Note di fase n.32
Settembre 2024
IL PRECIPITARE DELLA GUERRA
Due eventi negli ultimi mesi hanno fotografato meglio di ogni altra cosa la contraddizione esistente tra le vecchie formazioni imperialiste sovraccumulate e in declino e dall’altra le cosiddette formazioni emergenti (o emerse), desiderose di ritagliarsi nuovi spazi di valorizzazione sottraendosi dal dominio del vecchio blocco imperialista. Da un lato la riunione del g7 e dall’altra quella dei Brics, avvenute entrambe quest’estate.
Due immagini che messe a confronto spiegano la fase di multipolarismo di guerra che avanza. Conti alla mano, i paesi del g7 rappresentano, ancora per poco, il 43% del Pil globale, un dato che fino ai primi anni Novanta era del 70% e che senza cambi di passo è destinato a diminuire costantemente. I Brics a oggi rappresentano “solo” il 29% del Pil globale, ma con ampissimi margini di crescita. Si comprende chiaramente lo spazio economico che si sta aprendo e di conseguenza il progressivo interesse che suscitano i Brics come alternativa concreta al dominio della catena imperialista a guida Usa. Questo ha determinato l’ingresso di 5 nuovi paesi (Egitto, Etiopia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Iran) nel 2023 e, recentemente, le richieste di adesione di altri 15 paesi, tra cui la Thailandia e la Turchia (primo paese Nato a fare richiesta di ingresso) e in ultimo la Palestina.
Da un lato un gruppo ristretto di economie in crisi che hanno basato la propria crescita economica sul saccheggio, la spoliazione e l’asservimento finanziario del resto del mondo che oggi si stringono attorno a un’unica linea strategica: la difesa con ogni mezzo necessario della propria egemonia in decadenza. Dall’altro uno spazio economico in espansione destinato, secondo gli stessi economisti borghesi occidentali, a surclassare i primi e che costruisce rapporti tra stati su basi diverse. Lo spazio economico aperto dai Brics rappresenta un terreno fuori dalle sanzioni e dagli attacchi mossi dall’imperialismo occidentale contro gli avversari, alternativo alla sottomissione del dollaro.
Il dato principale è che i Brics approfondiscono la crisi di egemonia del blocco occidentale assieme ai rapporti bilaterali e multilaterali che le varie formazioni capitaliste emergenti intrattengono. Per capire “che aria tira” basta leggere le dichiarazioni di Eric Gargetti, ambasciatore Usa in India, riferendosi alla visita di Modi in Russia: “So che all’India piace la sua autonomia strategica. Ma in tempi di conflitto, non esiste una cosa come l’autonomia strategica”.
Viene da sé che tutta la kermesse del g7 e tutta la retorica sulla salvaguardia della pace e della sicurezza internazionale, sul sostegno a un ordine internazionale libero e aperto, è senza dubbio la cortina di fumo che cela la prospettiva strategica della borghesia imperialista occidentale di proseguire lo scontro con Cina e Russia per affermare i propri interessi. Un fatto questo certificato ampiamente dai 95 miliardi di dollari firmati da Biden ad aprile per finanziare Ucraina, Israele e Taiwan che vanno a delineare chiaramente sia i nemici Russia, Cina e Iran che i fronti della tendenza alla guerra.
I leader dei 7 paesi hanno ribadito l’impegno comune nel sostegno all’Ucraina, sia stanziando 50 miliardi di dollari provenienti, a quanto dicono, dalle entrate straordinarie derivanti dal patrimonio russo espropriato in occidente, sia intensificando gli sforzi collettivi per disarmare e tagliare i fondi al complesso militare industriale russo. L’uso dei fondi russi congelati è stato al centro del dibattito per le ripercussioni che può avere sul piano finanziario. A oggi si è raggiunto l’accordo solo sull’uso degli interessi ricavati, i quali andranno a ripagare il prestito versato all’Ucraina. L’uso degli asset veri e propri rischierebbe infatti di provocare una fuga di capitali finanziari dai principali mercati occidentali, questo per la paura degli investitori che la rapina che oggi vede la Russia come nemico domani possa toccare a qualcun’altro, petromonarchie in testa.
