Contropiano o contro Lenin?
Critica a “La Russia è un paese imperialista?”
“Ideologia borghese e teoria del proletariato” da Antitesi n.16 – pag.67
“Voglio sperare che il mio lavoro contribuirà a chiarire la questione economica fondamentale, la questione cioè della sostanza economica dell’imperialismo, perché senza l’analisi di essa non è possibile comprendere né la guerra odierna né la situazione politica odierna”. [1]
A leggere il saggio di Leonardo Bargigli La Russia è un paese imperialista? [2] si ricava la netta sensazione che, per quanto sostenuto dall’autore e da tutti quelli che partecipano alla sua confusione ideologica, la speranza di Lenin risulti purtroppo frustrata.
Tuttavia, il testo in questione, pubblicato sulla rivista online Contropiano (legata a Rete dei comunisti), è particolarmente utile perché raccoglie un insieme di idee sbagliate la cui disamina ci da l’occasione di dettagliare e approfondire la questione dell’imperialismo dal punto di vista comunista. Le idee giuste infatti si affermano, oltre che con la verifica nella pratica, anche combattendo le idee sbagliate. A questo scopo considereremo unicamente e principali idee essenziali che costituiscono l’ossatura del saggio [3], facendo deroga delle numerose incongruenze e imprecisioni che lo caratterizzano. Cercheremo di farlo attingendo al patrimonio teorico accumulato dal movimento comunista internazionale, con particolare riferimento a L’imperialismo, fase suprema del capitalismo di Lenin.
L’importanza della critica al testo di Bargigli sta nel fatto che dalla sua argomentazione discende e si giustifica una linea politica errata, illusoria e riformista che, partendo da una impostazione ideologica revisionista, approda esplicitamente o implicitamente alla rivendicazione di uno sviluppo multipolare pacifico nella fase imperialista del capitalismo.
Le condizioni dell’imperialismo
L’impostazione revisionista del testo di Bargigli è resa chiara dalla enunciazione delle due condizioni che sono da lui ritenute necessarie per definire un paese imperialista. La prima condizione posta è lo sviluppo economico, considerando come indicatore il livello del reddito medio: “per stabilire se un dato paese è imperialista o meno, occorre prima di tutto considerare la sua economia in termini relativi, mettendo a confronto il suo reddito medio con quello degli altri paesi”. A compendio di questa condizione Bargigli pone la questione della scala della produzione: “Per comprendere perché, basta considerare gli esempi di Stati molto ricchi, ma troppo piccoli per condurre una politica imperialista (Svizzera, Lussemburgo etc). È quindi necessario che l’economia del paese considerato sia sufficientemente grande da generare quelle risorse economiche che possono finanziare una politica imperialista”.
Si indica poi una seconda condizione che avrebbe la pretesa si concludere il ragionamento: “se lo sviluppo economico dei paesi non imperialisti è una condizione sufficiente per il superamento dell’imperialismo, lo sviluppo di un particolare paese non imperialista non può implicare necessariamente la sua trasformazione in un paese imperialista” e “perché questo accada, occorre che quel paese, oltre a svilupparsi economicamente, instauri relazioni di tipo imperialista ai danni di stati non imperialisti”.
Si parte cioè da un’ipotesi che non ha nessuna verifica, né logica né empirica (lo sviluppo economico capitalistico dei paesi non imperialisti è una condizione sufficiente per il superamento dell’imperialismo), per approdare alla tesi revisionista che il carattere imperialista sia dovuto alle politiche imperialiste condotte da singoli Stati caratterizzati da una economia capitalista.
