Note di fase

Note di fase n.16

Fine 2016 inizio 2017


SULLA SITUAZIONE INTERNAZIONALE

«La mia agenda sarà fondata su un semplice principio di base: mettere l’America al primo posto. Sia che si tratti di produrre acciaio, costruire auto o curare malattie, voglio che la prossima generazione di produzione e innovazione avvenga proprio qui, nella nostra grande patria: l’America che crea ricchezza e lavoro per i lavoratori americani». Con queste parole Donald Trump, prossimo inquilino della Casa Bianca dal 20 gennaio, chiarisce in termini populistici e sciovinisti la linea guida della sua futura presidenza.
L’elezione del magnate repubblicano segna un cambiamento di marcia strategico dell’imperialismo yankee nell’attuale fase di crisi: dalla precedente tendenza all’espansione e integrazione dei mercati mondiali all’attuale ricetta del protezionismo, con la quale si ripone nel cassetto il neoliberismo e si supera la fase della tendenza alla globalizzazione, puntando alla difesa dei propri spazi di rendita e profitto mediante l’arroccamento a difesa della produzione e del mercato interno. Ad una “guerra economica di movimento”, che ha segnato la recente fase mondiale nello scontro tra vecchie potenze imperialiste (soprattutto Usa e Ue) e nuove (i Brics), si sostituisce una fase di “guerra economica di posizione” all’insegna del protezionismo e prendendo atto del declino del commercio globale.
Nella direzione della chiusura non si sta infatti muovendo solo la borghesia a stelle e strisce. Il Fondo Monetario Internazionale, infatti, rileva che nel 2014-15 il volume delle esportazioni globali è diminuito mediamente del 2% rispetto al periodo 2011-13 e del 5% rispetto al 2000-2010. Afferma che tale stazionarietà degli scambi è dovuta alla mancanza di nuovi accordi commerciali e alla contrazione delle catene di fornitura globali, a cui vanno aggiunti pochi investimenti e una generale debolezza economica. Inoltre, un recente rapporto del Trade global alert addebita l’infiacchimento del commercio globale alle misure e politiche protezionistiche adottate da molti stati del G20 per colpire i concorrenti.
E così il neoeletto presidente ha voluto ritornare, subito dopo la vittoria, su uno dei cavalli di battaglia della sua campagna elettorale e cioè l’attacco ai trattati commerciali frutto della politica economica di Obama, volta alla promozione della creazione di un mercato unificato ad egemonia statunitense. «Emetterò una notifica sull’intento di ritirarci dalla Trans-Pacific Partnership (Tpp, ndr), un potenziale disastro per il nostro Paese». Con queste parole Trump ha messo in cima all’agenda delle cose da fare nei suoi primi cento giorni di presidenza l’annullamento dell’accordo commerciale con i paesi del Pacifico, linea perfettamente conseguente alle sue intenzioni di voler tutelare la produzione e il mercato statunitense, in cui rientrano anche il ripensamento del Nafta e del Ttip.
Si badi bene che questa svolta dell’economia Usa non significa rinunciare alla proiezione imperialista globale del capitale a stelle e strisce. Significa invece abbandono di ogni regola formale, che i trattati di libero commercio prevedono, nel senso della parificazione delle condizioni dell’interscambio commerciale tra i paesi che li contraggono. La linea imperialista propugnata da Trump avversa questo liberoscambismo perché la debolezza del capitalismo Usa in questo momento è tale per cui quel sostanziale predominio yankee che i trattati di libero scambio hanno sempre garantito, dietro l’intelaiatura formale delle “regole comuni commerciali”, di fatto tende ad essere posto in dubbio dalla crescita di altri capitalismi. Quest’ultima, per quanto relativa, essendo pur sempre viziata alle fondamenta dalla crisi generale, ha saputo sottrarre quote di mercato, sia interno che mondiale, agli Usa.
In altre parole, l’affermarsi della linea protezionista di Trump in rottura con la linea liberoscambista di Obama, è il riflesso della consapevolezza che quest’ultima nella fase attuale non è coerente con gli interessi dell’imperialismo Usa, sia perché oggettivamente il commercio globale è in decrescita e sia perché aprire nuove aree di libero mercato internazionale rischierebbe di rivelarsi un boomerang in termini di concorrenza per il grande capitale yankee.
L’esempio dei rapporti con la Germania è emblematico da questo punto di vista. Oggi il paese che presenta una maggiore compenetrazione tra l’economia globale e quella interna tra i facenti parte del G7 è Berlino, con un rapporto tra esportazioni-importazioni e pil al 89%. Per inciso nel 2013 il primato spettava agli Usa, con un rapporto però situato al 30%. E infatti gli Stati Uniti sono divenuti nel primo semestre 2015 il primo paese per esportazioni dalla Germania, cioè il principale mercato di sbocco dei prodotti tedeschi.
