La sinistra palestinese
Antisionismo e rivoluzione proletaria
“Ideologia borghese e teoria del proletariato” da Antitesi n.16 – pag.55
La lotta di liberazione della Palestina è oggi un faro per i popoli oppressi di tutto il mondo nella lotta contro l’imperialismo; non solo per il carattere indomito della sua Resistenza, ma anche e soprattutto perché colpisce al cuore dell’imperialismo e, così facendo, indebolisce il sistema capitalista nel suo complesso, facendo avanzare la prospettiva rivoluzionaria. Ma dimostra anche la validità della linea comunista e maoista secondo cui sono i proletari e le classi oppresse le forze più autentiche in grado di sostenere e portare avanti le lotte di liberazione.
Con questo articolo vogliamo analizzare la storia della lotta di liberazione della Palestina alla luce dell’impianto teorico sulla questione nazionale proposto nello scorso numero di Antitesi. [1] Ripercorrere la storia della sinistra marxista palestinese dai suoi albori all’interno del movimento nazionalista arabo ad oggi, ci mostra un esempio concreto del percorso che – pur non esente da contraddizioni – il movimento comunista ha storicamente svolto per porsi alla testa dei popoli oppressi nella lotta al colonialismo/imperialismo.
Il nazionalismo arabo, la questione nazionale palestinese e il movimento comunista
Per comprendere la questione nazionale palestinese, la sua nascita, la sua evoluzione e la sua portata occorre analizzare il contesto storico e regionale in cui si sviluppa.
La questione nazionale in Medio Oriente nasce, tanto tra la borghesia quanto tra le masse, come risveglio dei vari popoli assoggettati all’Impero Ottomano, ormai in decadenza sotto i colpi dell’imperialismo europeo. Strumentalmente sostenuto dalle potenze europee in chiave anti-ottomana – Gran Bretagna in primis – il movimento nazionale arabo riuscì a cacciare i turchi dalla cosiddetta mezzaluna fertile (Libano, Siria, Palestina e Iraq) durante la prima guerra mondiale. Tuttavia, imparò anche una prima grande lezione storica: i “cannibali” occidentali, infatti, calarono subito la maschera con gli accordi di Sykes-Picot (1916) attraverso cui Francia e Inghilterra si spartirono la regione. Si ebbe una prima importante svolta nel movimento nazionale, che si caratterizzò sempre di più come lotta al colonialismo e all’imperialismo europeo. Maturerà, poi, negli anni Trenta, intorno alla questione della spartizione della Palestina, sia come movimento su un piano politico-istituzionale (Congresso mondiale interparlamentare dei paesi arabi e musulmani contro la costituzione di una Stato ebraico 1938, Unione Araba 1942, Lega Araba 1945) sia nell’ambito della lotta di massa e insurrezionale. Contro il mandato britannico in Palestina e la colonizzazione sionista si verificarono moti nel 1920, ‘21, ‘29, nel ‘31 e dal ‘36 si sviluppò una vera e propria guerriglia contro i coloni e i britannici che si ponevano a loro difesa. In Palestina, a contribuire allo sviluppo del nazionalismo, era stata innanzitutto la percezione delle mire sioniste sulla regione. L’antisionismo e la resistenza contro l’occupazione inglese fecero già allora della Palestina la principale trincea della lotta anticoloniale araba.
In merito al movimento comunista internazionale, va segnalata la sua attenzione al mondo arabo e mussulmano fin dalla Rivoluzione Sovietica. Nel 1917 il Consiglio dei Commissari del popolo, cioè il governo sovietico, si rivolse, con uno specifico appello, ai musulmani di Russia e dell’Oriente in cui si incitava all’autodeterminazione dei popoli e alla lotta sotto le bandiere rosse contro l’imperialismo britannico. La Terza Internazionale seguì con attenzione i rivolgimenti in corso nel mondo arabo e svolse un ruolo importante nella creazione di organizzazioni comuniste nella regione. La sua linea generale fu quella della costruzione del fronte anticolonialista: i comunisti dovevano sostenere i movimenti nazionali alleandosi con i rappresentanti delle borghesie nazionali che indebolivano l’imperialismo. Inoltre, era ben presente l’idea del panarabismo, cioè dell’unità di tutti i popoli arabi contro il dominio europeo. Nacquero così i primi gruppi comunisti del Medio Oriente e del Nord Africa, a partire dai primi anni venti. Le difficoltà di tali organizzazioni furono legate alla necessità di unire la lotta di classe alla lotta di liberazione nazionale, spesso non riuscendo a stabilire quale fosse la contraddizione principale e quella secondaria rispetto alla lotta contro l’imperialismo e ai rapporti con la borghesia autoctona.
Tali partiti furono incapaci di concretizzare proposte e idee in una pratica rivoluzionaria che desse alle masse un piano di lotta organizzato e quello che era stato seminato ed era penetrato tra le masse fu raccolto da altri, anche in campo borghese, influenzando notevolmente gli sviluppi di tutti i movimenti anticoloniali nella regione. Ad esempio, il concetto di panarabismo, l’antagonismo tra imperialismo e socialismo, l’organizzazione centralizzata rivoluzionaria, furono poi ripresi pressoché da tutti i movimenti di liberazione dell’area.
Di particolare rilevanza in questo periodo è la nascita (1928) e il diffondersi progressivamente nel mondo arabo dei Fratelli Musulmani, partito nato come espressione della piccola e media borghesia privata egiziana e fautore dell’Islam politico come alternativa al colonialismo. Nella lotta contro britannici, francesi e sionisti, i Fratelli Musulmani si pongono in prima linea e con presenze, se non maggioritarie, comunque consistenti in tutti i paesi arabi.
