Note di fase

Note di fase n.17

Inizio primavera 2017


SULLA SITUAZIONE INTERNAZIONALE

“Che vi piaccia o no l’economia globale è il grande oceano da cui non si può sfuggire. Qualsiasi tentativo di interrompere il flusso di capitali, tecnologie, prodotti, industrie e persone tra le economie per canalizzare le acque nel mare di nuovo in laghi isolati e torrenti non è possibile. È in contrasto con il trend storico.” Con queste parole il presidente cinese Xi Jinping per la prima volta al 47° World Economic Forum di Davos, davanti al gotha dell’economia internazionale, si è candidato come paladino della globalizzazione in una fase in cui i venti del protezionismo soffiano fortemente da oltreoceano.
Infatti, mentre Trump, al grido «America first», dichiara la fine della Trans Pacific Partnership firmata da Obama, minaccia pesanti dazi, mette in dubbio il Nafta, promuove l’ampliamento del muro col Messico e fa carta straccia delle trattative per il Transatlantic Trade and Investment Partnership; Xi Jinping fa pesare la sua presenza al Fondo Monetario, lancia iniziative bilaterali, rafforza ulteriormente l’Asian Investment Bank. Non solo, proprio nel suo intervento in occasione del Forum economico, annuncia che Pechino ha deciso di ampliare l’accesso al mercato per gli investitori stranieri e di costruire zone di libero scambio pilota di alto livello e che “Nei prossimi cinque anni, la Cina dovrebbe importare otto miliardi di dollari di merci, ottenere 600 miliardi di dollari di investimenti stranieri e fare 750 miliardi di dollari di investimenti esteri”.
Mentre Trump straccia tutti i trattati, la Cina propone la costruzione della zona di libero scambio dell’Asia Pacific e vuole negoziare il Regional Comprehensive Economic Partnership per formare una rete globale di accordi di libero scambio, che si aggiungerebbe alla “Nuova via della seta”, iniziativa strategica globale, in corso da tre anni, attraverso cui oltre 100 paesi ed organizzazioni internazionali hanno firmato accordi di cooperazione con la Cina.
Stando quindi alle dichiarazioni attuali sembra profilarsi in modo sempre più evidente uno scenario in cui la Cina, concorrente economico diretto degli imperialisti a stelle e strisce, si offre al mondo come alternativa al modello Trump, promotore invece di un ritorno al protezionismo che trova anche nel vecchio continente non pochi sostenitori come Le Pen e raccoglie i suoi frutti più evidenti ad esempio nella Brexit. La tendenza protezionistica caratterizza peraltro i rapporti tra i paesi del G20 già da qualche anno, portando nel 2016 la crescita degli scambi a +2,9%, dato significativo se confrontato con quella registrata mediamente nel periodo 2000-2007 (+7,3%).
Si potrebbe dire quindi che i due campioni sono nell’arena e mentre si fronteggiano sperano di accaparrarsi il consenso del pubblico ma uno di essi sembra molto più contraddittorio nelle sue mosse. La differenza dell’atteggiamento in parte è dovuta anche al differente stadio dei due campioni: l’imperialismo statunitense, appesantito dalla crisi fa fatica a reggere il ritmo di quello in ascesa di Pechino. Ma questa non è la sola ragione a determinare la contraddittorietà della Casa Bianca nei rapporti con gli imperialisti rivali.
Infatti, se con Pechino Trump sembrava determinato ad affilare i coltelli, in queste prime settimane di mandato in realtà alle provocazioni sono seguite dichiarazioni più concilianti, come quella sull’“unica Cina”. Evidentemente è prevalsa una real politik che tende ad evitare lo scontro diretto con il gigante asiatico, ma a tenere comunque accesi i focolai di tensione in Estremo Oriente per vie traverse. Ne sono prova le dichiarazioni di appoggio di Trump all’espansionismo giapponese rispetto alle isole Senkaku-Diaoyu, ribadito durante l’incontro a febbraio con il primo ministro nipponico Abe, ma anche le continue minacce alla Corea Democratica.