Rispetto alla guerra in Ucraina il segretario generale della Nato, durante il summit di Washington dell’Alleanza, ha incoraggiato gli stati membri affinché consentano l’impiego delle armi a lungo raggio donate a Kiev anche contro obiettivi situati in territorio russo. Gli analisti borghesi non nascondo la loro preoccupazione rispetto a come risponderà la Russia all’attacco ucraino con i droni contro due stazioni del sistema di difesa per localizzare i missili balistici in territorio russo. Infatti, per la dottrina nucleare russa, gli attacchi contro i sistemi radar della rete di allarme precoce compromettono la sicurezza nazionale e costituiscono una delle ragioni che giustificano il ricorso all’arma nucleare. In questo senso, persino gli analisti borghesi, così come l’alto rappresentante Ue per la politica estera Josep Borrell rispetto a questa dimensione di “escalation controllata” sono costretti ad ammettere che non è affatto detto che ciò risulti effettivamente controllabile, ma che il rischio di escalation va bilanciato con la necessità degli ucraini di difendersi. Questa retorica dell’“escalation controllata” pare più un auspicio che una prospettiva concreta. Ciò che preoccupa maggiormente è il rischio che le forniture belliche da parte dei paesi membri della Nato, impiegate direttamente in territorio russo, come fatto recentemente nella regione di Kursk, possa coinvolgerli in possibili rappresaglie. Se da una parte l’impiego delle armi sul territorio russo è una decisione che spetta ai singoli stati e non alla Nato, le conseguenze politiche e militari a cui tale scelta può portare imporrebbero, di fatto, un’escalation incontrollabile che richiederebbe la mobilitazione di tutti i paesi membri; dall’altro lato, l’assenza di una risposta compatta rappresenterebbe un durissimo colpo al blocco atlantico. In questa direzione Kiev ha già compiuto un piccolo passo con l’incursione delle sue truppe nella regione russa del Kursk, nonostante le sia costato un drastico arretramento nel Donbass.
Il dato da rilevare è il precipitare della guerra imperialista come determinazione che innerva la fase. I vari dibattiti che di volta in volta vengono proposti sull’uso delle armi in territorio russo; sulla consegna o meno di armi a lungo raggio; sull’addestramento in territorio ucraino dell’esercito di Kiev da parte di istruttori stranieri, rispondono a diversi scopi. Quello principale è la formalizzazione di un innalzamento del livello dello scontro, una “escalation controllata” che sposta la linea rossa ogni volta un passo oltre. È un piano principalmente politico e formale, perché ad esempio è noto a tutti che l’Ucraina pullula di personale britannico, statunitense, francese, ecc. Ma cosa diversa è formalizzarlo, così come l’utilizzo di armi inviate dai paesi dell’Alleanza in territorio russo non è una novità, ma autorizzarlo formalmente sostanzia una assunzione di responsabilità della quale la Russia deve prendere atto e comportarsi di conseguenza.
Il vertice Nato di Washington è stato chiaro sotto ogni punto di vista a riguardo. Oltre a ulteriori stanziamenti, è stata decisa la costituzione del comando militare di Wiesbaden in Germania, operativo a fine 2024 e che avrà il compito di centralizzare forniture, addestramento e sostegno in ogni campo all’esercito di Kiev. Un impegno di lunga durata che mette nero su bianco il percorso di adesione dell’Ucraina alla Nato con la nomina di un rappresentante senior. Affianco a questi sono stati firmati una serie di accordi bilaterali e multilaterali sotto il cappello dell’Ucraine Compact che vincola gli oltre 20 paesi firmatari e l’Unione Europea al sostegno bellico e finanziario “finché l’Ucraina non avrà la meglio sull’aggressione russa”. La costituzione del comando in Germania trasferisce di fatto la supervisione dagli Usa all’Europa, mettendo il fronte est al riparo da possibili turbolenze legate al cambio alla presidenza di Washington nel caso dell’elezione di Trump. Nella stessa direzione va l’Ucraine Compact, tracciando una linea chiara su quali formazioni sostengono “incrollabilmente” Kiev. Un segnale a Orban, Erdogan e a tutti quelli che possono mettere i bastoni fra le ruote all’impegno bellico del blocco occidentale “dall’interno”.
Durante il vertice è stato ufficializzata anche la prima lista di aziende finanziate dal Nato Innovation Fund, il primo fondo di venture capital multi–sovrano, con dotazione iniziale di un miliardo di euro e che avrà il compito di individuare e investire in startup di deeptech, ovvero in produzioni specializzate in intelligenza artificiale, robotica e space economy. Non solo: il fondo investirà anche in ulteriori fondi finanziari, come Otb Ventures o Join Capital, che supportano società di interesse della Nato. Un salto di qualità nella centralizzazione del capitale finanziario diretto verso il complesso militare–industriale. La direzione è quella verso il keynesismo militare che rappresenta per l’“occidente collettivo” l’unica risposta possibile alla recessione economica e industriale che la competizione contro i paesi emergenti ha determinato, con l’obiettivo di impedirne la crescita e depotenziarne le capacità competitive. La tendenza anche nel campo del keynesismo militare è quella che vedrà una sempre maggior centralizzazione e concentrazione del capitale a favore dei monopoli in funzione delle necessità e degli obiettivi di guerra. Bisogna superare il piano di concorrenza tra gli stessi paesi alleati e i vincoli che bloccano lo sviluppo del complesso militare industriale. Un problema che porta, ad esempio, i paesi dell’Ue ad approvvigionarsi dagli Usa per circa due terzi dei propri acquisti bellici. Il piano di Draghi presentato al Parlamento Europeo rappresenta una proposta che spinge in questa direzione e chiarisce che senza un salto al capitalismo di guerra non c’è futuro economico e tanto meno politico.
