Note di fase

Note di fase n.31

Marzo 2024


POPOLI IN LOTTA E CONFLITTO MONDIALE

“La guerra non è impossibile, l’Europa si armi: libertà UE in gioco” parole di Ursula Von Der Leyen alla plenaria del Parlamento Europeo di fine febbraio. Di lì a pochi giorni: “L’Europa deve passare subito a un’economia di guerra” le fa eco Raphael Glucksmann, candidato socialista alle Europee.

Queste sono solo le ultime dichiarazioni del periodo che sottolineano come, per le classi dominanti europee, il tema della guerra abbia assunto un carattere principale nelle loro agende. Guerra che non è diretta, come fin qualche anno fa, alla sottomissione dei popoli del tricontinente, ma verso le altre formazioni emergenti, in particolare Russia e Cina.

Come abbiamo più volte affermato, non esiste un multipolarismo pacifico; nell’era dell’imperialismo il multipolarismo è caos, è il prologo al conflitto e alla guerra aperta. L’aumento dei bilanci degli stati europei dovuti alla corsa agli armamenti, le industrie belliche come la nostrana Leonardo che registrano guadagni in vertiginosa salita, il dibattito trasversale alle varie formazioni sull’arruolamento e l’escalation della propaganda bellica, sono lì a dimostrarlo.

I piani sono delineati da tempo e la direzione è sempre data dai capi USA, pronti a schierare nel 2024 cinque portaerei nel Pacifico con l’obiettivo di contenere l’influenza del socialimperialismo cinese, dopo aver fatto di tutto per provocare e scatenare il conflitto con la Russia in Ucraina.

Ma questi piani devono fare i conti con un altro fattore che ne sta comportando un rallentamento: i popoli in lotta e le guerre di liberazione. Dal 7 ottobre, infatti, l’irrompere della Resistenza palestinese e dell’intervento degli Houthi in Yemen stanno facendo sì che i

piani imperialisti non proseguano indisturbati. Come già avvenuto con l’insurrezione del Donbass, a seguito del golpe di Maidan, i popoli in lotta costringono il dibattito internazionale e le portaerei Usa verso obiettivi, per gli imperialisti, oggi secondari. Il protagonismo dei popoli in lotta si rovescia contro l’egemonia dell’imperialismo occidentale e si ripercuotefino ai palazzi della mediazione imperialista, come l’Onu.

Per i popoli del mondo i nemici oggi non sono la Russia o la Cina bensì l’entità sionista israeliana, gli yankee e i suoi alleati, come testimoniamo le milioni e milioni di persone scese in strada in tutto il mondo a fianco del popolo palestinese e della sua Resistenza. Dura per il cosiddetto “occidente collettivo” dipingere i propri grandi avversari come il male contro cui combattere!

È il gioco dialettico delle contraddizioni: la contraddizione interimperialista, che è tornata in auge dopo il secondo conflitto mondiale con la guerra in Ucraina, fa i conti con quella secondaria (secondaria non per importanza ma per come si colloca nelle faglie di scontro e di rottura dei rapporti economico – politici mondiali di questa fase) rappresentata dallo scontro tra imperialismo e popoli oppressi. Nella fase attuale, in cui la guerra imperialista continua a muoversi a pezzi e non con un dispiegamento complessivo (non ci sono i caccia americani a bombardare Mosca o Pechino), l’avanzare della prima crea le condizioni per l’affermarsi della seconda. Il protagonismo dei popoli oppressi e della loro guerra di liberazione contro l’imperialismo, in primis della Resistenza palestinese e dell’Asse della Resistenza in Medio Oriente, dimostra in maniera incontrovertibile la possibilità del rovesciamento della contraddizione e la possibilità di rallentare la guerra imperialista.

Noi, comunisti rivoluzionari, è a questo che dobbiamo guardare. Non sarà il tifo per le potenze imperialiste in ascesa o il vaneggiare ad un multipolarismo pacifico che può fermare l’avanzata della guerra imperialista, ma l’avanzare di guerre di liberazione e rivoluzioni.

O le lotte di liberazione, e le rivoluzioni, rallentano/fermano la guerra o essa continuerà ad affermarsi sino al suo dispiegamento generale. Allora l’unica via sarà quella della sua trasformazione in guerra rivoluzionaria.