Niente di più lontano dalla concezione leninista dell’imperialismo. Lenin infatti nel suo saggio “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo” fin dall’incipit chiarisce che “uno dei tratti più caratteristici dell’imperialismo è costituito dell’immenso incremento dell’industria e dal rapidissimo processo di concentrazione della produzione in imprese sempre più ampie”. [4]
In particolare, per quanto riguarda la prima condizione in tutto il saggio di Lenin, e precisamente nei cinque contrassegni dell’imperialismo (sistematizzati nel capitolo 7), non vi è traccia dei livelli di reddito e della scala della produzione. E’ invece sviluppata la tesi di fondo che è l’intero sistema capitalistico ad entrare nella sua fase imperialista. “Il sorgere dei monopoli, per effetto del processo di concentrazione, è in linea generale, legge universale e fondamentale dell’odierno stadio di sviluppo del capitalismo”. [5] Per Lenin, quindi, l’imperialismo è lo stadio monopolistico del capitalismo, è il capitalismo della nostra epoca. “L’imperialismo è dunque il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, l’esportazione di capitale ha acquistato grande importanza, è cominciata la ripartizione del mondo tra i trust internazionali ed è già compiuta la ripartizione dell’intera superficie terrestre tra i più grandi paesi capitalistici”. [6] A questo passaggio essenziale, Lenin collega la concretezza storica, il processo storico della fase imperialista del capitalismo: il colonialismo, il semicolonialismo, lo sviluppo su scala globale della produzione di valore e plusvalore, la prevalenza del capitale finanziario, il definirsi della borghesia imperialista come oligarchia finanziaria, la lotta tra i gruppi monopolisti per la spartizione del mondo fino alla guerra mondiale, il superamento dell’imperialismo tramite la rivoluzione e l’instaurazione del socialismo.
La prima condizione, posta da Bargigli per definire un paese imperialista, (la differenza del livello del reddito medio) accomuna in un’unica categoria profitto, interesse, rendita e salario occultando la radice strutturale e di classe dell’imperialismo (il sorgere dei monopoli e la prevalenza del capitale finanziario) e con essa il sorgere nell’ambito della borghesia imperialista di una oligarchia finanziaria. Con il compendio alla prima condizione, che stabilisce la necessità che “l’economia del paese considerato sia sufficientemente grande da generare quelle risorse economiche che possono finanziare una politica imperialista”, il pasticcio diventa ancora più grande. Qui si occulta ancora la stessa questione delle classi (borghesia imperialista, classe operaia, popoli oppressi), e le loro relazioni che caratterizzano le formazioni imperialiste, e si assume come soggetto imperialista essenziale il “paese”, categoria-paravento dietro alla quale in realtà si celano le sovrastrutture Stato-nazionali: quelle sovrastrutture che i gruppi della borghesia imperialista (anche transnazionali) utilizzano come strumento per governare internamente le contraddizioni di classe e per proiettare all’esterno il dominio imperialista in funzione dello sfruttamento monopolista.
Contrariamente a quanto considerato da Bargigli, per la concezione leninista dell’imperialismo la Svizzera non è troppo piccola per essere imperialista, dato che in ragione della sua struttura economica monopolistico-finanziaria, è la sua borghesia ad essere imperialista. Il banchiere svizzero, infatti, è parte della borghesia imperialista al pari degli altri esponenti dell’oligarchia finanziaria. Ancor più chiaramente lo Stato sionista, pur essendo piccolo, è senza dubbio imperialista perché, ancor prima della sua politica coloniale genocida del popolo palestinese e di espansionismo guerrafondaio contro i popoli arabi, lo è la sua struttura, economica caratterizzata dallo sviluppo monopolistico (in particolare nei settori high tech), dalla prevalenza del capitale finanziario e dalla piena integrazione della sua classe dominante con la borghesia imperialista e l’oligarchia finanziaria Usa e occidentale.
La seconda condizione, indicata da Bargigli per definire uno Stato come imperialista, stabilisce che “Perché questo accada, occorre che quel paese (capitalista ndr), oltre a svilupparsi economicamente, instauri relazioni di tipo imperialista ai danni di stati non imperialisti”: questo è un bel esempio di concezione revisionista. Qui si stacca la politica dell’imperialismo dalla sua economia. Lo si fa per puntellare, in maniera tautologica, l’implicito postulato errato su cui si basa tutto il castello di carte costruito dall’autore: cioè quello che nella fase imperialista del capitalismo vi può essere sviluppo capitalista non imperialista. In proposito è sempre chiarificatore Lenin: “L’essenziale è che Kautsky separa la politica dell’imperialismo dalla sua economia interpretando le annessioni (politica imperialista della sua epoca ndr) come politica ‘preferita’ dal capitale finanziario, e contrapponendo ad essa un’altra politica borghese, senza annessioni, che sarebbe secondo lui possibile sulla stessa base del capitale finanziario”. [7]
Come chiarisce Lenin così “invece che marxismo si ha del riformismo borghese”. In questa concezione infatti le politiche imperialiste non sono una conseguenza necessaria dello sviluppo monopolistico, ma un’opzione. Staccando le politiche imperialiste dall’economia imperialista, come dice Lenin, “Kautsky fa passare di contrabbando la meschina idea pacifistica, borghese, filistea, opportunistica secondo la quale ‘non vi è alcuna ragione di far guerra’. Al contrario, ora (nella fase imperialista del capitalismo ndr) i capitalisti non soltanto hanno una ragione per far la guerra, ma non possono non farla, se vogliono conservare il capitalismo, poiché senza una spartizione forzata delle colonie i nuovi paesi imperialistici non possono avere quei privilegi dei quali usufruiscono le potenze imperialistiche più vecchie”. [8]
È oltremodo chiaro che, per Lenin, l’imperialismo è un sistema economico (il capitalismo della nostra epoca) e non un insieme di politiche di oppressione (che è, invece, una posizione revisionista).
