Antitesi n.16Sfruttamento e crisi

Lo Stato di guerra

Gestire la crisi per condurre la guerra

“Sfruttamento e crisi” da Antitesi n.16 – pag.5


“I risultati del Patto di stabilità sono per certi versi inaspettati, ma io ci lavoro da un anno. L’Ue accetta la linea dell’Italia e decide di tenere le spese della Difesa al di fuori dei parametri del Patto di stabilità. Vuol dire che il comparto Difesa e Sicurezza non entra più in contrasto con sanità, scuola, ambiente, come è giusto che sia. È una vittoria storica del governo”. [1] Sono queste le parole, tanto tronfie quanto sfacciatamente ipocrite, con le quali il ministro della difesa Crosetto commentava l’esito della trattativa, a fine 2023, sul patto di stabilità tra i governi dei paesi dell’Unione Europea.
Il sovranismo vantato dalla cricca di Meloni si è confermato essere una formula vuota, che semplicemente copre il determinarsi degli interessi della classe dominante italiana in dialettica con i suoi rapporti strategici in ambito europeo e atlantico. La sintesi tra gli interessi della classe dominante italiana e i rapporti di collocazione nell’Ue e nella Nato assume la dimensione politica della guerra, come esemplificato dalla decisione dell’Ue di lasciare le spese militari al di fuori del patto di stabilità. Una decisione che non è frutto semplicemente della linea della cricca di Meloni, ma che era già stata preannunciata dall’ex presidente della Bce ed ex presidente del consiglio italiano Draghi, in due discorsi a giugno e a luglio 2023, il primo presso l’Istituto di Tecnologia del Massachusetts e il secondo al Consiglio nazionale di ricerca economica di Cambridge. Allora Draghi aveva chiaramente auspicato margini di spesa ampi in materia di “difesa” per i paesi europei, stilando una sorta di programma generale di fase per l’Ue, ponendo come aspetto principale della sua politica estera la guerra contro la Russia. [2]
Ora che alla guerra contro la Russia si è aggiunta quella contro il popolo palestinese e i popoli del Medio Oriente, visto lo schierarsi dei paesi dell’Ue e delle istituzioni europee al fianco del regime sionista, la decisione di svincolare le spese militari dal patto di stabilità ha trovato ulteriore giustificazione per le classi dominanti europee. La loro strategia complessiva, sviluppata tramite le sovrastrutture direzionali che esse si sono date nel progetto di aggregazione imperialista dell’Ue – quindi la Commissione Europea, il Consiglio Europeo, il Consiglio dell’Ue – è quella di partecipare attivamente al processo di guerra guidato dagli Usa. L’obiettivo Usa è difendere e ampliare i propri spazi di ripartizione capitalistica dei mercati, di fronte alle minacce rappresentate dai popoli in lotta per l’autodeterminazione e dalle nuove potenze emergenti. Un processo che le classi dominanti europee hanno dovuto scegliere nel contesto oggettivo della crisi generale del sistema capitalista, afflitto dalla sovrapproduzione di capitali strutturatasi da decenni nelle economie occidentali.
Tale processo si sviluppa in guerra per la ripartizione dei mercati di valorizzazione dei capitali e obbliga la borghesia europea a porsi strettamente al fianco degli Stati Uniti, i quali costituiscono l’unica forza in grado, sul piano politico e militare, di dirigerlo a favore di tutte le vecchie potenze imperialiste (Ue, Gran Bretagna, Giappone…). Una linea politica che è stata dapprima promossa in particolare dalle sovrastrutture dell’Ue, ovvero dalle tecnocrazie legate direttamente al capitale finanziario e fortemente integrate con Washington, [3] e poi fatta propria dalle singole classi dominanti nazionali, allineatesi sulla direttrice esterna della guerra e interna del keynesismo militare. [4]
Non è dunque solo l’innegabile subalternità (ereditata dall’esito della seconda guerra mondiale) a spiegare la posizione europea rispetto alla Russia e la sua accettazione della linea statunitense, ma la condivisione europea della guerra imperialista come necessità nella crisi del capitalismo. Lo conferma anche il fatto che, con il divampare del conflitto in Palestina e in Medio Oriente, gli Usa hanno di fatto proceduto a un progressivo disimpegno dalle forniture di armi a Kiev, a differenza dei paesi dell’Ue, che invece insistono nelle forniture e firmano patti specifici di alleanza bellica con Zelensky, come in una sorta di divisione dei compiti del fronte bellicista atlantico. E come se non bastasse, si aprono i negoziati per l’adesione all’Ue dell’Ucraina e i paesi baltici aggravano le discriminazioni verso la minoranza russa, blindando le frontiere secondo un piano di difesa comune di fronte a una paventata invasione da parte di Mosca.
La crisi non consente alla borghesia imperialista di procedere secondo uno sviluppo ordinario del capitalismo, poiché tale sviluppo ordinario conduce solo alla riproduzione della sovrapproduzione di capitali in termini più generali e più gravi per la tenuta complessiva del sistema. Lo sviluppo dev’essere straordinario, di rottura, perché l’ordinario è il piano asfittico dalla saturazione della valorizzazione capitalistica e questa straordinarietà di rottura, sul piano politico-storico, non può che essere la guerra. Nel concreto, per le borghesie imperialiste aggregatesi nel progetto dell’Ue, questa rottura ha riproposto il mito dello “sfondamento a est”, verso il “subcontinente” russo, come proprio obiettivo di ripartizione dei mercati. Questo è in parte già avvenuto, con l’allargamento dell’Unione agli ex paesi del Patto di Varsavia, camminando sugli stivali politico-militari del coincidente avanzamento dell’Alleanza Atlantica. Poco importa se a Napoleone e a Hitler è già andata male: la crisi, la necessità della guerra e il rapporto con gli Usa non consentono alla signora Von der Layen di imparare dalla storia!
Una preda sul campo l’Ue se le già conquistata ed è proprio l’Ucraina, o quantomeno ciò che ne resta dopo le annessioni russe. La Banca Europea per gli Investimenti (Bei) e la Banca Mondiale hanno già stimato in 411 miliardi l’ampiezza degli investimenti da intraprendere per la “ricostruzione” del paese, il che significa una torta di profitti per la borghesia imperialista europea, con gli avvoltoi di Confindustria in prima fila, forti del protagonismo della camerata Meloni nel fornire armi (a gennaio l’ottavo pacchetto) al regime di Kiev. Da sempre, del resto, ripartire i mercati con la guerra imperialista significa distruggere capitali, con annesse ovviamente innumerevoli vite umane, per valorizzarne altri. Sui 50 miliardi di sostegno a tutto campo a Kiev, stanziati a livello europeo quest’inverno, ben 33 sono prestiti. Questo, di fatto, trasforma l’Ucraina in una colonia finanziaria dell’Ue.
La necessità per le classi dominanti europee di rafforzare il proprio specifico protagonismo nel conflitto con la Russia, discende anche dall’instabilità interna agli Usa, con la possibile vittoria di Trump alle prossime elezioni presidenziali. La destra repubblicana ha già utilizzato la questione dell’approvazione di nuove forniture militari a Kiev per destabilizzare l’amministrazione Biden. Nel caso di una sua affermazione elettorale, le incognite sono molte sopratutto rispetto ai rapporti interni alla Nato (Trump pretende maggiori investimenti militari dagli alleati europei) e alle priorità strategiche che potrebbero mutare verso la radicalizzazione del conflitto con la Cina o l’Iran, raffreddando il fronte europeo contro la Russia.