La creazione dello Stato sionista nel 1948 e l’esodo forzato (Nakba) [2] della maggioranza degli arabi dalle loro terre, cambiarono radicalmente il volto della politica palestinese e ne accentuarono la peculiarità. Ne risultò un movimento nazionale fondato su tre istanze principali: la liberazione della Palestina con la soppressione dello Stato sionista, la rivendicazione di Gerusalemme come capitale e l’attuazione del diritto al ritorno dei profughi.
A seguito dello stabilirsi del regime sionista in Palestina e della decolonizzazione dal dominio britannico e francese, dopo la seconda guerra mondiale, si radica e diffonde in Medio Oriente e in Nord Africa il nazionalismo arabo come vera e propria dottrina politica. Questa corrente propugna l’unità politica e culturale dei popoli arabi, sviluppandosi in diverse correnti come il nasserismo, basato sull’opera del presidente egiziano Nasser, e il ba’thismo, più strutturato ideologicamente e diffusosi in Iraq e Siria. Il nazionalismo arabo ha avuto importanza determinante nella regione e, soprattutto la prospettiva panaraba propugnata da Nasser, diede un importante slancio alla lotta contro l’imperialismo e il sionismo. Tale movimento fu il riflesso della borghesia burocratica e intellettuale anticolonialista, che aspirava alla liberazione nazionale, alla cacciata dei sionisti, riprendeva il panarabismo dai comunisti e propugnava la laicizzazione della società come sovrastruttura della modernizzazione economica.
La grande prova economica, politica e militare del nasserismo fu la nazionalizzazione del canale di Suez, nell’autunno del 1956, che portò allo scontro con “Israele”, Francia e Inghilterra, le quali dovettero fermare la propria aggressione dopo la discesa in campo dell’Unione Sovietica a fianco dell’Egitto. In particolare le truppe sioniste dovettero ritirarsi dal Sinai, ma l’Egitto non mise in discussione i confini coloniali di “Israele” frutto della Nakba del 1948. Ciò venne visto in parte come una sconfitta da parte della Resistenza Palestinese.
Nell’alveo del nazionalismo arabo nascono i principali partiti della Resistenza Palestinese organizzata. L’esperienza del Movimento Nazionalista Arabo (Mna) fondato da George Habash [3] nel 1951 raccolse molti giovani intellettuali rivoluzionari, soprattutto palestinesi, che volevano abbattere lo Stato sionista unendo tutti i popoli arabi in una lotta comune, nella consapevolezza del ruolo di cane da guardia dell’imperialismo occidentale svolto da “Israele”. Con le parole d’ordine “unità araba e liberazione della Palestina”, tale movimento si estese oltre il Libano anche in Siria, Iraq, Egitto e divenne particolarmente influente in tutto il mondo arabo. In tale contesto nasceva anche Fatah (1957), espressione della borghesia nazionale palestinese e partito maggioritario della Resistenza, nonché componente egemone dell’Organizzazione di Liberazione della Palestina (Olp), fronte politico delle forze antisioniste, fondato nel 1964.
La disfatta dei paesi arabi nella “guerra dei sei giorni”, nel giugno del 1967, svela la debolezza della borghesia araba e il suo opportunismo, decretando la morte della prospettiva panarabista borghese. Per la Resistenza Palestinese si aprono quindi nuovi scenari. L’ala palestinese del Mna si scinde dal movimento e nasce, proprio nel 1967, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp), che aprì una stagione di lotta su nuove basi marxiste-leniniste e maoiste, volta a superare i limiti sia dell’esperienza del nazionalismo arabo che dei vecchi e dogmatici partiti comunisti della regione.
Nel contesto mediorientale la prospettiva panaraba, propugnata dall’Egitto di Nasser, è stata una piattaforma politica fondamentale per lo sviluppo di un piano di lotta organizzato contro l’imperialismo e il sionismo sia per le masse che per la borghesia nazionale araba. Se da una parte le borghesie arabe hanno tentato di portare avanti tale progetto, scontrandosi sul piano militare contro “Israele” e uscendone sconfitte, dall’altra, nel medesimo periodo, il proletariato non è riuscito ad avere una dimensione strutturale ed organizzata tramite i partiti comunisti, limitati dal loro dogmatismo e repressi dalle stesse borghesie arabe. Fino al 1967, anno della “guerra dei sei giorni”, le masse arabe erano dunque prive di una prospettiva politica socialista, credibile ed organizzata. Il fallimento del progetto panarabo, che si concretizza con la morte di Nasser e la capitolazione delle borghesie arabe, si palesa nella figura del successore Sadat, il quale esprime una linea politica di normalizzazione e pacificazione con il sionismo (visione ancora dominante in quel paese) e, in generale, con le borghesie arabe filo-imperialiste, con in cima alla lista Giordania e Arabia Saudita.
Nonostante il disastroso appoggio dell’Urss a favore della spartizione della Palestina nel ‘48, i comunisti, con la nascita dell’Fplp, riuscirono nuovamente a contribuire al movimento di liberazione nazionale arabo e, in particolare, alla Resistenza Palestinese. Infatti, se è vero da un lato che i primi partiti comunisti non seppero impostare un lavoro che desse respiro alla linea di massa, rimanendo così costretti ad una marginalità politica che ne ha sancito il sostanziale isolamento rispetto alle larghe masse, d’altra parte il marxismo e il leninismo avevano da sempre esercitato un’influenza costante nelle organizzazioni antimperialiste e nazionaliste arabe. Fu l’applicazione creativa del marxismo-leninismo nel contesto concreto del mondo arabo, anche alla luce dell’esperienza cinese e vietnamita, che permise al movimento comunista di rinascere con nuova linfa rivoluzionaria, con la creazione dell’Fplp.
