Note di fase n.15
Autunno 2016
SULLA SITUAZIONE INTERNAZIONALE: LA TENDENZA AL RITORNO DEL PROTEZIONISMO
Christine Lagarde, direttrice generale dell’Fmi, nel suo intervento durante il summit del G20, tenutosi in Cina a Hangzhou lo scorso 4 settembre, ha espresso preoccupazione perché il 2016 rappresenta il quinto anno consecutivo in cui il pil mondiale cresce al di sotto del suo potenziale e tale stima viene confermata anche per il 2017. Pertanto, sulla base dei recenti indicatori congiunturali, le prospettive di crescita per l’economia mondiale verranno nuovamente riviste al ribasso.
Non solo, Lagarde ha evidenziato anche che le conseguenze della protratta bassa crescita e l’aumento delle disuguaglianze favoriscono le spinte isolazionistiche e lo spazio politico della cooperazione lascia il passo alla tendenza al protezionismo, che si oppone alle “riforme” volte a promuovere una sorta di integrazione dell’economia mondiale.
Nelle parole della Lagarde, che fotografano il clima economico e politico in cui si stanno sviluppando le contraddizioni tra vecchi e nuovi imperialisti e in particolare tra i paesi imperialisti del blocco Nato, si trova la spiegazione del fallimento e del prolungarsi delle trattative e delle ratifiche dei trattati di libero commercio, in primis riguardo Usa e Ue per la stipula del Ttip, ma anche le lungaggini rispetto alla ratifica del Tpp, che lega gli Usa alla sponda asiatica del Pacifico, nonché del Ceta, tra Ue e Canada. Insomma l’era in cui sembravano fiorire le trattative e gli accordi commerciali sotto l’egida statunitense, voluta da una borghesia assetata, ancor più dalla crisi, di nuovi mercati dove garantirsi il monopolio, sembra essersi trasformata nell’era dell’arroccamento sotto le bandiere del protezionismo.
Ma cosa mettono sul piatto il Ttip e il Tpp e a chi gioverebbero? Il Ttip, Transatlantic Trade and Investment Partnership, sarebbe un accordo commerciale tra gli Stati Uniti e l’Europa che prevede di integrare i due mercati attraverso l’abbattimento delle barriere economiche tariffarie (i dazi) e quelle non tariffarie (regolamenti, norme e standard). Tale accordo mette sul piatto un mercato che vale il 50% del pil mondiale e oltre il 30% del commercio. Con esso si andrebbe a creare la più grande area di libero scambio del mondo, pari a 800 milioni di consumatori. Le beneficiarie di una torta così succulenta sarebbero le multinazionali statunitensi ed europee che, oltre a vedersi aprire le porte di un mercato così consistente, ne vedrebbero anche ridotta la regolamentazione. Infatti, grazie all’arbitrato internazionale, che si andrebbe a istituire secondo quanto previsto dal progetto di trattato, qualsiasi multinazionale avrebbe il potere di impugnare le leggi di uno stato, se queste contrastassero i suoi interessi a confronto di quelle del proprio paese. Ciò significherebbe consegnare nelle mani delle multinazionali il potere di impugnare la legislazione dei singoli paesi. È evidente che a trarne maggior beneficio sarebbero le aziende battenti la bandiera a stelle e strisce, poiché la legislazione iperliberista dello Zio Sam permetterebbe ad esse margini di manovra ampissimi.
Il risultato politico di tale accordo sarebbe un rafforzamento del predominio politico ed economico yankee e la conferma della subordinazione del vecchio continente agli alleati d’oltreoceano. Questo era nei sogni di Barack Obama nel 2013, quando iniziarono le trattative parallelamente allo sviluppo, sul fronte asiatico, di quelle del Tpp, il Trans-Pacific Partnership, già siglato nell’ottobre 2015, ma ad oggi in attesa dell’approvazione del congresso statunitense. Quest’ultimo riunisce in un’area di libero scambio 12 paesi affacciati sul Pacifico: Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Stati Uniti e Vietnam. Un’area quindi che produce il 40% del pil mondiale e un terzo degli scambi e che vede esclusa non a caso la Cina.
