Note di fase n.29
Gennaio 2023
IL PIANO INCLINATO DELLA CRISI…
Come spesso facciamo, iniziamo a dare uno sguardo alla situazione internazionale a partire dai dati economici. Marx ci insegna che in ultima analisi è il fattore economico che detta l’andamento di tutte le altre sfere politiche, sociali, culturali e sovrastrutturali.
In questo momento storico ci sembra più che mai calzante partire da questo aspetto per ribadire che è la crisi sistemica del modo di produzione capitalistico a partorire tensioni che da politiche, monetarie, commerciali si stanno con estrema rapidità trasformando in conflitto militare aperto tra blocchi economici contrapposti, e non viceversa. La tesi che sia la crisi a determinare la guerra e non il contrario non è una questione meramente logica e accademica ma politica. La prima ipotesi porta alla conclusione che solo cambiando con la rivoluzione socialista il modo di produrre capitalistico possiamo togliere di mezzo il regime di incessante accumulazione concorrenziale di capitali che produce i conflitti. La seconda porta all’idea del tutto illusoria che bisogna sforzarsi di mettere d’accordo i contendenti, che la pace tra i popoli sia un problema di negoziati tra le classi dominanti del mondo, che le guerre siano causate da esseri malvagi che basta togliere di torno e altre stupidaggini simili.
Venendo a noi, il FMI nei primi di ottobre ha tagliato le stime di crescita del PIL mondiale per il 2023 al 2,7% con possibilità di ulteriori ribassi e una perdita secca di 2800 miliardi di dollari. Un trend negativo che vanifica la ripartenza post pandemia (2021 +6%,2022 +3,2% previsione). Sia il FMI che la BM lanciano l’allarme recessione: molti paesi andranno in recessione tecnica (2 trimestri di recessione consecutivi) già tra l’ultimo trimestre del 2022 e il primo del 2023. Ad accompagnare questo andamento è la crescita dell’inflazione (che per il blocco UE si avvicina alle due cifre) che va a dipingere lo scenario di stagflazione: economie prossime alla recessione e prezzi in crescita.
Ma ciò che allarma di più è la sfera finanziaria. Tanto per dare l’idea del problema, l’economia reale quest’anno si quoterà attorno ai 100 mila miliardi di dollari. Su di questa la leva finanziaria che si è innalzata ammonta a 2,2 milioni di miliardi di dollari. I dati sono del Sole 24 ore, altri istituti danno dati diversi, ma che non cambiano la sostanza del problema: l’enorme massa di capitali prodotti dall’economia reale non riesce da tempo ad essere profittevole in essa e va a trovare remunerazione sugli investimenti finanziari, ovvero sul plusvalore che verrà prodotto nel futuro. Il rischio è che un inceppamento dell’economia reale su cui insistono i titoli emanati faccia scoppiare bolle finanziarie bruciando enormi masse di capitali e facendo tracollare tutto. Ed è appunto ciò che sta allarmando le varie formazioni imperialiste, soprattutto quelle sovraccumulate come USA e UE, dato che il 2022 ha visto il più grande crollo dei prezzi delle obbligazioni in quattro decenni, un altro crollo dei titoli tecnologici raramente eguagliato nella storia e l’implosione delle criptovalute.
Questa situazione non nasce oggi, trova origine nella seconda crisi di sovrapproduzione assoluta di capitali dei primi anni ‘70, ma che di recente ha ripreso vigore (essendosi affievolito l’effetto delle misure controtendenziali) a partire dallo scoppio della bolla creatasi sui mutui sub-prime in USA nel 2008. Da allora la sfera finanziaria, a dispetto delle leggi messe in essere per frenarne la crescita (come la Dodd-Frank Act in USA), ha continuato a crescere incessantemente rivelando a che livello di crisi sia il sistema capitalistico mondiale.
Di questo i think tank delle varie formazioni imperialiste sono perfettamente coscienti e il problema diventa come fare in modo che la crisi e lo scoppio di bolle finanziarie non esploda in casa propria ma in quella delle altre formazioni. Da qui le tensioni e i conflitti.In ciò riveste il ruolo di primo piano la superpotenza Usa che vede minacciato il suo ruolo di comando unico a livello mondiale a fronte di nuove economie, Cina in primis, in grado di competerle sia sul piano industriale che finanziario e che gli tolgono occasioni di soluzione per la sua economia sovraccumulata.