LA CRISI DEL FRONTE INTERNO
Se il piano inclinato della guerra imperialista sembra tracciato, questo deve fare i conti con una serie di fattori che lo mettono in discussione, lo rallentano e ne minano il procedere perché ancora evidentemente gravido di contraddizioni, sia per la classe dominante che lo vuole portare avanti, ma soprattutto perché osteggiato dalle masse popolari. I voti raccolti da programmi in aperta rottura con i partiti di riferimento della borghesia imperialista sono un riflesso di questa opposizione che, per quanto non si esprima ancora massivamente nelle piazze, trova il suo principale volano nelle mobilitazioni per la Palestina in giro per il mondo.
Quello che salta subito all’occhio delle elezioni europee, però, è il forte dato astensionista che si attesta al 50% degli aventi diritto, con punte più alte nelle parti d’Europa come il mezzogiorno italiano, dove gli effetti della crisi del capitalismo europeo sono già devastanti. Un malcontento enorme che solo in parte è stato riassorbito dai partiti dell’estrema destra, vincitori di questa tornata elettorale.
Mentre il centro dei popolari europei sostanzialmente tiene, il crollo è della socialdemocrazia europea, soprattutto quella tedesca. Tuttavia, i numeri hanno portato alla rielezione della Von der Layen, la quale ha confermato il programma che aveva caratterizzato il suo mandato: forti investimenti per sostenere l’industria green, ma soprattutto quella militare. Sembra in questa fase tramontare l’idea dell’esercito europeo, dato che Macron, il suo sponsor principale, esce con le ossa rotte dalle elezioni. Tuttavia, la nomina del Commissario alla Difesa e l’intenzione di averne uno al Mediterraneo fanno capire che l’esigenza di non farsi schiacciare tra due vasi di ferro da parte della borghesia imperialista europea è sempre presente.
Nelle due economie europee più forti, Germania e Francia, il riflesso della crisi messo in luce dalle elezioni è lampante. In Germania c’è stato il tracollo della coalizione semaforo, principalmente dei socialdemocratici, e l’affermazione dell’Afd a destra e dell’Alleanza Sahra Wagenknecht (Bsw) a sinistra. Entrambi hanno raccolto il consenso delle masse popolari tedesche contrarie alla guerra contro la Russia e alle spese militari in forte rialzo. Le elezioni nei land dell’ex Germania Est, dove questi due partiti sono più forti, hanno confermato il voto delle europee e potrebbero portare alla crisi definitiva della coalizione governativa rappresentante gli interessi della sezione dominante della borghesia imperialista.
In Francia, nel paese europeo che ha espresso in questi anni le più importanti mobilitazioni popolari, la vittoria alle europee del Rassemblement National ha portato Macron a convocare nuove elezioni. La sorpresa è stata che grazie al patto di desistenza nei collegi uninominali stilato con il Nfp (Nuovo Fronte Popolare), vincitore delle elezioni, anche Renaissance ha ottenuto un buon numero di seggi, nonostante abbia ripetuto lo scarso risultato delle europee.
Melenchon, figura preminente del Nfp, secondo i dettami della democrazia borghese, avrebbe dovuto indicare il nuovo primo ministro. Ma si sa, per la borghesia la democrazia è bella finché è utile. Per cui si assiste da mesi al muro di Macron a un governo del Nfp e al tentativo di nominare figure “tecniche” come Michelle Barnier, politico di lungo corso e figura di garanzia per l’Unione Europea. Quello francese è il classico esempio di come potrebbero essere gestite anche in futuro le crisi interne nei paesi europei di fronte alla mobilitazione contro la crisi e la guerra. Dalla repressione dei movimenti di piazza, a partire da quello in solidarietà alla Palestina, fino al disconoscere il risultato elettorale se non corrisponde appieno alle esigenze della borghesia.
Va inoltre menzionata la nascita a destra, a seguito delle ultime elezioni europee, del gruppo dei Patrioti fondato da Orban che ha già raccolto il partito della Le Pen, Salvini e gli spagnoli di Vox. Questo gruppo rappresenta gli interessi di quella sezione della borghesia europea contraria alla scelta strategica di scontro con la Russia e che ha in Orban il suo principale esponente, il quale, subito dopo le elezioni e forte della presidenza semestrale del Consiglio dell’Unione Europea, è volato a Mosca e Pechino come promotore di un cessate il fuoco e l’apertura di una trattativa per la fine della guerra in Ucraina. Iniziativa che, inutile dirlo, si è tirato dietro gli strali dei principali burocrati imperialisti occidentali.
Ma non è solo il fronte interno del vecchio continente a essere scosso dai momenti elettorali: a novembre sarà la volta degli Usa, suffragio che ovviamente tiene banco sia per il peso che hanno negli assetti politici ed economici futuri, ma anche perché sono la testimonianza concreta della grave crisi interna e di egemonia esterna che il gigante dell’imperialismo vive.
Due episodi hanno caratterizzato la campagna elettorale a pochi mesi dalle elezioni: l’attentato a Trump durante un comizio e l’annuncio del ritiro di Biden dalla corsa elettorale in favore di Kamala Harris. Il primo mostra il clima di guerra civile strisciante che la figura di Trump esaspera facendo leva sul suprematismo bianco. Questo sembra una risposta immediata alla crescente disgregazione e povertà che investe larghi strati del proletariato bianco, ma anche della piccola e media borghesia. Il secondo è il riflesso della paura che gran parte della borghesia imperialista americana ha di consegnare il paese a Trump.