Ma che cosa ha fatto arenare il sogno di Obama? Il progetto del Ttip trova opposizioni non solo in Europa ma anche negli Usa stessi. Infatti se ancora il presidente uscente continua a sostenere i vantaggi economici sia del negoziato europeo sia di quello asiatico, è emblematico come pressoché tutti i candidati presidenziali non gradiscono, in clima di elezioni, il passaggio di un testimone così scomodo e impopolare. Se da un lato Donald Trump ha basato la sua campagna contro i «globalist», denunciando tutti i trattati commerciali che costano posti di lavoro e profitti agli Usa, dall’altro lato gli aveva fatto eco Bernie Sanders che molto consenso aveva raccolto denunciando la disuguaglianza economica favorita da questi accordi. Anche Clinton, promotrice dei trattati quando era segretaria di stato, prende le distanze da quello europeo, si dice contraria alla Tpp che l’amministrazione Obama ha negoziato con gli alleati asiatici e che ora rischia la bocciatura del congresso per l’opposizione dei repubblicani. La candidata democratica è arrivata persino a criticare il Nafta, l’accordo di libero scambio tra Usa, Messico e Canada, che fu siglato nel 1992 sotto l’amministrazione presidenziale del marito Bill Clinton.
Se le posizioni negli Usa si fanno diversificate, ma tendenzialmente poco favorevoli al liberoscambismo così come praticato finora, all’interno dell’Unione Europea non sono certamente più unitarie. Da un lato troviamo le dichiarazioni di fine agosto del ministro dell’economia e vicecancelliere tedesco Sigmar Gabriel: «I negoziati con gli Usa sono de facto falliti, perché noi europei non ci vogliamo assoggettare alle richieste americane. Le cose su questo fronte non si stanno muovendo». Tali affermazioni sono state seguite il giorno successivo da quelle francesi per bocca del sottosegretario al commercio internazionale, Matthias Fekl, che ha annunciato: «Non c’è più il sostegno politico della Francia a questi negoziati», aggiungendo «gli americani non concedono niente, o solo briciole. Non è così che si deve negoziare fra alleati». Un ulteriore colpo è venuto dalla Brexit, poiché Cameron, il grande sconfitto, era un sostenitore dell’intesa, e gli Usa con la prossima uscita di Londra dall’Unione si vedono chiudere in faccia la porta di servizio da cui accedevano all’Europa sia condizionandone la politica sia scavalcandone la tassazione per la merce in entrata.
Dall’altro lato però c’è il fronte dei favorevoli agli accordi che ribadisce, attraverso la commissaria europea al Commercio, Cecilia Malmstroem, la validità dei negoziati agitando lo spettro dell’accordo trans-Pacifico, che in mancanza del Ttip isolerebbe l’Europa. Paladina di questo fronte e degli interessi americani in Europa si erge l’Italia che, con il ministro dello sviluppo economico, Carlo Calenda, assicura «il Trattato si farà, è troppo importante per non chiuderlo. Anche se, ovviamente, i tempi sono molto più incerti».
Questo particolare rappresenta un termometro rispetto allo sviluppo delle contraddizioni interimperialiste, che vede profilarsi sempre di più uno scenario in cui, da un lato, c’è lo scontro sempre più antagonistico tra il polo imperialista Nato a guida Usa e i poli imperialisti rivali di Russia e Cina e, dall’altro lato, le contraddizioni in seno ai paesi imperialisti atlantici si fanno più evidenti e le frizioni più frequenti, anche se sotto molti aspetti trovano una sintesi proprio nella contrapposizione a Mosca e Pechino.
Per arrivare alla firma di un trattato come quello del Ttip sarebbero state necessarie due parti: una che rappresentasse una potenza egemone in grado di imporre i propri interessi e l’altra disposta a un ruolo di subordinazione. È evidente che dall’inizio dei negoziati il clima politico sia cambiato, lo sviluppo della crisi dal 2006 ha riposto nel cassetto sia negli Stati Uniti sia nell’Ue le politiche cooperative e ha fatto risfoderare il protezionismo. Basti pensare alla guerra economica che si è vista ultimamente, a partire dallo scandalo Dieselgate, contro la Volkswagen, per proseguire con l’attacco alle imprese yankee come Apple e Google e fino al procedimento contro Deutsche Bank da parte Usa. All’interno di questo contesto si è registrato anche il progressivo rimpatrio statunitense della produzione, il sempre più forte fenomeno del “reshoring”, che sia Clinton sia Trump hanno fatto politicamente proprio.
