Aristocrazia operaia, Nakba
“Glossario” da Antitesi n.16 – pag.77
Aristocrazia operaia
“Con l’affermarsi della fase imperialista del capitalismo e il costituirsi di monopoli che esercitano lo sfruttamento su scala globale, si producono extra profitti sulla pelle dei lavoratori e delle masse popolari delle formazioni dominate, di questo sovraprofitto (reso possibile dal dominio imperialista sui popoli oppressi) i capitalisti possono sacrificare una piccola parte (e persino assai considerevole!) per corrompere i propri operai, per creare una specie di alleanza (ricordate le famose ‘alleanze’ delle trade-union inglesi con i loro padroni […]), un’unione degli operai di una nazione con i propri capitalisti contro gli altri paesi”. [1]
Quello dell’aristocrazia operaia è un tema già presente nel dibattito tra Marx e Engels in merito alla situazione di classe nell’Inghilterra della loro epoca: “Il proletariato inglese sta diventando sempre più borghese, cosicché la più borghese di tutte le nazioni tende in ultima analisi ad avere un’aristocrazia borghese e un proletariato borghese ‘oltre’ a una borghesia. Per una nazione che sfrutta tutto il mondo ciò è naturalmente in un certo modo giustificabile”. [2] Lenin sviluppò ulteriormente la riflessione considerando che gli alti profitti monopolistici “hanno la possibilità di corrompere singoli strati di operai e, transitoriamente, persino considerevoli minoranze di essi, schierandole a fianco della borghesia del rispettivo ramo industriale o della rispettiva nazione contro tutte le altre. Questa tendenza è rafforzata dall’aspro antagonismo esistente tra i popoli imperialisti a motivo della spartizione del mondo”. [3]
Nella concezione di Lenin la categoria dell’aristocrazia operaia è connessa con lo sviluppo del cosiddetto partito operaio borghese nelle formazioni socioeconomiche imperialiste. Si può dire che la categoria dell’aristocrazia operaia abbia come aspetto principale la propria sovrastruttura politica: il partito operaio borghese. Quest’ultima è l’organizzazione politica che la borghesia imperialista coltiva nella classe operaia per vincolarla corporativamente agli interessi generali della valorizzazione capitalista. Un partito attraverso cui esercitare la funzione controrivoluzionaria di negare autonomia strategica al proletariato come classe antagonista, che comprende ma va oltre la singola organizzazione formalizzata, corrispondendo all’insieme delle relazioni tra organizzazioni socialdemocratiche, burocrazie sindacale e i loro addentellati nella classe dominante.
Il partito operaio borghese va a braccetto con lo sviluppo monopolistico come tratto essenziale della fase imperialistica del capitalismo. La manifestazione storica più eclatante di questa convergenza fu il voto della socialdemocrazia per i crediti di guerra allo scoppio della prima guerra mondiale.
Nel secondo dopoguerra questa tendenza riemerse, si rafforzò e si strutturò nelle formazioni socio-economiche imperialiste anche grazie allo sviluppo del modello keynesiano di accumulazione e alla deviazione revisionista dei partiti comunisti, che divennero essi stessi partiti operai borghesi. La linea neocorporativa si sviluppò lungo tutta la fase espansiva postbellica e, con le pratiche della cogestione e concertazione, si pose in contrapposizione allo sviluppo dell’autonomia operaia, che aveva trovato espressione nel grande ciclo di lotte del ‘68-‘69.
Con la crisi generale di sovraccumulazione (iniziata negli anni ‘70) e le misure antiproletarie messe in atto dalla borghesia imperialista, come ad esempio l’azzeramento dei margini contrattuali e l’attacco a fondo condotto contro le conquiste della classe operaia, il partito operaio borghese entra in difficoltà oggettiva, continuando tuttavia ad esercitare la sua funzione di portatore degli interessi della classe dominante dentro alla classe oppressa, in altre parole, di farsi Stato dentro la classe.
La fascia alta della burocrazia dei sindacati di Stato e il ceto politico postrevisionista costituiscono la vera ossatura del partito operaio borghese. Questi ceti sono in una relazione di osmosi-integrazione con la frazione burocratica della borghesia imperialista. Relazione garantita dalle innumerevoli porte girevoli che circuitano il loro personale politico nei diversi ambiti di gestione dei rapporti sociali borghesi: dagli enti pubblici, ai consigli di amministrazione di imprese pubbliche, partecipate o anche private (vedi il caso tedesco dove esponenti sindacali sono istituzionalmente presenti nei Cda), fino alla gestione dei fondi pensione con cui partecipano in prima persona alla frazione dominante del capitale finanziario.