Struttura e sovrastruttura nella fase imperialista
Una volta sgomberato il campo dalle condizioni errate poste da Bargigli per considerare l’essere, o il non essere, imperialista di una data formazione Stato-nazionale, possiamo cercare di capire come si è svolto storicamente il passaggio alla fase imperialista, fase che Lenin definisce fase suprema e di putrefazione del capitalismo. Con l’accumulazione, la concentrazione e la centralizzazione dei capitali la struttura economica della fase classica del capitalismo (caratterizzata della concorrenza) evolve in struttura economica della fase imperialista (caratterizzata dai monopoli). Non è stato un passaggio indolore, ma caratterizzato da crisi e guerra e nei suoi tratti fondamentali si è definito tra la grande crisi di fine ‘800 e la prima guerra mondiale. Da quel momento in poi, le singoli formazioni socioeconomiche hanno fatto i conti con le nuove condizioni che si erano imposte e sono entrate nella fase imperialista o come forma zioni dominanti o come formazioni dominate. Come formazioni dominanti riuscendo a sviluppare propri monopoli, anche sotto l’ala pubblico-statale (vedi ad es. lo sviluppo dei monopoli in Italia: Italsider, Enel, Eni, ecc.), e utilizzando il protezionismo per non vederli soffocati dai preesistenti monopoli di altre formazioni più avanzate nella lotta per la spartizione dei mercati; come formazioni dominate subendo il rapporto di dominio imperialista, diventando terra di conquista, colonie e semicolonie soggette allo sfruttamento monopolista e alla rapina imperialista che ha come oggetto materie prime e forza lavoro.
L’affermazione di Bargigli “il superamento dell’imperialismo consiste necessariamente nel superamento della disuguaglianza economica tra gli Stati (capitalisti ndr)”, ha il sapore del buon senso comune, ma non considera come in realtà lo sviluppo economico capitalista può darsi ora (nella fase imperialista) solo sulla base di una struttura economica imperialista, cioè sulla base dei monopoli, della dominanza del capitale finanziario, dell’esportazione di capitali e dello sfruttamento, oltre che delle classi operaie delle proprie formazioni sociali, anche dei popoli delle formazioni dominate.
Infatti, il passaggio dalla fase classica del capitalismo alla sua fase imperialista è il passaggio dalla concorrenza al monopolio moderno. E come chiarisce Lenin, non si tratta di monopolio in antitesi della concorrenza, ma della sintesi tra monopolio feudale e concorrenza capitalistica, negazione della negazione, unità degli opposti. Come conseguenza, nella fase imperialista la concorrenza si trasforma in lotta tra monopoli per il dominio sulle catene del valore. Una lotta che contempla l’esportazione di capitali, come anche il reshoring e il nearshoring [9] e l’utilizzo di strumenti extra economici: dalle sanzioni, ai blocchi economici, alla guerra vera e propria. Quello della lotta tra monopoli è l’elemento strutturale che sta alla base della contraddizione interimperialista.
Il passaggio alla fase imperialista si è concretizzato storicamente anche con il grande sviluppo dell’intervento dello Stato nell’economia: i monopoli pubblici affiancano quelli privati e, in connessione con l’oligarchia finanziaria, si sviluppa la frazione burocratica della borghesia imperialista deputata alla gestione della spesa pubblica in favore dei monopoli (spesa arrivata a comprendere oltre il 50% del Pil nelle formazioni economico-sociali avanzate) e a garantire le condizioni complessive della valorizzazione capitalistica, principalmente quelle del capitale finanziario (come mostra la politica delle banche centrali, la costituzione di fondi sovrani e lo sviluppo del debito pubblico arrivato in molti casi a superare il Pil).