Dall’altro lato se l’amministrazione Trump nei confronti di Mosca aveva manifestato la volontà di distendere la tensione, non potendo permettersi di tenere aperti due fronti e preferendo di conseguenza concentrarsi contro la rivale commerciale, in realtà le colombe di pace sono state impallinate prima di arrivare a destinazione. A dimostrarlo, ad esempio, l’incontro tra Tillerson e Lavrov all’insegna del dialogo, svoltosi a margine del G20 a Bonn il 16 febbraio. Alla fine i convenevoli non hanno comunque portato un effetto pratico sul tema scottante delle sanzioni, imposte dal 2014 da Washington per il ruolo che la Russia ha nella crisi ucraina e rispetto al fronte del Donbass, e dunque non c’è stato nessun passo indietro da parte statunitense. Inoltre anche rispetto al fronte siriano, i giornali del 16 febbraio scorso annunciavano la volontà del Pentagono di inviare forze convenzionali di terra nel nord della Siria “per imprimere un’accelerazione alla lotta contro lo Stato Islamico”, che significa voler prendere Raqqa per farne un contraltare da opporre alla vittoria russa-siriana di Aleppo.
Ma perché questo atteggiamento contraddittorio da parte di Washington? Esso è il prodotto dello scontro in atto all’interno della borghesia imperialista yankee che vede contrapporsi una fazione sostenitrice della linea incarnata da Trump, che ha saputo durante le elezioni accattivarsi i voti del mal contento popolare, e l’altra che puntava sulla Clinton e che oggi raccoglie sotto l’etichetta dei “globalisti” Fed, multinazionali come Mc Donald’s, la magistratura delle Corti Federali, la Cia e l’Fbi. In questo contesto si spiegano il caso Flynn, la sollevazione contro il “muro di Trump” che esiste dal 1994 e porta le impronte del Cinton marito e gli altri scoop che attaccano il neo inquilino della Casa Bianca. Da una parte abbiamo la linea strategica incarnata da Trump, che applica il protezionismo e intende, almeno nella fase attuale, arrivare ad una spartizione del globo con la Russia per concentrarsi su altri nemici (Cina, Iran, islamisti sunniti…), dall’altra c’è quella già incarnata da Obama, che continua a concepire il rafforzamento dell’imperialismo Usa all’interno del “liberoscambismo” globale e punta all’innalzamento dello scontro sopratutto con la Russia.
Questa partita è ancora lontano da essere conclusa e determina la contraddittorietà e la debolezza della politica estera della Casa Bianca a cui fa contrappunto invece una politica estera russa all’insegna di un maggiore protagonismo ufficiale.
Infatti, se la strategia Obama ha registrato un fallimento storico, Putin ora va all’incasso forte della vittoria ad Aleppo che gli ha garantito in Medio Oriente una nuova egemonia, tale non solo da farsi promotore della Conferenza di Astana per la Siria, con cui sta rafforzando il rapporto con Erdogan per destabilizzare la Nato dal suo interno, ma anche di proporre un incontro tra Anp e Netanyahu a Mosca. Va detto però che l’ascesa della Russia nel mondo arabo non è isolata al territorio siriano ma passa anche da Bengasi al Cairo, tornando a Teheran. Infatti, con l’Egitto di Al Sisi, nonostante gli storici rapporti con gli USA, dal febbraio 2015 è stata avviata una zona di libero scambio con l’Unione economica euroasiatica, fioriscono gli accordi bilaterali e rispetto alla Libia Mosca ha deciso di appoggiare ufficialmente il generale Haftar, strettamente legato a Il Cairo.
Per quanto riguarda i rapporti russo-iraniani, oggi essi appaiono più che mai centrali anche per capire l’evolversi della contraddizione interimperialista tra Russia e Usa. Con l’Iran le relazioni russe, che passano dagli accordi sul petrolio [1] all’intesa sul campo militare, sono infatti ben cementate da anni e la guerra in Siria non ha che rafforzato questo asse, diventato strategico con le basi di Mosca in Siria e le forniture agli ayatollah dei missili S300. In questo senso le dichiarazioni di Trump fortemente anti iraniane e lo spostamento, a inizio febbraio, di navi da guerra Usa, inglesi, francesi e australiane davanti al Bahrein per simulare un attacco all’Iran, non vanno certo nella direzione della conciliazione con Mosca sbandierata da Trump. Quest’ultimo sta di fatto ponendo la questione dell’isolamento di Teheran come contropartita da riconoscere all’imperialismo Usa per portare avanti la sua linea di apertura a Mosca, anche rispetto agli interessi degli alleati mediorientali come Israele e le petromonarchie sunnite. Ma la Russia non sembra voler cedere su un rapporto strategico, come quello con l’Iran, in nome di un’apertura fin troppo debole, e non sta dando i segnali che l’amministrazione Trump pretenderebbe, portando sempre più quest’ultima a ricalcare le orme antirusse dei predecessori (vedi da ultimo le dichiarazioni del neopresidente sull’ampiamento dell’arsenale nucleare).
