Il sole sorge a Mezzogiorno
Gramsci e la questione meridionale
“Ideologia borghese e teoria del proletariato” da Antitesi n.17 – pag.74
“È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione: – il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari (…)”. [1]
Queste parole, scritte da Antonio Gramsci nell’opera Alcuni temi della questione meridionale, quasi cent’anni fa poco prima dell’incarcerazione fascista che lo portò alla morte, potrebbero tranquillamente essere state formulate oggi, tanta è la loro attualità nel descrivere la propaganda che la classe dominante ha ben radicato tra le masse del nostro paese per dividere quelle settentrionali da quelle meridionali. E non parliamo solo del becero razzismo che questa frase di Gramsci riprende – quello che poi diverrà patrimonio ufficiale della Lega Nord durante la gestione Bossi – ma anche di tutte le molto più edulcorate analisi sul Mezzogiorno italiano e sulla sua arretratezza che troviamo ogni giorno sui civilissimi giornali della borghesia imperialista italiana. In tutte queste analisi la manfrina è sempre la stessa: “se il Sud è messo peggio del Nord è perché deve rimboccarsi le maniche”, occultando sistematicamente la realtà della questione meridionale come questione di classe. Secondo Gramsci l’oppressione delle masse meridionali rappresenta il “peccato originale” della classe dominante italiana fin dal Risorgimento e dunque una contraddizione di cui i comunisti devono farsi carico per l’alleanza rivoluzionaria tra operai e contadini: “La borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento (…) I comunisti torinesi si erano posti concretamente la quistione dell’ “egemonia del proletariato”, cioè della base sociale della dittatura proletaria e dello Stato operaio. Il proletariato può diventare classe dirigente e dominante nella misura in cui riesce a creare un sistema di alleanza di classi che gli permetta di mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice, ciò che significa, in Italia, nei reali rapporti esistenti in Italia, nella misura in cui riesce a ottenere il consenso delle larghe masse contadine. Ma la quistione contadina in Italia è storicamente determinata, non è la ‘quistione contadina e agraria in generale’; in Italia la quistione contadina ha, per la determinata tradizione italiana, per il determinato sviluppo della storia italiana, assunto due forme tipiche e peculiari, la quistione meridionale e la quistione vaticana”. [2]
L’elaborazione di Gramsci
La forza con cui Gramsci analizzò e sostenne la questione meridionale fu determinata da a due elementi. Il primo sono le sue origini sarde: egli nacque e si formò in una terra che, pur nella sua specificità, condivideva e, per certi versi condensava, tutti gli elementi della questione meridionale. Il secondo fu la sua esperienza di direzione e di dibattito all’interno de L’Ordine Nuovo, il giornale dei comunisti torinesi, i quali avviarono collettivamente un confronto e un lavoro politico innovativo sulla questione meridionale nel nostro paese. Sono gli intellettuali e i militanti che più tardi lui stesso definirà i “santoni cari ai “giovani” del Quarto Stato” [3] ovvero Giustino Fortunato, Eugenio Azimonti, Arturo Labriola e, soprattutto, Gaetano Salvemini.
Ma già cinque anni dopo essere arrivato a Torino, nel 1916, nell’articolo da lui redatto Il Mezzogiorno e la guerra, apparso sul settimanale socialista Il Grido del Popolo, emergono temi come le diseguaglianze territoriali, le forme di sviluppo del capitalismo in Italia e il protezionismo che, favorendo la cerealicoltura dei latifondi, ebbero effetti nefasti per le classi contadine del meridione. E già in questo primo testo abbozza una sua specifica soluzione stridente, pur da posizioni ancora riformiste, con molte delle posizioni meridionaliste del tempo: “Il Mezzogiorno non ha bisogno di leggi speciali e di trattamenti speciali. Ha bisogno di una politica generale, estera ed interna, che sia ispirata al rispetto dei bisogni generali del paese”. [4]
Pochi mesi più tardi, poi, in Clericali ed agrari, pubblicato sull’organo ufficiale del Partito Socialista, il quotidiano “Avanti!”, nel condurre la polemica contro il protezionismo sui dazi che pesava maggiormente sui contadini del sud, afferma l’interconnessione tra masse settentrionali e quelle meridionali, affermando che uno sciopero a Torino per “l’aumento del prezzo del pane può servire a salvare la Sardegna e la Calabria”. [5]
Nel 1917, sempre sull’ “Avanti!”, uscirà un altro articolo dal titolo I galantuomini, in cui Gramsci, riprendendo l’analisi svolta precedentemente da Salvemini, attacca la borghesia burocratica e intellettuale del Mezzogiorno, incapace di dare una rappresentanza politica reale alla questione meridionale.