Altro dato che porta acqua al protezionismo sono le politiche di svalutazione monetarie che molti paesi, negli ultimi anni, hanno intrapreso proprio per rendere più competitive le proprie merci. Tra di essi, vi sono anche tradizionali alleati degli Usa, come il Giappone, che il candidato repubblicano ha esplicitamente attaccato, per tale motivo, durante la campagna elettorale. [1]
In questa situazione, la linea di Trump è dunque quella di proteggere il mercato interno piuttosto che arrischiarsi ad aperture liberoscambiste, che in questa fase andrebbero ad erodere ancora di più lo spazio di profitto del grande capitale statunitense. Piuttosto che azzardare trattati di tipo interregionale, come il Nafta, il Tpp e il Ttip, gli interessi di quest’ultimo possono essere meglio tutelati da accordi bilaterali, che consentirebbero agli Usa di stabilire condizioni favorevoli per la propria supremazia al singolo paese. Il futuro presidente sembra deciso a perseguire la linea protezionista anche a costo di imporla alle multinazionali, sia yankee che straniere, riconvertendone le strategie economiche in senso favorevole agli interessi complessivi e strategici dell’imperialismo statunitense.
L’altro obbiettivo del protezionismo promosso da Trump è quello di rafforzare il processo di reshoring della produzione da parte statunitense, già avviato dalla presidenza Obama, ovvero il riportare in patria il settore manifatturiero che, negli anni della massima espansione degli investimenti Usa nel mondo, è stato esportato in altri paesi, sopratutto in Cina. L’interesse non è solo quello di rimediare al deficit commerciale con Pechino, che ha raggiunto il record di 365,7 miliardi di dollari nel 2015, pesando come non mai sull’economia di Washington, ma anche quello di razionalizzare la divisione internazionale del lavoro secondo le strategie della guerra imperialista. La Cina costituisce infatti il più importante rivale strategico degli Usa per il predominio imperialista sul piano globale e il 60% delle imprese statunitensi hanno già riportato la produzione in patria, ritirando investimenti da tale paese.
Solo riportando la produzione di valore (e plusvalore) in patria, gli imperialisti statunitensi possono pensare di iniziare a concorrere alla pari con un gigante asiatico che, forte del proprio avanzamento industriale, sta imponendo ai rivali d’oltre Pacifico anche la supremazia finanziaria. Attualmente l’indebitamento statunitense nei confronti di Pechino è di 1.157 miliardi di dollari, pari al 30% dei 3.900 miliardi in titoli del tesoro e in altre obbligazioni federali oggi in mano a paesi stranieri.
E infatti oltre al reshoring, l’altra carta da giocare è quella di premere sulla Cina affinché essa desista dalle pratiche di cosiddetta manipolazione valutaria che, secondo Trump, rappresenterebbero una concorrenza sleale, sul piano dei mercati industriali e finanziari, a danno degli Usa.
La potenza asiatica si sta determinando come diretta concorrente globale allo Zio Sam e questo chiarisce le ragioni che soggiacciono alla volontà, già ripetutamente espressa da Trump, di un alleggerimento della tensione con Mosca per un maggiore impegno contro la Cina. I primi sintomi di questo cambio di indirizzo si sono già registrati, basti pensare alla famosa interurbana con Taiwan, alla messa in discussione del “principio dell’unica Cina”, alle critiche twittate rispetto alle politiche economiche e militari di Pechino e alle provocazioni contro la Corea Democratica.
Va nella direzione di instaurare un proficuo dialogo con Mosca la scelta del segretario di stato nella persona di Rex Tillerson, amministratore delegato di Exxon Mobil, nel ruolo del quale ha costruito amichevoli rapporti con Putin, saldati da numerose partecipazioni per lo sfruttamento dei giacimenti in Russia, tra cui un investimento di 2,2 miliardi di dollari nell’Artico. Certo è che per sedersi a trattare con Putin non basterà la voce roboante del miliardario newyorchese. Se la Russia può mettere sul piatto Aleppo, Trump non ha al momento una carta altrettanto alta da giocarsi nella partita siriana. In questo senso si spiegano i mesi di propaganda sulla campagna di Mosul, che sembrava sempre prossima alla “liberazione” ma sul cui fronte la situazione non sembra avviarsi ancora ad una risoluzione, e l’altrettanta campagna denigratoria rispetto alla liberazione di Aleppo da parte dell’esercito siriano e russo. Va sottolineato, però, che i toni distensivi con Mosca rivelano l’entità del fallimento della linea strategica di Obama e del Partito Democratico che hanno inanellato una serie di sconfitte politico-militari, dal fronte ucraino passando per quello libico fino a giungere a quello iracheno e siriano, tale da mettere in discussione l’egemonia yankee.
L’amministrazione uscente sta peraltro perseverando, pur negli sgoccioli del mandato, a creare un clima di forte tensione con Mosca, poiché una rilevante fazione di borghesia imperialista statunitense ritiene che quest’ultima debba essere considerata il principale rivale al primato Usa e dipinge come una sorta di tradimento degli “interessi nazionali” la linea di convergenza con Putin annunciata da Trump.
L’apertura alla Russia sicuramente però non rappresenterà l’archiviazione del bellicismo statunitense, ma semplicemente la sua rimodulazione in una strategia necessariamente meno avventurista di quelle praticate in senso fallimentare sia da Obama che da Bush. Ciò potrà significare meno ingerenze nelle sfere di influenza altrui ove queste non intaccano direttamente gli interessi statunitensi e dunque distensione con gli imperialisti russi che, in questi anni, hanno dimostrato di saper reagire con forza alle intrusioni di Washington nell’area ex sovietica e alle destabilizzazioni condotte attraverso le cosiddette “rivoluzioni arancioni”. Nella linea interpretata da Trump la Russia può essere una potenza con cui potersi spartire il mondo, perché direttamente non intacca gli interessi yankee, ma ha dimostrato di essere in grado di far barriera alle mire statunitensi. Contro la Cina, invece, bisogna premere politicamente e militarmente perché è un diretto concorrente economico.
