Note di fase

Note di fase n.19

Autunno 2017


SULLA SITUAZIONE INTERNAZIONALE

L’Africa è la nuova frontiera. In senso stretto e in senso lato. In senso stretto perché le nostre frontiere si sono allungate, soprattutto a Sud, visto il caos in Libia e l’instabilità diffusa in tutta la sponda meridionale del Mediterraneo. Adesso siamo strategicamente interessati a capire cosa succede nel Sahel: con l’aumento dei flussi migratori, è qui che si concentra la nostra attenzione. In senso lato è la nuova frontiera degli investimenti delle imprese italiane, sempre più interessate a penetrare questi mercati, cominciando dai settori in cui tradizionalmente siamo più forti. […] Il presidente del Consiglio Renzi ha individuato l’Africa come nuova direzione per la diplomazia della crescita italiana e come nuovo obiettivo per l’internazionalizzazione del nostro paese”. Così Mario Giro, viceministro agli Esteri del governo Renzi e poi di quello Gentiloni, descriveva nel 2015 le intenzioni italiane in Africa. Queste parole sembrano profetizzare, o meglio chiarire, il senso delle dichiarazioni di Renzi che i primi di luglio tanto fecero scandalo: “Aiutiamoli a casa loro”. Invece di soffermarsi sulla poca fantasia dell’ex premier, attuale segretario del PD, che riprende uno slogan tanto caro al suo omonimo leghista, è bene leggere quest’affermazione alla luce della nuova corsa alla spartizione del continente africano, che negli ultimi anni sembra dettare i passi di tutte le potenze imperialiste dall’Europa alla Cina, dalla Russia agli Usa. In questa gara, in cui i competitori si fanno sempre più agguerriti con l’aggravarsi della crisi strutturale del sistema capitalista, gli imperialisti italiani stanno puntando molto. Infatti, secondo il rapporto African Economic Outlook, prodotto dall’OCSE e presentato a giugno a Milano presso Assolombarda, l’Italia nel 2016 è stata il terzo investitore in Africa con 11,6 miliardi di dollari, dopo la Cina con 38,4 miliardi e gli Emirati Arabi con 14,9 miliardi. Tra le aziende italiane, neanche a dirlo, l’Eni fa da padrona con 8,1 miliardi di investimenti. Ma la fame dello sciacallo a sei zampe non sembra proprio fermarsi, stando alle dichiarazioni di Lapo Pistelli, vice presidente esecutivo degli affari internazionali di Eni: «Siamo la più africana delle aziende italiane. Operiamo in 16 paesi e non intendiamo fermarci lì. Faremo grandi investimenti anche nel 2017 con i nostri progetti in Mozambico e a Zhor». Dello stesso avviso sembra anche Pietro Salini di Salini Impregilo che in Africa realizza il 16% del suo fatturato. Una chiara direttiva al governo viene poi data da Giorgio Squinzi, il numero uno della Mapei ed ex-presidente di Confindustria, «l’Africa è il continente del futuro su cui la Ue dovrebbe puntare maggiormente con la sua politica estera». Dall’Ue agli Stati Uniti tutti stanno pensando all’Africa e a come mettere le mani sulle preziose risorse che questo martoriato continente ancora offre. Basti pensare al Patto per l’Africa, proposto dalla presidenza tedesca del G20 e volto a intensificare gli investimenti privati a lungo termine, o ancora al fatto chequest’estate l’Africa è stata uno dei tavoli di discussione tanto al G7 di Taormina quanto al G20 di Amburgo. Proprio durante il primo di questi Gentiloni si è apprestato a sottolineare: “L’agenda del G7 deve dialogare con quella per lo sviluppo per l’Africa, l’Agenda 2063, che è un caposaldo strategico per lo sviluppo del Continente”. Verrebbe proprio da chiedergli a quale “continente” si riferisce. Da questa sintetica carrellata appare evidente che tutti i paesi imperialisti occidentali siano concordi nella necessità di continuare la rapina delle risorse e lo sfruttamento che da secoli perseguono contro i popoli africani. Ma la concordia tra essi appare alquanto effimera se pensiamo