Rispetto invece alla Libia, il rilancio dell’imperialismo russo ci riconduce ancora una volta ai fallimenti della politica statunitense, ma anche all’iniziativa del “nostro” imperialismo. Sul terreno del paese nordafricano, il protagonismo di Putin si fa ufficiale mentre fino a prima manteneva un profilo meno esposto. Infatti, da tempo il Cremlino aveva puntato sul cavallo Haftar passando rifornimenti militari a Tobruk in cambio della promessa di una base a Bengasi. Ora con l’evolversi della situazione, che ha visto Bengasi passare a fine gennaio sotto il controllo del governo di Tobruk, procede anche lì all’incasso. Di questo deve ringraziare il blocco atlantico. Infatti dopo la “rivoluzione arancione” voluta da Obama che ha fatto precipitare la Libia nelle barbarie, ora l’imperialismo statunitense tenta di imporre il governo di Sarraj. Quest’ultimo ha un potere talmente debole da non riuscire nemmeno a controllare Tripoli, assistendo al continuo susseguirsi di golpe promossi dalle forze fedeli a Khalifa Gwell, ex primo ministro del disciolto governo islamista di salvezza nazionale. È evidente che il cavallo su cui stanno puntando gli imperialisti Usa risulta sempre più incapace di imporsi al comando di un paese ridotto a una polveriere di contraddizioni
dagli stessi attori che lo appoggiano ufficialmente, Italia in testa.
In questo quadro infatti l’imperialismo italiano, fino a poco tempo fa riottoso a volersi schierare con uno dei contendenti regionali, sembra essersi deciso. A causa del mutamento degli equilibri nell’area e del posizionarsi nella regione della Tripolitania dei maggiori interessi in campo energetico dell’imperialismo italiano, Roma ha la necessità di rafforzare il suo legame preferenziale con la dirigenza di Tripoli tramite il sostegno al premier al Sarraj. Proprio con quest’ultimo infatti lo scorso 2 febbraio Gentiloni ha siglato un accordo sulla gestione dei flussi migratori, promettendo aiuti in cambio del controllo delle partenze dalla Libia ed un’implementazione del sistema di rimpatrio. Con la firma di questi accordi, il governo italiano ha in pratica riconosciuto al Governo di Accordo Nazionale l’autorità esclusiva nella gestione della migrazione, rinunciando ad una politica di mediazione tra le parti. L’accordo di per sé, ovviamente, punta principalmente ad una cooperazione vista come mero tentativo di stabilizzare la situazione libica “difendendo” al contempo i confini europei sulla pelle delle migliaia di persone che per scappare dalla guerra e dalla
fame si trovano rinchiuse in campi di prigionia, in condizioni inumane. È chiaro che l’Italia sta pagando un prezzo per questo appoggio ad al Sarraj, nel momento in cui la dirigenza di Tobruk e il generale Haftar vedono ampliare il proprio consenso all’interno del paese, incassare l’appoggio di Mosca e tentare di premere su Washington perché revochi l’appoggio a Tripoli, visto che Trump ha promesso una rottura con l’era Obama.
È interessante anche analizzare chi è il personaggio che troviamo dietro a questi accordi, il Ministro dell’interno Domenico “Marco” Minniti. Uomo fedelissimo alla Nato e legato ai servizi segreti, si è distinto negli anni per la lotta contro il “pericolo” dell’immigrazione e del “terrorismo internazionale”. L’accordo con la Libia, infatti, è il risultato del tour che Minniti ha organizzato per incontrare capi di Stato e ministri del mediterraneo con l’obiettivo di rafforzare il controllo militare delle frontiere ed accelerare le espulsioni. Sul fronte interno, ovviamente, lo scopo del Viminale è
quello di riuscire a raddoppiare in pochi mesi il numero delle espulsioni. In tutto il territorio nazionale verranno istituiti nuovi Cie da 100 posti circa nei pressi di porti e aeroporti.