Guerre commerciali, monetarie e neocoloniali per il controllo delle fonti energetiche non sono fin qui bastate per risolvere il problema e si è imposto il cambio di passo: minare alla base le formazioni concorrenti e sviluppare l’affrontamento militare diretto.
La crisi energetica attuale muove i suoi passi da questo contesto. Questa, contrariamente a certa propaganda mainstream, è partita prima della controffensiva Russa in Ucraina ed era principalmente dovuta alla ripartenza post pandemia e alla speculazione su di questa sviluppata nel TTF nella borsa di Amsterdam dove viene determinato il prezzo di mercato del gas.
La crisi Ucraina non ha fatto altro che approfondire ed aggravare questa crisi e a farne le spese si trova soprattutto l’UE, la più carente di fonti energetiche tra le formazioni imperialiste (anche se non si può parlare di vera e propria formazione date le profonde divisioni interne). Le merci qui prodotte o devono aumentare di prezzo per far fronte al rincaro delle materie prime e mantenere i profitti divenendo meno competitive o a pari prezzo devono fornire meno profitto in esse contenuto. In entrambi i casi si determina un evidente arretramento nel panorama mondiale.
Spezzare l’intesa energetica Russia-Germania che fin qui ha permesso all’UE di rimanere competitiva nei mercati mondiali è il vero obiettivo degli Usa, che non solo ha messo con le spalle al muro un concorrente, ma che da una parte lo beffa vendendogli il proprio GNL ad un prezzo enormemente superiore e dall’altra gli scava la terra sotto i piedi con i 369 miliardi di dollari di aiuti dell’Inflaction Reduction Act all’industria statunitense, che stanno facendo gola ad importanti pezzi dell’industria europea propensi a trasferirsi oltreoceano.
Ma per far questo ha dovuto destabilizzare l’Ucraina e mettere in moto forze che non controlla direttamen,te come le popolazioni del Donbass e la stessa Russia, la cui controffensiva sta aprendo spazi a livello mondiale per tutti quelli che vogliono sottrarsi all’unilateralismo e alla supremazia a stelle e strisce.
… E QUELLO DELLA GUERRA
Se è chiaro che la crisi economica è la causa principale del clima di guerra in cui viviamo è altrettanto vero che la guerra dirige ogni altro aspetto della politica e dell’economia. Questo avviene in primo luogo perché essa rappresenta l’unica via possibile con la quale le potenze imperialiste che vi hanno scommesso possono uscire dalla crisi stessa. La guerra di cui parliamo si manifesta su diversi livelli e con diversi attori in campo; nel panorama internazionale si intrecciano diversi conflitti, anche regionali, scaturiti o rinvigoriti dal conflitto principale, ovvero quello interimperialista che vede coinvolti da una parte gli Stati Uniti e la Nato e dall’altra Russia, Cina e loro alleati.
Come abbiamo ripetuto più volte, la tendenza ad una guerra generalizzata, verso cui la prima potenza imperialista, gli Stati Uniti, ha proceduto passo dopo passo dalla caduta dell’Unione Sovietica in poi, si sta concretizzando sotto i nostri occhi e le potenze che non vogliono farsi schiacciare nel tritacarne a stelle e strisce si stanno organizzando per farvi fronte.