Alla frazione burocratica che gestisce apparati statali, strutture amministrative pubbliche, banca centrale, esercito, ecc. si integrano anche i ceti rappresentanti l’aristocrazia operaia [10] coltivata con le briciole dei sovrapprofitti imperialisti. Tutto ciò era già chiaro a Lenin: “Posticini redditizi e tranquilli in un ministero e nel comitato dell’industria di guerra, nel parlamento e nelle varie commissioni, nelle redazioni di ‘solidi’ giornali o nelle amministrazioni di sindacati operai non meno solidi e ‘obbedienti alla borghesia’: ecco con che cosa la borghesia imperialistica attira e premia i rappresentanti e i seguaci dei ‘partiti operai borghesi’”. [11] Con l’integrazione dell’aristocrazia operaia si gestisce la contraddizione di classe e si depotenzia la prospettiva rivoluzionaria, ma quello dell’aristocrazia operaia è uno sviluppo che trova forti controtendenze nella crisi di valorizzazione delle formazioni avanzate, caratterizzate dalla sovraccumulazione di capitali e nell’ingrandirsi del numero delle formazioni imperialiste: “Una volta la classe operaia di un solo paese (Inghilterra ndr) poteva venir comperata, corrotta per decine di anni. Ora (con l’emergere di altre formazioni imperialiste ndr) questo sarebbe inverosimile e perfino impossibile; però strati meno numerosi (di quelli dell’Inghilterra del 1848-1868) della ‘aristocrazia operaia’ possono essere e sono corrotti da ogni ‘grande’ potenza imperialistica”. [12]
Con l’entrata nella fase imperialista lo sviluppo capitalistico può darsi, per tutte le formazioni socio-economiche, solo come sviluppo imperialista sulla base del definirsi dei monopoli e del loro scontro per la spartizione delle risorse e delle quote di plusvalore, sia all’interno di ogni formazione socio-economica che su scala globale. Altro sviluppo non è possibile al di fuori della rottura rivoluzionaria e del conseguente superamento dell’imperialismo verso il socialismo. Contrariamente a quanto fa Bargigli, non è possibile farne deroga con la risibile affermazione che non c’è una concezione condivisa del socialismo.
Il ragionamento astratto di “una situazione in cui esiste ancora il capitalismo e non più l’imperialismo”, non ha nessuna base reale ed è sostanzialmente assurdo, come lo è la sua presunta dimostrazione (in nota 4 del testo): “se tutti i paesi non imperialisti che si sviluppano diventassero imperialisti potrebbe darsi una situazione in cui tutti i paesi sono imperialisti (…) nessun paese potrebbe imporre relazioni imperialistiche agli altri e quindi, in realtà, nessun paese sarebbe imperialista”. Un bel esempio dei paradossi della logica formale e della totale incomprensione da parte dell’autore della logica dialettica. Si mette in relazione situazioni astratte (tutti i paesi diventano imperialisti) senza considerare il movimento e le sue leggi, in particolare la contraddizione che ne è il motore.
Nel contesto della fase imperialista del capitalismo l’uno (il sistema capitalismo-imperialismo) è dialetticamente diviso in due: formazioni dominanti e formazioni dominate. E questo è l’elemento essenziale alla base della contraddizione imperialismo-popoli oppressi. In questa situazione l’insieme delle formazioni è soggetto a polarizzazione: le singole formazioni o si pongono come formazioni imperialiste (anche integrandosi tra di loro, vedi il caso della Ue) o subiscono la spinta verso la condizione subalterna delle semicolonie. Non è un processo indolore, la storia della fase imperialista è stata cadenzata da colpi di Stato, da guerre di oppressione e di liberazione, da rivoluzioni e da due guerre mondiali.