L’Europa del keynesismo militare

Lungo questa direttrice strategica della guerra, possiamo capire come il cosiddetto “europeismo” di un banchiere come Draghi vada a coincidere perfettamente con il “sovranismo” di un industriale degli armamenti, come Crosetto. Il primo rappresenta la direzione del capitale finanziario e il secondo la base strutturale del capitale industriale. La sintesi è rappresentata dal militarismo [5] in economia e nello specifico dal keynesismo militare, cioè dal modello della spesa pubblica in ambito bellico come volano per l’intero sistema produttivo.
Per l’Ue si tratta di una scelta strategica perché in linea con la prospettiva di una lunga fase di guerra, come già dimostrato dal protrarsi del conflitto in Ucraina e dall’aderenza alle direttrici degli Usa nel confronto con la Cina. Si tratta anche di una scelta contingente e necessaria rispetto al determinarsi della crisi e al suo aggravarsi rispetto al processo stesso di guerra. La rottura con la Russia e la messa in discussione, con il procedere della tendenza alla guerra, delle catene del valore internazionali (contrassegnanti la fase della cosiddetta “globalizzazione”) hanno portato i singoli paesi europei a mettere in campo progressivamente un modello industriale e finanziario maggiormente autocentrato (sopratutto nella fase “pandemica”) che tende ad assumere i connotati di capitalismo di guerra, a mano a mano che si sviluppa l’aggravamento delle contraddizioni internazionali. Si tratta di un modello di gestione stessa della crisi: rafforzamento e tutela del capitale nazionale (reshoring, protezionismo, regole di golden power…) e politiche keynesiane, con l’apertura massiccia dei rubinetti del finanziamento di Stato a beneficio dell’industria privata e pubblica. I governi italiani Conte bis e Draghi sono stati i promotori di tale modello, che di fatto è stato promosso proprio dall’Ue a livello continentale, dapprima per la tenuta stessa dell’Unione, nell’iniziale fase “pandemica”, e poi per realizzare una maggiore integrazione finanziaria e industriale con il recovery fund, il fondo finanziario comune costituito ai tempi della “pandemia”. È un processo che si è concretizzato con la sospensione del patto di stabilità e poi con il suo ripristino in una versione riformata, che ufficializza il keynesismo militare come fondamento economico dell’attuale Ue, rimodulato prima dalla fase “pandemica” e poi dal conflitto con la Russia.
Con il ruolo del keynesismo militare, le classi dominanti europee (e non solo) intendono porsi in controtendenza alle inevitabili ricadute della guerra sul fronte interno – pensiamo a esempio alla crisi energetica dovuta alla rottura con la Russia – stabilizzandolo economicamente proprio sulla base dell’economia di guerra. Quanto sta facendo la Germania da questo punto di vista è esemplare: il fondo speciale per l’industria militare, deciso nel 2022 pari a 100 miliardi, è il più vasto piano di riarmo dai tempi del nazismo e già un anno dopo, il ministro della difesa del governo Scholz ne affermava l’insufficienza per raggiungere le necessità poste dal contrasto alla Russia. [6]
E infatti, la questione che oggi si pongono le sovrastrutture generali dell’Ue, in primis la Commissione, è quella di promuovere il keynesismo militare a livello centrale, con un riarmo complessivo diretto finanziariamente e politicamente dagli organi di Bruxelles. Scimmiottando le cifre messe sul tavolo dall’imperialismo tedesco, il commissario Ue al mercato interno ha proposto un fondo di cento miliardi di euro per stimolare le produzioni belliche dei paesi europei e la loro collaborazione in questo campo, prospettando addirittura di parificare la produzione militare della Federazione Russa “entro i prossimi 18 mesi o due anni”. [7]
In realtà, quello che sta accadendo è che la fornitura di armi congiunta a livello europeo verso il regime ucraino si sta rivelando: come un modello e un terreno di implementazione della cosiddetta difesa comune europea; e come programma unitario di collaborazione industriale per il riarmo strategico dei paesi Ue e per la fornitura di armi a Stati extracomunitari. Si tratta: di iniziative di finanziamento in ambito militare come l’European Peace Facility, che ha già capitalizzato un fondo di 8 miliardi per fornire armi a Kiev; del dirottamento di parti di altri capitoli di spesa, come i Fondi di Coesione o gli stanziamenti per la questione climatica; di semplificare e promuovere le collaborazioni nell’industria di guerra tra diversi Stati e monopoli del settore; di rimborsare quanto speso dai bilanci nazionali per le forniture al regime di Zelensky e di esenzioni dell’Iva negli scambi di prodotti bellici tra paesi comunitari. Si tratta, inoltre, di politiche che prevedono mosse strategiche a livello finanziario per sostenere la spesa necessaria per il riamo. In tal senso va la proposta degli Eurobond di guerra, cioè dell’indebitamento a livello centrale per finanziare il settore militare, ma anche quella dell’espropriazione a danno dei fondi russi sequestrati, in base alla logica bellica di utilizzare i soldi del nemico per combatterlo.
