Come in Palestina: resistere per vincere
“Editoriale” da Antitesi n.16 – pag.3
L’Italia è in guerra.
“Il nostro esercito va rafforzato, in ogni modo, con nuove tecnologie e figure professionali: carri armati, cybersicurezza, esperti di intelligenza artificiale…”. Le parole del ministro della difesa Crosetto, all’indomani del primo attacco contro la flotta italiana nel Mar Rosso, non lasciano dubbi.
D’altra parte l’Italia, oltre a montare cannoni Oto Melara sulle navi da guerra “israeliane”, sin da subito ne ha inviate di proprie nel Mediterraneo: un pattugliatore, una nave anfibia, due fregate lanciamissili e un sommergibile: tutte parte integrante del gruppo bellico, capeggiato dalle portaerei Ford e Eisenhower, inviato dagli Usa per coprire le spalle agli “israeliani” mentre massacrano i palestinesi.
Il governo italiano inoltre, con il beneplacito delle “opposizioni”, ha approvato ben tre missioni militari: una in Ucraina, una a Gaza e ha ottenuto il comando militare della missione europea Aspides contro gli Houthi yemeniti che si battono in solidarietà al popolo palestinese (come Hezbollah in Libano).
Questo mentre sul fronte interno la repressione si accanisce contro i militanti palestinesi, come nel caso di Annan Yaeesh, con regolare permesso di soggiorno, prima arrestato per la richiesta di estradizione da parte sionista, poi colpito da un’inchiesta per terrorismo a L’Aquila assieme ad altri due palestinesi. Un monito questo ai Giovani palestinesi che animano le manifestazioni su tutto il territorio nazionale e, a Milano, il “giorno della Memoria” (selettiva) hanno scelto di sfidare i divieti ministeriali e di scendere in piazza. Con il profluvio di manganellate che ne è seguito, anticipando quelle che si sono viste a Vicenza, a Pisa, a Firenze, o davanti alle sedi Rai di Napoli, Torino, Bologna. È così che molti giovani in un certo senso scoprono nel genocidio e nella Resistenza del popolo palestinese il proprio Vietnam.
Per l’imperialismo italiano la partecipazione alla guerra in Medio Oriente significa garantirsi uno spazio nella ripartizione dell’area del “Mediterraneo allargato” che le potenze occidentali vorrebbero ridefinire. Una volontà, questa, che deve però fare i conti con il portato strategico dell’attacco dello scorso 7 ottobre contro l’entità sionista da parte dell’“araba fenice” palestinese, capace di risorgere dalle proprie ceneri, unitamente alla resistenza dei popoli della regione (dallo Yemen al Libano), ma anche con le mobilitazioni ininterrotte che attraversano il nostro paese.
L’Operazione Diluvio Al Aqsa, con lo sfondamento del 7 ottobre nelle colonie attorno a Gaza, mentre da tempo le masse popolari tenevano impegnato l’esercito sionista con una guerriglia prolungata in Cisgiordania, è una conferma della strategia maoista della guerra popolare di lunga durata. Il 7 ottobre ha registrato un salto di qualità; la quantità e il radicamento della Resistenza si è trasformato nella qualità di un attacco che ha scombinato i piani del nemico. Per dirla con Marx, nei tunnel sotto Gaza, evidentemente, si era ben scavato. Preparando così il terreno a una nuova fase che inevitabilmente si ripercuote e ha i suoi effetti anche nel resto del mondo.
“Nella storia ci sono anni che contano come giorni, e giorni che contano come anni” diceva lo stesso Marx. E in questo senso il 7 ottobre non ha solo inflitto un duro colpo all’intero imperialismo occidentale. Ha anche definito una nuova centralità per la contraddizione tra popoli oppressi e imperialismo stesso.
Una contraddizione, questa, in realtà mai sopita – si vedano ad esempio i rivolgimenti in Africa contro i colonialisti occidentali – e che oggi, dopo aver inizialmente oscurato quella tra opposti imperialismi (Usa e Nato contro Russia e Cina), esprime tutto il suo rapporto dialettico con quest’ultima.