La lotta tra i monopoli alimenta le contraddizioni interimperialiste e queste si acuiscono fino a diventare antagoniste, fino alla guerra interimperialista, soprattutto quando, a causa della legge dello sviluppo diseguale, emergono nuove formazioni monopoliste e si impone una nuova spartizione del mondo. Nel campo delle colonie e delle semicolonie, la lotta di liberazione nazionale, quando riesce a rompere il giogo coloniale, apre spazi allo sviluppo economico e in questo quadro la borghesia nazionale di queste formazioni può puntare allo sviluppo autocentrato (vedi le esperienza politiche di Nasser, Saddam Hussein, Gheddafi, Chavez, ecc.), ma, rimanendo nel capitalismo, può perseguirlo realmente solo se riesce a diventare borghesia imperialista, o sulla propria base o integrandosi a qualche gruppo imperialista. Diversamente viene corrotta, o repressa, e ricondotta al ruolo di borghesia compradora di qualche imperialismo dominante.
L’unica via di superamento dell’imperialismo in tutte le formazioni è la rottura rivoluzionaria e il processo di costruzione del socialismo. A questo non si può fare deroga. Nella fase imperialista del capitalismo, come chiarisce l’esperienza delle rivoluzioni russa e cinese, lo stesso passaggio della rivoluzione democratica (antifeudale, anticoloniale e antimperialista) può avvenire nella forma della Rivoluzione di Nuova Democrazia (concezione maoista). “La rivoluzione antimperialista sotto la guida della classe operaia, in una colonia o in una semicolonia, assume un programma democratico, di abolizione del feudalesimo e delle altre eredità coloniali (coltivate dall’imperialismo ndr), ponendo le condizioni più adeguate per lo sviluppo delle forze produttive, base oggettiva per costruire il socialismo”. [13]
Lo stesso passaggio rivoluzionario di una formazione economico-sociale al socialismo è un passaggio ad una fase di transizione, una fase in cui il processo di costruzione del socialismo o avanza verso il comunismo, o arretra fino anche alla restaurazione del capitalismo, e quindi alla trasformazione del socialismo in imperialismo (es. Russia e Cina). La terza via, tra imperialismo e socialismo, è sempre stata cavallo di battaglia del revisionismo e dell’idealismo riformista.
Crisi strutturale e guerra imperialista
Nell’elaborato di Bargigli è completamente assente la nozione di crisi del modo capitalistico di produrre nella fase imperialista, fase che Lenin definisce, precisamente e dialetticamente, “fase suprema e di putrefazione del capitalismo”. Solo considerando anche l’aspetto della putrefazione si può comprendere il processo storico per come concretamente si è sviluppato. Un processo storico in cui il capitalismo è sempre più caratterizzato da crisi di sovraccumulazione di capitali, cioè da un’accumulazione che, a causa dell’aumento della composizione organica del capitale investito nella produzione, e della relativa caduta del saggio di profitto, incontra condizioni di valorizzazione sempre più anguste. È una condizione di crisi che interessa essenzialmente le formazioni avanzate, in cui il capitalismo della fase imperialista si è maggiormente sviluppato, che si travasa nello sviluppo abnorme della sfera finanziaria e dell’economia del debito, e in un’ulteriore spinta alla concentrazione e all’esportazione di capitali in cerca di valorizzazione. Tutte cose che approfondiscono la connotazione imperialista della struttura economica di queste formazioni, ne aggravano le contraddizioni (con il popoli oppressi, di classe, e interimperialiste) e spingono le loro sovrastrutture istituzionali, politiche e militari a ridefinirsi e funzionalizzarsi per la guerra (warfare state). Solo in questo quadro si può comprendere il fenomeno odierno dell’indebolimento strutturale delle vecchie formazioni imperialiste avanzate (Usa e occidente) e della conseguente aggressività criminale della borghesia imperialista occidentale, la principale responsabile dell’attuale accelerazione della tendenza alla guerra.
Tutte le misure prese per far fronte alla crisi di sovraccumulazione, dall’economia del debito, alla green economy, alla gestione autoritaria e sciovinista della psicopandemia da Covid (caratterizzata dall’accelerazione dello sviluppo del dirigismo economico), al rialzo dei tassi di interesse in una situazione di stagnazione economica, fino al rilancio del keynesismo militare, come volano di ripresa, testimoniano della gravità della crisi del sistema. In particolare mostrano le difficoltà che le vecchie formazioni avanzate incontrano nello scaricare la loro crisi, oltre che sulle classi operaie e sulle masse popolari, sulle formazioni dominate (semicolonie) e su quelle emergenti come competitori strategici. Difficoltà che alimentano la propensione delle classi dominanti verso politiche imperialiste sempre più aggressive.