allo stretto groviglio di interessi che stanno alla base della corsa alla ripartizione africana. All’interno dell’Ue e della Nato, il rapporto più contraddittorio sul terreno africano ed in particolare libico è quello tra Parigi e Roma. Se per Roma, come si diceva prima, i confini si sono allargati e ora non solo la Libia e il Mediterraneo in generale sono considerate “la quarta sponda” ma c’è una chiara volontà di penetrare anche più a sud nel continente; per gli imperialisti francesi il piatto è molto ricco ed irrinunciabile. Come ammetteva Chirac nel 2008: “Senza l’Africa, la Franciascivolerebbe a livello di una potenza del terzo mondo”. Infatti, molti sono gli interessi che come un nodo scorsoio legano Parigi alle sue ex-colonie: per cominciare 14 paesi africani sono costretti, attraverso un patto coloniale, a depositare l’85% delle loro riserve di valute estere nella Banca centrale francese, controllata dal ministero delle finanze di Parigi. Il debito coloniale che i francesi pretendo dalle ex colonie muove 500 miliardi di dollari dall’Africa al suo ministero del tesoro ogni anno. Non solo, esse rappresentano anche la prima fonte di approvvigionamento di materie prime. Basti pensare, per esempio, che la quasi totalità dell’uranio che la Francia importa per alimentare le sue centrali nucleari (che coprono circa il 75% del suo fabbisogno energetico) provengono dal Niger. Inoltre, poco più del 30% di petrolio greggio che la Francia importa proviene dall’Africa. Questi sono gli interessi che stanno alla base del rinnovato protagonismo militare che caratterizza la politica francese degli ultimi anni in Africa, tanto da far parlare di una rinascita della FrançafriqueAttualmente sono circa 10 mila i soldati dell’esercito, corrispondenti a circa tre quarti del personale militare transalpino impiegato all’estero. Solo l’operazione Barkhane, proseguimento dell’operazione Serval in Mali, vede circa 3 mila soldati stanziati tra Mali, Mauritania, Niger, Burkina Faso e Ciad, i paesi che formano il G5-Sahel. Non a caso tre di questi paesi avranno ruolo importante anche nei piani frutto del vertice del 29 agosto a Parigi tra Francia, Germania, Italia e Spagna. Sotto l’ombra della Torre Eiffel i quattro paesi europei si sono trovati non certo mossi da sentimenti umanitari, ma con l’obiettivo di mettere le mani su un piatto molto ricco di petrolio e gas libico. Ad oggi le riserve di idrocarburi in Libia sono le più grandi dell’Africa e fra le dieci più vaste del mondo. Esse sarebbero stimate in 63 miliardi di barili di petrolio e 15 miliardi di barili equivalenti di gas naturale. Nel 2010, prima dell’aggressione imperialista che portò all’assassinio di Gheddafi, la produzione aveva raggiunto i livelli record di 1,8 milioni di barili al giorno e le due attuali maggiori contendenti, Italia e Francia, importavano dalla Libia rispettivamente il 27,1 % e il 16,1% del totale delle loro importazioni di petrolio. In sei anni di guerra con il calo drastico della produzione, scesa nel 2016 fino a 200 mila barili al giorno per poi risalire in questi mesi a 760 mila, anche Roma e Parigi hanno registrato una minore importazione: nel 2014 la prima ne importava dalla Libia l’8% e la seconda il 5,6% sul totale delle rispettive importazioni.
Nonostante il caos in cui versa il paese, oggi la Libia sta rifornendo di gas l’Europa attraverso il Green Stream che collega i giacimenti Eni di Wafa e Bahr Essalam al terminale di Mellitah sulla costa e poi alla raffineria Eni di Gela. Le riserve libiche fanno ancora più gola all’Europa adesso che i rapporti con Mosca si fanno più contraddittori, perché potrebbero rappresentare una strada per emanciparsi dal gas russo. Infatti, dall’altro lato è proprio Gazprom che preme per acquisire una quota del business energetico libico e delle esportazioni verso l’Europa.
Ma in Libia è l’Eni, presente dal 1959, la compagnia straniera maggiormente coinvolta, l’unica che è riuscita a rimanere anche nelle fasi più gravi della guerra. La produzione sotto il suo controllo copre più del 70% della produzione libica complessiva odierna. Per tre quarti si tratta di gas e per un quarto di petrolio. Di questo pacchetto, il 55% viene dai giacimenti in terraferma e il 45% dai pozzi offshore. La Libia ora costituisce il 20% della produzione totale Eni. Attualmente gli unici campi attivi sono quelli off-shore protetti dalla marina militare e sulla terraferma quello di Wafa. Il campo Elephant è stato chiuso a maggio 2016 mentre quelli nella zona orientale hanno cessato i lavori nel luglio 2013. Ma le esplorazioni continuano tanto che nel 2015 Eni ha annunciato la scoperta di un ennesimo giacimento nel prospetto Bouri Nord a 140 km dalla costa per il quale si parla complessivamente di riserve per 4,5 miliardi di barili di petrolio più 600 milioni di barili equivalenti di gas naturale.
Eni non è certamente sola in questa corsa alla rapina delle risorse: la francese Total, che con l’attacco imperialista sperava di accaparrarsi il 35% delle risorse energetiche libiche, ha interessi nel campo di Mabrouk, nella zona centro-orientale e collegato con la raffineria e il terminale di Es Sider, ma anche con la spagnola Repsol nei campi occidentali di El Sharara collegati allo snodo petrolifero di Zawiya vicino a Tripoli. In mare c’è il giacimento di Al-Jurf collegato al terminale di Farwah. La russa Gazprom e la tedesca Wintershall sono partner nei campi di As Sarah/Jakhira e Nakhla nel centro est e collegati al terminale di Ras Lanuf, ma anche, nella stessa area, nel campo Nakhla collegato a Zuietina. Nella spartizione del petrolio e del gas libico hanno interessi anche le statunitensi Occidental, Conoco Phillips, Marathon e Hess e le canadesi Suncor e PetroCanada l’austriaca OMV.

All’interno di questo quadro vanno letti i passaggi che hanno visto quest’estate Macron giocare d’attacco e prendere inizialmente in contropiede Gentiloni, che, come un funambolo, si era destreggiato fino a giugno tra i vari contendenti libici, riuscendo sempre a perseguire gli interessi per l’Eni senza dover prende una posizione netta. Infatti, mentre Roma veniva designata ufficialmente tanto dagli Usa quanto dall’Ue come coordinatrice per gli interventi in Libia, dalla prime settimane del nuovo governo il ministro degli Esteri Le Drian, ex ministro della difesa, si è messo in viaggio con un unico obiettivo: conquistare per la Francia un ruolo maggiore nella polveriera libica, come aveva da subito annunciato un Macron neoeletto. Tunisia, Algeria, Egitto, paesi del Sahel, Emirati, Arabia Saudita e Qatar (tutti paesi che sono coinvolti nella gestione della guerra in Libia): queste le tappe che hanno portato Parigi a incassare il 25 luglio la vittoria diplomatica immortalata dalla stretta di mano all’Eliseo tra Serraj, presidente del governo di “accordo nazionale” di Tripoli riconosciuto dall’Onu, e Haftar, generale che controlla buona parte della Cirenaica sostenuto da Emirati Arabi, Francia, Russia ed Egitto. La risposta italiana non si fa attendere: il 29 luglio il Consiglio dei Ministri vara la missione in Libia che prevede l’invio di aerei, navi e 700 militari. Conseguenza di questo è stato lo strappo con il governo di Tobruk, poi ricucito, avvenuto i primi di agosto inseguito all’invio da parte di Roma del pattugliatore della marina militare italiana Comandante Borsini, minacciato da Haftar di essere bombardato in caso di entrata nelle acque libiche. La diplomazia degli imperialisti italiani evidentemente ha avuto un gran d’affare durante le vacanze estive per arrivare al vertice del 28 agosto a Parigi con un recupero notevole dopo lo sgambetto di Macron.