Nonostante, proprio sulla questione degli intellettuali, Gramsci sia ancora debitore nei confronti di Salvemini, la rottura con questi non tarderà a giungere e sarà sul terreno pratico della lotta. Il 1917 è l’anno fatidico della Rivoluzione Sovietica, che investe l’intera elaborazione e pratica del movimento operaio. Dall’adesione al leninismo nasce, due anni dopo, L’Ordine Nuovo, che sarà uno dei centri di elaborazione politica e intellettuale per la costituzione del Partito Comunista. Anche le posizioni sulla questione meridionale da parte di Gramsci si sviluppano: influenzato dalle posizioni di Lenin per il quale l’unione tra contadini e operai si inscrive in una concreta strategia per la conquista del potere, si allontana definitivamente da Salvemini, accusandolo di dissociare l’idea di cultura e politica da quella di organizzazione economica e politica rivoluzionaria.
In uno dei successivi articoli sulla questione, dal titolo Operai e contadini, pubblicato su L’Ordine Nuovo nel 1920, si muove su questo nuovo terreno: lontano da ogni moralismo e riformismo salveminiano, la questione meridionale viene posta in termini rivoluzionari. In linea con il pensiero di Lenin, Gramsci afferma la necessità di elevare operai e contadini al di sopra dei loro interessi immediati, per unirsi nella lotta di classe per l’affermazione del comunismo. Anche ai contadini così come agli operai sarà necessario fornire una teoria della rivoluzione lontana quindi dall’economicismo, che riduce gli obiettivi delle lotte rurali alla sola divisione dei latifondi; i contadini così come gli operai devono aver chiaro che “i problemi attuali dell’economia industriale e agricola possono essere risolti solo fuori dal Parlamento, contro il Parlamento, dallo Stato operaio”. [6] Per i contadini, dunque, la conquista della terra è solo un momento della lotta orientato alla costruzione dello Stato diretto dai lavoratori.
L’anno successivo, con la nascita del Partito Comunista d’Italia (Pcd’I), cui Gramsci aderisce, inizia una nuova fase per la lotta rivoluzionaria nel nostro paese: la classe operaia, sempre seguendo l’esempio dei bolscevichi, si è data il proprio partito nella battaglia contro la classe dominante.
Dal bordighismo alle Tesi di Lione
Storicamente, in Italia, la politica delle riforme delle terre era stata una rivendicazione del Partito Socialista che però non era riuscito a radicarsi fortemente nel Meridione come al Settentrione. Tuttavia, non vi era mai stata un’unità vera e propria tra masse settentrionali e masse meridionali nei movimenti di classe emersi dopo la costituzione del Regno d’Italia, ma i moti del biennio rosso (1919-20), sull’onda della Rivoluzione Sovietica, avevano visto rivoltarsi contemporaneamente la classe operaia settentrionale e settori di contadini in diverse zone del Mezzogiorno.
Il dibattito tra socialisti riformisti e comunisti attorno alla questione agraria non è una questione prettamente italiana, ma coinvolge tutta l’Europa. La spaccatura tra le due tendenze del movimento operaio è caratterizzata dal fatto che il comunismo internazionale esprime, in maniera abbastanza univoca fin dalla Rivoluzione d’Ottobre, una particolare attenzione al coinvolgimento dei contadini, che vengono visti come l’alleato naturale della classe operaia nella lotta per il potere.