Per quanto riguarda il nesso crisi-guerra il non detto di Bargigli sulla crisi lascia campo libero all’idea sbagliata che sia la guerra a provocare la crisi e non la crisi ad alimentare la guerra. Con l’implicito corollario idealista che basti abbandonare le politiche imperialiste per risolvere la situazione.
Per il marxismo, la contraddizione è il motore del movimento della realtà e la guerra, in quanto massima espressione delle contraddizioni, mostra il movimento della fase imperialista del capitalismo. Un movimento determinato principalmente da tre contraddizioni: 1) tra borghesia imperialista e classe operaia, 2) tra borghesia imperialista e popoli oppressi delle semicolonie, 3) tra gruppi imperialisti in lotta per le risorse globali, e in particolare tra le classi dominanti delle vecchie potenze e quelle delle potenze emergenti (Russia, Cina, India, ecc.).
Considerando la guerra bisogna partire dal carattere di classe della guerra [14], dagli interessi delle classi che la promuovono, vi partecipano o la subiscono: borghesie imperialiste, classi operaie, masse popolari, popoli oppressi. Ogni guerra è composizione e scontro di questi interessi e si sviluppa sulla base della contraddizione principale e del suo rapporto con le contraddizioni secondarie. [15] Ogni guerra assume un carattere specifico determinato dalla correlazione di queste contraddizioni, in particolare da quale è la contraddizione principale e dal suo rapporto dialettico con quelle secondarie.
Nell’ambito di una stessa guerra la posizione delle contraddizioni può cambiare. Nella prima fase del conflitto in Ucraina, dal golpe di Maidan del 2014 al febbraio 2022, la contraddizione principale era tra regime nazista golpista, di una nuova borghesia compradora infeudata alla borghesia imperialista Usa e occidentale, e masse popolari antifasciste del Donbass, mentre poi, in conseguenza dell’Operazione Speciale russa, è emersa come principale la contraddizione tra borghesia imperialista Usa e occidentale, con la frazione dominante rappresentata dall’oligarchia finanziaria, e borghesia imperialista russa, con la frazione dominante della borghesia burocratica. [16] Tuttavia le contraddizioni secondarie restano sempre presenti. Nella prima fase la contraddizione interimperialista (allora secondaria) alimentava la guerra interna, mentre nella seconda fase la lotta di liberazione delle Repubbliche Popolari del Donbass, contro il regime nazista di Kiev, si integra nello scontro interimperialista. Questa concezione corretta (marxista-leninista-maoista) la riscontriamo nella presa di posizione delle organizzazioni comuniste dell’area, che giustamente considerano: “La guerra riveste carattere interimperialista, causata dalla rivalità delle maggiori forze imperialiste con a capo gli USA per il dominio del mondo, e dall’aspirazione a soffocare le crescenti forze dell’imperialismo russo, sostenuto dalla Bielorussia, in parte dalla Cina e da altri alleati. Indubbiamente, la spinta alla guerra è costituita dalla nuova svolta particolarmente acuta della crisi economica del sistema capitalista mondiale che stiamo vivendo. Per il popolo delle Repubbliche del Donbass, la guerra riveste un carattere giusto, di liberazione. (…) Per la Russia, la guerra riveste un carattere, quantunque imperialista, ma in grado elevato di difesa dall’indubbia minaccia da parte della NATO. Lo stato russo difende, naturalmente, gli interessi della propria classe dominante, la grande borghesia”. [17]
Per Bargigli invece, la guerra in Ucraina “riveste per la Russia capitalistica il carattere di una guerra nazionale difensiva” in cui, in relazione al contesto globale, “vediamo che al fronte comune imperialista si contrappone il fronte comune delle economie non imperialiste”. In questa formulazione non compaiono le classi, non compare la borghesia imperialista e l’innominata borghesia russa è implicitamente ridotta a borghesia nazionale che conduce una sorta di guerra di liberazione nazionale. Una bella differenza che delinea precisamente quella tra la posizione comunista rivoluzionaria e quella opportunista riformista.