L’ABISSO DELLA CRISI

L’analisi dell’assetto economico globale è un importante piano di verifica : la crisi è la base logica di sviluppo dello scontro interimperialista, ed il suo acuirsi dà concretezza alla principalità di questa contraddizione nel lungo periodo.L’aumento dei tassi di interesse della Banca centrale europea sta mostrando le sue conseguenze: per la prima volta dopo 20 anni, il bilancio netto della BCE del 2023 si è chiuso in rosso, con una passività di 1,3 miliardi. Le politiche anti–inflazione mostrano la loro inefficacia e contraddittorietà nell’arginare una crisi che è, per natura del capitalismo, strutturale.

L’ inasprimento della politica monetaria, che ha aumentato i tassi di interesse dal -0,5% del 2022 al 4,5% del 2023, è stato utilizzato come manovra per frenare la spirale inflattiva aumentando il costo del denaro. Questo ha determinato un aumento dei costi per la BCE: a fronte di entrate rimaste invariante, ha visto aumentare gli interessi pagati sulle passività accumulate dopo anni di Quantitative Easing (QE). Nel 2022 i fondi di accantonamento erano stati sufficienti per chiudere il bilancio in pareggio, ma non lo sono stati nel 2023 e si prevede che questo trend durerà nei prossimi anni.

Questa sofferenza è condivisa con le altre banche centrali dell’eurozona, le quali non riceveranno utili dalla BCE: anche le banche centrali di Svizzera, Olanda e Germania registrano perdite. Al netto di queste politiche, nel marzo del 2023, il tasso di inflazione non è sceso sotto il valore considerato soglia del 2% (attestandosi al 2,4%) e Lagarde ha annunciato il mantenimento dei tassi di interesse attuale. Ad aggravare la situazione, le stime di crescita dell’eurozona sono state modificate al ribasso (0,9%). Insomma, non cambia la sostanza del problema nel quale si trovano le principali formazioni capitaliste, che continuano a scommettere sulle politiche

monetarie e sulla sfera finanziaria a fronte della difficoltà a ricavare margini di profitto nell’economia reale.

In questo quadro gravano anche le “tensioni geopolitiche”, come le chiama Lagarde, con riferimento non solo al conflitto in Ucraina, ma anche alle sfide che il popolo palestinese e yemenita stanno scagliando contro le formazioni imperialiste. Dal canale di Suez passa il 12% del commercio internazionale, il 10% del petrolio e l’8% di gas naturale ed il blocco del Mar Rosso sta pesando sull’intera catena del valore: dalla fase produttiva a quella di valorizzazione. Si stima che solo l’Italia abbia perso 3,3 miliardi in soli 4 mesi. Le rotte alternative allungano la navigazione di 1-3 settimane, con conseguente aumento delle spese logistiche. A questo si aggiunge la fase di siccità nello stretto di Panama, che anch’esso sta rallentando i commerci marittimi: quelli USA, ad esempio, hanno visto una diminuzione del 7%. Questi sviluppi minacciano un nuovo ciclo inflazionistico e recessivo e le ripercussioni economiche della contraddizione imperialismo-popoli oppressi in Medio Oriente sono il piano concreto nel suo affermarsi come contraddizione principale nel breve periodo. Possiamo delineare due aspetti che si legano, da un lato una crisi strutturale che spinge verso la stagflazione data dall’enorme immissione di capitali nel periodo dei QE e dall’altra una serie di fattori immediati (rottura delle catene del valore, problemi derivanti dalla decarbonizzazione e dal salto di composizione organica e problemi nelle catene logistiche) che aggravano la profondità della crisi e tendono a vanificare le misure anti-cicliche messe in campo determinando una spirale sempre più negativa.

L’avvitamento economico sopra descritto ha come conseguenza che le classi dominanti non possano condurre lo sviluppo del capitalismo in maniera “ordinaria”, in quanto questa riproduce la sovrapproduzione di capitali in termini più generali e gravi, mettendo in discussione la tenuta di tutto il sistema. Solo uno sviluppo “straordinario” che di volta in volta cerca di usare le emergenze del momento come volano per mettere in campo misure di rottura, ieri erano la pandemia e poi il riscaldamento globale con il Green New Deal e oggi la guerra, possono rappresentare un orizzonte di rilancio.