La mossa della Russia di attaccare l’Ucraina va inserita all’interno di questo contesto, così come in esso va inserita la preparazione della Repubblica Popolare Cinese a risolvere, anche con l’uso della forza, la questione di Taiwan, utilizzata dagli USA come cuneo per destabilizzare proprio lo stato cinese. Le politiche russe e cinesi, siano esse nel continente africano, asiatico o sudamericano, costituiscono ormai un impedimento inaccettabile per Washington a trovare nuovi mercati dove rendere profittevole la propria mole di capitali. Lo dimostrano da un lato l’impegno economico e militare che gli yankee hanno messo in campo nel conflitto ucraino (si parla ormai di svariate decine di miliardi di dollari investiti da febbraio 2022) e dall’altro le dichiarazioni esplicite nei confronti della Repubblica Popolare Cinese, definita minaccia numero uno all’esistenza stessa di quell’ordine mondiale che l’occidente ha imposto nei decenni passati a suon di conflitti sanguinosi, colpi di stato ecc. Se non è chiaro come si arriverà all’escalation vera e propria ciò che invece è lampante è la strategia degli Stati Uniti di trascinare i paesi europei nel baratro.La decisione di far deflagrare il conflitto proprio sul suolo europeo e l’aver imposto il coinvolgimento dei paesi dell’Unione nella guerra alla Russia hanno permesso agli Usa di abbattere i costi di questo conflitto. Gli Usa, forzando tutti gli stati della Nato a partecipare finanziariamente e militarmente alla guerra, sono riusciti a scalzare la concorrenza dell’industria europea stessa, stritolata dal taglio delle forniture di energia provenienti dalla Russia. Il risultato da raggiungere era dunque il logoramento di entrambi i fronti del conflitto, quello russo e quello europeo. All’interno di questo quadro ciò che occorre analizzare sono le mosse e le contromosse che gli attori stanno conducendo.
Di fronte all’inasprimento delle minacce rivolte dagli yankee vediamo il potenziamento di quelle organizzazioni che non vogliono soccombere al predominio statunitense. La Cina in testa a tutte sembra, come confermato da molte stime, sul passo di sorpassare proprio gli Stati Uniti come prima potenza economica mondiale ed il XX Congresso del Partito Comunista Cinese ha delineato una chiara assunzione di responsabilità nel guidare la transizione del paese verso questa direzione. Altro elemento emerso dal congresso è la presa di coscienza dell’impossibilità di una mediazione pacifica con il rivale d’oltreoceano e dunque l’impostazione di una politica militare ed economica capace di reggere l’urto dello scontro seppur con la volontà di scongiurarlo fino all’ultimo. Dal punto di vista estero ciò si traduce nel rafforzamento di svariate alleanze nel mondo, in particolar modo con quei paesi che nel 2009 si sono affacciati nel panorama economico mondiale come BRICS. Mostrandosi un paese economicamente e militarmente forte e politicamente stabile, la Cina sta attirando a sé anche altri alleati storici dell’imperialismo Occidentale. È emblematico il caso dell’Arabia Saudita, che dopo aver disobbedito agli Usa sul taglio alla produzione di petrolio ed esser stata dunque minacciata di sanzioni, ha persino fatto richiesta di ingresso nei Brics, un’alleanza che punta ad allargarsi giorno dopo giorno dall’Iran all’Argentina, passando dall’Egitto e con numerosi paesi in fila per farne parte.
L’egemonia statunitense in questo quadro appare dunque quanto mai compromessa e debole ed anche la fedele Europa non è poi così unita nell’appoggio totale alla strategia atlantista. Troviamo da un lato una Francia allineata a momenti alterni ed una Germania estremamente insofferente che si smarca come può dai diktat atlantisti e dall’altro Regno Unito ed Italia, che proseguono a spada tratta nella loro politica di vassallaggio e servitù agli interessi statunitensi, nonostante questi comportino gravi problemi economici. Gli attriti europei si sono manifestati in maniera molto esplicita fino a raggiungere persino attacchi diretti ad infrastrutture di interesse nazionale. Come sembra emergere, infatti, il Regno Unito ha rappresentato la lunga manu militari che dagli Stati Uniti ha assunto un ruolo di rilievo nel sabotaggio del North Stream, mettendo la parola fine all’impiego di quest’ultimo nel rifornire di gas lo stato tedesco. Di contro la Germania di Scholz si è impegnata in un viaggio ufficialmente diplomatico ma dai chiari intenti economici proprio nella Repubblica Popolare Cinese dove in ballo ci sono grandi progetti industriali e commerciali che coinvolgono ad esempio il porto di Amburgo e la multinazionale del settore chimico Basf.
Questa crisi di egemonia ha un’altra conseguenza a livello mondiale. Tutte quelle popolazioni che fino ad ora sono state vittime dell’imperialismo statunitense stanno rialzando la testa, vedendo uno spiraglio nella loro possibilità di tornare a respirare. In questo senso l’operazione russa di contenimento delle mire occidentali ha costituito un faro per queste e non è più un caso trovare nelle piazze di Haiti o di vari paesi africani bandiere russe sventolare tra la folla.