A livello di collaborazione tra industrie militari, le oligarchie europee hanno elaborato l’European Industrial Defence Strategy annunciata a febbraio da Von der Leyen, cioè una serie di appalti e acquisti centralizzati a livello di Bruxelles, seguendo il modello messo in campo per i cosiddetti vaccini nella fase “pandemica”. Beninteso, lo scopo dichiarato di tali collaborazioni non è solo fronteggiare i nemici esterni, in primis la Russia, ma anche creare un mercato europeo integrato al suo interno, autonomo e concorrente sul piano internazionale rispetto sopratutto agli Usa che oggi tendono a dominare le importazioni in campo militare complessive dei paesi Ue, con una quota superiore al 60%. [8] Una scelta imposta, come dicevamo, anche dai potenziali rivolgimenti interni agli Usa conseguenti a una possibile vittoria elettorale di Trump a novembre.
Oltre alla spesa militare, anche la spesa per la cosiddetta transizione ecologica è stata posta fin da subito fuori dal patto di stabilità e, a seguito dell’accordo tra Consiglio Europeo e parlamento a inizio febbraio, anche i settori della transizione digitale e della sicurezza energetica.
Tali priorità strategiche di investimento confermano quanto già precedentemente detto. Innanzitutto per un dato strutturale fondamentale: oggi il capitalismo definisce green tutto ciò che è ad alta composizione organica – cioè in sostanza il capitale fisso tecnologicamente avanzato – per socializzare i costi di tale ristrutturazione produttiva, facendoli ricadere sulle finanze pubbliche. In tale maniera, con la giustificazione del green, si copre il drenaggio di risorse pubbliche verso il capitale industriale, allo scopo di ricercare margini di profitto più elevati nella situazione di crisi e di aggravamento della concorrenza interimperialista internazionale. La stessa cosa si può dire per la digitalizzazione che, oltre a essere un mezzo di controllo e repressione, oggi costituisce il settore dove la ristrutturazione tecnologica può precisamente incidere per aumentare i ritmi di produzione e in generale velocizzare la rotazione del capitale. [9]
Il settore militare è, per definizione, quello a più alta composizione organica fra i settori industriali, tanto che generalmente i monopoli del complesso bellico sono a prevalenza di capitale di Stato, com’è in Italia con Leonardo e Fincantieri. Allo stesso tempo, la linea industriale del capitalismo imperialista è quella delle applicazioni tecnologiche dual use, cioè investibili sul piano militare e con ricadute su quello della produzione civile. Gli esempi possono essere molti, dalla digitalizzazione (oggi uno degli ambiti di sviluppo degli armamenti) al nucleare.
Il quadro che si compone in tal senso vede il keynesismo come volano generale della gestione della crisi. Al suo centro vi è il complesso militare industriale come settore guida del processo generale di ristrutturazione produttiva, pagato dalla collettività a favore del grande capitale, in nome della falsa transizione ecologica e della modernizzazione digitale. A esempio, nel nostro paese, nel 2022, a guidare la classifica del maggior fatturato erano, dopo Fca Italy, tre monopoli della produzione bellica, ovvero Fincantieri, Leonardo e Iveco.
Questo processo generale di ristrutturazione capitalistica ha la sua fonte finanziaria nel recovery fund a livello europeo, declinato poi nei singoli paesi con i Pnrr nazionali sotto continuo vaglio della Commissione. Anche se i Pnrr non mettono ufficialmente il settore militare al centro della loro pianificazione, la loro funzione di guida dello sviluppo industriale – in una dinamica quindi di economia di guerra – è assicurata dalle grandi commesse belliche di Stato tramite i monopoli del settore, per lo più a capitale pubblico. Ora che la riforma del patto di stabilità scorpora le spese belliche dal debito pubblico sottoposto a vincoli di bilancio, questo ruolo dell’industria militare viene di fatto ufficializzato: lo Stato può spendere senza limiti solo in tale particolare settore. Quest’ultimo oggettivamente assumerà sempre di più un ruolo principale, con un contorno di generale ristrutturazione produttiva presentato come transizione “ecologica” e digitale.
Per quanto riguarda lo scorporo delle spese per la sicurezza energetica dal patto di stabilità, siamo di fronte a un’altra manifestazione dell’economia di guerra che l’Ue ha dovuto intraprendere dopo l’avvio della guerra contro la Russia, principale fornitrice di materie prime energetiche – gas e petrolio – per i paesi dell’Unione. La ricerca di una stabilità energetica, sia sviluppando fonti alternative agli idrocarburi, sia rivolgendosi ad altri fornitori extracomunitari – in primis guarda caso gli Usa – costituisce un’inevitabile conseguenza delle reciproche sanzioni e interruzioni politiche e militari (pensiamo al sabotaggio del North Stream) dei flussi di rifornimento energetico.