Il keynesismo militare diventa quindi l’opzione sulla quale ristrutturare e incardinare l’economia europea con la scelta di escludere le spese in materia di difesa dal Patto di Stabilità, come già fatto precedentemente con quelle sanitarie durante il Covid e con quelle sul Green New Deal. Questa tendenza all’internodell’aggregato UE, sostenuto politicamente da tutti gli schieramenti presenti nel panorama del Parlamento Europeo (ad esclusione dei piccoli gruppi della sinistra radicale), sarà la direttrice sulla quale si gioca la partita di un possibile saltoqualitativo nell’integrazione dell’aggregato imperialista europeo e di conseguenza nella relazione con l’imperialismo USA.

ELEZIONI DI GUERRA

Questa seconda parte del 2024 si presenta all’insegna delle elezioni. USA, UE, India e Gran Bretagna, per citarne alcuni, andranno alle urne. In totale 4 miliardi di persone in 60 paesi andranno alle urne e i cambiamenti politici riguarderanno le decisioni sul 40% del prodotto interno globale.

L’appuntamento più importante è sicuramente quello americano di novembre. La sempre più ammaccata superpotenza imperialista vedrà confrontarsi con molta probabilità Biden e un redivivo Trump.

Se il focus a oriente della competizione interimperialista non cambia, le scelte che faranno i due candidati avranno ripercussioni sull’accelerazione o meno della guerra e sulle ricette economiche per contrastare la crisi sistemica del capitalismo.

Biden e i democratici restano convinti che la strada per contrastare la Cina sia l’indebolimento del principale alleato, la Russia, e l’assoggettamento dell’UE alle scelte che verranno fatte in politica estera. Ha accettato malvolentieri le bizze dell’alleato sionista in Medio Oriente e si guarda bene dall’allargare il conflitto in Medio Oriente non stuzzicando il gigante regionale iraniano.

Trump sembra invece un convinto sostenitore dell’affondo diretto alla Cina, lasciando la patata bollente Ucraina nelle mani dell’UE e, se dovessimo guardare al suo primo mandato, potrebbe favorire un inasprimento delle tensioni in Medio Oriente lasciando carta bianca alle mire belliciste dei sionisti.

In politica economica i due candidati sono accomunati dal sostegno all’industria militare come volano di crescita. Le differenze si riscontrano nella politica fiscale con Trump deciso a tagliare ancora una volta le tasse con un ulteriore aggravio nel deficit fiscale statunitense

e una politica protezionistica nei confronti della Cina. Entrambe le manovre sembrano una iattura per l’economia reale globale poiché andranno ad influire sull’inflazione già alle stelle.

Le scelte in politica estera degli americani sono quelle che più entrano nella campagna elettorale europea di aprile. Qui l’attesa per chi vincerà le elezioni appare per niente avvincente.

Gli schieramenti in campo sono concordi nel seguire la politica della transizione energetica green e del keynesismo militare in campo economico, volti a rafforzare l’autonomia dell’aggregato imperialista europeo. La modalità con cui questa tendenza si svilupperà dipende dall’esito delle elezioni americane, a testimonianza del concatenamento tra il capitale finanziario statunitense e quello del Vecchio Continente. Una vittoria di Biden porterà ad investimenti graduali nella difesa da fare sotto l’ombrello della Nato, con gli Stati Uniti che avranno il loro tornaconto nel mantenere gli investimenti nell’alleanza atlantica dalla sudditanza energetica del vecchio continente privato del gas russo e costretto a comprare GNL a prezzi altissimi.

La vittoria di Trump potrebbe portare a scelte differenti la borghesia imperialista europea che potrebbe sottostare alla regola del 2% del Pil richiesta da Trump per mantenere la Nato o accelerare il processo di autonomia militare. Anche in questo caso le tensioni fra i membri dell’aggregato europeo sono evidenti con la Francia che spinge per la strada dell’autonomia azzardando l’ipotesi dell’invio di truppe in Ucraina e il gigante tedesco, malato e in recessione, che prova a rallentare un processo in una fase di grandi difficoltà economiche dovute alla crisi energetica.

Quello che accomuna tutti gli schieramenti in campo elettorale, a parte una sparuta minoranza di partiti di sinistra, è l’appoggio incondizionato all’entità sionista e alle sue politiche genocide, scelta che rende la strada degli accordi economici con partner mediorientali più impervia in questa fase.