I DANNATI DELLA TERRA
L’attuale fase caratterizzata dalla perdita di egemonia Usa e di riflesso dell’intero blocco Nato e l’emergere di potenze che ne mettono in discussione il ruolo, apre ad una nuova fase per i popoli oppressi e a degli sconvolgimenti nelle colonie dei vecchi aggregati imperialisti.Quando lo strapotere statunitense e occidentale viene messo in discussione, quando le forze e le risorse che possono essere investite per controllare e sottomettere i popoli vengono via via diminuendo, ecco che iniziano a perdere credibilità, alleanze, stabilità e accordi, e con esso tutti i paesi allineati al progetto Nato.
A farne le spese sono le vecchie strutture coloniali anglo – francesi in Africa che, in un quadro attuale principalmente diretto da settori interni alla borghesia compradora, hanno messo alla porta i vecchi padroni. In più occasioni a supporto dei golpe operati da componenti dell’esercito si è vista sventolare la bandiera russa, assunta quasi a simbolo della lotta contro il colonialismo occidentale.
In Mali, ad esempio, dall’agosto dell’anno scorso la giunta golpista di Assimi Goita ha imposto il disimpegno francese dal paese, durato oltre nove anni e giustificato dall’insurrezione islamista che imperversa tra il Sahel e l’Africa centrale. Durante le fasi del cambio di regime non era difficile imbattersi spesso in foto di manifestanti con la bandiera russa, proprio come simbolo di “liberazione” dal giogo francese. Le forti proteste e la fermezza del nuovo governo hanno favorito il ritiro delle truppe francesi e dei suoi alleati, Italia compresa, incontrando il favore della popolazione, che si è sempre opposta ai precedenti governi proni a Parigi. In questo scenario il Mali mira ad un nuovo partner alleato, sancito dalla presenza nel territorio di mercenari del Gruppo Wagner e dall’invio di Mosca di mezzi militari.
Dopo Bamako, Ouagadougou in Burkina Faso. Il 2 agosto le masse burkinabe hanno chiuso l’ambasciata e l’istituto di cultura francese. Il cambio di governo, guidato dal giovane ufficiale Ibhraim Traore, ha visto l’immediata condanna degli USA e di tutti i paesi europei e occidentali, mentre ciò non è avvenuto per il resto dei paesi, tra i quali la Russia e la Cina. Non ci stupisce quindi che le popolazioni vedano anche nella Russia un appoggio per la propria indipendenza. Se aggiungiamo che i nuovi giovani ufficiali simpatizzano per le posizioni di Thomas Sankara, leader rivoluzionario assassinato nel 1987 durante un colpo di stato, inconcepibile per gli imperialisti nostrani, ciò proietta le mobilitazioni ben oltre l’indipendenza.
Ma non è solo l’Africa l’epicentro di questo fenomeno. A poche miglia dagli Usa, ad Haiti, da qualche mese è in corso un’escalation di proteste contro il governo del primo ministro Ariel Henry a seguito del taglio dei sussidi per il carburante. Questa mobilitazione sta assumendo un carattere più generale se pensiamo quanto il governo sia ammanicato con gli USA, palesato, ancora una volta, dalla richiesta dell’intervento dell’ONU per sedare le proteste. Primo paese al mondo ad aver ottenuto l’indipendenza dal giogo coloniale, grazie alla rivolta degli schiavi, oggi vede manifestanti con la bandiera della Russia che protestano all’esterno del simbolo dell’oppressione e del colonialismo: l’ambasciata degli Stati Uniti.
A leggere quanto sta avvenendo, anche le storiche lotte di liberazione nazionale in Sahara Occidentale e in Palestina, stanno trovando nuovo vigore e forza in questa fase. Il Fronte Polisario ha negli ultimi mesi portato avanti diversi attacchi contro le forze di occupazione marocchina nelle aree vicine al Muro della Vergogna, questo dopo diversi anni nei quali le politiche coloniali del Marocco si sono rafforzate grazie al supporto degli Usa e dell’alleanza strategica con Israele, culminata nei poi abortiti Patti d’Abramo.