In Italia, il dibattito prosegue all’interno del nuovo Partito Comunista e ha come principali protagonisti Amedeo Bordiga e Antonio Gramsci, nella lotta tra linea borghese e linea proletaria tipica delle organizzazioni e dei partiti comunisti.
Durante tutta la fase di direzione di Bordiga, il problema contadino continuò infatti a non assumere un posto centrale nell’elaborazione della nuova formazione, con delle aggravanti rispetto allo stesso Partito Socialista, dettate da una scarsa relazione con i sindacati agricoli e con una lettura del processo rivoluzionario che non poneva il problema delle alleanze. L’estremismo di Bordiga, per cui la classe operaia e i comunisti non dovevano avere una politica di alleanze, lo portava di fatto ad avere sulla questione contadina le stesse posizioni dei menscevichi in Russia. A riprova che, nella pratica o meglio nella paralisi della pratica rivoluzionaria, l’opportunismo di “sinistra” e quello di destra tendono a coincidere. [7]
A Torino intanto, su spinta della redazione de “L’Ordine Nuovo”, iniziò ad uscire il quindicinale L’Operaio Agricolo, che poneva la questione del lavoro politico nelle campagne. Gramsci ottenne che la pubblicazione diventasse organo ufficiale del Partito in merito alla “cultura agraria”, ma dopo quattro numeri cessò di uscire. Nonostante la vita breve del quindicinale, ciò sarà sufficiente per rilanciare il dibattito sulla questione agraria e far emergere le posizioni diverse da quella di Bordiga, come quelle di Giovanni Sanna, che si intesteranno un lavoro complessivo sulla questione. Sanna, in linea con Gramsci nella polemica nei confronti di Bordiga, amplierà il dibattito affermando la coincidenza tra questione agraria e questione meridionale e la coincidenza tra quest’ultima e il problema dei contadini poveri. Tuttavia, durante il secondo congresso del Pcd’I, tenutosi a Roma nel 1922, la questione meridionale venne di fatto ignorata, seguendo l’impostazione di Bordiga e la questione agraria venne posta in termini molto generali, senza analisi concreta.
Sarà necessario allora la pressione della Commissione agraria dell’Internazionale per riaccendere il dibattito attorno alla questione, portando così alla creazione, a Napoli, della sezione agraria del Pcd’I presieduta da Sanna. La sezione, tuttavia, non avrà vita facile, sia perché si stava instaurando il regime fascista, con la distruzione del movimento contadino e sia perché la direzione bordighista osteggiava la specificità di un lavoro politico rispetto alla questione meridionale. Bordiga stesso, in uno suo scritto dal titolo I rapporti delle forze sociali e politiche in Italia, negherà in maniera esplicita l’esistenza stessa di una questione meridionale, sancendo in qualche modo la fine dell’esperienza della sezione. Solo nel 1924, la sezione agraria venne ricostituita, grazie alle pressioni del Comintern e all’opera di due importanti dirigenti comunisti di origine pugliese, Giuseppe di Vittorio e Ruggero Grieco, che riuscirono a costituire un sindacato contadino quale diretta emanazione del Pcd’I, l’Associazione di difesa dei contadini del Mezzogiorno, che raccolse 13 mila tesserati, soprattutto in Puglia.
Frattanto, la crisi tra la linea di Bordiga e quella di Gramsci inizia ad avere contorni sempre più netti e tutto il dibattito prima del congresso del 1926, quello in cui si discuteranno le Tesi di Lione redatte da Gramsci, verterà in particolare su tre questioni. La prima è la questione della definizione del fascismo. Per Bordiga il fascismo è espressione di tutto il sistema, si tratta di un regime transitorio ed è identificabile tout court con il capitalismo; per combatterlo non sono necessarie alleanze, anzi la classe operaia deve state attenta a qualsiasi elemento che la possa rendere spuria. Per Gramsci, invece, è necessario comprendere i caratteri originari del fascismo piccolo-borghese e del contrasto con la sua funzione di difensore del grande capitale, quindi eroderne l’egemonia e allargare il più possibile gli alleati della classe operaia.