Se è chiaro che queste manovre, sul piano internazionale, rimandano al ruolo dell’imperialismo italiano in Nordafrica, sul fronte interno esse puntano a costituire, per il Pd e il governo Gentiloni, dei tentativi di rafforzare la propria egemonia con misure e toni tipici della destra leghista, strumentalizzando ancora una volta la questione dell’immigrazione come arma di distrazione e divisione delle masse, oltre che praticare aggravare il terrorismo di Stato contro il proletariato immigrato per renderlo ancora più docile, sottomesso e ricattabile sui posti di lavoro e nella società.
In senso più generale, il governo italiano si sta riorganizzando complessivamente sul fronte esterno della guerra. L’idea di base è di accelerare sul piano legale la partecipazione di militari italiani ad operazioni militari in giro per il mondo, liquidando le procedure istituzionali esistenti e annullando ogni maschera e remora ideologica pacifista che potrebbe derivare dal portato dell’art. 11 della costituzione. Infatti, con la legge 145/2016, entrata in vigore il 31 dicembre 2016, rubricata “Disposizioni concernenti la partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali”, si aggira il vincolo costituzionale, dal momento che prevede che l’invio di militari fuori dal territorio nazionale possa avvenire in risposta ad obblighi di alleanze, in base ad accordi internazionali o intergovernativi, o per eccezionali interventi umanitari, quindi di base per qualunque ragione. Si è arrivati così ad una legge organica dello stato disciplinante i motivi e le modalità di invio delle operazioni militari, che hanno visto negli anni il dispiegamento nei diversi fronti di migliaia di soldati e miliardi di euro spesi.
Sempre in questa direzione va anche il disegno di legge che il consiglio dei ministri ha approvato il 10 febbraio al fine di implementare il “Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa” elaborato dal ministero della difesa nel 2015 e costituente una sorta di dottrina generale, programma strategico di fase e riorganizzativo per il militarismo imperialista italiano. Tale programma ridefinisce il compiti della forze armate non più come “difesa della patria” (art. 52 costituzione) ma secondo quattro obbiettivi ovvero: la “difesa degli interessi vitali del paese”, il “contributo alla
difesa collettiva dell’Alleanza Atlantica e al mantenimento della stabilità nelle aree incidenti sul Mare Mediterraneo”, la “gestione delle crisi al di fuori delle aree di prioritario intervento, al fine di garantire la pace e la legalità internazionale” e la “salvaguardia delle libere istituzioni”.
In particolare, l’Italia si configura anche sul piano legale come una potenza imperialista che ha, nelle aree che si affacciano al Mediterraneo, il proprio “spazio vitale” di intervento, sia per difendere i propri interessi economici e strategici, sia per difendere gli interessi degli imperialisti atlantici nell’ambito della Nato. La “salvaguardia delle libere istituzioni”, posto come obbiettivo interno delle forze armate, richiama ad una loro funzione di controllo interno, peraltro con la retorica tipica del golpismo.
Del resto, la fedeltà del governo italiano alla Nato infatti non è mai stata messa in discussione, tanto che durante la prima chiamata del presidente Usa Trump a Gentiloni è stata ribadita la «storica amicizia e collaborazione tra Italia e Usa», nel quadro della «importanza fondamentale della Nato».
Ma non solo, dato che Trump ha voluto sottolineare nuovamente la necessità che tutti gli alleati si incarichino di pagare la spesa per la difesa impegnandosi a portarla al 2% del Pil, nel caso italiano ciò significherebbe passare a 100 milioni di euro al giorno. E infatti, nel “Libro Bianco della guerra”, l’industria bellica viene definita “pilastro del Sistema Paese” e viene affermato che “dirigenti provenienti dal settore privato” possano ricoprire i ruoli di Segretario generale.
All’interno di questo quadro appare chiaro dunque come la Nato non sia assolutamente «obsoleta», dato che è riconosciuta dalla stessa Unione Europea come il “fondamento della difesa collettiva”.