IL GOVERNO MELONI E L’AUSTERITÀ ARMATA

Con 200 voti favorevoli, 112 contrari e 3 astenuti la Manovra di bilancio 2024 è stata approvata a fine dello scorso anno e, senza grosse sorprese, tagli a ricerca, sanità e istruzione, per citarne solo alcuni, la pongono in perfetta continuità con le finanziare degli anni e dei governi precedenti.

Senza nessuna sostanziale strategia industriale (dimostrata dalla messa in vendita di pezzi di Poste, Eni, Fs solo per fare una magra cassa) chi ci rimetterà saranno sempre i lavoratori, visto che i dirigenti di turno fanno fronte al calo di produzione (solo civile, perché gli utili per chi produce nel comparto militare vengono sempre garantiti), appoggiandosi agli ammortizzatori sociali, come la cassa integrazione (a gennaio 2024 si è registrato il 16,8% in più rispetto a gennaio 2023).
Già prima dell’approvazione di questa finanziaria, si era palesata la strada che il Governo Meloni voleva intraprendere, portando avanti a spron battuto tagli ai salari, al welfare e ai diritti dei lavoratori, indisturbato. A fare da capofila a questo progetto è stato Matteo Salvini, che non si è fatto mancare occasione per sbandierare frasi fatte e populiste, per poi, di fatto, attaccare pesantemente il diritto di sciopero. Per quattro volte in pochi mesi il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti ha limitato gli scioperi, con lo strumento della precettazione che, teoricamente, dovrebbe essere utilizzato solo per circostanze eccezionali, eventi calamitosi e improvvisi, mentre è stato “giustificato” con il voler evitare la congestione del traffico, in particolare in prossimità delle feste natalizie. Appare lampante la pretestuosità della precettazione, che nei fatti fa da apripista alla normalizzazione del divieto parziale o totale di sciopero, alle soglie di un periodo sempre più nefasto per lavoratori, precari e disoccupati.

Quasi sotto banco, assieme all’approvazione della legge di bilancio, il Governo Meloni ha chiesto, e ottenuto, la delega per 6 mesi alla contrattazione sul lavoro; quindi, entro 6 mesi potenzialmente rinnovabili, potranno promulgare delle leggi che potrebbero cambiare la contrattazione nazionale, in un momento in cui milioni di lavoratori hanno i contratti collettivi scaduti e da rinnovare (tra cui il 100% nel settore pubblico all’inizio del 2024).

La delega viene chiesta per far fronte alla questione del salario minimo, spinto anche dall’Unione Europea, proponendo di fare una prima fase di inchiesta che porti ad introdurre da un lato il criterio del contratto maggiormente applicato in un settore e dall’altro la contrattazione di secondo livello con finalità di adattamento. Nel primo caso si tratta di esautorare completamente le parti sociali dal ruolo di mediatori per il

mondo del lavoro, per cui non viene preso in considerazione il contratto nazionale firmato dai sindacati più rappresentativi, teoricamente “espressione” della volontà dei lavoratori, ma quello più applicato. Sulla questione della “finalità adattiva” invece, che tanto ricorda le gabbie salariali abolite grazie ad un grosso ciclo di lotta alla fine degli anni ‘60, che di fatto metteva in relazione le retribuzioni con determinati parametri (come il costo della vita in un determinato luogo), si rischia di aumentare ancora di più il divario salariale e sociale nelle varie zone d’Italia.

Non solo, nella storia recente della contrattazione salariale i contratti nazionali dovevano svolgere il compito di adeguare i salari al costo della vita, mentre i contratti di secondo livello servivano a contrattare una ripartizione dei profitti aziendali. Il nuovo paradigma, proposto dal Governo Meloni, capovolge i compiti: i contratti nazionali vengono relegati a indicatore per il salario minimo del settore di riferimento e i contratti di secondo livello come strumento per il recupero dell’inflazione. In sintesi, la proposta del Governo va nella direzione di salvaguardare i profitti padronali, smantellando il ruolo dei contratti nazionali e il ruolo generale del sindacato, tracciando una traiettoria verso una contrattazione sempre più frammentata e legata alle situazioni territoriali e aziendali, incidendo quindi sulla capacità della classe lavoratrice dicompattarsi e sostanziare rapporti di forza in grado di tutelare i propri interessi immediati. La delega al governo sulla contrattazione è una misura adottata storicamente per infliggere grandi batoste alla classe lavoratrice: l’ultima volta è stata adottata dal Governo Amato per abolire la scala mobile, pratica che permetteva di adattare i salari all’inflazione.

