di 1 miliardo di euro nel 2019 a oltre 15 miliardi nel 2023. Gli Usa, prima con Biden e oggi con Trump difendono il proprio mercato con politiche protezionistiche di dazi e disincentivi all’acquisto di prodotti importati con la parola d’ordine del “buy american”. L’industria europea e con sé quella italiana ad oggi fa la parte del vaso di coccio tra i vasi ferro.
La risposta del governo per ora è la pubblicazione del “libro verde per la politica industriale” testo prodotto dal Mimit e che prelude alla pubblicazione nei prossimi mesi del libro bianco che conterrà i piani operativi. Il tema attorno al quale gira la proposta è quella dello “stato stratega”, quindi di un ruolo più centrale della sovrastruttura con il compito di risolvere le storture del mercato e della cosiddetta iper – globalizzazione. Aspettando di analizzare meglio i documenti successivi possiamo dire che il testo entra nel merito di quanto abbiamo accennato in altri documenti e articoli della rivista Antitesi, ovvero la necessità della sovrastruttura di costruire una nuova relazione con la struttura per rispondere alla nuova fase di tendenza alla guerra e alle esigenze del multipolarismo.
Intanto, le uniche politiche concrete messe in campo sono quelle legate al Collegato lavoro che mirano ad aumentare la precarietà e la ricattabilità dei lavoratori, con l’obiettivo quindi di comprimere ulteriormente i salari. L’altra strada scelta dal governo è quella di abbassare ulteriormente il carico fiscale alle aziende, così da ridurre la perdita di profitti e scaricare sulle masse popolari la crisi dei padroni. I lavoratori intanto perdono posti di lavoro e salario in settori centrali, dove le lotte hanno portato diritti e conquiste, mentre si vedono crescere l’occupazione nel turismo o in generale nel terziario con condizioni materiali ben più arretrate con una cultura sindacale assente e un terreno di lotte tutto da iniziare.
MOBILITAZIONI DI MASSA E I NOSTRI COMPITI
Lo sciopero del 29 novembre indetto dalla Cgil ha sicuramente superato le solite ritualità pre – approvazione della legge di bilancio alle quali Landini ci aveva abituato negli ultimi anni. Importante è stata la partecipazione massiccia di lavoratori e lavoratrici ed in particolare di settori di classe operaia e non solo di bonzi e burocrati di apparato. Lo sciopero è stato convocato dalla Cgil nella prima e vera apertura, da parte della sinistra riformista, di una mobilitazione contro il governo. Con un’alta percentuale di adesioni lo sciopero si può considerare significativo, soprattutto nei settori industriali, nei quali l’adesione è stata considerevolmente alta (in particolare in quelli metalmeccanici e agro industriali), oltre all’ampia partecipazione nei servizi.
Il tentativo del governo di colpire e ridurre la portata dello sciopero ha effettivamente rafforzato le fila dei lavoratori e delle lavoratrici che hanno incrociato le braccia, fornendo la possibilità ai vertici dei confederali di “alzare il tono”, parlando di “rivolta sociale” e facendo scendere quasi mezzo milione di persone nelle piazze italiane. Durante un governo di destra è normale che per fare opposizione il centro sinistra utilizzi il suo maggiore (e ultimo) centro di mobilitazione, ovvero il sindacato. Le parole d’ordine lanciate dai confederali non sono andate oltre la contrarietà alla manovra di bilancio, l’aumento del welfare e dei salari e l’investimento sulle politiche industriali. Mentre si conferma la volontà della Cisl di diventare il sindacato corporativo per eccellenza che ha deciso di staccarsi dalla chiamata dello sciopero e di accodarsi a qualsiasi decisione che prende il governo.
Il grande assente nelle piazze del 29 è l’opposizione alla guerra, a dimostrazione dell’egemonia della sinistra atlantista all’interno dei vertici dell’organizzazione sindacale. Si definisce sempre più chiaramente, quindi, l’obiettivo di costruzione del “campo largo” che vede il Partito Democratico come capofila politico, la Cgil come perno organizzativo e che cerca di cooptare all’interno del proprio progetto anche i movimenti che si stanno sviluppano, compreso quello contro il ddl 1660.