La seconda questione riguarda la concezione e la funzione del partito. Per Bordiga il Partito deve essere costruito in maniera rigida, la sua tattica deve essere costruita “basandosi sulla previsione di un momento avvenire in cui gli spetterà di guidare la classe operaia al definitivo assalto alla conquista del potere”. [8] Per Gramsci, invece, il Partito deve accompagnare la classe in tutte le sue fasi intermedie fino al raggiungimento della presa del potere.
Infine, la terza questione è quella meridionale. Su questa ultima questione il contributo di Gramsci è peculiare rispetto a quello degli altri membri del Partito che condividevano la sua linea. Gramsci da molto prima del dibattito precongressuale, aveva elaborato, seppure in maniera frammentaria, pensieri attorno alla questione meridionale e nello specifico all’alleanza tra proletariato del Nord e contadini del Sud. Sarà, però, solo dopo il suo soggiorno sovietico nell’autunno del 1922, che si impegnerà a tradurre in una chiave assolutamente originale l’insegnamento leninista e a rilanciare quindi all’interno del Partito il dibattito sul problema contadino e meridionale. Nella lettera al Comitato Esecutivo del Pcd’I nella quale annunciava l’avvio della pubblicazione de l’Unità scriverà a tal proposito: “(…) noi dobbiamo dare importanza speciale alla quistione meridionale, cioè alla quistione in cui il problema dei rapporti tra operai e contadini si pone non soltanto come un problema di rapporto di classe, ma anche specialmente come un problema territoriale, cioè uno degli aspetti della quistione nazionale”. [9]
L’intuizione di Gramsci è quella che la questione meridionale rappresenta non solo la questione agraria, cioè il problema dell’alleanza con i contadini prima e dopo la presa del potere, ma una chiave di volta essenziale per comprendere e trasformare la società italiana, fine politico e altresì mezzo strategico per risolvere sia la questione di classe che la questione nazionale, per portare a compimento l’unificazione del paese, nel socialismo e superare gli squilibri tra Nord e Sud di cui traevano giovamento le classi sfruttatrici. A tal proposito e al fine di conquistare le masse, Gramsci insiste sulla necessità di partecipare a tutte le lotte per le rivendicazioni parziali che le masse stesse conducono, entrare in connessione con loro, parlare la loro lingua.
La questione meridionale, così descritta da Gramsci, diventa quindi un elemento non strumentale ma intrinseco della rivoluzione. Il forte dibattito che si crea sulla questione meridionale, sul fascismo e sul rapporto tra strategia e tattica tra Gramsci e Bordiga sancisce l’inconciliabilità delle due linee all’interno del Partito. Al terzo congresso del Pcd’I, tenutosi a Lione, in Francia, al riparo dal regime fascista oramai instauratosi, Gramsci presenta proprie tesi, passate alla storia come Tesi di Lione. Esse conquistarono la maggioranza dei voti dei delegati, sancendo la sconfitta della linea bordighista e mettendo al centro dell’agire del Partito il radicamento e la mobilitazione, non solo degli operai, ma anche dei contadini meridionali. Questi ultimi erano in “una posizione analoga a quella delle popolazioni coloniali. La grande industria del Nord adempie verso di esse la funzione delle metropoli capitalistiche: i grandi proprietari di terre e la stessa media borghesia meridionale si pongono invece nella situazione delle categorie che nelle colonie si alleano alla metropoli per mantenere soggetta la massa del popolo che lavora. Lo sfruttamento economico e la oppressione politica si uniscono quindi per fare della popolazione lavoratrice del Mezzogiorno una forza continuamente mobilitata contro lo Stato”. [10] Le forze motrici della rivoluzione, secondo le Tesi di Lione, sono la classe operaia e i lavoratori agrari, che vengono distinti in contadini salariati, proletariato agricolo, cioè i braccianti, e contadini del Meridione e delle Isole, quindi anche i mezzadri, i fittavoli e i piccoli proprietari.