Non solo, l’egemonia statunitense registra anche un notevole indebolimento prodotto dallo scontro sempre più antagonistico con Russia e Cina. La prima più disposta, per salvaguardare i propri interessi, all’intervento diretto sui fronti di guerra aperti dagli Stati Uniti come quello siriano e quello ucraino; mentre la seconda si presenta come un’economia in crescita globale che mira a vedersi riconoscere un peso politico nelle relazioni mondiali allineato con quello del suo sviluppo industriale e finanziario. Non è un caso che dal primo ottobre lo yuan è entrato ufficialmente nel paniere dei diritti speciali di prelievo del Fmi insieme a dollaro, euro, yen e sterlina, mentre la banca mondiale ha annunciato la prima emissione di obbligazioni denominate in dsp1 che verranno, appunto, rimborsate con valuta cinese.
Insomma è evidente che la parte che dovrebbe essere egemone per imporre i propri interessi non è abbastanza forte per farlo, dall’altro lato anche l’Unione Europea, con le singole potenze imperialiste che la compongono, non si mostra più così debole da accettare supinamente i diktat del suo storico alleato. In particolare le borghesie di Germania e Francia rifiutano, oramai sempre più frequentemente, questo ruolo di subalternità per tutelare i propri interessi. Non solo dunque, la stipula del trattato di libero commercio si è rivelata un braccio di ferro tra le due sponde dell’Atlantico, ma esse intendono diversificare le proprie posizioni anche rispetto al nemico russo, che rimane in ogni caso il principale fornitore energetico dell’Ue. Inoltre, il peso mondiale dell’imperialismo tedesco, nella tendenza alla centralizzazione monopolistica dei mercati, si sta rafforzando anche rispetto agli Usa, come dimostra l’acquisizione che la germanica Bayer ha fatto alla fine di quest’estate della statunitense Monsanto.
Alla base, però, dello scontro che vede contrapposti l’asse franco-tedesco agli Stati Uniti, sostenuti all’interno dell’Ue dal governo Renzi, c’è la ricetta per rispondere alla crisi sul fronte interno agli stati. Da una parte la linea tedesca dell’austerità che si basa sul taglio della spesa pubblica e sul rigore finanziario. Dall’altro gli Usa, assieme all’Italia, che spingono per ricette neokeynesiane per rilanciare la flessibilità finanziaria e gli investimenti pubblici a beneficio dei capitali privati, nonché secondariamente il consumo interno, orientandosi quindi allo sforamento dei patti di stabilità e a una maggiore flessibilità nei conti degli stati.
Da ciò si evidenzia il fatto che in un possibile Ttip, un mercato europeo depresso sarebbe sfavorevole alle importazioni di merci statunitensi, al contrario il rilancio dei consumi interni in Europa favorirebbe le importazioni estere, ma farebbe cadere i sovrapprofitti della borghesia tedesca, che ha costruito il proprio primato europeo sull’affossamento delle altre economie, in particolare quelle della fascia mediterranea. Entrambe le soluzioni scaricano sulle masse popolari i costi della crisi perché se la prima si traduce, ad esempio, nel controllo costante della tendenza inflazionistica dei salari per abbassare i costi di produzione, con la soluzione dello Zio Sam lo stato cerca liquidità per il rilancio della produzione industriale tagliando, in assenza di alternative, principalmente sullo stato sociale. Manovra, quest’ultima, ben dimostrata dall’ultimo documento economico finanziario approvato nelle recenti settimane dal governo italiano che prevede l’iperammortamento al 250% dell’acquisto di tecnologia 4.0.
Come già sottolineato va, però, ribadito che le contraddizioni, che contrappongono le varie borghesie all’interno del blocco imperialista atlantico a guida statunitense, trovano ancora una sintesi nella fase attuale; mentre, per una tendenza statunitense a disacerbarle, sono le contraddizioni con le potenze imperialiste rivali ed in particolare con la Russia a diventare sempre più antagonistiche. Ne sono testimonianza il fallimento dell’accordo per una tregua in Siria e la sospensione, annunciata dalla Casa Bianca i primi di ottobre, di ogni contatto bilaterale con la Russia, a cui ha fatto seguito la firma, da parte di Putin, di un decreto che, presentandosi come una risposta ad «azioni ostili», sospende le intese raggiunte tra Russia e Stati Uniti nel 2000 riguardo alla distruzione di una parte dei rispettivi arsenali di plutonio. La ripresa dell’accordo sul plutonio viene condizionata all’abolizione di tutte le sanzioni imposte da Washington a Mosca e al rimborso dei danni causati, ma l’offensiva russa su Aleppo sta invece spingendo Usa, Gran Bretagna e Germania a varare nuove sanzioni.