Dagli analisti finanziari del New York Times ai pezzi grossi del Partito Democratico, Clinton e Obama in testa, tutti hanno imposto il passo indietro al vecchio Joe per far posto a una figura neutra che metta d’accordo tutti nel partito come la Harris.
Le grandi cifre che i grossi fondi finanziari come Vanguard o Blackrock e tutto il settore hi-tech stanno mettendo a disposizione per la candidata democratica testimoniano che la partita in questa fase è il controllo del fronte interno, un tentativo di pacificarlo e non esasperarlo come farebbe Trump.
Accanto a Trump si schierano invece i gruppi finanziari esclusi dal giro dei grossi fondi, che sperano in una riduzione dei tassi d’interesse da parte della Banca Centrale per poter sopravvivere. Senza un fronte interno pacificato le proiezioni di guerra Usa sarebbero ancora più incerte. Fronte interno che risente anche della situazione in Palestina. La grande mobilitazione dei campus americani è stato un grande shock per i democratici Usa, convinti di tenere le fila dell’opinione pubblica di sinistra. La radicalità del movimento, che ha appoggiato incondizionatamente la Resistenza e le accuse di complicità nel genocidio in corso fatte direttamente a Biden in vari comizi, hanno dimostrato che il movimento non si è fatto assorbire e anzi è stato in grado di individuare i nemici. La dura contestazione fatta alla convention di Chicago che ha incoronato Harris mette in luce la difficoltà dei “dem” di avere il voto di chi li sceglie in funzione anti-trump e delle comunità arabe e musulmane negli Usa.
LOTTA DEI POPOLI E NUOVE EQUAZIONI
La sempre più lampante perdita di egemonia del blocco occidentale e il caos generato dal multipolarismo aprono spazi di agibilità per l’emancipazione dei popoli nel mondo dal giogo imperialista. Negli ultimi mesi abbiamo letto delle rivolte che hanno attraversato il Kenya, mobilitato vittoriosamente per il ritiro della legge finanziaria dettata dal Fmi, del Bangladesh, che ha contato oltre cento morti nelle proteste contro l’assegnazione degli impieghi nel servizio pubblico, fino alla Thailandia e al Pakistan. Ma è ancora la Palestina al centro della lotta dei popoli oppressi contro l’imperialismo. A un anno dall’inizio dell’operazione Al Aqsa Flood, la Resistenza Palestinese riesce tutt’oggi a rispondere a testa alta all’entità sionista, sgretolando tutta la propaganda sull’imbattibilità dell’unica democrazia del Medio Oriente. Il Diluvio di Al Aqsa è riuscito a mettere in discussione l’esistenza stessa dell’entità sionista, non riuscendo più questa a garantire la sicurezza dei propri cittadini. La guerra popolare di lunga durata del popolo palestinese è un faro in grado di raccogliere attorno alla propria lotta le altre forze dell’Asse della Resistenza e di tutti quei popoli che vedono nella Resistenza un esempio per disfarsi anche delle proprie borghesie e monarchie compromesse con l’occidente.
Il governo di Tel Aviv, sconfitto sul piano politico, attanagliato dalla crisi interna e impossibilitato a raggiungere risultati militari concreti sul campo, sta cercando di espandere sia il genocidio, con le attuali incursioni in Cisgiordania, che la guerra verso Libano, Iran e Siria. Gli attacchi mirati contro elementi di alto profilo di Hamas, Hezbollah o di altre strutture dell’Asse della Resistenza spingono verso un ampliamento del conflitto a livello regionale, tale da portare gli Usa a un intervento diretto sul campo.
La risposta iraniana al bombardamento della propria ambasciata a Damasco in aprile ha definito una nuova equazione sul campo, ovvero che a un attacco sionista contro interessi, mezzi e figure legate a Teheran corrisponde un contrattacco iraniano. La nuova equazione mette in discussione la libertà d’azione della quale ha goduto l’entità sionista sino a oggi, inoltre cementa il ruolo dell’Asse della Resistenza come bastione dell’opposizione agli interessi sionisti e occidentali nel Medio Oriente.
Spostandoci nel continente africano, anche qui i popoli si rendono protagonisti del proprio cambiamento, dimostrando di sapersi insinuare nelle crepe dell’imperialismo in crisi: il 6 luglio 2024 presso Niamey, capitale del Niger, si è verificato un evento storico che ha segnato un punto di svolta nel processo di sviluppo anti-imperialista africano. I leader militari di Burkina Faso (cap. Ibrahima Traore), Mali (col. Asimi Goita) e Niger (gen. Abdourahmane Tiani) hanno proclamato la “Confederazione degli Stati del Sahel”. Questo a seguito dei numerosi cambi di governo che si sono susseguiti nella zona negli ultimi anni e che hanno portato all’immediata interruzione di legami militari e diplomatici con le potenze occidentali, portando all’espulsione della maggior parte delle truppe dell’alleanza atlantica.