Il grandioso merito politico e storico di Habash e dell’Fplp è aver spinto più di ogni altra forza affinché la lotta palestinese passasse da una direzione borghese nazionale ad una direzione proletaria. Il passaggio dal Mna all’Fplp è proprio quello che vede la concezione di un processo di liberazione guidato dalle borghesie arabe della regione tramutarsi nella prospettiva di una guerra di popolo, nella quale siano protagoniste le masse palestinesi e le loro organizzazioni d’avanguardia.
La nascita e lo sviluppo di un soggetto politico rivoluzionario palestinese
Nel documento Strategia per la Liberazione della Palestina [4] vengono indicati molto chiaramente quali siano i nemici della rivoluzione palestinese. Prima di tutto “Israele”: “Nella nostra battaglia di liberazione come primo nemico affrontiamo Israele come entità politica, militare ed economica (…) che cerca di difendere la sua struttura aggressiva, espansionista e razzista e, al tempo stesso, di prevenire la nostra lotta per la nostra terra, la nostra libertà ed i nostri diritti”. In seconda battuta viene indicato il sionismo internazionale: “Israele è in realtà parte integrale del movimento sionista mondiale – infatti è una propaggine di questo movimento. Quindi, nella nostra battaglia con Israele, noi ci confrontiamo non solo con lo Stato di Israele, ma con Israele come struttura fondata sul sionismo internazionale”. In terza battuta l’imperialismo: “Nella battaglia per la liberazione della Palestina, affrontiamo una terza forza, l’imperialismo mondiale, guidato dagli Stati Uniti d’America” poiché “Israele è diventata la forza e la base usata dall’imperialismo per proteggere la sua presenza e difendere i suoi interessi nella nostra terra”. In quarta battuta i regimi arabi feudali e capitalisti: “I milionari del mondo Arabo, inclusi commercianti, banchieri, signori feudali, grandi proprietari, re, emiri e sceicchi, hanno di fatto acquisito i loro milioni in virtù della loro collaborazione col sistema capitalista mondiale (…) Questo significa che, in una vera lotta condotta dalle masse per distruggere l’influenza imperialista nella nostra patria, la reazione araba non può esserci perché i suoi interessi, per realizzarsi, dipendono dalla persistenza dell’imperialismo e quindi non può stare dalle parte delle masse”.
Vengono poi definite le forze della rivoluzione palestinese da un punto di vista di classe: “Le lotte di liberazione di nazionale sono anche delle battaglie di classe. Si tratta di battaglie che vedono da una parte il colonialismo, le classi feudali e capitaliste, i cui interessi sono legati al colonialismo, e dall’altra le classi popolari che rappresentano la parte più grande della nazione”. La guida della rivoluzione palestinese deve essere esercitata dalla classe lavoratrice: “Lavoratori e contadini sono il pilastro della rivoluzione, la sua base materiale e il suo elemento dirigente”. Per quanto riguarda la borghesia, quella piccola è “un alleato della rivoluzione”, mentre la borghesia affaristica e bancaria, “i cui interessi sono interconnessi tra i suoi membri ed è legata all’affarismo e al sistema bancario imperialista”, viene ritenuta un nemico strategico della rivoluzione poiché tale processo “ mira a mettere fine all’esistenza dell’imperialismo e dei suoi interessi nella nostra patria e così facendo distruggerebbe anche le sue fonti di ricchezza”. Questa posizione non è assoluta: “Certamente noi ammettiamo che certi settori di questa borghesia possono essere un’eccezione a questa regola e che, sulla base del carattere speciale della questione palestinese, essi possono rimanere dalla parte della rivoluzione e astenersi dal lavorarci contro, ma queste eccezioni non possono farci perdere di vista la legge generale che governa la posizione di questa classe rispetto alla rivoluzione”.
La visione delle classi sociali palestinesi rispetto al processo rivoluzionario palestinese viene così delineata: “Le forze della rivoluzione sono i lavoratori e i contadini – gli abitanti dei campi, dei villaggi e dei distretti poveri – in alleanza con la piccola borghesia Palestinese che costituisce anch’essa una forza rivoluzionaria, nonostante questa alleanza preveda un conflitto strategico ed intellettuale che va condotto affinché si affermi la direzione, il pensiero e la strategia della classe lavoratrice. Bisogna comunque trarre ogni possibile vantaggio, anche solo temporaneo, da tutti i settori della borghesia palestinese, senza permettere che tale alleanza dia spazio ad ambiguità sulla nostra visione delle forze rivoluzionarie e sulla chiarezza della loro strategia e dei loro programmi”.
Quindi per riassumere, nel contesto mediorientale, l’Fplp propone un’analisi scientifica delle forze in campo: identifica il nemico interno con il sionismo coloniale e quello esterno con l’imperialismo e il sionismo internazionale. Nella visione strategica di abbattimento del modello produttivo capitalistico per il passaggio ad una società socialista definisce quale nemico interno i regimi reazionari arabi e la borghesia palestinese legata agli interessi finanziari imperialisti. Quest’ultima gioca un ruolo contraddittorio nel processo di liberazione nazionale: se da una parte difatti può tatticamente legarsi alla causa palestinese, strategicamente la sua collusione con gli imperialisti, in particolare nel settore bancario-finanziario, ne impedisce una sua partecipazione politicamente positiva nel processo di liberazione nazionale.