Gramsci, anche dopo la vittoria al secondo congresso, continuò nell’analisi della questione meridionale, scrivendo l’opuscolo Alcuni temi della questione meridionale, rimasto incompiuto a causa dell’incarcerazione da parte del regime fascista. Negli otto anni di carcere, prima della scarcerazione e il ricovero per gravi problemi di salute, che lo portarono in tre anni alla morte, continuò a scrivere, nei famosi diari, ancora preziose annotazioni e riflessioni sul Mezzogiorno d’Italia.
Il metodo di Gramsci sulla questione meridionale
L’elaborazione di Gramsci sulla questione meridionale fu il risultato da un’analisi concreta della situazione concreta, basata su molteplici fattori collegati tra di loro, fattori economici, politici, storici e persino di studio della psicologia di massa.
I fattori economici analizzati si basavano su due fenomeni connessi tra di loro: il passaggio da un’economia di stampo feudale ad un’economia di tipo capitalista e la miseria del Sud funzionale allo sviluppo industriale del Nord. Scriveva Gramsci dal carcere: “Che l’introduzione e lo sviluppo del capitalismo in Italia non sia avvenuto da un punto di vista nazionale, ma da angusti punti di vista regionali e di ristretti gruppi e che abbia in gran parte fallito ai suoi compiti, determinando un’emigrazione morbosa, ma riassorbita, e di cui è mai cessata la necessità, e rovinando economicamente intere regioni, è certissimo”. [11] E ancora: “(…) l’unità non era avvenuta su una base di uguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno nel rapporto territoriale di città-campagna, cioè che il Nord concretamente era una “piovra” che si arricchiva alle spese del Sud e che il (suo) incremento economico-industriale era in rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale”. [12] Il Sud per Gramsci era così ridotto ad uno stato coloniale: “Le popolazioni lavoratrici del Mezzogiorno hanno una posizione analoga a quella delle popolazioni coloniali. La grande industria del Nord adempie verso di esse la funzione delle metropoli capitalistiche: i grandi proprietari di terre e la stessa media borghesia meridionale si pongono invece nella situazione delle categorie che nelle colonie si alleano alla metropoli per mantenere soggetta la massa del popolo che lavora”. [13]
La struttura economica capitalista poggia le sue basi su una specifica congiuntura storica (e qui i fattori storici che Gramsci tiene in considerazione): l’unità politico-territoriale del paese, funzionale al proliferare stesso del modello economico capitalista. Unificare il paese diventa un’ossessione per la classe dominante, costretta per la sua sopravvivenza a bloccare e reprimere duramente qualsiasi tentativo di ribellione da parte delle masse del sud. E sarà proprio quello che la classe dominante farà concretamente, promulgando continui stati d’assedio e istituendo tribunali marziali come accadde, per esempio, in Sicilia nei confronti del movimento dei Fasci dei Lavoratori.