Quello che sta avvenendo a livello globale, dunque, è un ritorno della tendenza al protezionismo, già manifestatasi nelle fasi pre-belliche del primo e secondo conflitto mondiale. Nell’attuale fase di crisi e di guerra, la tendenza strategica imperialistica muta dall’espansione e integrazione dei mercati mondiali, passando dalla lotta sempre più sanguinosa per la loro ripartizione, e arriva fino al protezionismo, che permette, gettando progressivamente alle ortiche la concorrenza e il liberoscambismo, un arroccamento a difesa dei propri spazi di rendita e profitto a danno degli avversari. Un arroccamento che, inevitabilmente, tende a fondere e subordinare il piano economico a quello politico e, via via, a quello militare. A contare, dunque, non sono principalmente gli interessi economici stretti e immediati del capitale monopolistico, ovvero delle multinazionali, ma quelli complessivi e strategici di ciascuna potenza imperialista, come collettore di intere fazioni monopolistiche, in lotta con le altre per il predominio non più solo sul piano economico, ma politico-militare. Il capitalismo internazionale, stretto nella crisi e privo di orizzonti per dare soluzione ad essa, tende a svilupparsi non più come piano delle relazioni economiche, ma su un piano nel quale le relazioni economiche diventano relazioni di ripartizione politica e, infine, di guerra imperialista.
In questo scenario in cui la tendenza alla guerra, economica e militare, domina le relazioni tra le potenze imperialiste e quelle con i popoli finiti nel loro mirino, il governo Renzi continua ad assicurare all’Italia un ruolo da protagonista su tutti i fronti aperti dai paesi facenti parte della Nato, dall’Iraq alla Libia fino ai paesi baltici, sia nei termini di presenza militare in loco sia nella funzione di portaerei del Mediterraneo a causa della presenza delle basi, dei poligoni e del Muos. Che l’Italia sia un paese in guerra c’è poi confermato dall’incidenza della spesa militare sul piano finanziario nazionale. Essa ammonta, secondo i dati ufficiali della Nato, a circa 20 miliardi di euro nel 2016, 2,3 miliardi più del 2015: in media 55 milioni di euro al giorno da cui sono escluse le spese extra budget della difesa addebitate ad altri ministeri. Il governo Renzi ha inoltre attuato le implementazioni legislative per agevolare ulteriormente le possibilità di intervento esterno dell’imperialismo nostrano, e in particolare il disposto del decreto missioni 2015, che prevede la possibilità per il presidente del consiglio di inviare gruppi di militari in zone di intervento dotandoli delle garanzie concesse ai servizi segreti. In pratica il capo del governo senza consultare né il parlamento, né il Copasir (la commissione parlamentare sui servizi segreti) e nemmeno le commissioni di difesa, può a sua discrezione inviare militari dovunque ci siano interessi dell’imperialismo italiano da difendere. La norma prevede che solo successivamente il Copasir verrà informato se il primo ministro ha inviato o meno truppe utilizzando questa possibilità, mentre per l’invio di ampi contingenti di truppe su territorio straniero continua a doverci essere il voto del parlamento, che, beninteso, in questi decenni ha sempre ubbidito agli interessi imperialisti, approvando ogni missione all’estero richiesta.
L’ultimo ufficiale invio di truppe è stato infatti approvato dal parlamento e da fine settembre circa 300 militari italiani sono presenti in Libia, formalmente su richiesta del governo libico servo degli imperialisti di al-Sarraj, per la costruzione presso Misurata di un ospedale militare. Questi militari si aggiungono a quelli già presenti nel paese arabo su autorizzazione diretta di Renzi, con il meccanismo varato nel decreto missioni 2015 e dunque come missione coperta dai servizi segreti, stanziati nella zona di Sirte, a sostegno del governo compradore libico nella guerra contro lo Stato Islamico.
Queste operazioni sono propedeutiche alla costruzione di un rapporto stretto con il governo libico di al-Sarraj, sia per la futura ripartizione e stabilizzazione degli interessi petroliferi, sia per trovare in seguito un accordo per filtrare e controllare la partenza degli immigrati dalle coste libiche.