Con il keynesismo militare, posto a modello economico di gestione della crisi nell’ambito dello sviluppo accelerato della tendenza alla guerra imperialista, si profilano nuove opportunità e nuove necessità per il partito operaio borghese: opportunità di sviluppo di una linea neo-corporativa nella classe operaia del complesso militare-industriale e necessità di impedire la scesa in campo di questa classe contro la guerra imperialista, e precisamente contro il proprio imperialismo. In questa situazione il partito operaio borghese e l’egemonia che esercita sulla classe sono elementi fondamentali per la “pacificazione” del fronte interno in relazione allo sviluppo dell’economia di guerra e della proiezione imperialista esterna.
Nella situazione attuale del nostro paese, il partito operaio borghese non è incarnato tanto dal Pd in quanto tale, che per alcuni versi ha assunto il ruolo di partito liberal-reazionario della borghesia imperialista, ma dalla relazione corporativa che intercorre tra i suoi apparati e quelli della Cgil.
Nakba
In lingua araba letteralmente “catastrofe”, è il nome con cui viene indicato l’esodo forzato di più di 700 mila arabi-palestinesi dalle proprie case e dalla propria terra, occupate dai coloni sionisti vincitori della prima guerra contro il popolo palestinese e contro i neonati Stati arabi, nel 1948. La Nakba fu la conseguenza della proclamazione dello Stato di “Israele”, a seguito del voto delle Nazioni Unite, nel novembre del 1947, di partizione della Palestina tra palestinesi (ai quali sarebbe toccata la parte minoritaria del territorio) e coloni sionisti. L’occupante impedì ai palestinesi l’esercizio del diritto di rientrare nelle proprie terre, sancito perfino dalla risoluzione 194 delle Nazioni unite, costringendo centinaia di migliaia di profughi a vivere in campi allestiti e gestiti dai paesi arabi limitrofi e dalle organizzazioni internazionali.
La Nakba viene ricordata dai palestinesi ogni anno simbolicamente il 15 Maggio, un giorno dopo la data di fondazione della colonia sionista. Il diritto al ritorno dei profughi è da sempre uno dei principi delle rivendicazioni politiche palestinesi, che potrà realizzarsi solo con la liberazione dell’intera Palestina dall’occupazione.
La Nakba è stata il primo atto politico in grande scala del sionismo: la cacciata di centinaia di migliaia di palestinesi e la distruzione delle loro città e villaggi, con annessione del territorio palestinese, chiarì subito la natura reazionaria e colonizzatrice dell’entità sionista.
Un interrogativo che ci dobbiamo porre è perché l’Unione Sovietica abbia votato all’Onu per la partizione della Palestina e abbia riconosciuto diplomaticamente “Israele”.
Il disastroso appoggio iniziale dell’Urss al regime sionista trova le sue radici in diversi importanti errori politici della dirigenza sovietica dell’epoca. Il primo riguarda la natura collettivistica dei kibbutz, cioè degli insediamenti agricoli dei coloni sionisti organizzati in forma cooperativa, i quali sembrava potessero presagire uno sviluppo del carattere socialista del nascente Stato ebraico. In realtà il “socialismo” dei kibbutz era tipicamente colonialista, funzionale a dare supporto materiale all’immigrazione sionista in Palestina. Si trattava cioè di strutture comunitarie su base etnica, quindi razzista, che escludevano i palestinesi, se non per sfruttarli come manodopera.
In secondo luogo, riteniamo che i dirigenti sovietici abbiano dato una lettura errata del sionismo fallendo nel comprenderne la natura di classe e la sua collocazione con l’imperialismo occidentale. Il piano di partizione della Palestina venne visto come il risultato dell’arretramento dell’imperialismo britannico nell’area, che negli ultimi anni di dominio era entrato in contraddizione con l’ala più estrema del movimento sionista, che reclamava la nascita di uno Stato ebraico senza nessuna mediazione delle potenze internazionali. Vi fu dunque un approccio meccanicistico alla questione, non percependo come il progetto coloniale sionista si stesse progressivamente e inevitabilmente integrando negli assetti del neocolonialismo statunitense verso il mondo arabo.
Infine, va detto che il sionismo riuscì ad influenzare la dirigenza sovietica e dei paesi socialisti sfruttando il crimine nazifascista della Shoah, articolando la propria egemonia sull’argomentazione della necessità di una terra per gli ebrei viste le persecuzioni subite. Ciò fece breccia anche perché la dirigenza sovietica e il movimento comunista internazionale traevano una parte dei propri quadri da militanti di origine giudaica e, in ogni caso, la lotta contro il nazifascismo e dunque contro le persecuzioni degli ebrei europei, era stato uno dei massimi ambiti di lotta per quella generazione di compagni.
Note:
[1] Lenin, L’imperialismo e la scissione del socialismo, ottobre 1916, marxist.org
[2] F. Engels, Lettera a Marx del 7 ottobre 1858, marxist.architexturez.net
[3] Lenin, L’imperialismo, 1916, Editori Riuniti, p. 168