Adottare una linea meno avventurista di Obama e Bush, significa inoltre rompere con un interventismo continuo e diretto, che non ha pagato in nessuna maniera per gli interessi statunitensi, sia in termini economici, con un bilancio militare oramai pressochè insostenibile, ma nemmeno in termini strategici, visto che le sconfitte politiche e militari, dalla Siria al Donbass, sono state via via più cocenti. Rompere con l’interventismo a tutto spiano implica far assumere ai propri alleati la responsabilità della propria difesa (ed è questo il messaggio che Trump sta lanciando all’Europa) e rinsaldare le alleanze dove invece gli Usa possono appaltare il controllo di aree geopolitiche alle forze capaci di mettere in campo autonomamente una propria linea di guerra imperialista. Trump sta operando in quest’ultimo senso rispetto ad Israele, auspicando di darle assoluta mano libera in Palestina e ponendo in discussione l’accordo con l’Iran, tanto avversato dai sionisti.
Uno dei primi effetti dell’elezione di Donald Trump riguarda sicuramente il fronte delle alleanze e degli schieramenti militari, con l’accelerazione di processi in realtà in corso già da molto tempo. Queste elezioni, insieme alla vittoria della Brexit, hanno riportato in primo piano la discussione sulla necessità di una difesa comune europea. Trump infatti ha definito, già durante la campagna elettorale, la Nato “obsoleta” perché sostenuta economicamente per la maggior parte dagli Usa, arrivando al punto di minacciare di mettere in dubbio l’impegno statunitense nei confronti dei paesi dell’Alleanza che “non pagano i loro conti” o “non rispettino gli obblighi nei confronti degli Stati Uniti”.
Nel 2015 gli Usa hanno finanziato da soli ben il 72% dell’intera spesa necessaria a sostenere le attività della Nato e altri quattro paesi fra i restanti 27 membri risultano aver rispettato l’impegno [2], adottato nel vertice dello scorso anno in Galles, di stanziare almeno il 2% del proprio pil per sostenere l’attività dell’Alleanza militare egemonizzata da Washington. Gli Stati Uniti, nell’attuale situazione mondiale sempre più complessa, non riescono più, con successo, ad essere il “poliziotto globale” di un tempo e, dunque, anche l’onere della spesa militare (e delle azioni belliche sul campo) deve essere maggiormente condivisa con gli alleati.
Ora che Trump intende ridimensionare la copertura militare statunitense sull’Europa e visto che l’Inghilterra, maggior potenza militare europea, ha abbandonato l’Unione, Bruxelles intende accelerare un processo di “difesa” comune che, comunque, si scontra con le contraddizioni presenti tra i diversi paesi europei, non completamente allineati ad interessi comuni. La proposta è quella di sviluppare una cooperazione maggiore tra i paesi già disponibili nel campo della ricerca militare e tecnologica, dello sviluppo, della produzione e dell’ammodernamento di piattaforme e sistemi militari necessari a consentire all’esercito europeo di svolgere i compiti di braccio armato dell’Unione. Ed è a questo obbiettivo che è stata dedicata la riunione congiunta dei ministri degli esteri e della difesa dei paesi aderenti all’Unione, lo scorso 14 novembre a Bruxelles. A sostegno di tale passaggio, la ministra della difesa italiana, Roberta Pinotti, aveva affermato che è ormai “giunto il tempo che l’Europa assuma maggiori responsabilità comuni e una propria capacità nel settore della difesa”. Secondo l’esponente dell’allora governo Renzi, oggi confermata nel ruolo nel governo Gentiloni, l’Ue dovrebbe, indipendentemente da quello che farà il futuro presidente degli Stati Uniti, “spendere di più e soprattutto spendere meglio. Negli ultimi 10 anni sono stati fatti dei tagli notevoli, senza precedenti, al bilancio della difesa: si sono tagliati a volte anche gli stessi assetti”, aggiungendo che “i paesi che hanno ridimensionato (la loro spesa per la difesa, ndr), lo hanno fatto in una prospettiva esclusivamente nazionale”. “In Italia, comunque – si è vantata la ministra – non si sta più tagliando [3]: c’è una stabilizzazione e una ripresa della consapevolezza dell’importanza di investire nella difesa. Riuscire a integrare le nostre risorse nelle eccellenze necessarie per il futuro, che sono molto costose, credo che ci permetterebbe di spendere molto meglio e in modo molto più efficace”.
Aldilà delle intenzioni e della propaganda da parte delle cancellerie europee, sempre più in difficoltà negli scenari globali e con un’Unione che appare come un vaso di coccio stretta tra Usa e Russia, va detto che il dato reale è comunque quello di un incremento delle loro spese militari nel corso del 2016, soprattutto per quanto riguarda i paesi confinanti con la Russia. Per quanto riguarda il fronte mediorientale, l’elezione di Donald Trump, unita alla crescente influenza russa nell’area, ha portato ad un cambiamento degli equilibri regionali. Le dichiarazioni del neo-presidente statunitense, che ha minacciato di rompere l’accordo del 2015 sul nucleare con Teheran, fa dietrofront rispetto al tentativo, dell’amministrazione Obama, di normalizzare i rapporti con l’Iran in chiave di gestione delle contraddizioni della regione, tentando di disarticolare l’asse Mosca-Teheran-Damasco e di porsi come arbitro del conflitto tra Iran e Arabia Saudita, legittimando l’impegno iraniano sul fronte iracheno al fianco del governo di Baghdad.