Appare quindi chiaro che la strada che ci si prospetta davanti sarà di manovre sempre più lacrime e sangue, per far fronte ad una crisi strutturale che non riesce a trovare altre sponde se non tagli per la classe e finanziamenti per la guerra, che necessita di prevenire la scesa in campo della classe operaia.

La traiettoria su cui punta il governo è quella di “superare” il ruolo del sindacato come mediatore degli interessi della generalità dei lavoratori e portarlo verso il sindacato d’impresa o di categoria, con interessi corporativisti e magari anche in conflitto con altre aziende o categorie. Un ruolo auspicato dalla Cisl che continua a proporre la litania sull’ingresso del sindacato

nei Cda, caldeggiato anche da settori della Cgil. Da notare per ora come nelle fabbriche, e in generale nei settori industriali, la situazione sia di “vigile attesa”, divisa tra chi vede cali di ordini e in odore di licenziamenti e chi invece lavora in aziende che registrano fatturati da capogiro. Il prossimo appuntamento di un certo interesse è il rinnovo del Ccnl dei metalmeccanici: la proposta presentata dalla triplice, a prescindere dalla “quantità” delle richieste, ha la pretesa di portare sul tavolo un aumento di 280 euro e la riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore. Elementi questi che, se anche solo vorranno effettivamente essere discussi ad un tavolo, dovranno avere alle spalle rapporti di forza che li sostengano e li sostanzino.

In questo quadro inseriamo anche la legge sull’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario, che di fatto permetterà la gestione di determinate materie, e i suoi finanziamenti, all’interno delle regioni stesse. I settori identificati sono chiave rispetto alla vita dei proletari, come tutela della salute, istruzione, ambiente, energia o trasporti, aumentando così la disparità tra regioni del nord e del sud ed esacerbando l’incertezza lavorativa. Nonostante il governo si nasconda dietro alla definizione dei LEP (livelli essenziali delle prestazioni) nei fatti non riuscirà a garantirle, privato anche degli introiti derivati dalla tassazione delle regioni più ricche del nord Italia. Per la messa in pratica della gestione autonoma delle regioni passeranno almeno due anni. Non è una manovra con un riscontro immediato, ma ci fa capire la strada che stanno tracciando con la “secessione dei ricchi”, promuovendo la rapina della spesa pubblica su base regionale, tagliando tutti quei settori ritenuti “improduttivi” (scuola, sanità, trasporti e case popolari) a favore di quelle opere, e a quelle liberalizzazioni, funzionali al capitale privato. Il peggioramento delle condizioni di vita delle masse del meridione avrà come effetto una nuova ondata di emigrazione da sud verso nord, necessaria a fornire un esercito industriale di riserva che soddisfi le richieste di Confindustria.

Per quanto l’autonomia differenziata leghista sembri in antitesi al presidenzialismo proposto dai nipoti dell’Msi, entrambi trovano coerenza come risposta alla fase. Se il regionalismo è il programma della rapina concreta da parte della classe dominante nel contesto della crisi, il premierato rischia di essere la formalizzazione della deriva autoritaria dello Stato che la

condizione di crisi e soprattutto la tendenza alla guerra prevedono.

Il comparto militare industriale si pone, nella fase di guerra attuale, come il maggiore trainante dell’economia italiana. Per citare un esempio noto, Leonardo è il principale monopolio italiano per la produzione bellica e lo scorso anno ha registrato una crescita di ordini di oltre il 20% (da 11,5 miliardi di euro nel 2017 a 14,7 miliardi di euro nel 2022) che gli ha consentito di posizionarsi all’ottavo posto nella classifica mondiale dei produttori di armamenti. In perfetta linea con questa tendenza si inserisce la recente dichiarazione della Commissione Europea che ha annunciato di lanciare il più ambizioso progetto industriale in campo militare a livello europeo. L’obiettivo è quello promuovere la cooperazione tra le aziende, rafforzando gli investimenti congiunti nell’area europea, con lo scopo di garantire i profitti ai monopoli dell’industria bellica.