A livello mondiale vengono indicati gli alleati della rivoluzione palestinese: “I nostri primi amici sono i popoli schiavizzati che soffrono a causa dell’imperialismo (…). I popoli dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina soffrono costantemente a causa della miseria, dell’indigenza, dell’ignoranza e dell’arretratezza che sono conseguenze dell’imperialismo e del colonialismo sulle loro vite. Il maggior conflitto mondiale è quello tra l’imperialismo globale sfruttatore da un lato e questi popoli e il campo socialista dall’altro. L’alleanza delle forze di liberazione Arabe e Palestinese con i movimenti di liberazione nazionale in tutti i paesi poveri e sottosviluppati, scontrandosi con l’imperialismo a guida Usa, troveranno un solido alleato per sostenersi e continuare il loro sforzo. Questo alleato è la Repubblica Popolare Cinese (…)”. E ancora “L’imperialismo e le forze reazionarie oggi stanno cercando di rompere le relazioni tra il movimento di resistenza Palestinese e Arabo e l’Unione Sovietica (…) che nel passato ha fortemente sostenuto le masse Arabe contro l’imperialismo”.
Queste poche righe definiscono in maniera molto chiara l’identità della sinistra rivoluzionaria palestinese. Per quanto riguarda la strategia, come già evidenziato, l’Fplp nasce dal Mna il quale, in seguito alla sconfitta della “guerra dei sei giorni”, vede crollare la prospettiva politica panaraba borghese, sviluppandosi quindi in un movimento politico organizzato anticoloniale e socialista, forte delle esperienze politiche della Cina e del Vietnam: “Noi proponiamo la formula della guerra popolare di liberazione contro la formula della guerra convenzionale con la quale combattemmo il nemico nel 1948, nel 1956 e nel 1967 e che portò alla nostra sconfitta in ognuno di questi casi”. La sconfitta del progetto sionista viene posta in questi termini, secondo la concezione della Rivoluzione di Nuova Democrazia [5]: “L’obbiettivo del movimento di liberazione Palestinese è stabilire uno stato nazionale democratico in Palestina, nel quale Arabi ed Ebrei vivano come cittadini con eguali diritti e doveri (…)” [6]
La nascita dell’Fplp e l’adozione da parte di questa organizzazione del socialismo
scientifico e delle linee politiche fondamentali del maoismo, che avviene formalmente nel 1969, ha permesso un avanzamento politico ed organizzativo senza eguali per la sinistra palestinese e, conseguentemente, per il proletariato arabo. La grande riuscita politica dell’Fplp è stata quella di essere stato in grado di passare da un movimento nazionalista arabo ad un movimento marxista capace di includere dialetticamente le istanze nazionaliste con quelle rivoluzionarie socialiste e di dirigere le masse proletarie palestinesi in rottura con la borghesia araba. L’aver collocato nella giusta prospettiva scientifica la lotta antimperialista in rapporto a quella anticoloniale, nazionale e di classe, ha avuto il merito di aver identificato i regimi borghesi arabi e la stessa grande borghesia palestinese come reazionari, potendo quindi impostare una dialettica corretta nei loro confronti, che vada nella direzione degli interessi strategici del proletariato palestinese: lotta al sionismo, lotta all’imperialismo, nascita di una entità statale palestinese socialista. In questo processo, la teoria maoista dell’organizzazione del partito nella sua articolazione tra le masse e la necessità della costruzione di un’organizzazione comunista rivoluzionaria e combattente, hanno giocato un ruolo fondamentale, complementarmente all’esperienza pratica portata avanti dal popolo vietnamita nella sua storica lotta per la liberazione, prima contro i francesi, poi contro i giapponesi e infine contro gli Stati Uniti.
L’Fplp si pose quindi la questione dell’organizzazione e della mobilitazione delle forze rivoluzionare palestinesi per portare avanti la guerra popolare di lunga durata: in primo luogo, lavorare per la costruzione di una unità nazionale palestinese è la base per la mobilitazione di tutte queste forze, in secondo luogo, l’unità nazionale che si deve creare deve coincidere integralmente con l’unità del fronte anticoloniale. Infine si pone la questione di creare un fronte unico con Fatah, all’interno dell’Olp, definendo e riconoscendo in maniera chiara le alleanze di classe, che sebbene presentino un’importanza per sviluppare la strategia, devono avere una gestione tattica.
L’Fplp nella Resistenza Palestinese
A questo punto diviene fondamentale chiarire il tipo di dialettica che si è costituita tra i vari soggetti politici facenti parte dell’Olp e in particolare tra l’Fplp e la sua componente maggioritaria: Fatah. L’Fplp aderisce all’Olp nel 1968, andandone a costituire l’ala sinistra, spesso in rottura con la direzione di Fatah. Sebbene originariamente la visione strategica di quest’ultima fosse quella dell’eliminazione dell’entità sionista con la nascita di uno Stato palestinese dal Giordano al Mediterraneo, alla fine si è dimostrata una organizzazione perdente ed opportunista, portando avanti, sotto la guida di Arafat, gli accordi di Oslo. [7]
L’aspetto che ci preme sottolineare è che il Fronte Popolare è sempre riuscito ad evitare di finire subordinata a Fatah potendo contare su un’autonomia politica, strategica e organizzativa fin da subito. La capacità di manovra dell’Fplp all’interno dell’Olp è la stata la conseguenza della scelta politica di dotarsi di una propria linea all’interno della lotta di liberazione nazionale palestinese.