Infatti, il vertice di Parigi è stato chiuso con la riconciliazione apparente tra Roma e Parigi e le più accorate laudi dell’operato di Minniti e Gentiloni rispetto alla Libia. Passo successivo è stata la stretta di mano tra Minniti e Haftar a Bengasi che suggella la riapertura di un ritrovato dialogo, dopo un periodo di ostilità dovuto allo sbilanciamento italiano in favore di Tripoli degli ultimi mesi. Ma lungo è stato il viaggio che ha portato il ministro degli interni a Bengasi, l’ultima tappa di un percorso di riposizionamento italiano sul fronte africano, che è passato oltre che per gli incontri con i ministri del governo Serraj, anche con molti sindaci e capi di comunità locali, sicuramente con il ministro degli esteri dell’Algeria e all’interno del quale va ricollegata anche la riapertura delle relazioni con Il Cairo in barba alla famiglia Regeni.

Ma oltre che un recupero degli imperialisti italiani nella corsa per l’egemonia in Africa, il vertice di Parigi cosa rappresenta? Rispetto alla contraddizione tra imperialisti e popoli oppressi, esso registra sotto il paravento del problema migratorio la volontà imperialista delle borghesie europee di entrare sempre più addentro al continente africano e di difendere militarmente le proprie posizioni. Inoltre, si osserva di fatto lo spostamento delle frontiere dell’Europa nel Nord e Centro Africa, terziarizzando in quei paesi la gestione della manodopera in eccedenza da rinchiudere in serbatoi- lager pronta all’uso. Rispetto, invece, alla contraddizione interimperialista, il vertice è una fotografia dei rapporti di forza tra le potenze imperialiste europee: come si è detto Gentiloni ha ristabilito il ruolo dell’imperialismo italiano nell’area ed è stato elogiato per il modello Minniti di gestione dei flussi migratori basato sul principio, già sperimentato in Turchia da Merkel, “soldi in cambio di contenimento”. Macron ha riaffermato la posizione francese nelle sue ex colonie legittimando anche sul piano internazionale la sua presenza militare nell’area. Merkel si sente più serena perché, riportando la discussione sul piano dell’Unione Europea, ha smorzato il protagonismo francese di luglio che, nonostante le aperture e un rafforzamento dell’asse franco- tedesco, le risultava potenzialmente insidiante la direzione tedesca sull’Ue.

Per il governo italiano quest’accordo, insieme a quello sui migranti stretto a febbraio tra Gentiloni e Sarraj, ha vantaggi su più piani: in primis l’assicurarsi i canali per tutelare e promuovere gli interessi di Eni sulle risorse di cui si diceva sopra; inoltre con la scusa del controllo dei flussi migratori gli imperialisti italiani mirano ad ampliare la loro influenza nel territorio africano mossi dagli interessi che abbiamo sottolineato; infine tali accordi hanno anche delle ricadute sul fronte interno per il Pd che punta a ristabilire la propria egemonia vendendosi alla borghesia come partito in grado di guidare l’Italia nelle contese internazionali e presentandosi alle masse, su cui soffia ininterrottamente la propaganda reazionaria, come il partito che sa provvedere alla sicurezza interna.

Le borghesie europee sembrano aver disposto le loro pedine ma, come si diceva, i concorrenti sono tanti e le contraddizioni che lacerano i rapporti tra le potenze europee devono fare i conti anche con gli interessi di giocatori altrettanto ingordi. Sul terreno africano, infatti, come accennato prima si riaffaccia la Russia, mossa dalla necessità di controllare le fonti energetiche per evitare che l’Africa diventi il maggior bacino di energia per l’Europa e dalla necessità di posizionarsi strategicamente su un fronte della guerra imperialista che si fa sempre più centrale. In quest’ottica va letta le rete di alleanze che sta costruendo con Egitto, Etiopia e Somalia. A cementare il rapporto diplomatico con Al Sisi c’è quello militare, dimostrato ad esempio dall’esercitazione militare congiunta nella regione di El Alamein nel 2016 a cui è seguita lo scorso settembre in territorio russo quella denominata “Defenders of Friendship 2017”. Inoltre, con l’Egitto, Mosca condivide, come già ricordato prima, il sostegno al governo di Tobruk.

È Pechino, però, ad aver ben piantato i suoi piedi in terra africana avendo sviluppato un progetto di penetrazione già dal 2000 con la costituzione del Focac, Forum per la cooperazione Cina-Africa, a cui è seguito nel 2006 il Libro Bianco sull’Africa, che ribadisce quanto le relazioni con i paesi africani siano strategiche per la borghesia cinese. Ciò appare evidente se pensiamo che negli ultimi dieci anni gli scambi commerciali sono decuplicati passando da 20 miliardi nel 2003 a 200 miliardi del 2012, con un tasso di crescita annuale del 16%. Nel 2014, le importazioni cinesi dall’Africasuperano i 200 miliardi di dollari, mentre quelle africane dalla Cina ammontano a 93 miliardi di dollari. Va notato che nel solo 2012 la quasi totalità del valore delle importazioni in Cina, precisamente l’87%, coinvolge cinque paesi, tutti esportatori di petrolio, gas naturale e minerali: Sudafrica (42%), Angola (32%), Libia (6%), Repubblica del Congo (4%) e Repubblica Democratica del Congo (3%). Regioni dove gli appetiti francesi sono molto presenti. Parallelamenteall’inanellarsi dei rapporti economici tra Pechino e il continente africano si è assistito a un maggiore coinvolgimento cinese nelle operazioni di “peace-keeping” registrabile nel passaggio da 27 militari- osservatori del 2001 a 1800 tra militari e civili del 2012. I contingenti sono concentrati nel Sud Sudan, in Liberia e nella Repubblica Democratica del Congo, non a caso alcuni dei suoi principali fornitori di risorse naturali. Inoltre nel 2013 Pechino ha partecipato, per la prima volta sotto l’ombrello dell’ONU, all’aggressione imperialista in Mali con l’invio di truppe. E ancora, nell’estate del 2017 ha aperto la sua prima base militare all’estero, localizzata proprio in Africa, nel paese di Gibuti, paese strategico per il controllo dell’imboccatura del Mar Rosso, dove ogni potenza imperialista sta impiantando i suoi contingenti (sono presenti truppe statunitensi, francesi, giapponesi, spagnole, inglesi, russe e – ovviamente – italiane).