Viene quindi sancito il nuovo blocco dell’Aes (Alleanza per il Sahel), alternativo alla Comunità economica dei Paesi dell’Africa sub-sahariana (Cedeao o Ecowas), organismo regionale dai quali i tre paesi sono usciti in quanto strumento delle ex potenze coloniali occidentali, in particolare della Francia.
La nuova confederazione, oltre a condividere le risorse in settori quali agricoltura, acqua, energia e trasporti e avere una parziale giurisdizione su difesa, sicurezza, diplomazia ed economia, pone le basi per la creazione di una banca di investimento e la messa in moto di un fondo di stabilizzazione.
Uno dei punti più rilevanti è infatti il piano di abbandono del Franco Cfa, moneta che consente alla Francia di avere ancora una forte influenza economica e finanziaria su tutta la regione. Questo potrebbe dare inizio a una nuova era d’indipendenza, fornendo un esempio anche per gli altri popoli africani.
Per fugare qualsiasi dubbio sul posizionamento dell’alleanza nello scacchiere mondiale, una delle prime dichiarazioni congiunte riguarda proprio una dura e netta posizione contro l’Ucraina. Quest’ultima, accusata di aver passato informazioni importanti e non solo ai ribelli tuareg a seguito di un attacco che ha ucciso decine di mercenari della Wagner e di militari maliani. Burkina Faso, Mali e Niger hanno interrotto immediatamente le relazioni diplomatiche con Kiev e accusato la stessa di fiancheggiare il terrorismo.
Il ruolo dell’esercito ucraino è stato confermato dal portavoce dell’intelligence ucraina (Gru) e dimostra come la guerra sul fronte est non sia più confinata all’Ucraina e nemmeno al continente europeo, ma si espande legandosi all’obiettivo delle potenze occidentali di limitare e contrastare la presenza dell’Africa Corps (ex Wagner) e dell’esercito russo in Medio Oriente e nel continente africano. Secondo fonti ucraine, le forze speciali di Kiev hanno sferrato attacchi in Siria contro una base militare russa a est di Aleppo, stanno prendendo parte del conflitto in Sudan in supporto alle forze armate sudanesi e insieme alle forze Usa starebbero addestrando l’esercito somalo.
Vediamo come le contraddizioni imperialismo–popoli oppressi si legano a quelle inter-imperialiste, delineando una fase di transizione caotica nella quale i popoli trovano spazio per la propria liberazione sfruttando l’indebolimento dell’imperialismo occidentale. Quest’ultimo d’altro canto, tratta la contraddizione con i processi di liberazione dei popoli in funzione dello scontro con il campo nemico.
GOVERNO MELONI: TRA CRISI, TAGLI E GUERRA
Il governo, uscito sostanzialmente confermato dalle elezioni europee, non si può dire che navighi in buone acque. I dati periodici sull’andamento dell’economia attestano un avvitamento importante della crisi, soprattutto nel comparto industriale, che registra un calo nella produzione (arrivata a giugno a -2,6% su base annua) e nelle esportazioni, quest’ultime riflesso del rallentamento dell’industria europea, con Austria e Germania in testa, alle quali la produzione manifatturiera è fortemente legata. Dato pessimo anche quello sulle importazioni, in calo del 9,3%, indicativo di un’economia sempre più fiacca. Sui conti pubblici pesa quindi l’aumento della cassa integrazione, che registra un aumento delle ore autorizzate a luglio del 27,9% rispetto all’anno precedente.
Leggere questi dati stona con l’arroganza del governo che si è presentato al G7 come un’economia in crescita (forte del traino del comparto dei servizi nel primo trimestre dell’anno) e stabile politicamente. I fatti, però, hanno la testa dura e si scontrano con gli impegni dell’ultima parte dell’anno, ovvero la consueta legge di Bilancio. La scadenza è fissata per il 20 settembre, data entro la quale l’esecutivo dovrà presentare la manovra. Sul documento pesano le nuove direttive del Patto di Stabilità decise dall’Unione Europea e le procedure d’infrazione per deficit eccessivo che l’Ue ha deciso di aprire a giugno contro l’Italia e altri paesi europei come Belgio e Francia.
Finite le politiche espansive del periodo Covid, il Patto di Stabilità costringe i paesi a rivedere i propri conti al ribasso; nel caso dell’Italia, questo prevede un piano di rientro di 10-12 miliardi all’anno per il prossimo triennio, sostenuto da politiche strutturali di taglio alla spesa approvate da Bruxelles. Quello che si prospetta è un autunno di lacrime e sangue, quantomeno sulla carta. Il governo è a caccia di risorse necessarie anche solo per mantenere la situazione così com’è, senza nuovi investimenti e cercando di non operare tagli che andrebbero a compromettere quelle misure corporativiste che ne sostengono il consenso. In questa direzione va letta ad esempio la scelta di mettere in vendita pezzi del tesoretto di stato per un totale di 20 miliardi di asset in tre anni: il 37,5% del Monte dei Paschi di Siena e il 2,8% di Eni, ai quali seguirà la svendita di Poste, Enav, Enel e Leonardo.