In Palestina e soprattutto nella Cisgiordania nuove forme di protagonismo rispondono all’occupazione sionista e, giorno dopo giorno, si moltiplica la rabbia, espandendo a macchia d’olio le proteste e gli scontri a fuoco contro l’esercito. Da parte israeliana assistiamo ad un esponenziale aumento delle violenze dei coloni, a cui si sommano detenzioni di massa ed esecuzioni arbitrarie. Come conseguenza, sempre più giovani stanno abbracciando la Resistenza come unico mezzo di liberazione dalla violenza degli occupanti. Nuovi gruppi,come la Fossa dei Leoni nella West Bank, stanno diventando espressione di una nuova fase della lotta del popolo palestinese e di nuova unità, che dal basso cerca di scrollarsi di dosso gli opportunismi di una dirigenza politica troppo spesso connivente o passiva verso l’occupante, scontrandosi anche con l’Autorità Palestinese.
Sebbene di carta, l’imperialismo statunitense resta pur sempre una tigre, ed in quanto tale è capace di ferire e far male. Nel Sud America i tentativi di golpe, come quello recente in Brasile ad opera della reazione bolsonarista sono ormai all’ordine del giorno. Lo sa bene il popolo peruviano che dagli inizi di dicembre è tuttora in strada a lottare e contare i propri morti sotto i colpi della repressione, al limite di una guerra civile. La miccia che ha scatenato la rivolta è stata la destituzione forzata da parte del parlamento del presidente in carica Pedro Castillo, dopo che questi, fiutando una sua epurazione dalla scena politica, aveva giocato d’anticipo e sciolto le camere, dichiarando lo stato di emergenza. Il risultato sono scontri pesantissimi, espressione del malcontento generale della popolazione verso tutto l’ordine politico borghese peruviano, ed in particolare verso il nuovo governo guidato da Dina Boluarte. La situazione peruviana è giocoforza intrecciata alla fase attraversata dal Sudamerica tutto. Da un lato assistiamo all’emergere di una borghesia nazionale che, facendo leva su un sentimento socialista diffuso tra la popolazione e con l’appoggio alla propria economia dell’influenza cinese, sta conquistando man mano tutti i paesi del continente, dall’altro le vecchie formazioni dominanti legate a doppio filo agli USA cercano con le unghie e con i denti di non continuare a retrocedere.
Luoghi, esempi, popoli e storie completamente diversi sembrano dare tutti la medesima avvisaglia, ovvero che, con la crisi di egemonia dello strapotere statunitense e con l’avvicinarsi sempre più frenetico di uno scontro tra potenze, anche per i popoli oppressi si aprano nuove strade per la propria autodeterminazione. Una possibilità data dall’indebolimento sul fronte interno delle proprie classi dominanti e dei propri governi come riflesso dell’indebolimento sul fronte esterno del blocco occidentale.
L’ECONOMIA DI GUERRA DEL NOSTRO PAESE
Mai come oggi la situazione internazionale e quella interna al paese sono legate; le scelte di politica estera, infatti, stanno avendo dei riflessi molto pesanti sul fronte interno e sulla politica nazionale. La crisi del sistema conduce alla guerra e la guerra acutizza a sua volta alcuni tratti della crisi, come l’aumento del carovita. Come già detto, la crescita dei prezzi, soprattutto delle materie prime, è un fenomeno scatenatosi prima del conflitto ucraino, causato dunque non solo dalla guerra, ma anche dalla speculazione. Ma proprio la guerra determina un ulteriore impennata dei prezzi e nuova speculazione. I media borghesi pongono un grande accento su quest’ultima, paventando la possibilità che possa esistere un capitalismo più “giusto” senza speculazione, e tacciono del fatto che la scelta di prostrarsi davanti ai dettami di Washington verrà pagata dai proletari e dalle masse popolari.
Un processo che si sta definendo dall’attuale stato di crisi e guerra, volto a compattare la borghesia industriale, è il keynesismo militare, che porta ad una nuova relazione tra apparato strutturale e sovrastrutturale, tra capitale privato e capitale di Stato. Il keynesismo militare, che consiste in un grande incremento della spesa pubblica e degli investimenti statali nel settore dell’industria bellica, conduce da una parte ad uno sviluppo del settore militare, dall’altro alla compenetrazione tra l’ambito politico, industriale e miliare. A dimostrazione di questo basta guardare al profilo del nuovo ministro della difesa Guido Crosetto, presidente della Federazione Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza, oppure ad esponenti del PD come Marco Minniti, presidente della fondazione Med-Or e Luciano Violante, presidente della fondazione Leonardo. Inoltre tutti i partiti si sono allineati riguardo l’aumento degli investimenti nel settore militare per conseguire l’obiettivo del 2% del PIL indicato dal vertice NATO già nel 2014; con il governo Draghi è stato raggiunto il picco di spesa sfiorando i 35 miliardi di euro all’anno.