Ad esempio, il Fronte Popolare, durante gli anni sessanta e settanta, portò avanti l’internazionalizzazione del conflitto palestinese rivendicando esplicitamente azioni sia nei paesi arabi, sia nei paesi imperialisti, contro obbiettivi legati al sionismo. Tali azioni hanno posto al centro la questione del portare la guerra dove essa si origina, cioè nei centri imperialisti (ricordiamo ad esempio le operazioni di dirottamento aereo realizzate dalla compagna Leila Khaled). Inoltre, tale scelta ha costituito un fattore determinante per lo sviluppo di organizzazioni combattenti rivoluzionarie nei centri imperialisti occidentali, in particolar modo negli Stati Uniti, in Germania, in Giappone e in Italia. In campo arabo, tale pratica venne ripresa, negli anni ottanta, dalle Fazioni Armate Rivoluzionarie Libanesi di Georges Ibrahim Abdallah. [8]
La contraddizione tra Fatah e Fplp portò anche a vere e proprie rotture. La questione di fondo, in termini di classe, fu il rapporto stretto della direzione di Fatah con la borghesia araba e dunque l’influenza politica che la prima subiva da parte della seconda.
Quando l’Egitto di Sadat iniziò il processo di normalizzazione delle relazioni con il regime sionista, Fatah, e di riflesso, l’Olp, iniziarono per la prima volta a presagire la possibilità della cosiddetta “soluzione dei due Stati per due popoli”. L’Fplp reagì con la fuoriuscita dal Comitato Esecutivo dell’Olp nel 1974 e la promozione del Fronte del Rifiuto, che coinvolse la sinistra palestinese e i paesi arabi antimperialisti (Siria, Iraq, Yemen del Sud).
Un indebolimento dell’Fplp arriva invece con gli accordi di Oslo. Il gruppo dirigente del Fronte comprende pienamente la portata della capitolazione operata da Fatah, ma nella pratica non riesce a porsi alla testa dell’opposizione, lasciando un vuoto a sinistra, prontamente colmato dalle organizzazioni islamiste come Hamas, espressione palestinese dei Fratelli Mussulmani, che si è fin da subito opposto in modo concreto agli accordi, rilanciando la lotta armata. Ovviamente, in questo parziale declino di egemonia del Fronte hanno contato anche altri fattori, tra cui la venuta meno del campo socialista a guida sovietica e soprattutto la svolta revisionista in Cina, che hanno fatto perdere all’organizzazione sostegno politico e militare, mentre dall’altra parte le organizzazioni islamiste hanno trovato solidi punti di riferimento in tal senso nell’Iran khomeinista e nelle monarchie del Golfo, Qatar in primis.
La Seconda Intifada, dall’autunno del 2000 all’inverno del 2005, nasce proprio dal rifiuto da parte delle masse palestinesi della capitolazione sancita dagli accordi di Oslo, e sancirà l’affermazione dell’egemonia di Hamas e del Jihad Islamico nella lotta di liberazione palestinese. Ciò nonostante, l’Fplp in quegli anni sarà in grado di riorganizzarsi di fronte alla necessità di elevare la lotta armata, rilanciando le proprie strutture militari e costituendo le Brigate del Martire Abu Ali Mustafa, dal nome del successore di George Habash alla guida dell’organizzazione, ucciso in un’operazione di “omicidio mirato” dell’esercito sionista nel 2001. Le Brigate seppero imporsi come un centro politico-militare di primo ordine della Resistenza: pensiamo ad esempio alla liquidazione, il 17 ottobre 2001, del ministro sionista Zeevi, esponente dell’estrema destra, unico facente parte di governi “israeliani” ad essere eliminato dalla lotta armata palestinese.
Contemporaneamente, sul piano politico, dagli anni della Seconda Intifada, l’Fplp ha iniziato a battersi per l’unità politica della Resistenza Palestinese, realizzabile solamente attraverso il rilancio dell’Olp. Quest’ultima dovrebbe da un lato abbandonare il tradimento e le illusioni del processo di Oslo, promosso dalla direzione vendipatria di Fatah e della cosiddetta Autorità Nazionale Palestinese (Anp), e dall’altro integrare le nuove forze della lotta di liberazione emerse sul campo, cioè principalmente Hamas e Jihad islamico.
Beninteso l’Fplp non riassume tutta la sinistra palestinese, avendo subito, nella sua storia, due importanti scissioni su questioni politiche di linea rivoluzionaria. La prima, nel 1968, fu quella promossa da Ahmed Jibril (1935-2021), che pose la questione della preminenza dell’azione militare rispetto alla direzione politica, fondando l’organizzazione Fronte Popolare di Liberazione della Palestina – Comando Generale (Fplp-Cg), finita poi di fatto sotto l’influenza del governo siriano. La seconda fu quella promossa da Nayef Hawatmeh, tuttora vivente, che pose la questione, all’opposto, del rafforzamento e radicamento politico-ideologico aldilà dell’attività militare rivoluzionaria, fondando l’organizzazione Fronte Democratico di Liberazione della Palestina (Fdlp). La contrapposizione del piano politico a quello militare ha però portato l’Fdlp ad avere una scarsa autonomia strategica all’interno dell’Olp, finendo spesso per assecondare di fatto la linea della direzione di Fatah, anche rispetto ai disastrosi accordi di Oslo.