Tanto per gli Usa quanto per gli imperialisti europei la Nato rimane strumento irrinunciabile da rilanciare in vista dello sviluppo delle tendenza alla guerra che caratterizza sempre più le relazioni interimperialiste in questa fase. Infatti, al contrario delle dichiarazioni iniziali di Trump, la Nato è ancora assai utile allo Zio Sam non solo come alleanza bellica ma anche come vincolo per condizionare la politica estera dei suoi alleati. Dall’altro lato gli alleati europei imbarcatisi, con il blocco atlantico guidato da Obama, nell’avventura militare sul fronte ucraino non vogliono essere lasciati soli dall’alleato d’oltreoceano e guardano con preoccupazione all’avvicinamento di Trump a Putin. Timore effettivamente concreto visto che l’Europa appare oggi molto divisa e che rischia di fare la fine del vaso di coccio tra quelli di ferro nella corsa alla spartizione tra Usa e Russia. Le divisioni interne all’Ue rispecchiano le due linee emerse prima all’interno della borghesia statunitense ed appaiono evidenti nelle reazioni contradditorie all’elezione di Trump. In questo senso va registrata la firma dell’accordo Ceta col Canada in risposta alle chiusure di Trump e la critica del presidente Hollande all’appoggio di Trump alla Brexit. Dall’altro la cancelliera tedesca, invece, dopo le schermaglie sull’Euro, ha invitato Trump al G-20 che si terrà a luglio ad Amburgo al fine di “assicurare la pace e la stabilità” attraverso la Nato. Nel frattempo però viene proposto il Libro Bianco della Commissione europea, documento base da cui verrà prodotto quello che sarà firmato il 25 marzo a Roma, che tra le varie aree di intervento annovera anche la difesa comune, tanto auspicata da Junker ma che trova tra gli stati aderenti reazioni contrastanti.
In questo clima l’Italia cerca di giocare su due fronti per perseguire i suoi interessi sviluppando una rete di relazioni anche contradditorie tra loro rispetto alle partite a cui mirano i vari partner. Infatti, mentre giura amicizia eterna a Trump, sigla accordi bilaterali per 5 miliardi di euro con Xi Jinping e vota il Ceta. In sostanza nel groviglio di contraddizioni che determinano i rapporti sempre più conflittuali tra gli imperialisti, quelli italiani ben lungi dall’essere i codisti che si muovono costretti dai potenti alleati tessono la loro tela di relazioni per potersi assicurare i propri vantaggi da ognuna di esse.

SULLA SITUAZIONE INTERNA

Abbiamo già svolto nelle scorse note alcune riflessioni in seguito alla vittoria dei no al referendum costituzionale del 4 dicembre e alle conseguenti dimissioni di Renzi da presidente del consiglio. Ci sembra utile qui riprendere l’argomento visti gli strascichi che tuttora stanno caratterizzando la politica istituzionale del nostro paese.
Se da una parte, con la nomina del nuovo governo Gentiloni, si è nuovamente imposto il percorso definito dall’Ue e declinato da Napolitano di evitare a tutti i costi le elezioni per accelerare sulle riforme antipopolari, dall’altra ne esce sempre più compromessa l’egemonia politica della borghesia sulla classe costringendosi a mille artifici pur di rimanere in sella. Ultimo eclatante esempio è costituito dall’abolizione per decreto del CdM dei voucher con il chiaro intento di scongiurare il referendum promosso dalla Cgil e ricevere un’altra pesante sconfitta che poteva aprire la strada alla messa in discussione dell’intero jobs-act e sconfessare così un pilastro fondamentale dell’impianto legislativo filo padronale. Agli strali di confindustria che ha prontamente inneggiato al tradimento del governo, sono subito seguite le rassicurazioni sulla messa a punto di nuovi strumenti sullo stile dei mini job alla tedesca. Insomma alla perdita di egemonia della borghesia si accompagna una via sempre più tortuosa sulla strada delle controriforme volute dal capitale. Il che, ben inteso, non le impedirà comunque di percorrerla. Probabilmente la compagine governativa arriverà a pezzi in quanto a legittimità politica alle prossime elezioni. Ma farà di tutto per arrivarci con il bottino delle riforme e delle privatizzazioni confermate dal ministro Padoan.