L’accordo siglato a fine novembre ad Algeri tra i paesi Opec per il taglio della produzione petrolifera, quindi, può essere interpretato come un tentativo dell’Arabia Saudita di lanciare un messaggio di supporto a Trump, visto che, con il prezzo al ribasso, il petrolio statunitense estratto con il fracking risultava del tutto fuori mercato.
Ma le dichiarazioni anti-Iran di Trump riflettono anche chiaramente il suo totale supporto ad Israele, contrario agli accordi tra Washington e Teheran. All’indomani delle elezioni americane, infatti, il primo ministro israeliano Netanyahu festeggiava la vittoria di un “vero amico dello Stato di Israele con il quale poter lavorare insieme per la sicurezza e la stabilità della regione”.
Trump ha immediatamente confermato la sua convergenza politica nei confronti di Tel Aviv e in particolare del governo di Netanyahu, nominando l’ultrasionista David Friedman nuovo ambasciatore statunitense in Israele. Dalle dichiarazioni di Friedman emerge chiaramente la sua avversione verso i palestinesi, tanto da voler favorire l’annessione definitiva della Cisgiordania e il riconoscimento di Gerusalemme capitale, oltre ad aver confermato che “tra l’amministrazione Trump e Tel Aviv, il livello di cooperazione strategica, militare e tattica raggiungerà livelli mai avuti in precedenza”. L’asse tra Trump e l’attuale governo dell’entità sionista si fonda sull’appoggio del primo all’espansione dei coloni in Cisgiordania, rispetto alla quale Obama ha sempre tentato di premere per porvi argine, ritenendolo il principale ostacolo alla ripresa del cosiddetto processo di pace, volto alla normalizzazione dell’occupazione della Palestina. Trump invece punta su Israele come caposaldo degli interessi statunitensi in un’area dalla quale l’interventismo di Bush e Obama si è rivelato pressoché controproducente per gli interessi Usa. Secondo la linea del magnate repubblicano, Israele va appoggiata ad ogni costo perché la sua presenza nell’area svolge una funzione di garanzia per gli interessi statunitensi meglio di qualsiasi intervento politico e militare da parte degli stessi Stati Uniti. Quest’ultimi, anche se costretti a disimpegnarsi dall’area o a riconoscervi una certa supremazia russa, avrebbero comunque le spalle coperte dal regime sionista.
Si spiega così l’astensione statunitense al voto delle Nazioni Unite del 23 dicembre sulle colonie in Cisgiordania. L’amministrazione uscente di Obama si è voluta togliere una pietra dalla scarpa nei confronti di Netanyahu e ha lasciato una polpetta avvelenata per quella entrante. Da parte sua, Trump, difronte ai latrati di rabbia del primo ministro israeliano, ha confermato che dal giorno del suo insediamento l’appoggio al regime sionista sarà incondizionato ed assoluto.
La rottura con le strategie internazionali dei predecessori messa in campo da Trump non ha dunque nulla da spartire con una svolta dal tradizionale bellicismo yankee, ma solo in una sua rimodulazione; lo conferma la nomina nel nuovo team presidenziale in posti chiave di ben tre generali in pensione: il segretario alla difesa James Mattis, il segretario alla sicurezza interna John Kelly e il consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn. Tutti fortemente contrari agli accordi con l’Iran.
Gli altri nomi, che compongo la rosa di Trump, vengono dal mondo del business e della finanza. Infatti, a differenza di ciò che emergeva dalla campagna elettorale, che presentava Clinton come la candidata prediletta dell’intera classe dominante, appare ormai chiaro come sia la vittoria di Trump a giovare invece maggiormente all’alta finanza o meglio ai settori al suo interno che perseguono una linea di deregolamentazione dei meccanismi speculativi e parassitari. Nonostante la retorica “anti-Wall Street”, utilizzata per conquistarsi il voto delle masse, uno dei punti fermi del neo-presidente è la liberalizzazione massiccia del sistema bancario, con l’abolizione della Dodd-Frank, la riforma del
2010 che limita le attività speculative delle banche al 3% del loro capitale e l’uso dei prodotti derivati. Ciò significa che la limitazione delle attività finanziarie, che Obama era stato costretto a inserire dopo i tracolli del 2006-2007, si conferma stare stretta ad una borghesia imperialista affamata di profitti e ancora assolutamente impossibilitata, visto la continuità della crisi, a ottenerli stabilmente sul piano della produzione o con attività finanziare più razionalizzate.