Osservando l’avvento del capitalismo in Italia, Gramsci non si sofferma soltanto sui fenomeni quali la concentrazione dei mezzi di produzione e le condizioni di sfruttamento delle masse proletarie, ma anche sulle conseguenze psicologiche da esse determinate. [14]
Osservare le conseguenze dal punto di vista psicologico significa soffermarsi previamente anche su quella che era la psicologia delle masse prima dell’avvento del capitalismo e, in particolare, quale differenza esiste tra la mentalità dell’operaio e quella del contadino. “(…) la psicologia del contadino si riduceva a una piccolissima somma di sentimenti primordiali dipendenti dalle condizioni sociali create dallo Stato democratico-parlamentare: il contadino era lasciato in balia dei proprietari e dei funzionari politici corrotti (…) Non comprendeva l’organizzazione, non comprendeva lo Stato, non comprendeva la disciplina (…)”. E ancora, in un altro passaggio Gramsci afferma: “La psicologia dei contadini era incontrollabile; i sentimenti reali rimanevano (…) confusi in un sistema di difesa contro gli sfruttamenti (…) La lotta di classe si confondeva con il brigantaggio (…) una forma di terrorismo elementare, senza conseguenze stabili ed efficaci”. [15]
Solo la mobilitazione obbligata delle masse contadine per la Prima guerra mondiale era riuscita a comportare la creazione di un senso di unità e disciplina collettiva che in Russia, grazie alla guida del Partito Comunista come avanguardia della classe operaia, e alla costituzione dei soviet, era divenuta forza rivoluzionaria: “Nelle condizioni arretrate dell’economia capitalistica di prima della guerra non era stato possibile il sorgere e lo svilupparsi di vaste e profonde organizzazioni contadine, nelle quali i lavoratori dei campi si educassero ad una concezione organica della lotta di classe e alla disciplina permanente necessaria per la ricostruzione dello Stato dopo la catastrofe capitalistica. Le conquiste spirituali realizzate durante la guerra, le esperienze comunistiche accumulate in quattro anni di sfruttamento del sangue, subito collettivamente, stando gomito a gomito nelle trincee fangose e insanguinate, possono andare perdute se non si riesce a inserire tutti gli individui in organi di vita nuova collettiva, nel funzionamento e nella pratica dei quali le conquiste possono solidificarsi, le esperienze possono svilupparsi, integrarsi, essere rivolte consapevolmente al raggiungimento di un fine storico concreto”. [16] Anche in Italia, la questione si poneva in tal senso e bisognava sviluppare la capacità di agire e di dirigere da parte della classe operaia: “Lo sviluppo e la rapidità del processo rivoluzionario non sono prevedibili al di fuori di una valutazione di elementi soggettivi: cioè dalla misura in cui la classe operaia riuscirà ad acquistare una propria figura politica, una coscienza di classe decisa e un’indipendenza da tutte le altre classi, dalla misura in cui essa riuscirà ad organizzare le sue forze, cioè ad esercitare di fatto un’azione di guida degli altri fattori in prima linea a concretare politicamente la sua alleanza con i contadini”. [17]
Per quanto riguarda il sud nello specifico Gramsci individua il principale nemico dei contadini sul terreno nel blocco agrario, cioè nei latifondisti, e nel blocco intellettuale che ne difende il potere, formato da borghesia burocratica ed intellettuale. Per spezzare questa egemonia era auspicabile anche che intellettuali meridionali abbandonassero la sottomissione ai latifondisti per porsi al servizio delle masse oppresse: “Il proletariato, come classe, è povero di elementi organizzativi, non ha e non può formarsi un proprio strato di intellettuali che molto faticosamente (…) Ma è anche importante che nella massa degli intellettuali si determini una frattura di carattere organico, storicamente caratterizzata: che si formi, come formazione di massa, una tendenza di sinistra (…) cioè orientata verso il proletariato rivoluzionario. L’alleanza tra proletariato e masse contadine esige questa formazione: tanto più la esige l’alleanza tra proletariato e le masse contadine del Mezzogiorno. Il proletariato distruggerà il blocco agrario meridionale nella misura in cui riunirà, attraverso il suo Partito, in formazioni autonome e indipendenti, sempre più notevoli masse di contadini poveri; ma riuscirà in misura più o meno larga in tale suo compito obbligatorio anche subordinatamente alla sua capacità di disgregare il blocco intellettuale è l’armatura flessibile ma resistentissima del blocco agrario”. [18]
Risulta interessante notare come, contemporaneamente all’analisi di Gramsci in Italia, Mao Tse Tung e il Partito Comunista in Cina facevano, di fatto, la stessa cosa, con inchieste [19] sul campo e la redazione di scritti per “compiere un’analisi generale della condizione economica delle diverse classi della società cinese e del rispettivo atteggiamento nei confronti della rivoluzione”. [20]
In generale, quello che impariamo dal lavoro di Gramsci (e di Mao) è il metodo di fare “analisi concreta della situazione concreta” [21] – il quale riesce a tenere insieme e collegare tra loro diversi fattori tutti incidenti sulla vita delle masse – e che dobbiamo applicare nel nostro lavoro quotidiano.