Il militarismo italiano ha, infatti, come sua base strutturale i grandi investimenti pubblici dirottati con lo scopo di integrarsi alla strategia politico-militare dello Stato. Oggi le spese del governo sono finalizzate a sostenere l’aumento della composizione organica di capitale con la prospettiva di aumentare la produttività ed i profitti attraverso tecnologie che possono essere applicate sia in ambito civile che militare. L’integrazione tra civile e militare è dunque un terreno strategico nelle politiche di egemonia della classe dominante: non è casuale infatti che il Ministro Crosetto, su modello israeliano, abbia avanzato la proposta per 10 mila riservisti che il governo potrà mobilitare in 48h. Il governo potrà così attivare la riserva, non solo in tempo di guerra per la difesa dei confini nazionali, ma addirittura adibirla a presidio del territorio in collaborazione con le forze di polizia ad ordinamento civile e militare in caso di dichiarazione dello stato d’emergenza.

In questo contesto il governo Meloni ha firmato un’intesa con il governo di Kiev: si tratta di un accordo di cooperazione nel campo della sicurezza che ci legherà all’Ucraina per 10 anni e che imporrà al nostro paese di intervenire in suosostegno entro 24 ore in caso di nuovo attacco di Mosca. In questo modo il governo italiano garantisce di favorire all’Ucraina non solo il suo ingresso nella Nato, ma anche una protezione da un eventuale attacco, praticamente uguale ai

paesi aderenti alleanza atlantica. Non possono chiaramente mancare le garanzie rispetto alle forniture di aiuti economici e militari, senza però rendere pubblici né l’entità dei fondi né per quali armi, dal momento che l’Italia ha scelto di secretarli. Come se questo non fosse sufficiente per essere un paese in guerra, il ministro della difesa italiano ha annunciato con soddisfazione che l’Italia avrà il comando tattico dell’operazione Aspides nel Mar Rosso al fine di difendere i mercantili dagli attacchi degli Houthi.

È così che lo Stato stabilisce una presenza che stimoli l’accettazione della dimensione della guerra preservando un regime dominato dal crescente impegno bellico. Il keynesismo militare si conferma dunque essere la ricetta economica della borghesia imperialista italiana nel contesto attuale, mentre parallelamente viene intensificata la militarizzazione dellasocietà, necessaria per la gestione delle contraddizioni sociali che la fase produce nel fronte interno.

PREVENZIONE DEL CONFLITTO E COSTRUZIONE DELL’EGEMONIA DI GUERRA

La componente giovanile è il cuore pulsante di ogni moto rivoluzionario ed in quanto tale è estremamente attenzionata da chi detiene il potere. In particolar modo oggi, nella crisi del sistema di produzione capitalista e nell’incessante approfondimento della spirale della tendenza alla guerra, i giovani subiscono appieno le volontà reazionarie dei governi. Il Governo Meloni non è da meno e impegna incessantemente una buona parte delle proprie energie per far sì che i giovani costituiscano una risorsa per gli interessi della classe dominante nostrana e non risultino un problema per l’ordine costituito, vista la loro tendenza invece a metterlo in discussione.

Se fino ad oggi la strategia dei governi è stata quella di mercificare le loro esistenze, persino i loro moti di ribellione (profitti legati all’utilizzo dei social, greenwashing, pinkwashing, ecc.) adesso l’approccio sembra essersi modificato, o più precisamente evoluto. La guerra impone infatti da un lato il tentativo di diffondere a piene mani tra la popolazione giovanile l’idea di nazione, identità e difesa, così da creare ideologicamente dei sostenitori ai piani di sfruttamento e guerra, e dall’altra la repressione di ogni forma di dissenso così che tali piani possano proseguire senza intoppi.

Contemporaneamente l’economia di guerra pretende dal proletariato, ed in prospettiva dalla sua componente giovanile, massima disponibilità. Alla luce di tutto questo possiamo leggere il ventaglio delle politiche che stanno investendo il “corpo” giovanile della nostra società, e in particolare le fasce popolari.

Lo spauracchio della criminalità giovanile dietro cui si celano situazioni di estremo disagio sociale ed emarginazione, viene brandito per promuovere decreti sempre più autoritari e repressivi la cui lista continua ad allungarsi. Dal decreto “rave” al decreto Caivano, dal Daspo Willy all’inasprimento delle pene per minori, lo Stato si sta dotando di armi semprepiù pervasive per colpire e spaventare chi non è ritenuto socialmente accettabile e se tutti questi decreti nascono da situazioni di cronaca specifiche, ingigantite dai media per essere meglio digeriti dalla popolazione, il loro utilizzo si fa sempre più frequente, a conferma dei reali obiettivi con cui sono stati pensati.