Trump dunque appare come un antiliberista sul fronte internazionale, per limitare gli spazi ai concorrenti degli Stati Uniti, e un iperliberista sul fronte interno. Rispetto a quest’ultimo ha infatti chiarito che tra le sue priorità ci saranno la cancellazione alle restrizioni sulla produzione di energia e il taglio alla regolamentazione delle imprese. La stessa squadra da lui scelta dimostra come la campagna elettorale all’insegna del populismo “anti establishment” sia stata solo un modo per incassare il voto dei lavoratori, dato che troviamo Steven Mnuchin, ex di Goldman Sachs, come segretario al tesoro, Wilbur Ross al commercio, un miliardario che ha utilizzato le leggi sul fallimento per arricchirsi, Stephen Bannon, esponente dell’estrema destra ed ex di Goldman Sachs, nominato a capo stratega, Andrew Puzder, amministratore delegato del colosso dei fast-food “CKE Restaurant”, tra i maggiori critici dell’innalzamento a livello federale della retribuzione minima dell’orario di lavoro, designato al lavoro e la miliardaria repubblicana Betsy Devos, sostenitrice della privatizzazione della scuola, all’istruzione.
In campo economico tale amministrazione dovrebbe puntare a realizzare il più ingente taglio delle tasse dai tempi di Reagan, riducendo l’aliquota dal 35% al 15% per le imprese e portando quella per gli individui al 33%. Secondo taluni economisti tale operazione insostenibile porterebbe a una crescita del deficit Usa al 5-6% del pil entro la legislatura ed andrebbe a vantaggio del 0,1% dei contribuenti più ricco, che aumenterebbe il suo reddito del 14%. Tali prospettive fanno tremare le vene ai polsi europei perché nell’Eurozona sarebbe impossibile seguire le aliquote di Trump che la metterebbero fuori mercato. Inoltre tale concorrenza fiscale statunitense annullerebbe qualsiasi spazio al rilancio coordinato degli investimenti, su cui timidamente sembrava voler provare l’Ue morsa dalla crisi.
È chiaro quindi come il neo-presidente ha ricevuto l’approvazione dell’alta finanza, come dimostra anche il fatto che il tanto sbandierato crollo dei mercati, che avrebbe dovuto seguire l’eventuale elezione del candidato repubblicano, non si sia verificato. Fra le fazioni di classe dominante che hanno sostenuto Trump va dunque riconosciuta quella borghesia finanziaria che vuole la piena deregolamentazione in campo economico, la stessa, peraltro, che ha sostenuto la Brexit.
Ma qual è allora il contesto sociale che ha portato all’elezione di Trump? Negli Stati Uniti il tasso di disoccupazione reale, calcolando anche chi è fuori dai radar ufficiali, arriva al 23%; nel 2008, all’inizio dell’amministrazione Obama, il numero di cittadini costretti a ricorrere ai buoni alimentari erano 28 milioni oggi sono aumentati del 60%; le politiche di quantitative easing adottate dalla Fed a partire dal 2009 hanno alimentato il divario tra la borghesia, ulteriormente arricchitasi a livello finanziario con le politiche espansive, e i lavoratori, i cui salari hanno perso valore travolti dall’inflazione. L’ObamaCare, propagandato come un cambiamento epocale nell’accessibilità della sanità per le masse statunitensi, costituisce di fatto un’assicurazione obbligatoria che pesa enormemente sulle tasche dei proletari.
Insomma l’eredità di Obama, nonostante tutta la retorica con cui egli si è riempito la bocca negli ultimi anni, è costituita dal sostegno ai predoni di Wall Street e ai grandi capitalisti che hanno aumentato a dismisura i loro profitti mentre i salari si sono ridotti in maniera sistematica. Contemporaneamente, i proletari e sottoproletari, soprattutto neri, hanno continuato a subire i feroci abusi della polizia, ai quali hanno risposto positivamente con sommovimenti di massa e, talvolta, compiendo azioni armate contro gli sbirri.
Rispetto a questo disastro sociale, Clinton non solo rappresentava la continuità con Obama, ma ne era corresponsabile diretta, dato il suo ruolo di segretaria di stato dal 2009 al 2013 e l’appartenenza ad una delle famiglie più direttamente influenti nella vita politica statunitense.
Trump ha facilmente ricevuto il consenso di masse immiserite dalla crisi, innovando l’immagine della scena politica, ma rappresentando la piena continuità nel dominio della grande borghesia. Egli ha saputo raccogliere la rabbia verso il cosiddetto establishment, pur facendone pienamente parte, e ha rinfocolato le divisioni tra le masse popolari, contrapponendo la maggioranza bianca alle minoranze nere e ispaniche e agli immigrati.
La sua vittoria dimostra come, in una situazione di crisi sempre più prolungata e aggravata “le classi dominanti non riescono più a conservare il potere senza modificarne la forma”. [4] I meccanismi della democrazia borghese diventano allo stesso tempo il mezzo con cui le masse esprimono il proprio malessere e quello con cui questo malessere viene ad essere sfogato e gestito per determinare dei cambiamenti di superficie, o viene funzionalizzato per mutare linee politiche generali da parte della classe dominante e per regolare gli sconti al suo interno nell’implementazione di tali linee. Emblematici, da questo punto di vista, sono stati anche il voto della Brexit, il referendum costituzionale italiano e, prima ancora, il referendum greco del 2015 sullo strozzinaggio finanziario della triade Commissione Europea, Bce e Fondo Monetario Internazionale.
La crisi implica che per le classi dominanti diventa sempre più difficile dirigere la società nei modi in cui le dirigevano prima; la loro egemonia va modificata e riadeguata ad una situazione di frustrazione e rabbia da parte delle classi sfruttate e dei popoli dovute alla miseria e all’oppressione.