La risposta di noi comunisti a questo scenario deve svilupparsi su due direttrici: da un lato promuovendo la solidarietà internazionalista con i popoli che resistono sui fronti di guerra e dall’altro mobilitandosi contro gli interessi dell’imperialismo nostrano e dei suoi alleati qui nella roccaforte atlantica. In tale senso la lotta contro le basi e i poligoni in Sicilia e Sardegna e la mobilitazione contro la cooperazione tra università italiana e quella sionista sono esempi da valorizzare e promuovere.
SULLA SITUAZIONE INTERNA: SFRUTTAMENTO E REPRESSIONE 4.0
I dati economici italiani si confermano nella condizione della recessione, nonostante i continui proclami di uscita dalla crisi e di “inversione della tendenza”. Il recente Def (documento di economia e finanza emesso dal governo a fine settembre) parla di una crescita del pil per il 2017 dell’1%, mentre per l’anno in corso le prospettive sono di circa lo 0.7%, con il debito pubblico che si assesterà al 131% del pil. Tra l’altro questi sono previsioni ottimistiche in quanto l’Ocse prevede invece una crescita del pil allo 0.7% e addirittura Confindustria lo stima al 0.5%. Inoltre l’associazione padronale prevede che lo stato economico dei livelli del pil pre-crisi potranno essere raggiunti solo nel 2028.
Le soluzioni proposte dal governo Renzi vanno sempre nella direzione di fare gli interessi più immediati dei capitalisti, come è stato fatto con la decontribuzione per le aziende con i contratti del jobs act, ed ora con il progetto di industria 4.0. Con questo piano, infatti, sono previsti aumenti degli sgravi fiscali per le aziende, con un ammortamento fino al 250%, sugli investimenti in tecnologie, l’agrifood, gli impianti realizzati per migliorare i consumi energetici. Un miliardo di euro sarà destinato ai contratti di sviluppo focalizzati su investimenti per l’industria 4.0. A questa cifra si aggiungerà poi quella per la detassazione del salario di produttività, che dovrebbe essere estesa e rafforzata rispetto al 2016: sono previsti 1,3 miliardi nel quadriennio 2017-2020. Si tratta di interventi che sono entrati nella legge di bilancio 2017, presentata lo scorso 15 ottobre e che ora dovrà passare al vaglio della Commissione Europea e successivamente alle camere per il voto definitivo. È previsto in questo progetto un credito d’imposta per gli investimenti incrementali sul fronte della ricerca e sviluppo con aliquota raddoppiata (dal 25% al 50%) rispetto all’attuale versione. Il 50% varrà anche per le spese relative a tutto il personale, non soltanto quello altamente qualificato. Contemporaneamente il massimale per ogni singolo beneficiario salirà dai 5 ai 20 milioni.
Quindi su un investimento da 1 milione la riduzione delle tasse pagate in cinque anni passa dai 96mila euro dell’attuale ammortamento al 140%, ai 360mila euro garantiti dall’ammortamento previsto con questo progetto di legge, con un incremento dei risparmi del 275%. Lo stesso milione messo su una spesa in attività di ricerca si avvantaggerebbe invece di un credito d’imposta che passa dai 300mila euro attuali ai 500mila di Industria 4.0, con un risparmio fino al 300% in caso di una spesa maggiore di 20mila euro (rispetto ai 5mila attuali sul limite massimo finanziabile). Inoltre si prevedono detrazioni fiscali al 30% per investimenti fino a 1 milione di euro in piccole-medie aziende innovative e l’assorbimento da parte di società “sponsor” delle perdite di startup per i primi 4 anni di attività. Obiettivo di governo e padroni è che questo insieme di misure di profilo finanziario del piano Industria 4.0 mobiliti una spesa privata per investimenti di circa 2,6 miliardi tra il 2017 e il 2020.
Con questo progetto la classe dominante intende dare uno sviluppo delle forze produttive, con investimenti in tecnologia e impianti volti ad accrescere la produttività, e una rimodulazione del modello di sfruttamento, poiché se da una parte vengono incentivati gli investimenti, dall’altra, sul fronte dei lavoratori e delle masse popolari, continuano gli attacchi alle conquiste, in primo luogo sui salari, con la detassazione per i padroni delle quote di salario per la produttività, e sui servizi sociali.
A testimonianza dell’investimento politico della classe dirigente sul piano Industria 4.0, si segnala che il 30 settembre Padova è stata teatro della firma del Ministro Calenda per il protocollo d’intesa che vedrà la nascita del centro di competenza (ribattezzato Venice Innovation Hub for re-start up manifacturing) tra il Bo’, Venezia, Verona, Trento, Bolzano, Udine e Trieste, andando a rafforzare l’uso strumentale dell’università e della sua ricerca ai fini padronali.