Le concezioni riformiste, che sono portatrici dell’influenza dell’ideologia borghese sulla classe e sulle masse, si articolano per eludere completamente “la questione concreta del nesso tra la guerra attuale e la rivoluzione”. [18] In particolare l’idea, che permea il testo di Bargigli, di uno sviluppo capitalista che possa assumere un carattere non imperialista, è un sogno riformista che serve appunto ad eludere la questione della rivoluzione. Nel mondo illusorio immaginato da Bargigli per farla finita con l’imperialismo basterebbe che la borghesia imperialista decidesse di non essere più tale (dato che si concepisce l’imperialismo come politiche imperialiste) e lasciasse che si sviluppassero in maniera autocentrata formazioni capitalistiche, così affrancate dall’imperialismo. [19]
Sul carattere opportunista di queste concezioni è sempre illuminante Lenin: “Si può tuttavia negare che sia astrattamente concepibile una nuova fase del capi talismo (pacifico ndr.) che segua quella dell’imperialismo? No. Astrattamente si può concepirla. In pratica però ciò significa diventare un opportunista che nega i problemi acuti del presente in nome di sogni su problemi futuri non acuti. In teoria ciò significa non fondarsi sullo sviluppo che ha effettivamente luogo, ma staccarsi (corsivi dell’autore, ndr) arbitrariamente da esso in nome di questi sogni”. [20]
Come spesso accade nella storia le idee, e la loro sistematizzazione in teorie, non sono, o non rimangono, senza padrone. In particolare la teoria del multipolarismo pacifico, pur smentita dai fatti della realtà concreta, serve alla borghesia burocratica, che domina le formazioni emergenti, per legittimare il necessario sviluppo della propria proiezione imperialista, integrando, in questa fase, la spinta delle proto borghesie nazionali delle semicolonie che cavalcano la causa della liberazione nazionale. Serve inoltre a esercitare influenza su settori politici dei movimenti di opposizione – dunque anche su parti del movimento comunista – all’interno dei paesi del campo atlantico. Si conferma dunque, anche da questo punto di vista, come il revisionismo sia determinato dall’influenza della borghesia sul movimento proletario, seppur, nei casi in questione, dalla borghesia del campo imperialista avverso al “proprio”.
Eclettismo, riformismo e linea rivoluzionaria
Come comunisti consideriamo che la teoria rivoluzionaria serve alla pratica rivoluzionaria, è guida per l’azione, e in questa relazione dialettica trova la sua coerenza e il suo sviluppo. Coerenza che non è assolutamente presente nel testo di Bargigli che al contrario è caratterizzato da eclettismo e idealismo riformista. Un chiaro esempio di eclettismo lo riscontriamo in merito alla questione dello sviluppo diseguale che caratterizza il capitalismo. Da una parte Bargigli considera che “Lenin era consapevole del fatto che i rapporti di forza tra gli Stati mutano rapidamente. Questa mutevolezza è una conseguenza della ‘legge dello sviluppo ineguale del capitalismo’, di cui aveva sottolineato l’importanza nella sua analisi”, ma dall’altra afferma che “se tutti i paesi non imperialisti (ma capitalisti ndr) superassero la propria situazione di disuguaglianza rispetto a quelli imperialisti, per ciò stesso l’imperialismo cesserebbe di esistere”. L’aspetto rilevante è che questa ultima osservazione, posta come ipotesi, è in realtà la tesi teorica di fondo del saggio in questione. Una tesi declamata al preciso scopo di supportare la posizione che sostiene che la Russia di Putin non è un paese imperialista, con una teorizzazione che occulta la rottura rivoluzionaria come passaggio essenziale del superamento dell’imperialismo e sviluppa un’analisi economicista per accreditare una visione in definitiva riformista dell’imperialismo e del suo superamento.
La linea rivoluzionaria deve partire dal dato di fatto del multipolarismo di guerra come condizione conseguente all’avvitamento della crisi di sovraccumulazione delle formazioni avanzate. Un multipolarismo di guerra in cui si evidenzia un indebolimento strutturale delle vecchie formazioni imperialiste, che lascia spazio alle nuove formazioni emergenti non ancora sovraccumulate (Russia, Cina e India), come anche alle lotte di liberazione nazionale (dalla Palestina all’Africa sub-sahariana). Questa debolezza ha minato alle fondamenta l’assetto monopolare Usa e occidentale creando una situazione caotica in cui anche le potenze minori (ad es. Turchia, Iran, Arabia Saudita, ecc.) sono spinte a giocare in proprio sfruttando i contrasti tra le potenze maggiori.