Altro aspetto da rilevare nel dopo 4 dicembre, favorito anche dalla attuale legge elettorale di stampo proporzionalista, è, da una parte, la spaccatura del Pd che assume connotati estremamente contraddittori se non ridicoli in quanto svoltasi in rottura alle politiche renziane, ma saldamente decisa a sostenere il governo Gentiloni che quelle politiche vuole mandare avanti (in realtà un mero calcolo elettorale in quanto gli scissionisti capeggiati da Bersani e D’Alema ancora non sono pronti a presentarsi) e dall’altra il ridefinirsi e/o proliferare della varie composizioni della sinistra riformista tutte alla caccia dei voti perduti dal Pd in seguito alle politiche antipopolari di cui si è fatto promotore in questi anni.
L’ipotesi riformista cerca cioè di riorganizzarsi nell’illusione che la vittoria del 4 dicembre scorso al referendum istituzionale apra uno spazio politico in cui sia possibile ottenere qualche briciola di benefici sociali da vendere in cambio dei voti, o che quantomeno si ricrei lo spazio per fare promesse illusorie che abbiano almeno uno straccio di credibilità. Ma perché ciò accada serve che i morsi della crisi economica si attenuino. Il che non accade affatto nonostante la propaganda e i media borghesi facciano di tutto per dimostrare il contrario.
Se vi è un elemento che caratterizza l’attuale presidente del consiglio rispetto al predecessore è uno stile comunicativo del tutto diverso: dalla roboante superbia di Renzi siamo passati alla pacatezza pretesca di Gentiloni. Ma la fuffa propagandistica accomuna entrambi.
Con toni sicuramente più misurati dell’ex primo ministro, anche Gentiloni non ha perso tempo ad affermare che “ci siamo rimessi gradualmente in carreggiata (…) Veniamo da una crisi terribile (…) abbiamo invertito la tendenza nei grandi dati aggregati dell’economia”, ma puntualmente i dati oggettivi lo hanno smentito. Lo testimonia il nuovo crollo della produzione industriale, che a gennaio ha fatto il tonfo maggiore da cinque anni in qua. Così come l’ennesimo record del debito, giunto a fine 2016 a 2.217 miliardi di euro. Anche l’ultimo rapporto dell’Ocse, pur affermando che l’economia sarebbe in ripresa (nel 2017 e nel 2018 l’Ocse stima una crescita del prodotto interno lordo dell’1%, con il rapporto tra deficit e pil in calo dal 2,3% di quest’anno al 2,2% del 2018) ammette che la produttività continua a diminuire, il debito pubblico rimane elevato e il quadro finanziario italiano risulta vulnerabile. E, ovviamente, l’Ocse non fa altro che premere per proseguire sulla strada delle cosiddette “riforme”, che avrebbero ottenuto “buoni risultati”, in coerenza con gli interessi di classe del grande capitale dell’area euro-atlantica alla cui elaborazione e perseguimento è finalizzata.
Le compagini governative italiane negli ultimi anni hanno sempre toccato il tasto dei tagli ai servizi, delle privatizzazioni e delle controrifome di attacco alle conquiste delle masse popolari e il governo Gentiloni non si discosta da questa imposizione e per mano del fido Padoan continua in quest’opera. Con dichiarazioni come «un paese ad alto debito non può crescere in modo stabile se non lo riduce»…«le privatizzazioni fin qui fatte e quelle che faremo non tolgono lo Stato dal posto di guida, lo mantengono là con più strumenti a sua disposizione. Gli obiettivi strategici che lo Stato affida alle sue partecipate come Enav, Poste o, nel passato ad Eni e Enel, rimangono pienamente operativi. I timori rispetto a questo tema sono idee semplicemente sbagliate» rilasciate nel giorno della presentazione del rapporto Ocse sull’Italia Padoan vuole giustificare come necessarie le misure di privatizzazione e taglio dei servizi. Nonostante le precedenti affermazioni in cui, più per darsi un tono verso l’opinione pubblica di fronte alle continue pressioni dell’aggregato Ue affinché venissero resi efficienti i conti pubblici, dove si prendevano posizioni contro manovre economiche incentrate solo sul risparmio della spesa pubblica dichiarando che invece c’era bisogno di manovre espansive che rilanciassero l’economia, ora si procede più speditamente ai tagli e alle privatizzazioni, come stabilito dal Def per il 2017.