L’austerità armata

L’ipocrita tragicità delle parole di Crosetto sta sopratutto nell’affermare che “il comparto Difesa e Sicurezza non entra più in contrasto con sanità, scuola, ambiente, come è giusto che sia”. Se i vincoli di spesa stabiliti dall’Ue non valgono per la guerra, ma vengono, invece, imposti per tutto il resto, significa che: “sanità, scuola, ambiente” non sono più in contrasto con la spesa militare semplicemente perché sui primi tre si deve tagliare, mentre l’ultima è un settore di investimenti pubblici senza limiti da parte dell’Ue. Beninteso “ambiente” è citato tra i settori oggetto di tagli, ammettendo fra le righe che la spesa senza vincoli nella cosiddetta “transizione ecologica” non ha nulla in realtà di ambientalista.
L’industriale delle armi Crosetto è interessato celebrare il ritorno della vecchia Europa pre-Covid dell’austerità, poiché stavolta si tratta di un’austerità armata, cioè che affronta la crisi capitalistica attaccando le condizioni di vita delle masse, ma contemporaneamente amplia la spesa pubblica in materia militare, essendo strategicamente proiettata a dare alla crisi uno sbocco nella guerra imperialista. Finiti i tempi della gestione keynesiana complessiva della crisi con i grandi piani finanziari giustificati dalla “lotta e resilienza alla pandemia”, [10] si rilancia, invece, principalmente il keynesismo militare come settore guida di tutta la ristrutturazione industriale, rivestita di green.
Il nuovo patto di stabilità prevede, come il vecchio, un debito pubblico inferiore al 60% del Pil e il deficit, ovvero la differenza tra uscite e entrate pubbliche, non superiore al 3% del Pil. Questo 3% però è indicato come un margine per condizioni economiche straordinarie: in realtà l’Ue punta a un deficit del 1,5 ordinario. Quindi, di fatto, siamo difronte a un’ulteriore stretta rispetto alle regole pre-Covid e a un passaggio verso una più forte centralizzazione finanziaria in capo all’Ue, che da un lato distribuisce capitali con il recovery fund (i Pnrr nazionali) e dall’altra va ancora di più a determinare quanto e come debbano spendere i governi.
Inoltre, a differenza della precedente versione del patto di stabilità, i due obiettivi del contenimento del debito e del deficit sono perseguiti non con indicazioni generali degli organi europei da perseguire con modalità astratte – che spesso finivano per essere irrealistiche e non praticate – ma con piani calibrati. Nell’elaborazione e nell’attuazione di tali piani, rispetto a Commissione e Consiglio Europeo, devono responsabilizzarsi i singoli governi nazionali, con politiche economiche di rientro della spesa pubblica (ma non per il militare!) e con apposite riforme strutturali, da realizzare con tempi contingentati. Insomma, il modello dei Pnrr diventa quello generale della rendicontazione finanziaria rispetto all’Ue.
Le nuove regole prevedono, inoltre, esplicitamente che la Commissione Ue possa indicare politiche rispetto alla spesa primaria netta, cioè escludendo gli interessi sul debito e tutte le variabili cicliche, a esempio le previsioni di entrate future. In questa maniera, l’austerità si rafforza perché i governi possono difficilmente truccare i conti con stime futuribili di accaparramenti futuri: in ballo rimangono le spese vive dello Stato e cioè stipendi dei lavoratori pubblici, sanità, scuola, università… Insomma, l’Ue post-”pandemia” è un tritacarne sociale ancora più forte di prima: è il promotore più forte, anche rispetto ai governi nazionali, degli interessi capitalistici di gestione della crisi sulle spalle del proletariato e contemporaneamente di propulsione della guerra imperialista sul fronte esterno.
L’entusiasmo con cui la cricca del governo Meloni ha accolto il nuovo patto di stabilità in sede europea parla chiaro sulla natura reazionaria e antipopolare di questo governo. Lo sbandierare fumo propagandistico sul Meccanismo Europeo di Stabilità, più conosciuto come Mes, serve a coprire di aurea sovranista un esecutivo che vuole incarnare ancora, come i predecessori, la sintesi tra gli interessi della nostrana classe dominante imperialista e quelli dell’Ue, come aggregato di diverse borghesie imperialiste e capitaliste e polo attivo del processo di guerra globale in corso.
Il nostro paese presenta una situazione drammatica rispetto alle regole definite dall’Ue, basti pensare al dato del debito pubblico che è ben superiore al 140% rispetto al Pil, cioè più dell’80% rispetto a quanto stabilito in sede europea. Quello che si prospetta per le masse popolari italiane è una cura da cavallo, che il governo Meloni ha già iniziato a praticare con la finanziaria 2024. Quest’ultima prevede: tagli all’indicizzazione delle pensioni, un nuovo complessivo attacco al diritto alla pensione, con un’ulteriore stretta secondo l’impianto della legge Fornero; stanziamenti per la sanità utili solo a coprire gli aumenti dovuti all’inflazione e al rinnovo dei contratti (fregandosene della carenza di 30 mila medici e almeno 65 mila infermieri ); ma anche la fine del reddito di cittadinanza per 900 mila famiglie; normalizzazione (cioè aumento) dell’Iva per i prodotti legati alla prima infanzia; cessazione dell’esenzione dell’Irpef per i redditi fondiari (poi rientrata grazie alla mobilitazione degli agricoltori). Insomma, dove era possibile tagliare, il governo ha tagliato. E allo stesso tempo, dove era possibile distribuire qualcosa ai padroni lo ha fatto. Si vedano la revisione del Pnrr, con nuovi 20 miliardi distribuiti alle imprese, tra cui 12 di incentivi automatici e 5 al settore energetico nell’ambito del piano REPowerEU, [11] per arrivare al rafforzamento dei crediti di imposta per le esportazioni e la loro definizione per la nuova Zona Economica Speciale del Meridione e, ancora, i finanziamenti ai Contratti di Sviluppo per sostenere i grandi investimenti.
Ma il piatto forte per il padronato sarà quello della vendita di 20 miliardi di asset dello Stato in grandi monopoli: il governo punta a fare cassa sempre in nome dell’austerità necessaria, difronte a una crescita del Pil che sarà inferiore alla metà di quanto previsto e dunque al traballare dei conti pubblici, specie secondo i parametri di Bruxelles. Si parla di cessione di quote nelle Poste e nell’Eni, mentre si esclude che si possa farlo per Leonardo, nonostante la profittabilità attuale delle azioni dell’azienda bellica, a conferma del ruolo politico complessivo che l’industria di guerra occupa, sopratutto in questa fase.

Quale Stato per la guerra?