Bisogna, però, distinguere gli interessi della direzione politica e sindacale dalla base che è scesa in piazza: se da un lato questo sciopero ha rappresentato un passo in avanti per la realizzazione del progetto politico della sinistra borghese, dall’altro ha fornito una preziosa opportunità di mobilitazione delle masse e della classe.
Per noi la discesa in campo dei lavoratori e il movimento delle masse sono fatti che rimarranno sempre positivi e questi spazi di apertura torneranno sempre utili a noi comunisti se riusciamo a distinguerci dal campo opportunista, prima di tutto mettendo la guerra al centro.
Significativa è stata anche la riuscita della manifestazione successiva. Quella del 30 Novembre a Roma è stata, infatti, una grande giornata di supporto alla causa palestinese: portare decine di migliaia di persone per le strade al fianco della Resistenza il giorno dopo uno sciopero generale di questa portata è stato un tentativo positivo di collegare la lotta anti – imperialista con la lotta di classe in una prospettiva di rottura.
L’avvicinamento al corteo del 30 Novembre ha fatto emergere la presenza di due linee all’interno del movimento di solidarietà al popolo palestinese. Una sinistra composta da chi ha come riferimento la Resistenza palestinese e riconosce il sionismo come un nemico contro il quale combattere con determinazione in Palestina come in Italia, anzi che vede la lotta in solidarietà con il popolo palestinese come parte della lotta per liberarci dagli imperialisti di casa nostra. Dall’altra una destra composta da chi gioca sui distinguo verso la Resistenza e vorrebbe riportare il movimento di solidarietà a prima del 7 ottobre, mettendo come principale il contenuto umanitario e aprendo spazi di agibilità a quelle forze politiche e associative vicine se non riconducibili ai collaborazionisti dell’Anp.
Attorno a questa linea si è costruita l’assemblea nazionale del 9 novembre con l’obiettivo di ricondurre ad un margine di compatibilità e accettazione con i settori della sinistra borghese la solidarietà al popolo palestinese, riportando il contenuto su un piano culturale e diritto umanista, depotenziandone la portata di centro di mobilitazione di massa di rottura con la borghesia imperialista e il suo apparato e chiudendo quindi gli spazi di agibilità della sinistra rappresentata soprattutto dai Giovani Palestinesi e dall’Udap.
La posizione sull’Autorità Nazionale Palestinese è centrale: tanto per il suo storico ruolo collaborazionista con l’entità sionista, quanto per gli eventi in corso in Cisgiordiania e, in particolare, a Jenin. È inoltre notizia di pochi mesi fa che i reparti delle forze di polizia palestinesi abbiano ripreso l’addestramento da istruttori dei Carabinieri del Centro di Eccellenza per le Unità di Polizia e Stabilità (CoESPU) di Vicenza, a dimostrazione del legame che unisce l’imperialismo di casa nostra con i collaborazionisti di Abu Mazen.
Noi dobbiamo partire dal positivo delle mobilitazioni di massa che esprimono la disponibilità alla lotta di ampi settori di classe, non ultime le manifestazioni che chiedevano giustizia a fronte dell’omicidio di Ramy da parte della polizia.
La tendenza alla guerra e le sue ricadute sia sul piano politico: restringimento degli spazi di agibilità, repressione e spinta verso lo stato di guerra interno; ed economico: chiusura di fabbriche, cassaintegrazione, licenziamenti, tagli ai servizi sociali e in generale peggioramento delle condizioni di vita delle masse; sono i terreni immediati da agitare e legare al contenuto più generale della guerra. Dobbiamo avere la capacità di spiegare i legami che uniscono la condizione materiale che le masse vivono e le cause profonde che la determinano, distinguendoci da quelle posizioni opportuniste che pur denunciando le questioni, nascondono la guerra e la crisi del sistema del capitalismo. In questa fase organizzare la sinistra significa innanzitutto rivolgerci agli elementi avanzati che emergono dai settori di classe e unirli attorno ad una linea rivoluzionaria.