Senza il reperimento necessario delle risorse, il rischio è quello di vedere cancellate quelle poche misure che hanno portato una minima boccata d’ossigeno ai salariati, come ad esempio il taglio del cuneo contributivo, che vale da solo oltre 10 miliardi. A rischio ci sono anche le varie finestre pensionistiche aperte sinora (quota 103, Ape sociale, Opzione Donna, ecc.), eliminandone alcune e rendendo meno appetibili altre, e addirittura “premiando” chi vuole continuare a lavorare oltre la data di pensionamento. Non solo, una delle opzioni più probabili sarà proprio la non indicizzazione delle pensioni già in essere, che si vedranno così “decurtate” l’assegno dall’inflazione, che, seppur rallentata, non accenna a fermarsi.
Le pensioni rimangono un tema centrale, anche se poco sentito dai salariati. Anni di tagli e misure peggiorative hanno diffuso la sensazione che la pensione sia un miraggio, un’opinione non distante dalla realtà, vista la proposta di legge della Lega di destinare il 25% del Tfr obbligatoriamente verso i fondi pensione. A parole, serve per creare un tesoretto ai lavoratori che rischiano seriamente di lavorare una vita e ritrovarsi a settant’anni senza che la pensione gli basti per vivere. Nella realtà, si fa un regalo al capitale finanziario che gestisce i fondi pensione, anche quelli contrattuali. Basti pensare che i capitali raccolti dal Fondo Cometa (il fondo dei metalmeccanici) sono gestiti tramite Blackrock, Allianz ed Eurozona, quest’ultima di proprietà di Intesa San Paolo. Non solo, dirottare parti del Tfr verso fondi privati porterà dei vantaggi alle stesse aziende nelle quali i lavoratori sono in forza, in quanto rappresenta un costo deducibile dal reddito di impresa nella misura che va dal 4 al 6%.
Per ora, sicuramente, il governo sta andando a caccia di risorse tagliando il tagliabile, vedi il mezzo miliardo sottratto al Fondo di Finanziamento Ordinario che mette a rischio il futuro di ricercatori e dottorandi, così come il miliardo e oltre sottratto alla sanità, per il quale si è levato lo scudo delle regioni. Il governo sta operando dei tagli usando i fondi del Pnrr come tampone; un gioco delle tre carte che avrà delle ripercussioni non nel breve termine, grazie alla presenza della “manna” dal cielo, ma quando quest’ultimi saranno terminati. La parola d’ordine che gira attorno ai vari dicasteri è quella della spending review, a caccia di possibili voci di spesa da eliminare per racimolare quanto basta per portare a casa la Legge di Bilancio.
Se i conti, anche solo per mantenere le misure correnti, non tornano, a questi vanno aggiunte le promesse della Premier sul fronte militare. Giorgia Meloni è tornata dal vertice Nato di Washington con degli impegni pari a 4 miliardi di euro: 1 miliardo e 700 milioni per l’Ucraina e oltre 2 miliardi per portare all’1,6% del PIL l’esborso per la difesa dell’Alleanza Atlantica. Denaro che a oggi non esiste e che, come abbiamo già detto, non può essere messo a bilancio senza toccare qualcuna delle manovre chiave del governo stesso, come ad esempio il taglio dell’Irpef per le partite Iva. Crosetto e Giorgetti sperano che le spese della difesa vengano scorporate dal Patto di Stabilità, come avvenuto nel 2023, permettendo così di contrarre debito per le esigenze belliche e per alimentare il complesso militare-industriale. Un’ipotesi in salita, quantomeno perché le spese per la difesa non possono dirsi “eccezionali”, come è stato il caso di Polonia, Estonia e Finlandia.
L’ultra-atlantismo della Meloni espresso durante il summit e la sua dote economica sono la moneta necessaria per conquistarsi “il posto al sole” tanto agognato: il comando del fronte sud della Nato. Il fronte esterno della politica italiana, riassumibile nel Piano Mattei, che ha visto nelle ultime settimane anche la riapertura dell’ambasciata italiana a Damasco, è orientato verso un maggior protagonismo nel quadrante che va dal Mediterraneo al Mar Rosso, sino all’Indo-pacifico, all’interno della tendenza alla guerra imperialista. Solo così possiamo comprendere la scelta di inviare le portaerei a supporto degli USA nel Pacifico e all’avvio dell’operazione Aspides a febbraio di quest’anno contro la resistenza yemenita. Non solo, la postura bellica è fondamentale per farsi accreditare come interlocutore per le potenze regionali del quadrante.