In stretto legame alla legge di bilancio, a fine gennaio il senato ha approvato il disegno di legge di iniziativa governativa sulla cosiddetta autonomia differenziata. Questa riforma tocca direttamente le finanze statali, perché prevede il trattenimento da parte delle regioni di una maggior quota di entrate fiscali derivanti dalle attività economiche svolte sul proprio territorio. È stata definita perciò la “secessione dei ricchi”, perché di fatto comporterà l’aggravamento della condizione economica e sociale delle regioni del sud Italia, già attualmente destinatarie di una spesa pubblica nettamente inferiore a quella delle regioni settentrionali (circa 4 mila euro in meno per abitante). Si tratta di una riforma portata avanti dalla Lega e sostenuta sopratutto da Confindustria, volta a rendere la spesa pubblica, tramite la sua regionalizzazione, più strettamente legata agli interessi capitalistici, tagliando così la redistribuzione della risorse sul piano nazionale e progressivamente riducendo gli stanziamenti “improduttivi” per il capitale, cioè la spesa a livello sanità, scuola, servizi sociali ecc. Tale politica si pone in continuità con la riforma del titolo quinto della costituzione, introdotta dal governo Amato nel 2001, che è stato il primo grande passaggio in senso regionalista dello Stato italiano, producendo, tra le altre cose, la devoluzione alla regioni dell’amministrazione sanitaria che ha causato i disastri ben evidenziatisi nella gestione del Covid.
Ora ciò che si rischia con l’autonomia differenziata è un aggravamento ulteriore di questa situazione. Tuttavia, per la borghesia imperialista mettere le mani su ogni settore della vita sociale per trasformarlo in fonte di profitto (sanità in primis, ma anche scuola e università) e tagliare la spesa pubblica per risanare il bilancio statale a danno delle masse popolari, fa parte delle politiche da imporre per tenere testa alla crisi.
Oggi queste direttrici incrociano il vecchio progetto leghista del federalismo e trovano corpo in questa paventata riforma che sta avanzando, nonostante tutte le contraddizioni a essa legate, come a esempio quella della necessità di una forte capacità di spesa nazionale in tempi di guerra. Se guardiamo però a quanto accaduto nella politica italiana degli ultimi anni, possiamo tranquillamente affermare che il regionalismo padronale non ha mai intaccato la capacità e la volontà di spesa dello Stato laddove vi siano interessi capitalistici strategici, anzi vi è stata piena sinergia tra poteri nazionali e locali. Si pensi a esempio alla “grandi opere” come l’alta velocità ferroviaria.
D’altronde il dato politico che emerge dalla recente storia del nostro paese è che più è aumentato il decentramento delle competenze locali delle regioni, più è cresciuto l’autoritarismo dei governi e delle istituzioni nazionali sul piano complessivo. La dialettica che la borghesia imperialista ha realizzato con questa linea è stata quella di coniugare l’azione politica complessiva di attacco alla condizione operaia e popolare (perseguita attraverso il rafforzamento del potere esecutivo dei vari governi, affiancati o diretti dal protagonismo dei presidenti della repubblica, prima Napolitano adesso Matterella) con lo smantellamento concreto e il massimo saccheggio possibile sul piano economico delle conquiste delle masse popolari (sanità in primis), attraverso il decentramento alle regioni. In sostanza, i governi sono quelli che hanno deciso gli affondi, le regioni coloro che hanno spartito le fette.
Oggi, questa dialettica si conferma perfettamente nell’azione del governo Meloni. Oltre all’avvio della cosiddetta autonomia differenziata, l’altra grande riforma istituzionale caldeggiata dalla maggioranza è quella del premierato, cioè l’elezione diretta del primo ministro o comunque la sua indicazione precisa all’esito delle elezioni parlamentari. Ciò comporterebbe un aumento formalizzato e sostanziale dei poteri in capo all’esecutivo, come coronamento delle tendenza di fatto che ha segnato tutta la cosiddetta seconda repubblica, incarnata nella formula della democrazia governante. [12] La contraddizione nel quadro politico borghese rispetto a tale progetto è il ridimensionamento del peso della presidenza della repubblica che, negli ultimi anni, ha avuto un ruolo di garanzia fondamentale dell’allineamento dello Stato italiano alle politiche del campo atlantico, dell’Ue e agli stessi interessi strategici della nostrana classe dominante. Pensiamo al ruolo di Napolitano nello spingere l’esecutivo Berlusconi all’aggressione alla Libia nel 2010 o alle pressioni svolte da Mattarella sul primo governo Conte, sorto sull’onda del clamoroso voto di protesta delle elezioni parlamentari del 2018. Quello che si teme, e il Pd lo dice più o meno chiaramente, è un esecutivo troppo attento agli umori popolari, piuttosto che agli interessi capitalistici e alle alleanze internazionali.
Fatto sta che interpretare le due prospettate riforme istituzionali del governo Meloni come il manifestarsi delle vecchie pulsioni federaliste della Lega e del vecchio programma presidenzialista dell’Msi di Almirante è sbagliato. O meglio, significa concentrarsi solo sul lato ideologico della questione. Se il regionalismo è il programma della rapina concreta da parte della classe dominante nel contesto della crisi, il premierato rischia di essere la formalizzazione della deriva autoritaria dello Stato che non solo la condizione di crisi, ma sopratutto la tendenza alla guerra prevedono. Il governo deve essere rafforzato come punto di sintesi decisionale dell’intera classe dominante nell’imporre i suoi interessi alle masse popolari, per muoversi nelle condizioni dettate dalla guerra imperialista sul fronte esterno e per pacificare il fronte interno, mentre la guerra diviene l’aspetto principale della politica estera e della situazione internazionale.
Più avanza la guerra imperialista più essa abbisogna di uno Stato a essa funzionale, via via più autoritario, con una maggiore blindatura istituzionale (governo forte, parlamento svuotato e magistratura funzionalizzata) e con un’egemonia bellicista (nazionalismo, riabilitazione del fascismo, propaganda mediatica totalitaria…).
La stessa tendenza è del resto ben visibile per quanto riguarda l’Ue. La prospettata riforma dei trattati prevede l’ampliamento di fatto del potere della Commissione che verrà ridefinita come “esecutivo europeo”, con un presidente eletto dal parlamento e l’approvazione del Consiglio. Lo stesso presidente potrà scegliere i commissari sulla base di preferenze politiche – e non più con criteri ufficialmente tecnici – con la possibilità di presentare mozioni di censura per dimissionarli. Ursula Von der Leyer ha già dichiarato che, nel caso di sua rielezione, istituirà un Commissario alla Difesa, trovando il plauso di Cingolani, amministratore delegato dell’italiana Leonardo (ed ex ministro della transizione “ecologica” nel governo Draghi). Contemporaneamente, si prevede l’aumento delle competenze “condivise” dell’Ue con gli Stati, allargate a tematiche quali salute pubblica e industria, e una maggiore cooperazione nel campo, guarda caso, della difesa e della sicurezza. E per quanto riguarda il transito di truppe belliche tra le frontiere intracomunitarie, sta prendendo corpo la “Schengen militare”, per facilitare gli spostamenti dei contingenti tra i paesi dell’Ue, con l’obiettivo dichiarato di blindare la frontiera verso la Russia.
Le necessità poste dalla crisi, e soprattutto dalla condizione di guerra determinano il rafforzarsi della tendenza al “super Stato europeo” che intende superare progressivamente le resistenze delle classi dominanti nazionali, tese a blindarsi attorno all’Ue rispetto alla politica interna, con la centralizzazione finanziaria, nell’ottica di poter meglio fronteggiare i nemici esterni, in primis la Russia di Putin.