Nella fibrillazione politica nata dopo il referendum costituzionale del dicembre scorso che sta sconquassando il Pd, principale partito sostenuto e fedele agli interessi della borghesia imperialista nostrana, ora si levano alcune voci di esponenti del Pd e di Renzi stesso, che vogliono moderare questa linea delle privatizzazioni del governo, tra l’altro in precisa continuità con ciò che era stato deciso dal governo Letta prima e dal governo Renzi poi, ma sono più che altro delle affermazioni per darsi una parvenza di linea sociale, in questa fase di perenne campagna elettorale dove tutti si ergono a difesa dei lavoratori e delle masse popolari, addirittura lo scissionista D’alema.
Questa incapacità di affrontare la crisi economica che da anni attanaglia il sistema capitalista e la conseguente crisi di legittimità politica e di egemonia sulle masse popolari da parte della borghesia da un impulso ancora maggiore alla necessità del sistema di imporre delle strette repressive sempre più incisive sul movimento e sulle lotte, cavalcando la demagogia della “sicurezza” e della “legalità” (ovviamente borghese). Il 15 febbraio scorso il Consiglio dei ministri ha dato il via all’approvazione di due decreti su immigrazione e sicurezza urbana, proposti dal ministro dell’interno Minniti. Nella conferenza stampa di presentazione di queste misure legislative il caro ministro le ha introdotte con lo slogan “la sicurezza urbana va intesa come un grande bene pubblico”. Con queste misure legislative i Cie (che dopo le rivolte degli anni scorsi erano stati chiusi e ne rimanevano solo quattro in tutta Italia) diventano Cpr, centri per il rimpatrio, e ne nascerà uno per regione e i fondi per i rimpatri coatti saranno raddoppiati.
I profughi non potranno presentare ricorso in caso di respingimento della loro domanda d’asilo e respinta la domanda si perdono ogni diritto all’accoglienza. Inoltre dovranno prestare servizio lavorativo (gratuito) obbligatorio nei comuni, che in accordo con la prefettura potranno richiederne l’utilizzo per attività di “pubblica utilità”.
Inoltre con questi decreti governativi è istituita la forma del Daspo urbano dei sindaci che scatta per quei soggetti che le autorità ritengano abbiano commesso delle violazioni di alcune regole in merito al “decoro urbano” in un determinato territorio. Questo daspo può valere per l’intero territorio comunale o anche solo per alcuni quartieri.
La linea antipopolare del governo emerge anche dalle misure stabilite nel Def e che ha visto la rivolta del settore dei tassisti e degli ambulanti per difendere il proprio posto di lavoro, minacciato dalle liberalizzazioni deciso nel piano di stabilità del governo, e che ha portato al ritiro, anche se momentaneo, della misura governativa.
Nell’attacco alle conquiste dei lavoratori e delle masse popolari e per fermare ogni possibilità di protesta e di lotta stato e padroni usano tutte le armi a loro disposizione ed un esempio è dato dalla vicenda del Si Cobas e l’arresto, poi tramutato in obbligo di dimora, di fine gennaio scorso del dirigente sindacale Aldo Milani. Con l’accusa di intascare mazzette, poi rivelatasi completamente falsa, Milani è stato arrestato a Modena al termine di una trattativa sindacale alla Alcar Uno che verteva sulla buonuscita per 55 lavoratori licenziati. Ma la risposta contro questa accusa infamante è stata immediata con il presidio di centinaia di lavoratori davanti alla questura il giorno stesso dell’arresto e con una manifestazione a Modena nel febbraio scorso partecipata da migliaia di lavoratori e che ha bloccato la città e la stazione del centro cittadino.
I padroni dopo aver provato in ogni modo a fermare le lotte che da anni si stanno sviluppando nella logistica e che vedono migliaia di lavoratori scioperare e conquistare migliori salari e garanzie di lavoro, utilizzando le forze di polizia per sciogliere i picchetti, intimando fogli di via agli attivisti sindacali, cercando di raggiungere accordi con i confederali per tagliare fuori dalle vertenze i sindacati più combattivi ora ha utilizzato l’ennesimo tentativo per bloccare le lotte dei facchini del settore della logistica ma ha fallito ancora una volta, e questo grazie alla risposta determinata principalmente dei lavoratori.