In questo tratto della putrefazione del capitalismo della fase imperialista, i comunisti devono prepararsi alla nuova ondata mondiale della rivoluzione proletaria, che integrerà la lotta di liberazione nazionale delle masse popolari delle semicolonie alla lotta di classe nelle metropoli imperialiste, come la vera e unica prospettiva di superamento dell’imperialismo. Solo la rivoluzione e l’instaurazione del socialismo possono rovesciare l’imperialismo nel suo contrario ed evitare all’umanità la spirale di sempre più immani catastrofi nella forma di guerre mondiali.
Nel contesto attuale l’aspetto principale della contraddizione interimperialista che accelera la tendenza alla guerra è rappresentato dai colpi di coda della borghesia imperialista Usa e occidentale spinta a far valere la propria supremazia militare come elemento di contrasto dell’avvitarsi della propria debolezza strutturale. Questo è il nemico principale e la sua sconfitta aprirà spazi alla prospettiva della rivoluzione mondiale.
Per portare il nostro contributo come comunisti a questa prospettiva dobbiamo organizzarci per fare passi risoluti nel lavoro di ricostruzione del partito: formando una nuova leva comunista, costruendo sempre più stretti legami con la classe e con le masse popolari, ponendo la guerra al centro della nostra azione politica, in particolare collegando la lotta di classe alla lotta contro la guerra imperialista, al fine di accumulare forze nell’ottica della prospettiva rivoluzionaria. Proprio perché abbiamo questa impostazione rivoluzionaria (e non perché ci può essere più simpatica la borghesia imperialista russa o cinese) dobbiamo porre in primo piano la lotta contro il “nostro” imperialismo, e combattere sul fronte interno il consenso corporativo nei suoi confronti, perseguendone risolutamente la disfatta nel suo scontro con i gruppi imperialisti rivali.
Note:
[1] Lenin, Prefazione a L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, in Opere Scelte in sei volumi, Editori Riuniti, p. 452
[2] L. Bargigli, La Russia è un paese imperialista?, contropiano.org
[3] Per quanto riguardo la struttura e lo sviluppo dell’imperialismo russo rimandiamo all’articolo La Russia di oggi, su Antitesi n° 13, p. 31
[4] Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, in Opere scelte in sei volumi, vol. 2, p. 458, Editori Riuniti
[5] Ivi, p. 462
[6] Ivi, p. 518
[7] Ivi, p. 521
[8] Lenin, L’imperialismo e la scissione del socialismo, in Opere scelte in sei volumi, vol. 2, pp. 613-614, Editori Riuniti
[9] Il reshoring consiste nel riportare gli investimenti capitalistici nel paese di provenienza e il nearshoring in paesi politicamente vicini.
[10] Vedi glossario pp. 77-79
[11] Ivi, p. 616
[12] Lenin, L’imperialismo e la scissione del socialismo, Opere scelte in sei volumi, Vol. II, p. 616, Editori Riuniti
[13] Antitesi n° 15, pp. 82-83
[14] Cfr. Lenin, La guerra e la rivoluzione, 1917, Opere complete, vol. 24, p. 409
[15] Cfr. Mao, Sulla contraddizione, Opere di Mao Tse Tung, vol. 5, p. 183, Edizioni Rapporti Sociali, Milano 1991
[16] Cfr. Imperialismo oggi, Antitesi n° 13, pp. 54 ss.
[17] Vedi Dichiarazione congiunta dei partiti comunisti e operai, 6 luglio 2022, unionedilottaperilpartitocomunista.org
[18] Lenin, Il programma militare della rivoluzione proletaria, Opere Complete, Editori riuniti, Roma 1965, vol. 23, p. 8
[19] È lo stesso sogno che ritroviamo nel “processo bolivariano” e nel testo Il socialismo del XXI secolo di H. Dietrich dal quale Chavez aveva trovato ispirazione. Cfr. Il Venezuela al tempo della “reconquista”, in Antitesi n° 7, p. 25-27
[20] Lenin, Prefazione all’opuscolo di Bucharin “L’economia mondiale e l’imperialismo”, Opere Complete, vol. 22, p. 111, Editori Riuniti, Roma 1966