Leonardo e Fincantieri nel mercato della guerra globale

“In tutti i teatri di guerra in corso, a partire dall’Ucraina e dal Medio Oriente, non c’è nessun sistema offensivo di nostra produzione”. [13] Tale replica della multinazionale Leonardo alla direzione dell’Ospedale Bambin Gesù di Roma, di proprietà del Vaticano, dopo il rifiuto da parte di quest’ultima a ricevere una donazione dall’azienda bellica, rappresenta un classico caso di “toppa peggiore del buco”. La Chiesa ha ben presente l’inquietudine e il malessere diffuso sulla partecipazione italiana alle guerre in corso. Dunque, il rifiuto pubblico a Leonardo non viene a caso: il ruolo della multinazionale a livello internazionale è di pubblico dominio [14] e la sua stessa direzione se ne vanta a livello mediatico.
La menzognera replica della Leonardo è stata l’occasione per ribadire, da parte del movimento contro la guerra, le collaborazioni che essa detiene con la macchina bellica sionista: dai cannoni delle corvette prodotte a La Spezia alle strutture dei bulldozer e dei carri armati prodotte dalle controllate statunitensi di Leonardo, [15] dai caccia M-346 agli elicotteri Agusta.
La questione più rilevante per capire l’ascesa di Leonardo a primo gruppo industriale degli armamenti in Europa e ottavo a livello mondiale, non è però il suo ruolo nei conflitti attuali, ma la sua collocazione all’interno dei programmi strategici di riarmo di tutto il campo atlantico. Il già citato progetto di “difesa comune europea” come ambito di integrazione degli apparati militari dei paesi dell’Unione, sicuramente trova una sua manifestazione nell’alleanza siglata, a dicembre, dal gruppo italiano con la multinazionale franco-tedesca Knds e promossa direttamente dal ministro Crosetto, come passo per la “potenziale creazione di un polo terrestre italo-franco-tedesco” [16] dell’industria di guerra. Innanzitutto, l’intesa permetterà a Leonardo di costruire nei suoi stabilimenti di La Spezia 132 carri armati Leopard 2A8 e altre 140 “piattaforme corazzate” destinate all’esercito italiano, per un costo complessivo di 8 miliardi e 246 milioni di euro. Si realizza così il keynesismo militare nella sua dimensione più concreta: soldi pubblici che finiscono nei profitti di una multinazionale a prevalente capitale pubblico. L’obiettivo strategico dell’intesa è quella di una collaborazione europea per la realizzazione dei carri armati di nuova generazione, i cosiddetti Main Ground Combat System, che superino in qualità gli attuali Leopard, costituendo il prodotto più avanzato della sintesi tra i tre complessi militar-industriali di Francia, Germania e Italia. Del resto, già Draghi, definendo gli orizzonti strategici dell’Ue, aveva invocato politiche comuni in ambito di industria della difesa [17] e Cingolani gli ha fatto eco a inizio 2024: “Un sistema frammentato dove ognuno dei 27 Paesi dell’Unione Europea investe sui propri carri armati e sui propri jet non funziona (…) dobbiamo iniziare a costruire una massa critica in Europa. Dobbiamo gettare le basi per centri della difesa continentali”. [18]
Sono parole che però stridono con la capacità di Leonardo di muoversi in tutta autonomia nel campo delle alleanze industriali e militari, seppur sempre all’interno del campo atlantico. Se il recente accordo Leonardo-Knds è volto anche alla realizzazione dei carri armati di nuova generazione, quello stabilito nel 2022 tra l’italiana Leonardo, la giapponese Mitsubishi e la britannica Bae Systems è volto ad approntare un nuovo modello di aerei da combattimento, il cosiddetto Tempest, di qualità superiore agli attuali F35 e Eurofighter. Il Tempest si pone in diretta concorrenza con il programma System de Combat Aerien du Futur, abbreviato con l’acronimo Scaf, portato avanti in questi anni da Francia, Germania e Spagna, tramite i propri monopoli del settore (Dassault, Airbus, Indra…). In questo caso, dunque, Leonardo è ricorso ad alleanze extracomunitarie, ponendosi in alternativa ad un progetto schiettamente comunitario.
L’altro grande monopolio dell’industria militare italiana, la multinazionale della cantieristica navale Fincantieri, appare ancora più efficacie e spregiudicata nella ripartizione dei mercati bellici. Dopo l’aggiudicazione del programma di ampliamento della flotta militare statunitense nel 2020, [19] Fincantieri è riuscita quest’anno a realizzare un accordo strategico con il gruppo Edge, che comprende a sua volta 25 aziende degli Emirati Arabi Uniti, attive nel settore dell’aerospazio e della “difesa”. L’alleanza Fincantieri – Edge ha il diritto di prelazione su tutti gli ordini extra-Nato da parte di Abu Dhabi, determinando così una filiera produttiva, nel campo del riarmo navale, stimata in 30 miliardi di euro. L’affare si inserisce in un’area dove la fanno storicamente da padroni, nel mercato delle armi, soprattutto inglesi e francesi, [20] ma soprattutto riguarda una potenza regionale che ha dimostrato di giocare da tempo una partita autonoma rispetto ai tradizionali rapporti con il campo della Nato, schierandosi con la Russia nei conflitti civili in Libia e Sudan e aderendo ai Brics proprio da quest’anno. D’altronde, il precedente grande affare di Fincantieri nell’area era stato quello della fornitura, a partire dal 2018, alla marina militare del Qatar di sette navi militari, per un valore di 4 miliardi. Quel Qatar che, contraddittoriamente, da un lato rappresenta il principale sostenitore politico nel mondo arabo per Hamas e dall’altro ospita la più grande base statunitense nel Medio Oriente.