Un altro progetto governativo atto ad approfondire ulteriormente l’attacco alle conquiste dei lavoratori è rappresentato dall’accordo con i sindacati confederali sulla possibilità di anticipo pensionistico per alcuni lavoratori. Il progetto Ape (Anticipo Pensioni), che dovrebbe entrare in vigore dal primo gennaio 2017, prevede la possibilità di accedere in anticipo rispetto ai parametri ora vigenti sulle età pensionabili, rinunciando al 5% dell’assegno di pensione per ogni anno di anticipo e quindi utilizzare un prestito dalle banche, da restituire in 20 anni, per raggiungere l’assegno nella sua totalità. Quindi una nuova forma per portare ulteriore ricchezza al capitale finanziario, come già è stato fatto con le previdenze complementari negli anni scorsi, attaccando le pensioni dei lavoratori, il tutto con l’accordo di massima dei sindacati confederali che si sono accodati, a parte qualche mugugno della Cgil, difronte a questo progetto sicuri di poterne ricavare dei vantaggi economici, come già accade nella gestione dei fondi pensione, sulle spalle dei lavoratori.
Sul fronte delle lotte, la repressione padronale, laddove i lavoratori hanno messo in campo iniziative di lotta significative e che incidono fortemente sugli interessi padronali, quando non raggiunge i suoi scopi con le misure di legge a suo favore, con licenziamenti e provvedimenti disciplinari contro le avanguardie di lotta, usa i metodi più barbari per far cessare le mobilitazioni dei lavoratori. Come dimostrano i numerosi episodi di intimidazione messi in atto da anni nei confronti di delegati sindacali e lavoratori del settore della logistica, con pestaggi e violenze di ogni genere.
L’ultimo episodio, ed il più grave, è stato l’assassinio del lavoratore Abd Elsalam Ahmed Eldanf, investito da un camion che ha sfondato il picchetto di lavoratori, avvenuto tra la notte del 14 e il 15 settembre quando si trovava con altri compagni di lavoro in picchetto all’esterno dei cancelli della GLS di Piacenza, scesi in sciopero immediato per il mancato accordo tra il sindacato Usb e l’azienda sulla richiesta di assunzione di 13 operai della Seam srl (un’azienda dell’indotto per il carico e scarico merci del corriere, dopo che era stata promessa da tempo la loro stabilizzazione). Il camionista crumiro assassino, oltre ad avere la protezione della polizia presente sul posto, ha anche il sostegno della procura di Piacenza che, con l’obiettivo di difendere gli interessi padronali di Gls, ha escluso lo sfondamento del picchetto ed indagato l’autista solo per incidente stradale.
Dopo questo gravissimo episodio vi è stata la risposta in varie parti d’Italia in solidarietà al lavoratore ed alla lotta degli operai di Piacenza. La mobilitazione ha avuto il merito di creare di fatto un’unità dal basso dei lavoratori, nonostante la litigiosità delle dirigenze del sindacalismo di base, per protestare e rilanciare la lotta, che ha avuto il suo momento più alto con la manifestazione nazionale a Piacenza di sabato 17 settembre scorso, partecipata da migliaia di facchini e compagni.
Da segnalare la vittoria nel ricorso ai licenziamenti dei 5 operai della Fiat di Pomigliano che dopo due anni dal loro licenziamento hanno ottenuto il reintegro nel loro posto di lavoro. Una vittoria importante perché ottenuta da lavoratori che hanno lottato autonomamente dalla Fiom, ed anzi con l’ostilità dei vertici sindacali Fiom, eppure ricevendo forte solidarietà dagli operai dello stabilimento, oltre al sostegno sindacale dal Si Cobas. Sicuramente questo reintegro, come molte altre volte è avvenuto, soprattutto in Fiat, non sancisce la vittoria definitiva, e la direzione aziendale metterà in campo tutte le iniziative per raggirare la sentenza o isolare e far desistere dalle lotte i cinque lavoratori reintegrati. Ma rappresenta comunque un importante insegnamento, in particolar modo perché la vittoria è stata ottenuta tramite una organizzazione dal basso dei lavoratori, promuovendo iniziative, appelli e solidarietà nei più ampi settori delle mobilitazioni avanzate nel nostro paese. Il piano Marchionne, esemplificativo dei piani dei padroni, ha avuto una battuta d’arresto grazie alla tenacia di questi operai: è necessario che questa lotta e determinazione si estenda ad altri settori di fabbrica e lavorativi.