A seguito del vertice di Washington, la nomina non è arrivata; anzi, l’uscente Stoltenberg ha deciso di nominare lo spagnolo Aver Colomina, rifilando un sonoro schiaffo alla Meloni e a Crosetto che avevano definito il vertice Nato un successo. A nulla sono servite le proteste italiane; l’unica speranza per il governo è a ottobre, quando il nuovo segretario Nato, Rutte, potrebbe rimettere mano alla questione. La nomina di Colomina apre a diverse letture. Una di natura economica: l’Italia mette troppi pochi soldi nel bilancio Nato; l’obiettivo del 2% del Pil è stato previsto forse per il 2028, motivo per cui non può avanzare pretese. Un’altra di natura più politica: il cosiddetto “fronte sud” è sicuramente uno dei quadranti della tendenza alla terza guerra mondiale, ma sul quale non si è ancora delineato un quadro complessivo dello scontro e definiti i vari attori. Se nel quadrante Est è chiaro a tutti che la Russia è il nemico e che la linea è andare addosso alla Russia, nel quadrante Sud non si può dire lo stesso. La situazione è più contraddittoria, con interessi anche divergenti tra gli stessi aderenti all’Alleanza Atlantica, come in Libia. In questo senso, un eccesso di protagonismo da parte italiana, invece di essere motivo di accredito in ambito Nato, può essere visto negativamente, soprattutto dai francesi, che stanno facendo i conti con i processi anticoloniali in corso in Africa.
CRISI DI EGEMONIA E REPRESSIONE
Le tendenze alla guerra sul fronte esterno hanno inevitabilmente ripercussioni anche sul fronte interno. Come avvenuto durante il conflitto con la Russia, assistiamo a una accanita campagna mediatica volta a difendere l’entità sionista, in quanto alleato dell’Occidente e “l’unica democrazia” del Medio Oriente. Inoltre, per screditare il movimento di solidarietà con il popolo palestinese e attaccare chi critica l’entità sionista, si ricorre, come in passato, all’accusa di antisemitismo. Questo tentativo, non certo nuovo, mira a legittimare tutti i crimini sionisti come atti difensivi.
A quasi un anno dal 7 ottobre 2023, emergono evidenti segnali di cedimento nell’egemonia di guerra: oltre ai significativi picchi di mobilitazione a favore della causa palestinese, è chiaro che dall’altra parte manchi una mobilitazione delle masse a sostegno della guerra. È in questo contesto che si inseriscono e vanno interpretate le recenti – e le future – svolte autoritarie. In particolare, è attuale la questione del varo di una nuova legge sulla sicurezza, il DDL Piantedosi. Questo DDL rappresenta un’ulteriore stretta securitaria e riflette le necessità della “politica di guerra” sulla gestione del fronte interno. Il pacchetto sicurezza, che tocca vari ambiti, introduce modifiche significative, tra cui l’inasprimento notevole delle sanzioni per i blocchi stradali e ferroviari; le pene, già severe sotto il Decreto Salvini, vengono ulteriormente potenziate e si trasforma il blocco ferroviario da illecito amministrativo a reato. Nel mirino ci sono dunque le lotte operaie – dai facchini della logistica ai metalmeccanici – ed è un chiaro segnale della volontà di reprimere determinate forme di lotta come i picchetti. Basta vedere come, già con la formulazione del blocco stradale prevista dal decreto Salvini, quest’anno siano già stati condannati cinque operai dell’Ansaldo per le mobilitazioni del 2022. È chiaro, tuttavia, che qualsiasi altro movimento potrà essere colpito in maniera più forte da questa norma; un esempio è il movimento in solidarietà alla Palestina. Ulteriori inasprimenti riguardano le rivolte carcerarie e le sanzioni per chi si oppone alle “grandi opere”, segnando un notevole incremento delle misure repressive. Un altro punto, che potrebbe sembrare marginale ma non lo è, riguarda le forze di polizia, autorizzate a portare con sé un’arma aggiuntiva oltre a quella di ordinanza. Questo conferisce agli sbirri, anche fuori servizio, una maggiore capacità di intervento, contribuendo a instaurare un vero e proprio stato di polizia.
In generale, il DDL mira a concedere una maggiore libertà di azione alle forze dell’ordine. Il punto cruciale del nuovo decreto sicurezza, però, è la sezione dedicata al cosiddetto “terrorismo verbale”, che prevede pene fino a sei anni per chi detiene materiale che inciti alla violenza. Sebbene non sia un concetto nuovo, poiché i reati associativi vengono già utilizzati per colpire le idee piuttosto che i reati concreti, questo provvedimento si inserisce in un quadro di repressione della stampa rivoluzionaria, come dimostra l’operazione contro il collettivo Bezmotivny.
Questo decreto sicurezza, dunque, rappresenta un’ulteriore stretta autoritaria in un contesto di crescente militarizzazione dello Stato, giungendo dopo un periodo già segnato da un’intensificazione delle misure repressive, come l’uso dei reati associativi, delle misure amministrative e delle richieste di sorveglianza speciale. Inoltre, si sono già verificati i primi attacchi repressivi contro il movimento di solidarietà alla Palestina (Bologna, Torino, Padova), confermando la tendenza a colpire chiunque si opponga all’attuale ordine politico. A una scarsa egemonia di guerra si sta delineando, dunque, un rafforzamento dello stato di guerra e della repressione preventiva.