Nelle fasi come queste si delineano due strade: o quella della mobilitazione rivoluzionaria o quella della reazione lastricata di barbarie: Trump appartiene sicuramente a quest’ultima.
La debolezza attuale del movimento proletario e rivoluzionario fa sì che alle orecchie delle masse giungano più forti le sirene della reazione. O i comunisti riusciranno a riprendersi il loro ruolo di avanguardia o lo stesso malessere delle masse, nella persistenza dell’egemonia borghese magari con forme nuove (i cosiddetti “populisti”) e deviato dalla mobilitazione reazionaria, finirà paradossalmente a consolidare il sistema.

SULLA SITUAZIONE INTERNA: IL REFERENDUM COSTITUZIONALE E LA CRISI DI EGEMONIA DELLA CLASSE DOMINANTE

Il risultato del referendum costituzionale del 4 dicembre scorso è stato un risultato sicuramente positivo per le masse popolari e il proletariato: è stato sconfitto il progetto renziano di controriforma degli assetti istituzionali, in funzione di un maggior decisionismo governativo e quindi di una maggiore incisività negli attacchi padronali. Contro questi programmi del governo si è schierata la gran parte delle masse popolari, ma soprattutto il proletariato giovanile e quello del sud, i principali settori che stanno pagando a caro prezzo, con la disoccupazione, la precarietà e l’impoverimento, gli effetti delle misure governative sulle loro vite. Renzi, ha dovuto fare un passo indietro e dimettersi da capo del governo.
Le dimissioni di Renzi confermano come, in tempi di crisi, la borghesia imperialista non riesca a tramutare il proprio dominio economico-sociale in una stabile formula di egemonia politica, che sappia superare la sfiducia delle masse nei piani governativi.
D’altra parte, il limite evidenziatosi nel referendum di dicembre sta nel fatto che, aldilà del malessere espressosi, non si sviluppi una prospettiva politica concreta capace di ribaltare in questo momento i rapporti di forza a favore dei lavoratori e delle masse popolari, il che potrebbe avvenire solo con lo sviluppo della lotta di classe, in superamento e in rottura con lo schema di “dissenso istituzionalizzato” che il referendum comunque incarna. Il malcontento popolare rischia così di essere condotto ancora di più verso un vago populismo, o peggio verso la deriva xenofoba e razzista, rendendolo così del tutto inoffensivo verso i padroni o addirittura a loro funzionale, nel dividere e contrapporre i proletari tra autoctoni e immigrati.
Ed infatti alle dimissioni del capo del governo la classe dominante ha risposto con l’instaurazione in pochi giorni di un altro governo, fotocopia del governo renziano, con a capo l’ex ministro degli esteri Gentiloni. Una figura che, essendo stato a capo della diplomazia nel precedente esecutivo, ha lo scopo di rassicurare gli alleati internazionali dell’imperialismo italiano, cioè le principali potenze europee e gli Usa, che avevano confidato anch’esse nella capacità di Renzi di imporre la sua revisione costituzionale. E ovviamente, sul piano interno, il governo Gentiloni incarna la continuità dei progetti e delle controriforme da attuare a danno dei lavoratori.
Su come le azioni governative degli ultimi anni abbiano inciso sulle condizioni dei lavoratori, dei giovani e dei disoccupati ce lo dicono alcuni dati estrapolati dagli organi di informazione e dagli istituti di ricerca della stessa borghesia.
L’Osservatorio sul Precariato dell’Inps ha registrato che tra gennaio e agosto 2016 i licenziamenti sui contratti a tempo indeterminato sono passati dai 290656 del 2015 a 304437, con un aumento del 4.7%. In particolare quelli per giusta causa sono passati da 36048 a 46255, con un aumento del 28%. Questo è stato un effetto direttamente conseguente all’introduzione del Jobs Act.
Inoltre ai primi di novembre l’Istat ha pubblicato un documento, riprendendo i dati della contabilità nazionale dell’ultimo triennio, in cui vengono presi in considerazione gli andamenti della produttività del lavoro e del capitale negli anni 1995-2015. Da questo emerge che la crescita ufficiale della produttività del lavoro italiano è mediamente un quinto di quella dei principali paesi europei (Germania e Francia) e un ottavo di quella degli Usa. Però emergono anche altri elementi di
valutazione che dicono che nell’ultimo triennio la produttività del lavoro è cresciuta e il costo del lavoro per unità di prodotto è rimasto costante negli ultimi tre anni, “configurando un settore manifatturiero che seppure ridimensionato dalla crisi ha accresciuto nella recessione i livelli di efficienza e profittabilità” (parole dell’ufficio parlamentare del bilancio). Nel periodo 1995-2015 la crescita della produttività del lavoro è stata dello 0.3% annuo, ma nel periodo 2009-2013, ovvero nel pieno della recessione e della crisi economica del sistema capitalista, l’incremento è stato
dell’1,1% annuo. Inoltre la produttività totale dei fattori produttivi (che cerca di definire la variazione della qualità dei fattori produttivi, formazione e capacità della forza-lavoro, investimenti in progressi tecnici) negli anni 2009-2013 è cresciuto dello 0.8% annuo, ed è in linea con quello degli altri paesi a capitalismo manifatturiero avanzato (0.3% per la Francia, 0.8% per Germania, Spagna, Usa).