La scuola e l’università sono l’epicentro di questo cambio di passo, luoghi dove assistiamo ad un rapidissimo avanzamento nei piani di ristrutturazione complessivi di cui abbiamo accennato. La scuola di Valditara, naturalmente in continuità con chi è venuto prima di lui, può essere sintetizzata con tre concetti: classismo, militarismo e militarizzazione.

La riforma degli istituti tecnici e professionali, storicamente frequentati principalmente dai figli della classe operaia, prevede contemporaneamente la sperimentazione di un percorso quadriennale, invece dei canonici 5 anni, e la “stipula di un accordo di rete” tra scuole, istituti tecnici superiori e privati. L’obiettivo è chiaramente quello di formare la manodopera “pronta all’uso” per le aziende del territorio di riferimento ad un’età ancora inferiore. Se a questo sommiamo l’utilizzo ormai rodato del PCTO, vediamo chiaramente come ai padroni venga data l’opportunità di attingere sia a manodopera gratuita che formata esattamente alle loro specifiche esigenze.

La scuola smette anche dichiaratamente di essere il luogo dove le nuove generazioni possono ricevere una formazione generale per una loro autonoma realizzazione, quel luogo dove anche il figlio dell’operaio può diventare dottore insomma. Ad esacerbare ancor più la situazione sfondando il muro del semplice

classismo, ci pensano le dichiarazioni del ministro sulla possibilità di creare percorsi separati per studenti immigrati o la volontà del governo di inserire i risultati personali dei test Invalsi nel curriculum dello studente, spingendo l’acceleratore verso una scuola performativa che dall’inizio del percorso didattico “scremi”, grazie all’uso di algoritmi, i sommersi dai salvati, la parte da separare che può aspirare a fare il lavapiatti e dall’altra una piccola élite che andrà a formarsi come futura classe dirigente. Il problema, quindi, non è tanto l’attacco alla scuola pubblica quanto alla sua natura di massa, alla sua vocazione collettiva per essere invece individualizzata e resa funzionale alle esigenze di Confindustria, ecc.

Ma non è solo l’economia come abbiamo detto a guidare le scelte del governo. La guerra diventa centrale nella ristrutturazione scolastica e si fa largo promuovendo incessantemente la propria dottrina. Si moltiplicano progetti tenuti da militari o forze dell’ordine nei campi più disparati: dalla psicologia, al bullismo, dalla sicurezza stradale, all’educazione civica, fino alla memoria storica. Non passa giorno che uomini in divisa non varchino le mura scolastiche per progetti ufficialmente formativi o pedagogici, o addirittura con momenti ad hoc nel quale promuovere la carriera militare. Infine, ma non meno importante, è la militarizzazione, intesa come avvitamento autoritario dei rapporti scolastici, e per la quale, oltre all’intervento diretto delle forze di polizia, sono chiamati anche presidi e personale tutto. Mentre si assottigliano sempre di più i margini per un confronto autonomo tra studenti (assemblee e ritrovi ridotti all’osso,prosecuzionedilimitazioniintrodottedal periodo pandemico) il ministro col moschetto scrive circolari su circolari dove condanna, ancor prima della sentenza, chiunque da questa cappa repressiva vuole liberarsi.

Le occupazioni vengono criminalizzate, chi vi partecipa deve farlo a certe condizioni, eventuali danneggiamenti devono essere puniti con sospensioni o bocciature e si è sempre sotto la minaccia del voto di condotta. È da notare che, anche laddove queste siano semplici dichiarazioni del ministro, c’è sempre qualche preside sceriffo che lo anticipa e fa da apripista. Anche qua, l’elenco di casi esemplari si allunga di settimana in settimana. Non da ultimo è importante citare il caso delle cariche agli studenti verificatesi a Pisa: al netto della

strumentalizzazione portata avanti dall’ala sinistra della borghesia nostrana, con il solo obiettivo di rifarsi una verginità dopo anni di manganellate agli studenti volute proprio da loro, il dato che emerge è che studenti e studentesse che si ribellano, portando come contenuto centrale quello della solidarietà al popolo palestinese, correranno il rischio di dover affrontare fisicamente gli uomini in divisa.