Gramsci e l’oggi
Antonio Gramsci e i suoi compagni comunisti torinesi hanno avuto il merito di imporre la questione meridionale all’attenzione dell’avanguardia operaia, prospettandola come “uno dei problemi essenziali della politica nazionale del proletariato rivoluzionario”. [22] Ma quello che fin qui è stato ripreso dal pensiero di Gramsci può fungere da modello di analisi per agire da comunisti nella fase attuale.
Seppur oggi il Sud si presenta cambiato nella sua composizione di classe rispetto al Sud di Gramsci, un netto divario tra le condizioni di vita delle masse del Nord e delle masse del Sud esiste ancora, in termini di composizione di classe e accrescimento delle forze produttive, conseguenza diretta dello sviluppo diseguale della nostra formazione capitalista. Nel generale decadimento delle condizioni di vita per le masse popolari italiane, il differenziale storico tra Nord e Sud continua ad esistere ed è facilmente osservabile, in particolare nei diversi livelli di povertà e disoccupazione [23] e nell’assenza/presenza di servizi sanitari e infrastrutture e della loro condizione.

Il lavoro e il pensiero gramsciano si rivelano quindi utili strumenti per come leggere la situazione attuale del Meridione e la sua composizione sociale.
Affrontare la questione meridionale, oggi, diventa necessario per due ragioni: la prima, per compiere un’analisi concreta della situazione concreta in Italia e non cadere in facili sintesi che accomunano le condizioni di vita di tutte masse popolari italiane; la seconda, conseguenziale alla prima, per una pratica politica finalizzata alla realizzazione di una prospettiva rivoluzionaria e di una linea di massa [24] corrispondente. La classe operaia, per la sua posizione nei rapporti sociali di produzione, è l’unica che può assumere la direzione di classe nel superamento del sistema capitalista. Ma è altrettanto vero che non può vincere da sola. La classe operaia deve porsi alla testa di un sistema di alleanze che raccolga attorno a sé tutte le riserve strategiche disponibili all’abbattimento di questo sistema. I comunisti per costruire la linea rivoluzionaria devono tener conto del diverso sviluppo economico in Italia e della diversa composizione sociale che ne deriva; devono quindi lavorare per quell’alleanza di classi sfruttate a cui faceva riferimento Gramsci, partendo, innanzitutto, proprio dalla conoscenza di queste classi.
Quello che ci proponiamo nei prossimi numeri, è uno studio dettagliato della composizione di classe al sud, soffermandoci su fenomeni particolari che investono proprio il Meridione come, per esempio, la criminalità organizzata che gestisce notevoli capitali, da quelli transnazionali a quelli locali, che sono anche in grado di “dare risposte” al problema occupazionale o come le grandi sacche di lavoratori e lavoratrici in nero, italiani e immigrati.
Note:
[1] A. Gramsci, Alcuni temi della questione meridionale, 1926, p. 5, reperibile su fondazionegramsci.it
[2] Ivi, p. 3 e 5. Per “questione vaticana” Gramsci intende la forte influenza della religione cattolica e dunque del potere del Vaticano sulle
masse contadine. Anche su questo aspetto, egli elaborerà delle riflessioni per una linea di massa dei comunisti che tenga presente l’identità religiosa, rifuggendo il facile massimalismo anticlericale tipico degli anarchici e dei socialisti dell’epoca.
[3] Ivi, p. 4
[4] A. Gramsci, La questione meridionale, Freeditorial, scaricabile su biblioweb, p. 3
[5] Ivi, p. 6
[6] A. Gramsci, Operai e contadini, 1920, marxist.org
[7] Vedi infra Glossario.
[8] P. Togliatti, La nostra ideologia, l’Unità, 23 settembre 1925.
[9] A. Gramsci, La lettera per la fondazione de l’Unità, 12 settembre 1923, in La questione meridionale, op. cit.