Mao diceva: “Grande è la confusione sotto al cielo. La situazione è eccellente”, se è presente la dialettica tra partito e masse in movimento. E noi oggi effettivamente ci troviamo in una situazione confusa, non lineare, che cambia e si rinnova più che in passato. E in questo ginepraio, senza basi teoriche solide, senza un approccio dialettico, senza un partito comunista o quantomeno una tensione verso esso, può esser facile perdere la bussola e trovarsi a inseguire gli eventi o farsene travolgere.
Come comunisti dobbiamo quindi continuare a imparare dalla realtà, orientati e orientando con la concezione del materialismo dialettico, formarci e formare nuovi compagni che siano all’altezza della situazione attuale.
In questo senso l’esempio che ci fornisce oggi l’eroica Resistenza Palestinese, che ha dato nuovo impulso alla mobilitazione delle masse, è importante. Più le masse si mobilitano, più diventano potenzialmente ricettive nei nostri confronti e dobbiamo imparare, partecipando alle mobilitazioni, a riconoscere ed appoggiare le componenti più avanzate e ad applicare il metodo della linea di massa. Più le componenti avanzate diventano ricettive verso i comunisti più affiorano nuove acque in cui nuotare per i pesci rossi. Acque dove confluiscono anche i migliori affluenti dei movimenti in inevitabile riflusso, come quelli contro il green pass. Ed è precisamente imparando a nuotare liberamente in queste acque che possiamo rafforzarci.
Si tratta di agire di riflesso, nella breccia aperta il 7 ottobre, per lottare qui e ora contro il nostro imperialismo. E soprattutto sperimentare lavoro di massa e di avanguardia: dai cortei, assemblee e banchetti (tutte iniziative letteralmente moltiplicatesi a partire da quella data) alla raccolta e formazione di nuovi compagni attraverso la propaganda, la pratica e l’approfondimento ideologico. Secondo un percorso che parte dalla pratica per approdare alla teoria, per poi tornare nuovamente alla pratica. Una nuova pratica capace di tradursi in forme e metodi di militanza e organizzazione capaci di essere all’altezza delle sfide che oggi la “nostra” borghesia imperialista ci pone, compresa la stretta autoritaria e repressiva che va consolidandosi dopo la sperimentazione durante il “periodo Covid”. In questo senso vi sono alcuni segnali chiari come i divieti dei centri cittadini ai cortei e l’intervento delle questure persino nei contenuti degli stessi: per vietare determinati slogan o determinate bandiere. Come quella del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, sequestrata durante un presidio a Venezia ad un nostro compagno, denunciato per apologia di terrorismo e colpito da un foglio di via dalla città.
Nonostante ciò le manifestazioni non diminuiscono e una miriade di iniziative si svolgono nel territorio, nelle scuole, nelle università e in alcuni settori della classe operaia.
La manovra finanziaria si inserisce nel solco di un’austerità “lacrime e sangue” e del keynesismo militare: aumento delle spese militari, aumento dell’Iva sui prezzi dei beni di prima necessità, blocco dell’indicizzazione delle pensioni, ulteriore aumento dell’età pensionabile…
Sul piano delle rivendicazioni economiche se, a causa delle politiche corporative dei sindacati padronali, la classe lavoratrice non è in primo piano, altri settori alzano la voce. In questo senso il “movimento dei trattori” va analizzato e compreso, al pari degli altri soggetti duramente colpiti dalle ricadute di crisi e guerra.
Dobbiamo sforzarci di tessere un filo rosso che lega le lotte per la Palestina a quelle contro il carovita e, più in generale, contro l’imperialismo e la guerra. Perché è chiaro che il nemico dei palestinesi è lo stesso nemico dei proletari e delle masse popolari tutte: là uccide con la violenza più barbara, qui attacca le condizioni di lavoro e di vita, mentre suonano le sirene di una terza guerra mondiale.