MOVIMENTO CONTRO LA GUERRA
Come abbiamo già accennato nel paragrafo precedente, negli ultimi mesi abbiamo assistito a una rinascita del movimento contro la guerra, coinciso con la ripresa dell’offensiva palestinese contro l’entità sionista. Dal 7 ottobre, grazie alla resistenza dell’araba fenice, migliaia di persone si sono riversate nelle piazze italiane a sostegno del popolo palestinese e contro il supporto politico e militare dell’Italia verso Israele. Era da decenni che le mobilitazioni contro l’imperialismo e la Nato non assumevano un carattere così esteso, coinvolgendo lavoratori portuali e delle ferrovie contro il traffico di armi, gli studenti e gli insegnati contro la presenza del comparto bellico all’interno del sistema formativo e le collaborazioni accademiche con il sionismo. In molte città le manifestazioni diffuse a livello nazionale hanno avuto la forza e la costanza di svolgersi settimanalmente, permettendo di mantenere viva la contestazione e la sensibilizzazione sul genocidio in corso.
Le università sono state un epicentro di lotta, con occupazioni, presidi e iniziative: è sorto un movimento studentesco esteso tra diverse facoltà italiane, da Nord a Sud, che, attraverso l’Acampada, ovvero l’occupazione delle università con le tende, ha espresso la sua solidarietà alla Palestina e ha permesso un dibattito intorno al tema della guerra. È anche da riconoscere sia la positività del risveglio giovanile, sia il protagonismo femminile: numerose donne hanno partecipato alle manifestazioni cittadine e alle Acampade, contribuendo attivamente e proponendo iniziative sulla questione femminile in Palestina. Allo stesso tempo è da registrare la dimensione limitata del movimento che, seppur di carattere nazionale, non è riuscito a esplodere, ma è rimasto confinato alle università, con un’affluenza numerica contenuta. Molte forze soggettiviste ne hanno preso parte, mentre è mancato un forte ruolo attivo delle masse; l’intervento dei comunisti nelle lotte, come parte attiva e propositiva, punta ad aumentare il protagonismo delle masse, la loro coscienza sul nemico e l’assunzione di responsabilità nella lotta. Il pregio dell’Acampada, nonostante si limitasse al boicottaggio accademico, è stato quello di attaccare il sionismo, attore di punta nella guerra globale, e supportare la Resistenza Palestinese, avanguardia della lotta contro l’imperialismo. Per quanto riguarda la controparte, essa ha dimostrato fermezza politica, ma non ha usato il bastone; i rettori, infatti, hanno lasciato uno spazio agli studenti, arrivando talvolta anche a tavoli di discussione. Il tentativo è stato quello di dividere tra buoni e cattivi, colpendo singoli o gruppi come dimostrato dai numerosi episodi di repressione (arresti, denunce, daspo, licenziamenti) contro compagni e lavoratori solidali con la Palestina da parte della classe dirigente.
Sebbene nei mesi estivi ci sia stata una fase di reflusso della lotta universitaria, le manifestazioni cittadine e le iniziative sono proseguite, anche alla luce del recente aggravamento dello scontro. Parallelamente, nei primi di agosto, si è svolta a Niscemi la decima edizione del campeggio No Muos, movimento che da anni lotta contro la presenza militare della Nato in Sicilia, incarnata dal sistema di antenne Muos. Durante il corteo finale, le reti della base statunitense che lo ospita sono state tagliate in diversi punti ed è stata piantata la bandiera palestinese all’interno.
CONCLUSIONI
Viviamo una fase gravida di contraddizioni che vede i comunisti in ritardo, ma il tempo può essere recuperato organizzandosi, formandosi per riuscire ad orientarsi e legandosi alle masse. In questa fase il nostro compito è quello di mettere al centro la guerra come contenuto delle mobilitazioni, legandolo al peggioramento delle condizioni di vita delle masse. Il terreno è offerto dalla mobilitazione in solidarietà alla lotta del popolo palestinese, alle proteste contro le basi militari, contro il loro ampliamento e l’opposizione ai processi di disciplinamento e militarizzazione. Proletari, lavoratori e quanti vengono impoveriti dalla crisi proveranno a opporsi al tritacarne che li aspetta e noi dobbiamo avere la capacità di indicare il loro nemico principale e le ragioni profonde che stanno alla base delle loro condizioni.
La crisi di sovraccumulazione è un dato oggettivo con il quale il capitale deve fare i conti e per il quale deve necessariamente trovare nuovi terreni di valorizzazione. La crisi di egemonia e l’imporsi del caos multipolare accelera e aggrava questa condizione, portando alla necessità di un salto verso il capitalismo di guerra. Un salto che non dev’essere visto solo nella forma delle “politiche di guerra”, ma come ridefinizione di struttura e sovrastruttura e della relazione tra queste. Per questo, è nostro compito far emergere al centro delle varie contraddizioni la guerra e le sue conseguenze nefaste. Non solo, il nostro compito è delineare una linea rivoluzionaria che trova nella disfatta del nostro imperialismo l’apertura del proprio spazio di azione. Così come per i popoli oppressi la crisi dell’egemonia dell’imperialismo occidentale determina condizioni favorevoli per i processi di liberazione, anche all’interno della metropoli imperialista la sua disfatta apre spazi per la rivoluzione. La sconfitta del nostro imperialismo è condizione necessaria per la nostra di liberazione.