Dal Mediterraneo allargato al Mediterraneo assediato

Ancora più degno di nota è però il contesto politico attuale nel quale si iscrive l’accordo Fincantieri-Edge. La penisola arabica nuovamente al centro, assieme alla Palestina, degli scenari internazionali, vista l’aperta sfida che il popolo yemenita sta recando all’imperialismo occidentale col blocco dei mercantili diretti nei porti del regime sionista che transitano nel Mar Rosso. Si tratta di una straordinaria discesa in campo al fianco della Resistenza Palestinese, che ha provocato l’intervento militare di Usa e Gran Bretagna, le cui navi militari e commerciali sono divenute poi un naturale obiettivo dell’ulteriore risposta delle Forze Armate Yemenite. Un intervento che appare destinato al fallimento come quello avviato nel 2015 proprio dagli attuali clienti di Fincantieri – gli Emirati Arabi Uniti – assieme all’Arabia Saudita, nel vano tentativo di riportare sotto proprio controllo un paese strategico per la sua posizione geografica di affaccio sul Mar Rosso.
Se dal punto di vista dell’industria militare la destabilizzazione dell’area e le mire di potenza di Abu Dhabi si sono rivelate un ottimo affare per l’imperialismo italiano, un grave problema strategico rimane quello della transitabilità del Mar Rosso che, attraverso lo stretto di Bab al Mandeb e poi con il canale di Suez, rappresenta l’anticamera del Mediterraneo. Se pensiamo come sia mediamente stimato che circa il 20% di tutto il traffico commerciale italiano passi per il Mar Rosso e una nave su dieci ivi transitante sia battente bandiera italiana o gestita da operatori italiani, possiamo capire quanto l’attuale situazione stia incidendo sui porti della penisola. A metà dicembre si è toccato il picco del calo di arrivi di navi mercantili, diminuite del 25%; poi la situazione è in parte rientrata, con la ridefinizione della logistica, ma, nel frattempo, il costo per trasportare un container da Shangai a Genova più che quadruplicava, passando da 1400 a 6400 dollari.
Il governo Meloni, che già aveva inviato parte della flotta militare nel Mediterraneo orientale nell’ottobre dello scorso anno, proprio a copertura dei crimini sionisti, ha dapprima dato appoggio all’intervento di Washington e Londra contro lo Yemen e poi si è mosso per una specifica missione militare dell’Ue di tutela dei traffici marittimi nell’area. Ne è nata la missione Eunavfor Aspides, avviata nel febbraio scorso, proprio a comando italiano, con l’invio della fregata “Federico Martinengo”, del cacciatorpediniere “Caio Duilio” e lo schieramento di velivoli del 14° Stormo dell’Aeronautica Militare, anche con dislocazioni da altre attività di pattugliamento nell’Est Europa e nel Mediterraneo Orientale. La missione di difesa del transito dei mercantili dovrà in ogni caso collaborare sia con l’offensiva diretta che, contemporaneamente, stanno mettendo in campo Gran Bretagna e Stati Uniti e sia con l’altra missione militare dell’Ue avviata nel Mar Rosso, l’Eunavfor Atalanta, diretta a reprimere le attività dei pirati somali.
Considerando che l’origine politica del nuovo infiammarsi del fronte del Mar Rosso è l’appoggio dato dal popolo yemenita alla Resistenza Palestinese, è da considerare come questa missione militare rappresenti un ulteriore passaggio di aggravamento della partecipazione italiana alle dinamiche della guerra globale. Si tratta di un impegno militare italiano sul campo a sostegno della comune guerra sionista-statunitense-europea contro il popolo palestinese e tutti i popoli dell’area mediorientale. L’altro dato rilevante è che lo sviluppo e l’allargamento delle contraddizioni globali e, in particolare, dell’area del cosiddetto “Mediterraneo allargato”, considerato “spazio vitale” per l’imperialismo italiano, [21] hanno posto quest’ultimo sulla necessità di difendersi direttamente, essendo attaccato nei sui gangli di transito della circolazione dei capitali.
Non dunque una missione per partecipare alla ripartizione di bottini neocoloniali in Jugoslavia, Afghanistan, Iraq e altri, ma uno scudo difensivo del proprio capitalismo di fronte al diffondersi dell’insubordinazione dei popoli. E il fronte arabo potrebbe essere solo un tassello di un’area del “Mediterraneo allargato” che va lacerandosi dietro alle contraddizioni ben più vaste della globalità: dal pericolo di esplosione di nuovi conflitti nei Balcani; dal Maghreb sempre più riottoso al controllo europeo; dal protagonismo turco a tutto spiano, che va dal Caucaso alla Libia; fino ai nuovi scenari dell’Africa, dove i miseri 5 miliardi e mezzo dello strombazzato “Piano Mattei” devono vedersela con un riposizionamento storico della Russia e della Cina.
Dal “Mediterraneo allargato” siamo dunque passati al “Mediterraneo assediato”: un piccolo “lago globale” nel quale la borghesia imperialista italiana ha voluto storicamente vedere la sua potenza e oggi vede la sua fragilità.
L’industria di guerra, con la capacità di imporsi sul mercato del macello globale da parte di Leonardo e Fincantieri, sta assumendo sicuramente un ruolo rilevante nella ripartizione del plusvalore internazionale da parte dell’imperialismo italiano, ma, nella concretezza segnata dalla crisi dei rapporti internazionali, solo la guerra imperialista stessa si determina come strumento reale di garanzia di tale ripartizione.