Nella partita africana non mancano di certo gli artigli di Washington, che lungi dal voler abbandonare il continente, è stata nell’ultimo periodo più concentrata però sul fronte mediorientale, su quello che spinge per aprire contro Pyongyang e su quello sudamericano, dove vuole rimettere le mani dopo aver rischiato di perderne il controllo in seguito alla spinta emancipatoria di alcune borghesie nazionali del continente. Quest’ultime, infatti, si raccolgono nel Mercato comune del Sud (Mercado Común del Sur, Mercosur), fondato nel 1991 da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay. L’antagonismo con l’imperialismo Usa, poi, prende connotati più politici di critica al sistema capitalista statunitense nell’Alleanza bolivariana per i popoli di nostra America (Alba), progetto messo in piedi nel 2004 da Cuba e Venezuela in competizione con l’Alca, Zona di libero commercio delle Americhe, promossa dagli Usa. Tali spinte non potevano di certo essere tollerate dallo Zio Sam, che negli ultimi tre anni molto si è adoperato per ripristinare la propria egemonia sul “giardino di casa”, promuovendo diversi cambi di governo in favore di personaggi allineati con l’imperialismo yankee: l’Honduras (in cui è avvenuto un colpo di stato contro il governo di Zalaya), il Paraguay (colpo di stato contro il governo di Lago), il Brasile (golpe di Temer contro il governo Rousseff), l’Argentina (vittoria elettorale per un soffio del neoliberista Macri contro la Kirchner). Questo è il contesto in cui quest’estate si è sviluppato l’attacco da parte dell’imperialismo yankee all’anello più forte e avanzato dei nemici di Washington. Il Venezuela, infatti, con l’ascesa al potere di Chavez e lo sviluppo della Rivoluzione Bolivariana, ha rappresentato negli ultimi anni il paese che più si è impegnato nella costruzione di un fronte comune contro l’imperialismo Usa in Sud America. Appare quindi chiaro il perché di questo attacco a Maduro: un tentativo di isolare e fermare il processo iniziato nel paese da Chavez, pericoloso non solo perché minaccia direttamente gli interessi a stelle e strisce nell’area, ma anche perché modello alternativo alle barbarie che il capitalismo impone ai popoli di tutto il mondo.

Il Venezuela ha continuato a resistere alle ingerenze dell’imperialismo americano ed è chiaro quindi da dove derivi il tentato golpe, portato avanti su due piani: da una parte con una forte propaganda e mobilitazione reazionaria, dall’altra con veri e propri attacchi militari fortunatamente falliti.
Già nel 2014, per tornare indietro solo di qualche anno, erano state inscenate contro il governo eletto di Maduro, violente proteste per tutto il paese, attraverso anche l’utilizzo di sicari fascisti contro i sostenitori del governo.

La stessa cosa è accaduta nei mesi scorsi, durante i quali si è assistito nuovamente ad un tentativo di “rivoluzione arancione”, alla “rivolta” delle classi più agiate contro l’esperienza bolivariana iniziata da Chavez nel paese. La borghesia venezuelana si è chiaramente inserita all’interno di una contraddizione che effettivamente esiste nel paese, ovvero il fatto che il governo di Maduro, pur portando avanti un processo di emancipazione sociale, non ha sottratto il controllo dei mezzi di produzione dalle mani della borghesia e ha mantenuto dei tavoli di collaborazione con essa. Ne è un esempio, la decisione di Maduro di lasciare parte dei proventi del petrolio ai padroni (sebbene ricordiamo che in Venezuela l’85 % dei proventi viene reinvestito nei servizi sociali mentre solo il 15% viene lasciato agli investitori esteri). Ciò ha provocato un certo malumore tra le masse popolari venezuelane, in difficoltà per la grave crisi economica, dimostrato nelle elezioni del dicembre 2015 con la vittoria dell’opposizione nelle elezioni parlamentari. Ma di fronte alla volontà statunitense, espressa quest’estate, di dare l’ultima spallata a Maduro e all’esperienza bolivariana, il popolo venezuelano si è stretto al suo governo e l’ha difeso con forza e determinazione dagli assalti dei partiti reazionari. Il banco di prova sono state le elezioni dell’Assemblea Costituente, la cui convocazione è legittimata dall’articolo 347 della Costituzione del 1999, che il 30 luglio hanno visto recarsi alle urne 8 milioni e 100 mila persone, a sostegno chiaramente dell’esperienza bolivariana e decretando così una vittoria per il popolo venezuelano rispetto alle ingerenze americane ed europee.

Ovviamente anche i media internazionali, prima di far cadere il silenzio assoluto sul fallimento della strategia statunitense ed europea contro il Venezuela, hanno legittimato la reazione nel paese, stravolgendo i fatti, facendo passare i morti per vittime della repressione del governo, descrivendo Maduro come un feroce dittatore ed evitando accuratamente di mostrare le migliaia di manifestazioni filo-governative che si sono svolte in questi mesi. Sostegno popolare ribadito nuovamente in occasione delle elezioni regionali del 15 ottobre in cui i partiti che appoggiano Maduro hanno vinto in 18 regioni su 23. Infatti, bisogna evidenziare che se da un lato abbiamo visto mobilitato il fronte imperialista borghese, dall’altro lato il fronte antimperialista interno ha risposto subito compatto ed anzi le organizzazioni più rivoluzionarie trovano in questa situazione l’occasione per spingere l’esperienza bolivariana oltre. L’attacco orchestrato dagli yankee ha, insomma, portato ad una polarizzazione della contraddizione interna alla rivoluzione di tipo democratico di Chavez, contraddizione che può risolversi anche positivamente per la classe strappando definitivamente alla borghesia venezuelana il potere.

Gli Usa e i governi europei hanno chiaramente sostenuto l’attacco da parte dell’opposizione neoliberista, appoggiando la borghesia del paese, che si è macchiata di numerosi crimini contro la grossa parte di popolazione che ha continuato a sostenere il governo. Per l’imperialismo americano ed europeo infatti risulta fondamentale riuscire a bloccare l’esempio di rinnovamento portato avanti, seppur con le sue contraddizioni, nel paese. Strategia scelta dagli imperialisti statunitensi già in Siria e Ucraina, solo per citarne alcune, dove, sotto l’etichetta di rivolte popolari si celano in realtà gli interessi occidentali di rovesciare governi non allineati ai loro diktat. Alla luce di tutto questo è chiaro dunque come sia fondamentale sostenere l’attuale governo venezuelano contro le mire imperialiste, dato che questo attacco ad uno stato sovrano è dettato dalla necessità da una parte di riappropriarsi delle innumerevoli risorse presenti nel paese e dall’altro dalla volontà di eliminare qualunque forma alternativa al sistema vigente, bloccando quei tentativi, seppur con le proprie contraddizioni, di allontanamento all’egemonia Usa.