Rivendicare la Resistenza e la sinistra palestinese
Dall’offensiva del 7 ottobre, la Resistenza Palestinese, seppur composita, sta dimostrando oggi tutta la sua forza indomita nella sua unità. Hamas, Jihad islamico, Fplp, Fdlp, Fplp – Cg e altre organizzazioni della Resistenza stanno combattendo assieme il nemico sionista a Gaza, in Cisgiordania e nei territori del ‘48, la cosiddetta “Israele”. Anche l’ala popolare e militante di Fatah, le Brigate dei Martiri di Al Aqsa, è parte integrante dell’Operazione Diluvio Al Aqsa.
La dichiarazione rilasciata dall’incontro delle organizzazioni palestinesi a Mosca avvenuto il due marzo scorso, [9] contiene il riconoscimento di Hamas e Jihad Islamica dell’Olp come “unico e legittimo rappresentante del popolo palestinese”, segnando una svolta politica storica nei rapporti interni alla Resistenza, per la quale da tempo si sta battendo l’Fplp. Contemporaneamente però la mossa di Abu Mazen, segretario di Fatah, presidente dell’Olp e dell’Anp, di nominare un nuovo capo di governo, il tecnocrate Mohammed Mustafa, senza consultazioni tra i partiti palestinesi e senza elezioni popolari, conferma il ruolo reazionario delle istituzioni nate dagli accordi di Oslo. La borghesia filoimperialista dell’Anp di Abu Mazen, pur condannando formalmente l’offensiva “israeliana” su Gaza, sostanzialmente la vede come una possibilità per riprendere il controllo della striscia, dopo la sua cacciata ad opera di Hamas nel 2007. Ciò conferma che l’unità della politica palestinese è possibile solo nel quadro della Resistenza e, dunque, sconfiggendo quella borghesia legata all’imperialismo che, già all’atto della sua fondazione, l’Fplp individuò come nemica della lotta di liberazione.
Nostro compito è quello di rivendicare l’unità della Resistenza Palestinese contro le posizioni opportuniste di distinguo tra “buoni e cattivi”, ma allo stesso tempo dare voce alla sinistra rivoluzionaria palestinese, in particolare all’Fplp, che oggi dimostra di essere la forza più coerente in termini di analisi, scelte strategiche e politiche nello sviluppo della prospettiva rivoluzionaria.
Sostenere le forze che lottano non solo per la liberazione della Palestina, ma che tentano di fondere la causa del socialismo con quella della liberazione nazionale, vuol dire mostrare che c’è possibilità per la prospettiva comunista. La lotta di liberazione della Palestina dimostra nella pratica che le lotte di liberazione nazionale, colpendo duramente l’imperialismo dominate, possono aprire prospettive per la rivoluzione proletaria.
Note:
[1] Vedi Antitesi n. 15, pp. 74 ss.
[2] Per approfondire leggi la relativa nota di glossario, p. 79
[3] Vedi scheda: George Habash.
[4] Fplp, Strategy for the Liberation of the Palestine, Amman, 1969, scaricabile in inglese sul sito bannedthought.net. Tutte le citazioni virgolettate e seguenti sono riferite a questo documento e la traduzione è a cura della redazione.
[5] Vedi Antitesi n. 15, pp. 82 ss.
[6] Strategy, op. cit., pp. 102 ss.
[7] Vedi scheda: Gli accordi di Oslo.
[8] Vedi scheda: George Ibrahim Abdallah.
[9] Vedi A Mosca riunite tutte le fazioni palestinesi, 9.3.24, cambiailmondo.org
George Habash: una vita per la rivoluzione palestinese
George Habash è una figura chiave nella storia della Resistenza Palestinese avendo fondato e guidato il Movimento Nazionale Arabo (Mna) nel 1951 e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp) nel 1967. Nato il primo agosto 1926 ad Al Lud, nella Palestina del ’48, originario da una famiglia di religione cristiana ortodossa, con lo scatenarsi della Nakba, durante la quale i sionisti uccisero sua sorella, si rifugiò ad Amman, e poi a Beirut. Qui si laureò in medicina e cominciò la militanza politica, col nome di battaglia di Al Hakim, il “dottore”.
La sua lotta contro gli occupanti iniziò con l’organizzazione di gruppi guerriglieri che attaccavano “Israele” muovendo dai confini libanesi, siriani e giordani. Furono questi gruppi partigiani che costituirono la base militante per la costituzione del Fplp, rompendo con la concezione per cui la liberazione della Palestina sarebbe stato frutto della borghesia araba e battendosi in prima persona per la propria terra. Durante la prigionia in Siria, nel 1968, Habash abbraccia definitivamente il comunismo: “Il mio marxismo è diventato più approfondito durante la mia reclusione in Siria. Sono in debito con il mio carceriere, Abd al Karim al Jundi, che mi ha tenuto in isolamento per nove o dieci mesi, pensando che mi avrebbe piegato. Ho trascorso tutto l’intero periodo leggendo le opere complete di Marx ed Engels, di Lenin e anche di Ho Chi Minh e Mao” (Intervista sul “Giornale di studi palestinesi”, 1998). L’anno successivo, con il documento Strategia per la liberazione della Palestina, l’Fplp adotta chiaramente un’impostazione marxista-leninista e maoista, che unisce la lotta nazionale alla rivoluzione socialista.