Contemporaneamente la situazione in cui ci troviamo è di profonda crisi: emblematiche sono le stime di Assolombarda, in cui si esplicita che la crescita del PIL nel 2023 sarà al ribassorispetto a quanto sperato, mentre l’inflazione in costante aumento. In un rapporto di previsione viene ripetuto che l’inflazione è il tema centrale dell’economia mondiale, che è persistente, che accresce il rischio di recessione e che il prossimo anno sarà di stagnazione. La manifestazione più evidente della crisi per le masse popolari è il carovita, che sta pesando enormemente sulle spalle dei lavoratori e delle lavoratrici. L’inflazione non sembra arrestarsi, continua invece ad aumentare, gravando anche sulla piccola-media borghesia, prospettando davanti ad alcuni di loro anche la possibilità di un impoverimento. Ascoltando le recenti stime, si prospetta un panorama cupo: migliaia di piccole e medie aziende a rischio chiusura, licenziamenti di massa, chiusura di centri di produzione e disoccupazione.
IL GOVERNO MELONI SOTTO LO SPETTRO DI DRAGHI
Oltre al quadro che è appena stato descritto, occorre analizzare la questione delle elezioni politiche, concluse senza sorprese con l’insediamento del primo governo di destra “pura” da più di dieci anni. Un dato particolarmente rilevante è stato quello dell’astensione, quasi tutta di sinistra, che ha messo in evidenza come la sfiducia che le masse nutrono nei confronti del ceto politico istituzionale sia sempre maggiore, anche a causa della crisi di legittimità che l’impianto parlamentare in generale sta attraversando. Inoltre queste elezioni sono avvenute in un contesto particolare: il governo Draghi non era costretto a cadere, così come la sua agenda e l’attuazione del PNRR non erano osteggiati, tant’è vero che ora assistiamo alla loro prosecuzione. Per quanto riguarda il risultato elettorale, va innanzitutto chiarito che non ci si debba aspettare alcun cambiamento nelle scelte di politica economica ed internazionale. La Meloni ha dichiarato più e più volte che il suo governo perseguirà le indicazioni di massima lasciate dal governo Draghi e dunque l’omonima agenda, così come rimarrà il più fedele tra i fedeli dei governi in Europa alla Nato, come confermano le esternazioni fatte a Stoltenberg, a Zelensky, a Biden e ad ogni occasione utile.
Gli elementi di continuità con il governo Draghi non si fermano qui: lo stato di emergenza è stato nuovamente prorogato fino al 3 marzo 2023, allungando di fatto a tre anni il periodo di emergenza tra Covid e guerra, così come si è deciso di continuare a mantenere segreto l’apporto in armamenti che lo Stato Italiano fornisce all’Ucraina. Il Ministro Crosetto ha affermato che “..sugli aiuti militari all’Ucraina, il governo Meloni ha attuato gli impegni assunti precedentemente dalle istituzioni italiane”.
La stessa legge di bilancio è stata scritta sul solco delle indicazioni lasciate dal precedente governo. Una legge scritta contro la classe lavoratrice e totalmente piegata agli interessi del grande capitale, seppur quest’ultimo avrebbe desiderato ancora più sostegno da parte del governo. Nonostante ideologicamente non v’è dubbio della totale adesione dell’esecutivo ai diktat di Confindustria, politicamente la Meloni ha scelto di non inimicarsi tutta la popolazione a soli tre mesi dal proprio insediamento e di non gettare ulteriore benzina sul fuoco del malcontento sociale che, seppur non esploda, serpeggia tra la gente. Le richieste di Confindustria avrebbero fatto sì che per far quadrare i conti della manovra non sarebbe bastato certo metter mano al tesoretto del Reddito di Cittadinanza. Intanto comunque assistiamo proprio al taglio di quest’ultimo, al ritorno dei voucher, al taglio delle pensioni e alla reintroduzione delle accise sui carburanti mentre la maggior parte dei fondi sono destinati alla copertura delle spese extra che le imprese devono sostenere per il caro energia. Insomma l’ennesima legge di bilancio che palesa la volontà di trasferire il denaro derivante dalla fiscalità generale direttamente nelle tasche dei grandi gruppi industriali, mentre ai proletari nemmeno le briciole.