La stessa Mogherini, infatti, aveva esortato il popolo venezuelano ad astenersi dalle votazioni, dimostrando l’allineamento europeo alle mire americane, dichiarando che «l’Unione europea e i suoi Stati membri esprimono profondo rammarico per la decisione delle autorità venezuelane di procedere all’elezione di un’Assemblea costituente il 30 luglio. L’elezione dell’Assemblea costituente ha acuito in modo duraturo la crisi in Venezuela, rischiando di compromettere altre legittime istituzioni previste dalla Costituzione, quali l’Assemblea nazionale».

L’amministrazione Trump, dal canto suo, aveva minacciato forti azioni economiche che potevano includere l’embargo sull’acquisto di petrolio venezuelano nel caso la Costituente fosse avanzata. Le nuove sanzioni sono arrivate puntualmente il 25 agosto con la firma da parte di Trump di nuovi ordini esecutivi che per la prima volta colpiscono anche la compagnia statale petrolifera, PDVSA cuore economico del paese. Tra le misure c’è, infatti, la proibizione di operare «un nuovo debito emesso dal governo del Venezuela e dalla sua compagnia petrolifera statale», di «negoziare alcuni buoni emessi dal settore pubblico venezuelano, come pure di pagare dividendi al governo del Venezuela». Con queste sanzioni si mira ad impedire al Venezuela l’approvvigionamento di dollari e l’accesso ai finanziamenti. PDVSA, attraverso CITGO, la sua filiale negli Stati Uniti, vende oltre un milione di barili di petrolio al giorno negli USA; prima i dollari derivanti da questa vendita venivano trasferiti al Venezuela, che li utilizzava per importare i beni di cui il paese ha bisogno. Con queste sanzioni non può incassare i dollari derivanti dalla vendita. Inoltre le sanzioni impediscono la compravendita di titoli (Bond) emessi legalmente da PDVSA e quindi viene impedito l’accesso ad ogni forma di finanziamento. Non solo, impedendo a Caracas di accedere ai dollari, moneta utilizzata nel commercio internazionale, si impedisce anche di poter comprare cibo e medicine nel mercato internazionale. Ciò dimostra che se ancora non sono maturate le condizione per un intervento militare la guerra finanziaria continua ed ha l’obiettivo di mandare il paese indefault: perché vedendosi interdetti i propri conti in dollari, il Venezuela sarebbe anche impossibilitato a pagare le rate in scadenza del proprio debito pubblico. La nuova stretta delle sanzioni si aggiunge al decreto di Obama che ha definito il Venezuela una “minaccia straordinaria” per la sicurezza degli Usa, oltre alle ricorrenti minacce del Comando Sud del Pentagono e alle misure restrittive già in atto, in particolare di blocco finanziario.

La risposta del governo Maduro non si è fatta attendere: il 15 settembre il Venezuela ha cominciato a segnalare il prezzo di vendita del petrolio in Yuan cinese. Il Venezuela, costretto ad abbandonare il dollaro, cerca inevitabilmente nuovi mercati per la vendita del proprio petrolio e l’approvvigionamento dei beni e trova la Cina, che volentieri si presta ad essere nuovo partner nell’ottica dello scontro sempre più antagonistico che la vede in competizione diretta conl’imperialismo statunitense. Non a caso, Pechino sta investendo fortemente in Venezuela e in tutto il continente americano (ad esempio sta finanziando l’enorme costruzione del Nuovo Canale del Nicaragua che permetterà il passaggio delle grandi navi cargo tra il Pacifico e l’Atlantico). Il passo di Maduro trova sponda quindi nel progressivo allontanarsi dei paesi aderenti Organizzazione di Shanghai (SCO), promossa nel 2001 da Russia e Cina, dall’egemonia del dollaro a vantaggio dello Yuan e del Rublo.

Ecco come anche sul fronte venezuelano (come in Donbass, Corea del Nord, Medioriente, Africa) lo scontro regionale tra i popoli e la rapacità dell’imperialismo a stelle e strisce si intreccia sempre più con lo sviluppo della contraddizione interimperialista, che vede contrapposto il polo dei paesi legati alla Nato a guida Usa e quello costituito da Cina e Russia. In questo senso acquista chiarezza l’aggravamento dei rapporti tra Pyongyang e Washington a cui assistiamo. Tra minacce di intervento militare, guerra finanziaria, sanzioni e propaganda sui media mainstream, nel Pacifico si consuma, in via indiretta, lo scontro di cui si diceva prima tra Stati Uniti e Cina.

SULLA SITUAZIONE INTERNA

Al forum Ambrosetti e alla Fiera del Levante di inizio settembre, il premier Gentiloni si è sperticato davanti al gotha economico e finanziario mondiale e nazionale nel disegnare un’Italia ormai uscita dalla crisi e incanalata in una certa ripresa, frutto degli interventi governativi dell’era Napolitano (governi Monti, Letta, Renzi e, attualmente, Gentiloni) per sostenere la necessità di proseguire con decisione sul terreno delle riforme.

Seminare ottimismo a tutti i costi è un imperativo per ogni governo borghese alla caccia costante e forsennata di investimenti domestici e dall’estero. Ancor più se ci si avvia a fine legislatura e si stanno gettando le basi per la campagna elettorale.
Ed in effetti i dati Istat sembrano dare ragione a tale ottimismo: esportazioni in ascesa in tutto il 2017 (solo luglio in controtendenza), recupero di percentuali importanti di produzione industriale (+4,4% il tendenziale di luglio, +2,6% nei primi sette mesi dell’anno), 900 mila posti di lavoro recuperati negli ultimi tre anni, 437 mila in più quelli dei primi due trimestri di quest’anno rispetto al 2016, attrattività degli investimenti dall’estero in salita. Tutto dice che siamo di fronte ad una certa ripresa.