Questi dati parziali possono manifestare come da una parte la maggiore efficienza sia dovuta anche al fatto che in questa fase di crisi economica acuta alcune aziende e alcuni settori produttivi, meno efficienti e quindi meno concorrenziali, siano state chiuse o ridimensionate, cedendo il passo alla borghesia più forte, dall’altra di come la borghesia imperialista e i diversi governi succedutisi negli anni stia ottenendo i frutti degli attacchi ai lavoratori, attraverso le varie controriforme, per ultimo il Jobs Act, elevando il livello di sfruttamento a cui sono sottoposti.
Questa tendenza è stata confermata nell’ultima tornata dei rinnovi contrattuali dei Contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl).
Tralasciando il disperato e fallimentare tentativo di influenzare a favore del sì il referendum costituzionale, promuovendo i rinnovi del Ccnl del pubblico impiego e dei metalmeccanici a ridosso delle votazioni del 4 dicembre scorso (tra l’altro il primo fermo al solo accordo quadro e quindi tutt’ora campato in aria), ci sembra di poter affermare che soprattutto per quel che riguarda i metalmeccanici non si sia semplicemente di fronte ad un pessimo accordo. Con il riallineamento completo della FIOM alle regole contrattuali imposte da Confindustria siamo in presenza dell’affermazione di un nuovo modello contrattuale in cui, contratti di primo o di secondo livello che siano (rivelando che per il padronato il problema non è la forma ma la sostanza), si spalancano le porte al cosiddetto welfare aziendale, cioè all’investimento di quote di salario operaio in prestazioni di tipo sanitario o generalmente sociali. Ciò comporta un attacco complessivo ai lavoratori poiché consente ai padroni di realizzare un taglio salariale sotto forma di “retribuzione in natura”, di legittimare miserrimi aumenti in busta paga, di legare ideologicamente gli operai all’azienda e dunque al padrone e va posto in dialettica con lo smantellamento della spesa pubblica sociale che, nel frattempo, i vari governi e le amministrazioni locali stanno realizzando. Inoltre, anche se i confederali affermano che hanno salvato, con questo Ccnl, la contrattazione di primo livello, tale risultato è del tutto formale e propagandistico, visto che salario, orario e condizioni di lavoro vengono totalmente piegati alle esigenze della produttività e della competitività della singola azienda, di fatto svuotando la contrattazione nazionale a favore di quella aziendale.
Possiamo dire che Confindustria è riuscita a sfondare su tutta la linea dimostrando quanto vera sia l’affermazione che la dinamica riformista in questa fase è stritolata tra le spire della crisi ed incapace anche di ogni pur minima resistenza.
Sarà il Patto per la Fabbrica, la cui discussione tra Confindustria e CGIL-CISL-UIL iniziata a metà dicembre dovrebbe entrare presto nel vivo, a sancire definitivamente il nuovo modello del rapporto contrattuale capitale/lavoro che forzatamente dovrà essere funzionale all’implementazione del progetto denominato Industria 4.0. [5] Inoltre il rinnovo del Ccnl metalmeccanici rappresenterà il punto di riferimento e di paragone per i prossimi rinnovi, estendendone anche al resto della classe operaia e dei lavoratori le condizioni sancite dalla firma di questo rinnovo.
A questo esito ha di sicuro contribuito l’adesione della FIOM al testo unico sulla rappresentanza, vera e propria spada di Damocle per ogni sindacato che, pur in chiave riformistica, intendesse in qualche modo tutelare i lavoratori.
Proprio questa incapacità della FIOM, il sindacato quantitativamente più rappresentativo dei metalmeccanici, di tutelare gli operai arrivando al paradosso evidente di mettere la firma su contenuti contro i quali finora si era mobilitata, ha creato un ampio dibattito nei posti di lavoro. Un dibattito che si è dovuto scontrare con il diktat imposto dalle segreterie ai direttivi dei delegati in merito al divieto di fare propaganda per il no in occasione del referendum di convalida del contratto. Ciononostante, pur di fronte all’esito favorevole al si (80% circa), va evidenziato come in molti grossi e significativi gruppi industriali (dalla Fincantieri di Genova e Venezia, all’Ast di Terni, alla Piaggio di Pontedera, all’Ilva di Taranto, alla Perini di Lucca, all’Avio di Napoli, alla Electrolux di Susegana, alla Bitron di Cuneo, alla Sirti, alla Dana di Rovereto solo per citare le più significative) abbia vinto il no. Il che è un dato interessantissimo perché ciò che conta per noi non è tanto la dimensione quantitativa, ma quella qualitativa. Quello che ha fatto la differenza in questi siti industriali è probabilmente il fatto che si è riusciti a promuovere un minimo di discussione tra i lavoratori, nonostante le pressioni dei dirigenti sindacali, e in tali casi ha vinto il no. Il che significa anche che si va sempre più incrinando la catena di comando dei sindacati collaborativi, anch’essi deboli, come i loro padroni, nell’egemonia politica sui lavoratori, aprendo spazi all’autonomia di classe. Che ciò poi si tramuti in qualcosa di politico sta soprattutto al ruolo che sapremo esercitare
noi comunisti.