La capacità di Habash è quella di sintetizzare il patrimonio della Resistenza Araba e Palestinese con quello generale del movimento comunista e delle lotte di liberazione nazionali, collocando la battaglia contro il sionismo in una prospettiva internazionalista. “Vietnam, Laos, Kampuchea, Angola, Mozambico, Guinea Bissau, Etiopia… e poi la Rivoluzione Iraniana, l’Afghanistan, il Nicaragua e lo Zimbabwe… Queste sono le concrete vittorie realizzate dai movimenti di liberazione nazionale. Come risultato, il sistema capitalista sta subendo una crisi e l’imperialismo sta aggravando la sua aggressione, un segno di debolezza non di forza” (Discorso nel campo profughi di Saida, in occasione del Primo Maggio 1980). Habash, all’interno del Fronte, perseguì l’obiettivo di creare un’avanguardia proletaria cosciente e combattiva, culturalmente svincolata dall’opprimente peso della tradizione religiosa. In tal senso va letta la disciplina di pensiero che Habash propone ai suoi fedayin; questa si fonda, infatti, su una razionalità e rigore logico come guida dell’analisi della fase, dei compiti e delle forze in campo. Si tratta di un modello intellettuale che si iscrive nella tradizione, concreta e guerriera, del “marxismo orientale” di Mao, del Generale Giap, di Ho Chi Minh. All’interno di questo progetto di emancipazione, si inserisce anche la promozione del ruolo delle donne che assumono incarichi di comando all’interno del Fronte e si intestano azioni militari. Il caso più noto è sicuramente quello di Leila Khaled, nota per i dirottamenti aerei del 29 agosto del 1969 e del 6 settembre del 1970. Questo episodio, insieme ad una serie di dirottamenti aerei e attacchi contro obbiettivi riconducibili al sionismo negli anni settanta, fecero in modo che la questione palestinese assumesse una notorietà fuori dalla zona mediorientale, smascherando la fitta rete di complicità tra i paesi occidentali e l’entità sionista. Nel 1974, contro l’adozione della risoluzione da parte del Consiglio nazionale palestinese dell’Olp, che tendeva a riconoscere una soluzione a due Stati, promosse il Fronte del Rifiuto, insieme ad altri partiti della sinistra. Anche dopo gli accordi di Oslo si fece promotore di un’altra alleanza di opposizione alla pacificazione con l’entità sionista, formando di fatto un blocco questa volta con Hamas e con il Jihad.
Si avviava così la strada verso la convergenza con i movimenti islamisti che tuttora vige sul campo di battaglia antisionista. Sull’islam politico, infatti, Habash sosteneva che, partendo dai propri contenuti autonomi e di classe, nella lotta è possibile ricercare momenti di unità, senza steccati e settarismi, anche con le forze islamiche sinceramente antisioniste e antimperialiste, legandosi in particolare alla loro base, mossa dalle contraddizioni oggettive economiche e sociali e fortemente radicata tra larghe fette di proletariato.
La militanza attiva di Habash dentro il Fplp finirà nel 2000 qualche anno prima della sua morte, avvenuta il 26 gennaio 2008, ad Amman, a cui seguiranno tre giorni di lutto nazionale in Palestina e i tributi d’onore di tutte le organizzazioni della Resistenza.
Gli accordi di Oslo
Gli accordi di Oslo, firmati da “Israele” e Olp nel settembre del 1993, sono una serie di dichiarazioni di intenti che, in un arco di tempo prestabilito di 5 anni, avrebbe dovuto portare alla realizzazione della soluzione “a due Stati”. Caldeggiate dagli Usa, che allo scadere della guerra fredda avevano interesse ad una pacificazione del Medio Oriente, le negoziazioni avvennero in piena prima Intifada: un’insurrezione popolare organizzata, la quale da un lato dava filo da torcere all’occupante sionista e dall’altro fuggiva al controllo della dirigenza palestinese. Tali accordi hanno rappresentato una capitolazione per il movimento della Resistenza Palestinese in quanto veniva riconosciuta l’esistenza dello “Stato di Israele”. Prima di quella data, l’Egitto era stato l’unico paese arabo a riconoscere “Israele”.
Venne istituzionalizzata l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), al fine di amministrare i territori del ‘67 (Gaza e Cirgiordania), in cui sarebbe dovuto nascere uno Stato palestinese dopo 5 anni. Nel frattempo, tali territori vennero divisi in 3 aree: Area A, ufficialmente a controllo dell’Anp, Area B, a controllo civile palestinese e militare sionista e Area C, a controllo totale sionista. Con gli accordi di Oslo, la dirigenza palestinese accetta la formula della “terra in cambio di pace”, rinunciando alle istanze fondamentali della lotta di liberazione anticoloniale: integrità territoriale, dal fiume al mare, con Gerusalemme capitale e diritto al ritorno dei profughi palestinesi. Sul piano economico, gli accordi di Oslo sono stati integrati dal protocollo di Parigi, che sancisce la dipendenza economica palestinese a quella sionista. Ad esempio, le tasse palestinesi non vengono raccolte dall’Autorità, ma dai sionisti che possono unilateralmente evitare di trasferirle all’Anp. Tali accordi hanno anche aperto la strada all’ingresso delle Ong straniere, che ha prodotto la nascita di una élite economica non produttiva palestinese, con conseguente incremento del gap socio-economico.
A tal proposito occorre menzionare il repressivo ruolo dell’Anp che, portando avanti una funzione parallela a quella della polizia e dell’esercito sionista contro le forze della Resistenza, conferma di essere cane da guardia dell’entità sionista e quindi complice nell’oppressione del popolo palestinese. Inoltre, gli accordi di Oslo hanno previsto la nascita del “coordinamento per la sicurezza” tra Anp e autorità sioniste, cioè un vero e proprio legame di collaborazionismo nei confronti degli occupanti e contro i partigiani palestinesi.