Contemporaneamente, come primo atto di questo governo reazionario, è stato convertito il “Decreto rave” in legge. Approfittando del caos mediatico, creato ad arte, sorto attorno ad un rave organizzato a Modena, sono riusciti ad implementare la loro stessa capacità repressiva in tema di occupazioni. Lo Stato si è dunque dotato dell’ennesimo articolo, il 633-bis, del codice penale, atto a punire chiunque decida di occupare un edificio, pubblico e privato, ed organizzarci nella sostanza un evento musicale, una situazione in cui giovani e studentipotrebbero trovarsi in caso di mobilitazione. Se è una novità il decreto, non lo è la tendenza ormai decennale dello Stato Italiano di reprimere chi si organizza politicamente con strumenti di stampo fascista “mascherati” come Daspo o sorveglianza speciale, per mantenere una parvenza di democrazia. La direzione del nuovo governo è chiaramente, come da tradizione reazionaria, quella di dotarsi degli strumenti repressivi necessari ad affrontare eventuali situazioni di turbolenze sociali, sempre più probabili man mano che la crisi morde ed avanza.
MOBILITARSI CONTRO LA GUERRA E IL GOVERNO MELONI
L’imperversare della guerra e la nascita dell’ennesimo governo padronale e antiproletario dettano l’agenda delle mobilitazioni. Ad aprirle, subito dopo l’ascesa del nuovo governo, la mobilitazione studentesca nata in risposta alle cariche della polizia alla facoltà di Scienze Politiche della Sapienza di Roma, quando gli studenti hanno deciso di contestare il convegno organizzato da Azione Universitaria (lista universitaria di Fratelli d’Italia).
Anche i lavoratori non si sono fatti attendere: gli scioperi e le mobilitazioni del sindacalismo di base hanno raccolto diverse migliaia di adesioni a Napoli e Roma nelle scadenze del 2 e 3 dicembre scorsi. Successivamente lo sciopero generale del 16 dicembre, lanciato dalla CGIL contro la manovra del governo, pur con tutte le sue contraddizioni organizzative e illusioni riformiste, ha visto una larga partecipazione dalle fabbriche di questo paese. Chiaro che lo scopo della CGIL in questa fase sarà quello di non perdere quel ruolo di controllore e mediatore sociale che le garantisce di stare seduta ai tavoli di trattativa a svendere le lotte operaie. Per far questo sarà costretta a mobilitarsi e mobilitare i lavoratori e non è assolutamente scritto che in questa fase il solito giochetto di aprire e chiudere i rubinetti della lotta a seconda della convenienza della burocrazia sindacale gli riesca sempre.
Un esempio lo abbiamo colto al corteo per la pace del 5 novembre a Roma indetto su contenuti ambigui e per lo più filo Nato, in cui oltre comunque alla presenza di slogan contro la Nato e contro l’invio di armi a Kiev, c’è stata la forte contestazione alla presenza di Letta segretario del PD.
Il fatto che la guerra imperialista assuma sempre più peso nelle mobilitazioni si vede anche negli sviluppi di alcune parti del movimento No Green Pass che si stanno ponendo il proposito di tramutarsi in movimenti contro la guerra e il carovita. A far da apripista soprattutto gli studenti, il Coordinamento No Green Pass di Trieste e l’arco di sigle che si sono mobilitate il 18 dicembre scorso davanti alla base militare di Aviano.
IL RUOLO DEI COMUNISTI
Quello che ci sembra di cogliere nelle piazze è che ci sia un buon fermento, pur non ancora all’altezza della gravità della situazione cui il capitale ci sta portando, che i vecchi riformisti hanno sempre meno capacità di controllo su contenuti e mobilitazioni e che ci sia molta confusione politica ed ideologica.