Note:

[1] Patto di stabilità: Crosetto, nuovo accordo è vittoria dell’Italia, agenzianova.com, 21.12.23

[2] Vedi Antitesi n. 15, pp. 5 ss.

[3] Vedi Antitesi n. 13, pp. 10 ss.

[4] Ivi, pp. 67 ss.

[5] Ivi, p. 85

[6] Il ministro Difesa tedesco: “I 100 miliardi per le Forze armate non basteranno”, agenzianova.com, 28.1.23

[7] A. Pugnet, Il commissario Ue Breton propone un fondo da 100 miliardi di euro per la cooperazione nel settore della difesa, euractiv.it, 10.1.24

[8] A. Calcara, Due sfide per l’industria della difesa europea, geopolitica.info, 16.11.23

[9] Il ciclo capitalistico dalla produzione alla vendita del prodotto, vedi Antitesi n. 11, pp. 82 ss. Sulla digitalizzazione, e in particolare sulle smart cities, vedi Antitesi n. 16, pp. 55 ss.

[10] Vedi Antitesi n. 5, Il capitalismo pandemico, pp. 5 ss.

[11] Si tratta di un piano strategico dell’Ue, nell’ambito della nuova economia di guerra, per ridurre la dipendenza dagli idrocarburi dalla Russia, diversificando gli approvvigionamenti e finanziando le cosiddette fonti green.

[12] Vedi Antitesi n. 3, pp. 60 ss. e Antitesi n. 12, pp. 62 ss.

[13] O. Turquet, Le bugie di Leonardo sulle armi ad Israele: intervista ad Antonio Mazzeo, volerelaluna.it, 24.1.24

[14] Esemplare il caso del Luton Sixth College in Inghilterra, che a dicembre ha dovuto interrompere la collaborazione con la multinazionale italiana grazie al boicottaggio dei suoi studenti.

[15] Si tratta delle società Drs Rada e Drs Sustainment System Inc.

[16] M. Battaglia, Non solo Leopard. Tutte le potenzialità dell’accordo tra Leonardo e Knds, formiche.net, 13.12.23

[17] Vedi Antitesi n. 15, pp. 8 ss.

[18] P. Pica, Cingolani (Leonardo) chiama la Ue: “Difesa, serve strategia comune per l’industria”, corriere.it, 24.1.24

[19] Vedi Antitesi n. 13, p. 13

[20] Si veda ad esempio: Adhrb Staff, Dispaccio sulle vendite di armi francesi nella Regione del Golfo, adhrb.org, 13.5.20

[21] Vedi Antitesi n. 14, pp. 17 ss.


La lotta degli agricoltori e il capitalismo di guerra

Le recenti lotte degli agricoltori, che hanno coinvolto buona parte dei paesi europei, si sono originate in Germania alla fine del 2023, in opposizione ai tagli imposti dal governo Scholz alle agevolazioni sul gasolio, impiegato per i trattori e per gli altri mezzi di lavoro della terra. Il governo tedesco ha attaccato la condizione materiale degli agricoltori poiché pressato dalla crisi finanziaria interna, dopo che la Corte costituzionale ha sancito l’illegittimità, per violazione dei vincoli di bilancio, del trasferimento di 60 miliardi dal fondo per la “pandemia” al fondo per il “clima”. Dietro la formula del clima, si nascondeva in realtà la necessità della transizione energetica, vista la grave crisi delle forniture e dei costi dei combustibili fossili conseguenti alla guerra con la Russia. Secondo l’esecutivo il trasferimento sarebbe dovuto uscire dai vincoli di bilancio in nome della condizione di emergenza patita dall’industria nazionale. In tempi di conclamata recessione, il massimo organo giudiziario tedesco ha voluto però mettere un freno a una spesa pubblica fuori controllo, palesando le contraddizioni pesanti che attraversano lo Stato tedesco nel gestire il capitalismo di guerra.
Il legame tra la mobilitazione degli agricoltori e il capitalismo di guerra europeo è ancora più evidente in Europa Orientale. Dal primo giugno 2022, infatti, per sostenere il regime di Kiev, l’Ue ha autorizzato le importazioni senza limiti di cereali, provocando una caduta vertiginosa dei prezzi in Polonia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Repubblica Ceca, Slovacchia e paesi baltici. Ciò ha finito per provocare la mobilitazione degli agricoltori di questi paesi, con blocchi stradali e ferroviari, sopratutto nei valichi verso l’Ucraina, manifestazioni di massa nelle capitali e assedi dei palazzi istituzionali.
Anche a uno sguardo più generale, si può vedere chiaramente la connessione tra la lotta degli agricoltori e le condizioni economiche dettate dal capitalismo di guerra in Europa. A esempio l’aumento dei costi di produzione, dovuto soprattutto all’impennata dei prezzi delle materie prime energetiche conseguente alla rottura tra Ue e Russia. Anche la crescita della pressione fiscale e il taglio alle agevolazioni finora previste sono il portato della nuova fase di austerità, per gestire l’avvitamento della crisi nella fase di guerra e drenare risorse verso il comparto bellico.
Certamente le linee messe in campo dall’Ue rispetto allo settore specifico, quali la Politica Agricola Comune e il Green New Deal, hanno esacerbato le contraddizioni attuali. Esse sono divenute un elemento di rivendicazione immediata e unitaria nel continente, visto il loro essere funzionali a un ulteriore processo di monopolizzazione della produzione agroalimentare. Ma la lotta degli agricoltori non può essere vista semplicemente come l’ennesimo atto di insubordinazione della piccola e media borghesia nel continente europeo rispetto alla crisi capitalistica, bensì come la sintesi tra questo malessere generale della fase e il suo aggravamento nelle condizioni determinate dal riflesso interno, nelle società imperialiste, del processo di guerra.