Da segnalare sono le lotte del movimento studentesco, come nel febbraio scorso a Bologna dove gli studenti hanno occupato la biblioteca dell’università, dopo che il rettore aveva imposto l’utilizzo dei tornelli all’entrata, scontrandosi con la polizia intervenuta per lo sgombero e che nei giorni successivi hanno attuato diverse manifestazioni di piazza in risposta all’attacco repressivo.
All’università Sapienza di Roma, il 14 marzo scorso, i collettivi studenteschi hanno contestato la ministra dell’istruzione Fedeli al convegno intitolato “Dopo la riforma: università italiana, università europea?”, tentando di entrare alla facoltà di Lettere dove si teneva il convegno ma bloccati dalla celere, decidendo poi di trasformare il presidio in corteo per le vie adiacenti all’università.
Per ciò che riguarda il movimento antagonista più complessivo importante è stata la data dell’11 marzo scorso a Napoli contro la presenza di Salvini in città, presenza garantita dall’intervento del ministro Minniti e dalla prefettura, che ha visto migliaia di partecipanti determinati alla manifestazione di protesta e alla battaglia che ne è seguita con le forze dell’ordine e che ha imposto la chiusura dell’area dove il fascioleghista teneva il comizio.

CONCLUSIONI

In questa situazione di perdita di egemonia della borghesia e di crisi dell’impianto riformista si possono aprire enormi spazi per l’ipotesi rivoluzionaria. Per contendere l’egemonia al capitale e far si che il malcontento dei proletari non venga incanalato nelle inconcludenti e velleitarie spire del populismo o del riformismo occorre riuscire a sviluppare percorsi politico-organizzativi concreti che sappiano porre all’interno della lotta di classe la messa in discussione e la distruzione del sistema di sfruttamento capitalistico come unica e duratura soluzione ai problemi che lo stesso sistema scarica sui lavoratori e sulle masse popolari nel loro insieme. Come compagni dobbiamo porci il compito non solo di agitare delle parole d’ordine, ma anche e soprattutto porci il problema di sviluppare quelle parole d’ordine che ci permettano di organizzare i proletari unendo le loro proprie esigenze particolari all’ideale generale della conquista di una nuova società che non può avverarsi se non abbattendo quella in cui viviamo. Occorre quindi che i compagni si conquistino internità alla classe ed osino sperimentare modi e forme necessari ad organizzarla.
Un primo banco di prova che come compagni del Collettivo Tazebao ci stiamo dando è quello della campagna contro la guerra che ci troverà impegnati nel prossimo periodo. E’ certamente un tema di carattere generale, ma che ha mille risvolti nel concreto della vita di tutti i proletari in moltissimi settori. Ed è un tema che stante lo sviluppo della tendenza alla guerra diverrà certamente sempre più tema di mobilitazione e di dibattito non solo tra compagni ma anche tra settori di classe.
Per approfondimenti rinviamo al sito e ai materiali della campagna.

GOVERNO GENTILONI GOVERNO DEI PADRONI
ABBATTIAMOLO CON LA LOTTA DI CLASSE

NO ALLA GUERRA IMPERIALISTA
FERMIAMOLA CON LA LOTTA DI CLASSE

Collettivo Tazebao

24 Marzo 2017


[1] Ad esempio a dicembre 2015 è stato firmato un memorandum d’intesa del valore di circa 2,2 miliardi di dollari fra il ministero iraniano del petrolio e il colosso petrolifero russo Gazprom, per lo sviluppo nel territorio iraniano dei giacimenti di Cheshme Khosh e Changouleh. A rimarcare la stretta cooperazione Bijan Zangeneh, ministro iraniano del petrolio, che dichiara: “La maggior parte dei giacimenti petroliferi iraniani è in fase di sviluppo da parte di imprese russe”, incontrando a Teheran il ministro russo dell’Energia, Alexander Novak, in occasione della firma di due nuovi accordi con l’Iranian Central Oil Fields Company.