Non siamo sicuramente in grado di confutare questi dati frutto dei centri di elaborazione economici borghesi, ma alcune considerazioni emergono abbastanza facilmente.
Innanzitutto questa ripresa, o ripresina come loro stessi la definiscono rendendosi conto della fragilità, si inserisce in un trend mondiale simile: il Fondo Monetario Internazionale dà per il 2017 una crescita del Pil mondiale al 3.5% (2% per le economie avanzate) e quindi in crescita sul 2016 (3,1%, 1,7%per avanzate). La formazione imperialista italiana non ha nulla di particolare da vantare, in quanto allineata anch’essa nel contesto di attacco alle conquiste storiche della classe operaia che hanno connotato tutti i paesi ad economia avanzata negli ultimi decenni. Da qui in gran parte derivano queste timide riprese, comuni alla maggior parte delle formazioni imperialiste. Tuttavia a detta degli stessi centri di indagine economica borghesi tale ripresa è fortemente minacciata da alcuni fattori.

Innanzitutto, dall’emergere di tendenze protezionistiche nelle vecchie formazioni. Possiamo osservare la fase trumpista in USA, ma anche le recenti dichiarazioni congiunte Parigi-Berlino- Roma tese a rafforzare l’antidumping contro la Cina e ad ostacolare le M&A (fusioni e acquisizioni) cinesi nell’Ue in settori tecnologicamente strategici, al fine di impedirne l’acquisizione di know how. È una tendenza, quella protezionistica, contraddittoria al modo di produzione capitalistico che, per sua natura bisognoso di libero scambio come maggior veicolo per la riproduzione allargata, vede le varie formazioni, costrette dalla crisi, ricorrere al mors tua vita mea.