Per riuscire a sviluppare correttamente il ruolo di comunisti nel contesto concreto e reale della società italiana di oggi, occorre comprendere innanzitutto quali sono le posizioni sbagliate, da combattere, che vediamo svilupparsi. Crediamo sia necessario fare una considerazione sul fallimento registrato da vari gruppuscoli “anti-sistema” di entrare in parlamento. Questi gruppi (in particolare il PC di Rizzo con Italia Sovrana e Popolare e Potere al popolo, Rifondazione con Unione Popolare) rappresentano la via parlamentare e riformista alla presa del potere che, mai come in questo momento, sembra essere utopistica e futile. Con questo non vogliamo trasmettere l’idea che sia sempre sbagliato usare gli strumenti che la democrazia borghese ci fornisce, ma crediamo che un uso rivoluzionario del parlamento sia possibile solo a patto di avere una partito rivoluzionario organizzato politicamente e militarmente, radicato tra le masse e che usi il parlamento tatticamente all’interno del suo quadro strategico per la presa del potere. In alternativa siamo di fronte all’ennesima illusione per le masse, che semina l’idea che il socialismo sia possibile dagli scranni del parlamento, tra l’altro in una fase storica nella quale gli spazi per le “riforme” sono esigui e appena possibile immediatamente chiusi. Basti vedere che fine stanno facendo le due riforme di bandiera del M5S: il reddito di cittadinanza e il decreto dignità.
Contemporaneamente, nell’ultimo periodo diverse realtà di massa, comitati e sindacati stanno ponendo il problema di “evolversi” o “trasformarsi” in partito. Bisogna innanzitutto precisare che la tensione di creare un partito è per noi positiva. Nonostante questo, bisogna mettere in luce come il tentativo di creare il partito dal sindacato sia per noi profondamente sbagliato. Si tratta di uno di quei tentativi che cerca di creare il partito dal “basso”: non dall’alto della lotta politica, ma dal basso della lotta economica. Rifacendoci al “Che Fare” di Lenin possiamo affermare che vedere la lotta politica come una continuazione della lotta economica porta alla creazione di un partito riformista, perché la lotta economica punta, giustamente, al miglioramento delle condizioni all’interno del sistema. Bisogna invece, secondo noi, partire dal politico, dalla concezione del mondo, dalla formazione di quadri, dal creare dibattiti e organizzazione comunista, dall’agire da partito per costruire il partito.
È fondamentale che i comunisti si adoperino per radicare una linea rivoluzionaria all’interno dei contesti di massa nei quali sono inseriti ed in tutti quegli spazi di agibilità che un’opposizione generale ad un governo di destra può aprire, tenendo bene a mente che altrettanto importante è smascherare il revisionismo laddove si manifesti, che sia nell’antifascismo di facciata del PD o nella logica, già vista, di dividere la classe su questioni poste dalla controparte (come l’opposizione sivax-novax creata per distrarre la classe da chi realmente la stava opprimendo).
Di primaria rilevanza è infine l’opposizione alla guerra imperialista. L’approfondirsi dello scontro interimperialista porta la guerra ad essere l’elemento dirigente di ogni aspetto della società. Dobbiamo identificare nella guerra il perno attorno a cui incentrare la nostra analisi e spiegare alle masse i meccanismi che la alimentano, gli attori, in particolare quelli in casa nostra, che la finanziano. I contenuti con i quali mobilitarci devono cercare di individuare il nemico principale (Nato e imperialismo italiano), devono mirare al disfattismo nei confronti della nostra borghesia e del suo governo e sviluppare una chiara coscienza sulla guerra, partendo dal malessere delle masse per le sue ricadute e dalle lotte di resistenza che esse metteranno in piedi.
Dobbiamo diffondere il più possibile l’idea che la guerra degli imperialisti non ci deve spaventare, che essa mostra più di ogni altra cosa la barbarie in cui ci porta il sistema capitalistico in crisi, che storicamente dai due conflitti mondiali precedenti i lavoratori e i comunisti di tutto il mondo sono riusciti a realizzare i primi tentativi di costruzione di un mondo nuovo, socialista, senza più guerre, miseria e sfruttamento. Che tocca a noi oggi riprendere la storia lì dove si è interrotta.
DOWNLOAD