[10] A. Gramsci, Tesi di Lione, 1926, marxist.org
[11] A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Sulla struttura economica nazionale, Quaderno 19 (X) § 7, quadernidalcarcerewordpress.com
[12] Ivi, Il problema della direzione politica nella formazione e nello sviluppo della nazione e dello Stato moderno in Italia, Quaderno 19 (X) § 24
[13] A. Gramsci, Tesi, op. cit.
[14] Nei Quaderni, Gramsci definisce la nozione di psicologia come “i fenomeni elementari di massa, non predeterminati, non organizzati, non diretti palesemente, i quali manifestano una frattura dell’unità sociale tra governati e governanti”, A. Gramsci, Quaderni, op. cit., Psicologia e politica, Quaderno 6 (VIII) § (90)
[15] A. Gramsci, Operai e contadini, 1919, in La questione meridionale, op. cit. p. 7 e 8
[16] Ivi, p. 8 e 9
[17] A. Gramsci, Tesi di Lione, op. cit
[18] A. Gramsci, Alcune temi, op. cit., p. 24
[19] Vedi Antitesi n° 15 p. 86
[20] Mao Tse Tung, Analisi delle classi della società cinese, 1926, in Opere di Mao Tse Tung, Edizioni Rapporti Sociali, volume 2, p. 46
[21] Lenin, Kommunismus, 1920, in Opere Complete, Editori Riuniti, p. 135
[22] A. Gramsci, Alcune temi, op. cit., p. 4
[23] Vedi scheda “I dati occupazionali nel divario Nord Sud”
[24] Vedi “La linea di massa. Il metodo di direzione dei comunisti” in Antitesi n°12, pp. 70 ss.
I dati occupazionali nel divario Nord Sud
Nel 2023 il tasso di occupazione in Italia ha raggiunto il 61,5%, il valore più alto mai registrato che comunque mantiene l’Italia tra i paesi con la percentuale più bassa in Europa. Le regioni con un tasso di occupazione superiore al 70% nella fascia d’età tra i 15 e i 64 anni si trovano al Nord (Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta, Emilia Romagna, Veneto) mentre le regioni con il tasso di occupazione sotto il 50% si trovano al Sud (Sicilia, Calabria, Campania): a Caltanissetta il tasso di occupazione è del 37,7% meno della metà di quello di Bolzano. Comune a tutta la penisola è il dato occupazionale femminile, che è minore di quello maschile (l’occupazione maschile supera del 25% quello femminile), ma anche in questo caso il divario nord/sud rimane: in alcune province meridionali come Taranto e Napoli l’occupazione maschile è superiore del 50%.
Secondo la classificazione dell’Istat i settori occupazionali sono cinque: agricoltura, costruzioni, commercio, industria e servizi. E sul settore dell’agricoltura e dell’industria emergono i dati che più indicano il divario nord/sud: per quanto riguarda l’agricoltura (4% degli occupanti) sono le regioni meridionali ad avere una maggiore quota di occupati mentre per quanto riguarda il settore industriale (20% degli occupanti) sono le regioni del centro e del nord ad avere più occupati. Infine, nel settore dei servizi dove vi sono la maggior parte degli occupati (56%) la situazione è più omogenea e quasi nessuna provincia scende sotto il 40%. Per quanto riguarda il tasso di disoccupazione, anche in questo caso il divario nord/sud rimane e in generale si osserva che nessuna regione del nord ha un tasso di disoccupazione superiore al 7%, mentre in 5 regioni meridionali si supera il 10%. In particolare, a Napoli e Messina il tasso di disoccupazione si aggira attorno al 20% e attorno al 15% a Catania, Palermo, Foggia.
Questa è la fotografia che ci viene data dai dati Istat, ma è necessario precisare che per tale istituto è occupato chiunque, dai quindici anni in su, lavori almeno un’ora nella settimana di rilevazione e che vengono definiti inattivi coloro che non cercano più stabilmente un lavoro, depennati così dalla percentuale dei disoccupati. Da questa precisazione deriva che i dati sopra elencati devono essere trattati con molta attenzione, ma il divario tra nord e sud dal punto di vista occupazionale resta comunque un fenomeno da tenere in considerazione.