Secondariamente, dal rigonfiarsi prepotente della sfera finanziaria, a testimoniare che l’enorme massa di capitali esistente non trova tuttora modo di collocarsi nelle sfere produttive e, posponendo in un futuro del tutto indeterminato la produzione di plusvalore su cui si va ad investire oggi, crea nuovamente bolle finanziarie a non finire, il cui scoppio è noto a tutti, ma nessuno è in grado di prevedere dove e quando avverrà. O meglio sono proprio il dove e quando ad essere oggetto di schermaglie economico finanziarie tra le varie formazioni per far sì che la crisi si scarichi sui competitori anziché in casa.
In terza battuta, dal meccanismo di rientro dai quantitative easing (tapering) messi in campo dalle varie banche centrali nel tentativo di tenere in piedi il meccanismo di valorizzazione del capitale drogando letteralmente di denaro i canali di consumo. Togliere droga ad un sistema assuefatto comporta esiti incerti.
Va inoltre aggiunto che parte della ripresa è sicuramente dovuta ad una trasformazione di risorse pubbliche in profitti mediante l’abbattimento del corporate tax (tassazione alle imprese) comune alla quasi totalità delle economie avanzate. Nell’arco di quest’anno il corporate tax è passato dal 32% al 25% come media nei paesi Ocse. In Italia l’Ires è passata dal 27,5% al 24% dal primo gennaio 2017. Come anche gli ingenti incentivi agli investimenti delle ultime due leggi di bilancio che hanno destinato centinaia di milioni di euro ai super e iper ammortamenti.
Infine, se è vero che le assunzioni sono in ripresa, è altrettanto vero che queste sono per la gran parte a tempo determinato (329 mila sui 437 mila di cui dicevamo), fenomeno dovuto anche all’importante aumento del lavoro a chiamata intermittente (+13,5%) seguito all’abolizione dei voucher. È questo il risultato più prezioso (per i padroni) del Jobs Act: l’aver sostituito, nell’arco di poco tempo, lavoro a tempo indeterminato e “tutelato” con lavoro precario facilmente ricattabile. Va inoltre considerato che la quantità di posti di lavoro disponibili verrà tanto più minacciata quanto più verrà implementata l’Industria 4.01.
Tutto ciò, sommato alla stagnazione salariale degli ultimi anni, frutto dell’attacco agli istituti della contrattazione collettiva (ha generato scandalo l’aumento contrattato da Fim-Fiom-Uilm di 1,7 euro lordi per i 12 mesi da giugno 2017 a giugno 2018), fa sì che non si sia risolto nemmeno il problema del consumo necessario alla realizzazione del plusvalore/profitto, visto che la massa salariale di certo non può crescere e che il lavoro precario, non dando garanzia sul futuro, inibisce anche il meccanismo del debito al consumo.
In sintesi, stando ai dati, una certa ripresa esiste, ma i fattori di criticità sono numerosi e i fattori che hanno portato alla crisi non sono stati risolti (in primis la redditività del capitale). Con tutta probabilità siamo di fronte ad una ripresina simile a quella del 2011, troppo debole per sostenere un nuovo ciclo di accumulazione, tanto che la crisi si è subito ripresentata continuando il suo corso. Non si prospetterà di certo, quindi, un allentamento degli attacchi alle condizioni di vita e di lavoro della classe proletaria. Anzi già si va parlando di rimettere mano alle pensioni, si vanno sperimentando altre forme di smantellamento della scuola pubblica come i licei brevi o come, per quanto riguarda gli aspiranti insegnanti, il nuovo decreto legislativo varato la scorsa primavera, che prevede l’obbligo di raggiungere dei crediti formativi su materie specifiche durante il concorso a cattedra, solo dopo il quale si accede al Fit di tre anni, che ha carattere selettivo. Un’obbligatorietà non solo per gli aspiranti insegnanti, ma anche per tutte quelle migliaia di insegnanti precari che vivono già nel mondo della scuola e che dovranno reiscriversi all’università solo per maturare icrediti imposti. E ancora la repressione verso i lavoratori in sciopero (vedi il caso eclatante dell’attacco ai lavoratori del Si Cobas della Sda di Carpiano), contro chi occupa case e spazi sociali e contro i movimenti giovanili in generale incalza.
Di certo non disegnerà una controtendenza il fatto che, nella prossima legge di bilancio, il governo abbia già promesso di mettere mano al cuneo fiscale per favorire le assunzioni, che voglia destinare 600 milioni di euro per la “coesione sociale” (a testimonianza di quanto siano coscienti e temano l’esplodere delle contraddizioni di classe) o che si appresti, dal prossimo primo gennaio, a varare il famigerato “reddito di inclusione”. Oltre che essere nient’altro che una penosa mossa elettorale, tesa a ricucire consensi ad un Pd pesantemente logorato dalle sue politiche antipopolari, dalla perdita del referendum costituzionale e dalla fuoriuscita della componente ex-Pci, ciò non si tradurrà che in tagli in altri settori sociali, fermi restando i vincoli di bilancio dettati dalla Ue, e in una recrudescenza verso settori proletari e piccolo borghesi che va sotto il nome di “lotta all’evasione fiscale”. Verranno, invece, riconfermati i fondi per rinnovare i super e gli iper ammortamenti legati agli investimenti e all’implementazione di Industria 4.0, a dimostrazione di quanto sia tuttora vero il vecchio adagio marxista per cui lo stato borghese altro non è che il comitato d’affari dei padroni.
E’ in questo contesto che si vanno ad innestare i due scioperi generali indetti dal sindacalismo di base per il 27 ottobre (Si Cobas, Sgb, Cub, Usi e Slai Cobas) e per il 10 novembre (Usb, Cobas, Unicobas).
Pur considerando che si è mancata una bella occasione di arrivare ad uno sciopero unitario, a causa dei settarismi che storicamente caratterizzano il sindacalismo di base e che rischiano di minare il valore ed il significato di “sciopero generale”, le due iniziative vanno sostenute e, dove possibile, fatte proprie con percorsi di radicamento comunista.
Chiaramente dobbiamo promuovere la mobilitazione infischiandocene delle varie questioni legate ai settarismi, cercando di avanzare nella linea secondo la quale promuoviamo la lotta come momento per accumulare forze per mettere in discussione il sistema capitalista nel suo complesso.
Dobbiamo cioè sforzarci di mettere al centro della mobilitazione il portato dello scontro di classe in atto, che è lungi dall’esaurirsi, che, anzi, andrà rafforzandosi e che potrà essere bloccato solo con una riproposizione rivoluzionaria della classe in grado di compattare e unire le fila dei lavoratori su di un piano politico. Solo sul piano della lotta al capitale nel suo complesso i settarismi potranno venir meno lasciando il passo a nuovi protagonismi.
In questo senso occorre fare una riflessione anche sulle piattaforme di convocazione degli scioperi. Sicuramente siamo tutti d’accordo con tali rivendicazioni, ma è anche sotto gli occhi di tutti che, dato lo scontro in atto, tali piattaforme sono realizzabili solamente tramite l’abbattimento del sistema capitalista nel suo complesso e che per la mera via sindacale non si creeranno che illusioni tra le fila dei lavoratori. Piattaforme simili somigliano più ad elementi di programma minimo di un partito politico rivoluzionario che ad una piattaforma sindacale. È anche da qui probabilmente che nasce la tendenza ai settarismi di gruppi e gruppetti, che si caratterizzano più come partitini- sindacato che come sindacati tout court. Riuscire a fare, dove possibile, una critica positiva e propositiva alle piattaforme potrebbe farci avanzare nello sviluppare una coscienza politica tra le avanguardie di classe con cui ci rapportiamo.
Sul piano meramente sindacale, invece, le mobilitazioni in Francia fanno vedere maggior concretezza e quindi maggior determinazione. Esse si sono e si stanno sviluppando contro le stesse riforme del mercato del lavoro implementate in Italia. Mirano non tanto a realizzare piattaforme complessive, ma a buttare giù progetti di legge ben precisi. L’obiettivo è chiaro: impedire che il governo realizzi il Jobs Act alla francese. Operai e studenti si compattano su questo obbiettivo, arrivando alle grosse mobilitazioni che abbiamo visto. Certo ciò non significa dare per scontato che il proletariato francese riuscirà a spuntarla, ma è un esempio diverso di come si sviluppa la mobilitazione di massa sul terreno economico e dei bisogni immediati.
Sul fronte scuola/studenti la novità è la sperimentazione del liceo breve in 100 istituti la cui implementazione a pieno regime si prevede comporti un risparmio annuo di 1,3 mld annui per le casse dello stato, probabili minori assunzioni di docenti, aumento del monte ore annuale per gli studenti e, cosa ancor più importante, un sicuro aumento della massa di disoccupati che andrà ulteriormente a premere sui salari. Un altro passo verso lo smantellamento dell’istruzione di massa. Una novità che si accompagna alla implementazione della Buona Scuola, contro cui è stato costruito lo sciopero degli studenti medi del 13 ottobre che ha messo al centro la contestazione all’alternanza scuola-lavoro. Già sono evidenti le due linee di mobilitazione tra chi è sceso in piazza contro l’alternanza e contro il lavoro gratuito e chi per un’alternanza “diversa”, ponendo in chiave riformistica la questione che “devono essere gli studenti a poter decidere come implementarla”. Una linea, quest’ultima, che rivela tutta la sua infondatezza stando ai dati, secondo cui più del 30% delle ore fin qui svolte è andato a favore dell’industria, andando ad ingrassare le tasche dei padroni. E ciò rivela l’essenza di questa riforma che condivide con gli stage degli studenti universitari e i tirocini formativi dei richiedenti asilo la stessa logica schiavistica.
Altro fronte caldo dell’ultimo periodo è costituito dall’immigrazione del proletariato straniero. È una questione che nell’estate ha presentato vari fronti. Dallo sgombero violento di piazza Indipendenza a Roma e dal seguente provvedimento di Minniti per stilare l’elenco di immobili occupati da sgomberare a livello nazionale, al crescere della mobilitazione reazionaria, all’infame e ipocrita accordo con la Libia per bloccare i flussi, all’ultima pagliacciata dei parlamentari in sciopero della fame per l’approvazione dello Ius soli.
Quello che la compagine oggi al governo sta cercando di fare è di togliere terreno agli avversari politici sul tema immigrazione. Non dimentichiamo che si va verso le elezioni e questo tema è tra i più scottanti per raccogliere voti. Da una parte il Pd cercava di recuperare consenso tra il proprio elettorato in crisi con lo Ius soli, dall’altra ha intrapreso una deriva leghista tentando di drenare consensi a 5 Stelle e destra, fermando i flussi e consegnando gli emigranti dall’Africa subsahariana alle bande di torturatori e aguzzini libici, pagandoli poi profumatamente per il loro compito di carcerieri, come dimostrano i miliardi piovuti dal governo italiano in Libia l’estate scorsa. Le stesse bande a cui Eni ha delegato la sicurezza dei propri pozzi petroliferi.