Sul fronte delle lotte sono da segnalare gli ultimi eventi della vertenza Almaviva, tra le più grandi strutture di call center in Italia, avvenuti negli ultimi giorni del dicembre scorso, che ha visto la chiusura degli uffici di Roma e il licenziamento di circa 1600 lavoratori. In questa vertenza governo e padroni dell’azienda hanno costantemente intimidito i lavoratori, che nei mesi scorsi hanno messo in atto importanti iniziative di lotta, riuscendo nell’opera di divisione dei lavoratori con il ricatto dei licenziamenti. Alla fine, i padroni hanno deciso la chiusura degli uffici a Roma e il mantenimento di quelli di Napoli (circa 1200 posti di lavoro).
I lavoratori romani avevano fin da subito rigettato i progetti padronali di ristrutturazione e le Rsu della CGIL, i sindacati autonomi e di base, avevano portato avanti nella trattativa questo mandato assembleare deciso dai lavoratori, anche contro i voleri di CISL, UIL e delle segreterie CGIL. Ora il governo ha scaricato la colpa della decisione padronale di chiusura interamente sulle strutture sindacali territoriali e di base, di fatto spalleggiando la decisione dei padroni Almaviva, cercando ulteriormente di approfondire nell’opera di divisione dei lavoratori, ponendo lavoratori buoni che
accettano gli accordi di ristrutturazione (Napoli), contro i lavoratori cattivi che non li accettano (Roma).
Dalle considerazioni finora espresse emerge come la situazione politica nel nostro paese, contrassegnata dal permanere e dall’acutizzarsi della grave crisi economica, vede però l’ incapacità da parte della classe dominante e dei suoi apparati di mantenere una costante egemonia politica sulle masse, che invece rispondono in modo spontaneo, confuso e all’interno dei canali tracciati dal regime borghese, ma comunque esprimendo un’avversità ai disegni padronali e governativi.
In questo senso è da interpretare anche il tentativo della CGIL di riconquistare consensi da parte dei lavoratori attraverso i referendum contro il Jobs Act del governo Renzi, dopo che le controriforme sul lavoro degli ultimi governi (da quella della Fornero a quelle di Renzi) sono passate, nel falso nome dell’austerità, indenni per i padroni, senza nessuna forma di reale opposizione (addirittura la controriforma Fornero senza nessuna manifestazione ed ora di sciopero). L’istituto referendario applicato alla lotta per la difesa delle conquiste, nell’ottica dei burocrati della CGIL, serve a evitare
che si esprimano forme di lotta incisive da parte della classe, che essa maturi coscienza della propria forza attraverso la mobilitazione reale e dunque si possa potenzialmente aprire la strada alla crescita politica e rivoluzionaria.
Sicuramente la sconfitta del progetto accentratore e presidenzialista incarnato nella controriforma istituzionale del precedente governo Renzi segna un freno parziale al processo di attacco complessivo alla condizione operaia e popolare. Ma questo freno ai disegni padronali e della borghesia imperialista potrà essere concreto quando i comunisti impareranno ad utilizzare gli spazi che si aprono in questa fase, rilanciando la lotta di classe intesa in senso politico. Ciò significa concepire la partecipazione alla lotta per la difesa delle conquiste e delle condizioni di vita degli operai e delle masse popolari come “scuola di comunismo”, come mezzo attraverso il quale i comunisti devono e possono legarsi agli sfruttati, radicando tra di essi la necessità della rivoluzione proletaria.

COSTRUIRE IL MOVIMENTO CONTRO LA GUERRA IMPERIALISTA!
FARE DI OGNI LOTTA UNA SCUOLA DI COMUNISMO!
LA NOSTRA RISPOSTA ALLA CRISI DI EGEMONIA DELLA CLASSE DOMINANTE
DEVE ESSERE COSTRUIRE L’EGEMONIA DELLA CLASSE OPERAIA

Collettivo Tazebao


[1] Peraltro è significativo come il Giappone abbia ratificato il Tpp il 10 novembre 2016, ovvero il giorno successivo all’annuncio della vittoria di Trump, dando un segnale politico inequivocabile sul proprio interesse strategico all’implementazione dell’area di libero scambio transpacifica e auspicando che Obama cercasse di fare altrettanto prima del 20 gennaio 2017, data d’insediamento ufficiale del nuovo presidente.

[2] Tali paesi sono l’Inghilterra, al fianco degli Usa in tutte le aggressioni imperialiste, la Polonia e l’Estonia, in chiave antirussa, e la Grecia. Quest’ultimo dato deve far riflettere da un lato perché rivela le pesanti contraddizioni all’interno della stessa Alleanza Atlantica, visto che Atene da sempre si arma per prevenire l’espansionismo della Turchia, paese anch’esso membro della Nato. Dall’altro perché è emblematico della crescita della spesa militare anche in tempi di austerità sociale e di come tale crescita corrisponda perfettamente agli interessi di chi impone l’austerità, se pensiamo che gran parte delle commesse greche in campo militare sono appannaggio dell’industria bellica tedesca.

[3] Si tratta di una menzogna visto che gli stanziamenti degli ultimi governi italiani al settore militare negli scorsi dieci anni sono aumentati del 21%. Nel 2016 sono stati stimati in 55 milioni al giorno e nel 2017, secondo talune ricerche, arriveranno a 64 milioni.

[4] Lenin, Il fallimento della II° Internazionale, 1915.

[5] Vedi le note di fase dell’autunno 2016.