Su questo aspetto è importante la battaglia sul rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici: la categoria conta quasi 2 milioni di lavoratori e da sempre ha un valore di modello per i contratti da applicare alle altre categorie. Oggi assistiamo ad un ulteriore passaggio dei padroni nell’affossamento della forma contrattuale nazionale, supportato in questo dalla proposta del governo Renzi di introdurre il salario minimo per i lavoratori. Governo e padroni cercano di confondere demagogicamente i lavoratori e le masse popolari, presentando questo progetto come una salvaguardia salariale, ma il vero obiettivo è quello di livellare verso il basso i salari dei lavoratori, rinviando alla sola contrattazione interna eventuali aumenti, in cambio ovviamente di una maggiore produttività.
Nella vertenza del rinnovo contrattuale, a fine settembre Federmeccanica ha presentato una nuova proposta alle oo.ss., che dimostra l’interesse padronale a voler chiudere la trattativa per il rinnovo del contratto. Formalmente Federmeccanica rinuncia a proporre un nuovo tipo di contratto (passare dal nazionale al regionale/aziendale) e formula una nuova proposta in merito agli aumenti salariali. In questo modo l’organizzazione padronale, mantiene la cornice del contratto nazionale, ma solo dopo averla sostanzialmente svuotata delle garanzie e conquiste che il contratto nazionale ha rappresentato per i lavoratori in questi decenni. I padroni rilanciano in questo maniera una polpetta avvelenata nella vertenza contrattuale, a cui i sindacati confederali non si sono sottratti dall’accoglierla ed ora, dopo le mobilitazioni e gli scioperi dei mesi scorsi, alle quali gli operai hanno partecipato in massa e con convinzione, sono pronti alla trattativa.
Sul fronte delle lotte nel mondo della scuola il governo ha dovuto vedersela con le proteste degli insegnanti, migliaia dei quali altamente penalizzati dal piano straordinario di mobilità. Mentre i nefasti effetti della “buona scuola” si fanno sentire in termini di caos nelle supplenze e nelle cattedre, classi pollaio e mancate ristrutturazioni, gli studenti hanno iniziato a mobilitarsi contro un sistema scolastico sempre più classista e piegato alle aziende che sfruttano la trovata renziana del lavoro gratuito, non solo nelle aziende private ma anche negli enti locali, rappresentato dall’alternanza obbligatoria scuola-lavoro.
In generale, rispetto all’attacco alle lotte, assistiamo ad un uso sempre più massiccio degli strumenti repressivi a danno delle avanguardie di lotta. Significative, ancora una volta, sono la solidarietà e la determinazione che caratterizzano il movimento no Tav. Contro le sue avanguardie riconosciute vengono costantemente emesse misure cautelari alle quali, però, oggi diversi compagni rifiutano di sottostare, non riconoscendone la legittimità, ribellandosi alle intimidazioni dello stato.
Contro coloro che lottano il salto autoritario dello stato è già un fatto assodato, non è questione di modifica costituzionale: certo è che la controriforma di Renzi della costituzione vuole dare l’adeguata forma istituzionale, accentratrice e di fatto presidenzialista, ad un processo di attacco complessivo alla condizione operaia e popolare e di conseguente repressione che progressivamente tutti i governi in carica accentuano. Votare no al referendum è sicuramente giusto e necessario, ma per fermare l’autoritarismo di stato e padroni il vero no da dire è quello che parte dalla lotta di classe e che afferma la possibilità di costruire i passaggi per un cambiamento radicale, per una prospettiva
rivoluzionaria socialista.
COSTRUIRE E RILANCIARE IL MOVIMENTO CONTRO LA GUERRA IMPERIALISTA!
L’AUTORITARISMO E L’ARROGANZA DI GOVERNO E PADRONI SI SCONFIGGONO CON LA LOTTA DI CLASSE!
[1] Dsp: i diritti speciali di prelievo sono un particolare tipo di valuta. È l’unità di conto del Fmi, il cui valore è ricavato da un paniere di valute nazionali, rispetto alle quali si calcola una sorta di “comune denominatore”, il cui risultato è il valore dei dsp, il cui scopo principale è stato quello di rimpiazzare l’oro nelle transazioni internazionali.