Vanno in questa direzione anche le esercitazioni dell’Ocse che attualmente si stanno svolgendo a periodi alterni in alcuni quartieri di Vicenza sotto l’egida dei carabinieri del centro Coespu, assieme alle truppe militari provenienti da ben 33 paesi. Le esercitazioni, promosse quindi da una regia europea, sono finalizzate alla partenza per la Libia per addestrare direttamente i “colleghi” nordafricani. Ufficialmente per il contrasto alla tratta di esseri umani.

In realtà finché imperverseranno le guerre e la penetrazione di capitali che distrugge le economie domestiche nel continente africano, la questione flussi migratori resterà ingestibile. Masse enormi di proletariato straniero continueranno a migrare verso le economie avanzate e ciò caratterizzerà molti degli anni a venire con buona pace dei partiti reazionari, che su questo fondano il loro agire politico rappresentando l’asso nella manica del capitale, qualora questi dovesse optare per uno scontro di classe ancor più acceso ricorrendo a compagini politico istituzionali maggiormente autoritarie e repressive.

La deriva reazionaria è in atto, stante il proliferare dei rigurgiti fascisti in tutta la penisola, dall’intensificarsi degli episodi e dalle misure repressive (vedi l’ultima trovata della regione Veneto che propone allo stato di istituire il reato di “terrorismo di piazza”) ai danni di lavoratori, proletari immigrati, studenti e spazi sociali, e rappresenta il realizzarsi della piena autorità del capitale nel piegare ai suoi fini e solo ad essi l’intero sistema sociale.

Come in altre occasioni si è sottolineato, tanto l’immigrazione quanto l’intensificarsi della repressione contro le lotte sociali, quanto la legittimazione di vecchi e nuovi fascisti, impegnati nella mobilitazione reazionaria, fanno parte della ricaduta interna dei progetti di guerra imperialista promossi, sul fronte esterno, dalla borghesia italiana. Che la guerra diriga l’agenda politica del governo anche nella gestione del paese è sempre più evidente, pertanto risulta sempre più necessario legare con essa gli attacchi che gli studenti, i lavoratori e i proletari vivono. Questo è ciò che emerge anche dai dibattiti che hanno caratterizzato il campeggio No Muos (tenutosi in Sicilia dal 4 al 6 agosto all’interno del presidio di contrada Ulmo, vicino a Niscemi) e il campeggio organizzato in Sardegna dalla rete A’Foras (tenutosi dal 5 al 10 settembre a Marina di Tertenia). Sui tavoli di entrambi i campeggi la riflessione sul ruolo che lo Stato italiano ha nei fronti di guerra e la solidarietà con i popoli, che finiscono nel mirino delle potenze imperialiste, si è strettamente legataa quella sulla ricaduta interna che il protagonismo bellico italiano ha sull’economia, sul lavoro, sul sociale, sull’immigrazione, sottolineando la presenza, sempre più massiccia, dell’esercito nelle scuole e università (collaborazioni, investimenti, propaganda, reclutamento, ricerca bellica ecc. Ne è esempio, all’Università di Sassari, il corso di laurea in Cooperazione e sicurezza internazionale, contestato dagli studenti, che ospita come docente un militare della Brigata Sassari.)

Entrambi i campeggi hanno trasformato le analisi in pratica di lotta. Il primo, nell’ambito del campeggio, ha promosso un corteo, nella giornata del 6 agosto, che si è scontrato con un innalzamento da parte degli sbirri del controllo del territorio nell’area attorno alla base. I lacrimogeni a grappoli, stile esercito israeliano contro i palestinesi, lanciati a un corteo pacifico, dimostrano la tolleranza zero da parte del governo su ogni iniziativa di rilancio politico. Ciò vasenz’altro correlato col fatto che in contemporanea siano avvenuti due sgomberi di centri sociali a Bologna e uno sgombero di un’occupazione abitativa a Roma. In Sardegna, invece, la rete A’Foras in seguito al campeggio ha convocato per il 14 ottobre la manifestazione al porto di Cagliari contro la Joint Stars, la più grande esercitazione dell’anno, promossa dal Ministero della Difesa in

collaborazione con gli eserciti della Nato. La Joint Stars 2017, che coinvolge diverse regioni italiane (la prima parte di essa, Virtual Flag 2017, si è svolta a giugno a Poggio Renatico, Ferrara), dal 14 al 29 ottobre è in Sardegna dove il poligono di Teulada vede i soldati della Nato e della Forza Marittima Europea esercitarsi nelle principali forme di combattimento sul mare e dal mare.

Il nostro nemico è l’imperialismo, quale forma di capitalismo attualmente vigente, e la guerra è la tendenza verso cui si muove il modo di produzione capitalistico in crisi. In questo nodo sta il legame tra la battaglia contro il MUOS, contro le basi militari e in sostegno ai popoli che resistono e le lotte che si sviluppano e si svilupperanno contro le politiche antipopolari del governo. Come comunisti dobbiamo assumere la capacità, con i mezzi che possediamo, di essere presenti nelle lotte delle masse portando anche questa lettura generale.

RAFFORZARE LA LOTTA CONTRO LA GUERRA IMPERIALISTA! RAFFORZARE L’INTERVENTO POLITICO COMUNISTA TRA I LAVORATORI! UNIRE LA LOTTA ALLA GUERRA IMPERIALISTA ALLA LOTTA DI CLASSE!

Collettivo Tazebao


1 Una ricerca presentata al World Economic Forum (WEF) del 2016 a nome “Future on the job” indica una perdita secca di 5 milioni di posti di lavoro persi nelle economie avanzate grazie all’implementazione di Industria 4.0.

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