Mentre gli imperialisti Usa, garanti degli accordi, sbandieravano i “due Stati per due popoli”, l’espansione sionista accelerava esponenzialmente, raggiungendo la cifra, nel 2023, di 465 mila coloni in Cisgiordania (nel 1993 erano 110 mila) e più di 230 mila a Gerusalemme Est (nel 1993 erano 140 mila). La stessa occupazione militare nei territori del ‘67, dove è stata istituita l’Anp, è proseguita come prima degli accordi, dunque con continui soprusi verso i palestinesi, spalleggiando le violenze dei coloni e imponendo un regime di apartheid su ogni aspetto della vita sociale palestinese.
Ad oggi, dunque, gli accordi sono falliti, sia da un punto di vista politico che storico; dalle ceneri di questo fallimento è rinata la Resistenza Palestinese, dalla Seconda Intifada sino all’Operazione Diluvio Al Aqsa.
Georges Ibrahim Abdallah, prigioniero del sionismo europeo
Georges Ibrahim Abdallah, combattente libanese comunista, è detenuto in Francia dal 24 ottobre 1984. La sua storia è quella della sinistra rivoluzionaria araba, avendo dapprima portato avanti la battaglia antimperialista in Medio Oriente come militante del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp) e poi in Europa all’interno delle Fazioni Armate Rivoluzionare Libanesi (Farl).
Il suo arresto avvenne a Lione per possesso di documenti falsi (in realtà un passaporto algerino con un’identità diversa dalla propria) e di volantini delle Farl. Dopo due anni gli venne rivolta anche quella di possesso di armi e esplosivo: con questa accusa, su pressione degli Usa di Regan, il compagno viene inizialmente condannato a 4 anni.
Nel 1987, mentre stava scontando la pena, spuntò di colpo il rinvenimento da parte della polizia politica francese di un’arma all’interno di un appartamento a lui riconducibile, che secondo l’accusa, era stata usata per le esecuzioni del tenente colonnello Charles Ray, addetto militare all’ambasciata statunitense e di Yacov Barsimantov, diplomatico dell’entità sionista e dirigente del Mossad, entrambe rivendicate dalle Farl nel 1982.
Nel processo dell’87, caratterizzato peraltro da numerose irregolarità, Georges dichiarò: “Se il nostro popolo non mi ha concesso l’onore di partecipare a queste azioni antimperialiste che voi m’attribuite, almeno ho l’onore di essere accusato dalla vostra Corte e di difenderne la loro legittimità di fronte alla legalità criminale dei boia”. E, in reazione alla costituzione di parte civile da parte degli Usa: “che il criminale yankee, boia di tutti i diseredati della terra sia, per di più, il rappresentante di presunte vittime davanti a voi, allora c’è di che astenersi da ogni commento sulla natura della vostra corte e sul compito assegnatole”. Non furono trovate prove del coinvolgimento diretto nelle azioni, ma l’esito processuale dimostrò la natura politica del processo. A fronte di una richiesta di condanna per la sola detenzione di armi, quindi non superiore ai dieci anni di carcere, il tribunale sentenziò l’ergastolo per i due attentati mortali.
Le azioni delle Farl, come di altre organizzazioni di combattenti arabi e palestinesi, si inserirono nella scelta strategica di portare la guerra nei centri imperialisti, in ritorsione al loro appoggio all’entità sionista, che in quegli anni invadeva il Libano, con l’obiettivo di distruggere le basi della Resistenza Palestinese, provocando decine di migliaia di morti (vedi il tristemente noto massacro di Sabra e Chatila), la devastazione di Beirut e oltre 250 mila profughi.
Infatti Abdallah dichiarò davanti ai suoi giudici: “Sono un combattente, non un criminale (…) il percorso che ho seguito mi è stato imposto dalle violazioni dei diritti umani perpetrate contro i palestinesi. (…) Nonostante le sofferenze di tutti i popoli della terra, i vostri padroni impongono la pace e la legalità del loro sistema criminale di cui la guerra è parte integrante, ma vi sbagliate se sperate che la guerra mai oltrepasserà le regioni delle periferie”.
Abdallah è uno dei prigionieri politici detenuti da più tempo al mondo. Secondo la legge francese sarebbe formalmente scarcerabile dall’ottobre del 1999, ma è evidente che la rivendicazione della sua identità comunista, antimperialista e rivoluzionaria è un argomento sufficiente per le autorità francesi per tenerlo in carcere. Pensiamo solo che, dopo 40 anni di carcere in Francia, il tribunale di Trieste ha aperto un processo lo scorso dicembre a carico del compagno, sempre per fatti dell’84 collegabili alle attività delle Farl in Italia. Quasi 40 anni non hanno fermato la sete di vendetta dei sionisti europei, portando al suo imprigionamento a vita da parte dell’imperialismo francese, alleato strategico del regime coloniale ”israeliano”.
Dal carcere il compagno Abdallah ha sempre difeso la causa dei popoli oppressi e contribuisce ancora oggi allo sviluppo del dibattito per il sostegno ai rivoluzionari prigionieri e alla Palestina in lotta. Attorno a lui si è sviluppato un forte movimento internazionale di solidarietà, che negli anni lo ha supportato nella sua resistenza in carcere e nel suo percorso di combattente per la causa rivoluzionaria, portando avanti una costante campagna di controinformazione e mobilitazione per la sua scarcerazione e in sostegno di tutte le lotte dei popoli contro l’imperialismo.