Nonostante il clima fin qui delineato va tuttavia sottolineato che la situazione giovanile è tutt’altro che pacificata. Alle dichiarazioni del ministro Valditara sulle occupazioni sono seguite in varie città italiane, principalmente Milano e Genova, una serie di occupazioni scolastiche che provano a rimettere al centro i bisogni degli studenti in opposizione alle linee guida ministeriali e che legano la loro lotta alla solidarietà nei confronti del popolo palestinese. E sono per lo più giovani e giovanissime i protagonisti e le protagoniste che animano i cortei per la Palestina che ogni settimana riempiono le piazze e le strade. Un movimento internazionale di massa che rompe in maniera netta e chiara con l’egemonia della classe dominante.

Lo sciopero del 23 febbraio lanciato dalle sigle del sindacalismo di base, ha avuto un ruolo importante nel cercare di legare la lotta per la Palestina alla classe lavoratrice. L’adesione massiccia dei lavoratori della logistica e di pezzi del mondo della scuola, dell’università e in generale del pubblico impiego è riuscito ad uscire dai “soliti” circuiti.

APPROFONDIRE LE CREPE NELL’EGEMONIA IMPERIALISTA, ORGANIZZARE LA RESISTENZA

Da un lato abbiamo i governi occidentali, di ogni colore, con il loro sostegno all’entità sionista e con i loro tentativi di giustificare il genocidio in corso e dall’altro ci sono milioni di persone, da est a ovest del pianeta, che lottano in solidarietà al popolo e alla resistenza palestinese.

La mobilitazione per la Palestina è di gran lunga superiore alla, praticamente nulla, mobilitazione reazionaria a favore della guerra e dell’entità sionista. Questo mostra come il fronte interno dei paesi imperialisti non sia pacificato e il grosso merito delle manifestazioni per la Palestina è che identificano chiaramente chi è il nemico e le forze politiche su cui si regge. Questo è un sintomo rivoluzionario,

ovvero una manifestazione materiale che esprime un carattere rivoluzionario alla fase: ancora limitata e non sufficiente, ma il punto di partenza dal quale bisogna partire per capire come muoversi e come agire nella fase. Le parole d’ordine che risuonano nelle piazze dal 7 ottobre ad oggi sono cambiate; con il passare del tempo è stata fatta piazza pulita, o quantomeno è stata resa minoritaria, la posizione dei né- né; i giovani arabi hanno preso la testa del movimento imprimendo una spinta radicale allo stesso. Il grosso movimento di solidarietà dovrà presto fare i conti con la repressione di piazza e con la criminalizzazione, che incomincia a farsi sentire più pesante con gli arresti dell’Aquila e con i vari tentativi della classe dominante di chiudere gli spazi di agibilità che si sono aperti.

La crisi generale dell’egemonia dell’imperialismo è il dato dal quale partire nell’ottica di approfondire la crepa: la guerrae le sue ricadute dirette o indirette sono l’elemento centrale per minare la legittimità di questo sistema. Se guardiamo anche fuori dal recinto di casa nostra, le mobilitazioni degli agricoltori che hanno investito mezza Europa sono l’espressione di settori di piccola e media borghesia che si trova a dover fare i conti con i tagli a finanziamenti, bonus, agevolazioni e

quant’altro aveva a disposizione. Oggi la guerra impone tagli che mettono in discussione anche le alleanze che, fino a ieri, la classe dominante era in grado di sostenere economicamente. È il fronte interno della guerra, il fronte che ci deve trovare protagonisti.

Questi segnali di masse in movimento e di difficoltà a pacificare il fronte interno da soli non bastano e, anzi, ci mostrano ancora di più quanto ritardo come comunisti abbiamo ancora da colmare. In questa fase dobbiamo partire dall’insegnamento che ci arriva dalla Palestina, ovvero che dobbiamo accumulare forze nella resistenza per costruire le condizioni della vittoria. Ogni movimento rivoluzionario nasce e si sviluppa inizialmente su un piano difensivo: oggi questo piano è quello dell’opposizione alla guerra, resistere alle sue ricadute interne e difendere le condizioni di vita delle masse popolari. All’interno di questo piano dobbiamo imparare a radicarci tra le masse, sperimentando il nostro stile di distinzione e unione; dobbiamo accumulare forze da formare, organizzare e mobilitare contro la classe dominante,trasformando le crepe in una breccia che metta in discussione tutto il sistema.