Antitesi n.16Classi sociali, proletariato e lotte

La Palestina nelle piazze

Sul movimento di solidarietà al popolo palestinese

“Classi sociali, proletariato e lotte” da Antitesi n.16 – pag.19


Dal 7 ottobre scorso, data che segna l’avvio dell’Operazione Diluvio Al Aqsa contro l’entità sionista, vi sono state continue ed imponenti manifestazioni di solidarietà in tutto il mondo alla lotta del popolo palestinese. Questo movimento risponde ai continui appelli della Resistenza Palestinese a mobilitarsi in tutto il mondo, nella consapevolezza che il sionismo è un fenomeno internazionale, integrato nel sistema imperialista e la battaglia del popolo palestinese è dunque parte della lotta internazionale per la liberazione di tutti i popoli. In particolare i compagni del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, coerentemente alla loro linea internazionalista, hanno lanciato appelli a tutte le forze antimperialiste di ogni paese affinché le manifestazioni e le mobilitazioni in solidarietà alla lotta delle masse palestinesi perseguano l’obiettivo di scardinare il supporto che i governi danno ad “Israele”, fermando in particolare il supporto logistico e militare, il pompaggio di petrolio verso i paesi coinvolti nell’aggressione, rivendicando la chiusura delle basi statunitensi e il blocco nei porti di qualsiasi spedizione verso l’entità sionista.
Nel ventre della bestia imperialista, negli Usa, già all’indomani dell’attacco sionista a Gaza, abbiamo visto manifestazioni in molte città statunitensi, partecipate da decine di migliaia di persone con occupazioni del Campidoglio a Washington e centinaia di arresti. Manifestazioni e proteste che hanno coinvolto molte università Usa e le comunità immigrate e afroamericane. Molto spesso queste mobilitazioni sono state guidate da associazioni di ebrei antisionisti, come la Jewish for peace, che hanno manifestato contro il governo Biden ed il suo appoggio al regime sionista ed al genocidio in corso del popolo palestinese, subendo anche una dura repressione. Si vedano, ad esempio, i cinquanta arresti in una contestazione alla conferenza stampa del presidente Usa a New York, il 26 febbraio scorso.
Memorabile è stato inoltre l’episodio del suicidio del militare dell’aeronautica Usa Aaron Bushnell, che si è immolato dandosi fuoco davanti ai cancelli dell’ambasciata “israeliana” a Washington per denunciare i crimini commessi dallo Stato occupante contro il popolo palestinese. Con questo atto di martirio, ha in particolare denunciato il ruolo di connivenza e supporto alle politiche sioniste da parte del governo statunitense, come dichiarato nel suo ultimo messaggio in gran parte sottaciuto dai media Usa e occidentali.
La mobilitazione degli ebrei antisionisti e l’immolazione di Bushnell dimostrano la gravità della crisi di egemonia dell’imperialismo Usa, che determina delle crepe profonde anche laddove, come nelle comunità giudaiche e negli ambienti militari, essa dovrebbe essere più solida.
E infatti le continue mobilitazioni e prese di posizione a sostegno del popolo palestinese stanno scalfendo il consenso al governante Biden: nelle ultime elezioni alle primarie democratiche del Michigan il voto di protesta uncommited, sostenuto da arabo-americani e da personalità che si oppongono alle relazioni economiche e militari degli Usa con lo Stato sionista, ha raggiunto il 13%. [1]
Nell’altro ventre della bestia, nell’imperialismo europeo, allo stesso modo vi sono state continue mobilitazioni in Francia, Italia, Germania, Inghilterra, ecc., con manifestazioni che si sono svolte in molte capitali europee, come quella del 12 novembre scorso a Londra che ha visto sfilare 800 mila persone contro le politiche governative filosioniste, in sostegno alla lotta ed alla liberazione dall’occupante del popolo palestinese. Mobilitazioni che hanno espresso piena solidarietà alla lotta del popolo palestinese, uscendo dal vicolo cieco della presa di distanza dal movimento di Resistenza, come condizione che vogliono imporre i governi e i mass-media degli Stati imperialisti, e ponendo invece al centro il criminale supporto di questi governi alla politica genocida dello Stato occupante di “Israele”, segnando di fatto una precisa rottura con le classi dominanti imperialiste.
I governi di Germania e Francia hanno cercato di reprimere queste manifestazioni con il divieto di scendere in piazza per la Palestina o addirittura di esporne la bandiera. Ma tutto ciò non ha fermato le mobilitazioni, che hanno anche raggiunto risultati concreti, come ad esempio in Inghilterra dove il movimento universitario e studentesco in sostegno alla Palestina è riuscito ad imporre, in alcuni atenei inglesi, la sospensione del rapporto con l’azienda italiana Leonardo, fornitrice di armi e di supporto militare verso l’entità sionista. [2]

La solidarietà dai popoli oppressi

Come detto vi son state significative manifestazioni e mobilitazioni nelle metropoli imperialiste, come Londra Wasghington, Melbourne, Berlino, Parigi, Copenaghen, Roma, Milano, ma ancora più massicce sono state le mobilitazioni nel resto del mondo, nei paesi arabi e africani, nell’Asia e in Sud America. In queste aree del mondo, le masse popolari, che subiscono quotidianamente le imposizioni imperialiste, si sono schierate immediatamente con il popolo oppresso palestinese, esprimendo appieno la loro solidarietà.
A queste manifestazioni di solidarietà popolare in molti casi sono seguiti anche atti, da parte dei governi di queste aree del mondo, finalizzati al contrasto delle politiche genocide messe in atto dell’entità sionista, come conseguenza delle politiche imperialiste Usa, Ue e Nato che la sostengono in quanto propria testa di ponte colonialista nell’area. Laddove vi sono contraddizioni tra le borghesie nazionali al potere e l’imperialismo Usa, il sostegno al popolo palestinese è l’occasione politica per farle emergere.
Ad esempio in Sud America, i governi di sinistra borghese di Brasile, Bolivia, Cile e Colombia, nel novembre scorso, hanno chiuso le relazioni diplomatiche con lo Stato di “Israele”, richiamando i loro ambasciatori. In Asia il governo della Malesia, dopo forti mobilitazioni popolari, ha imposto, dal 20 dicembre scorso, il divieto di attracco a tutte le navi della compagnia di trasporto “israeliana” Zim, alle navi in rotta verso qualsiasi porto “israeliano” ed a quelle che issano la bandiera di “Israele”. Nel Nord-Africa, in Tunisia, paese che già da tempo non intrattiene nessun rapporto diplomatico con lo Stato occupante del territorio palestinese, è in corso di approvazione una legge parlamentare per impedire qualsiasi rapporto di normalizzazione o rapporto economico con l’entità sionista, con pene da 6 a 12 anni per chi compie questo reato e sanzioni da 3 mila a 30 mila euro. [3]
Il governo del Sud-Africa, fin dall’inizio dei bombardamenti sionisti a Gaza, ha chiuso l’ambasciata “israeliana” a Johannesburg ed ha avviato la denuncia per genocidio contro lo Stato di “Israele” presso la Corte internazionale di giustizia dell’Aia, il principale organo giudiziario dell’Onu, assieme ai governi della Turchia, Malesia, Bolivia, Nicaragua, Pakistan, Iran, Venezuela, Namibia, Giordania, Marocco, Bangladesh, Arabia Saudita.
Ma il sostegno più forte e concreto alla Resistenza Palestinese sta arrivando soprattutto dai paesi del Medio Oriente, dallo Yemen, dalla Siria, dall’Iran, dall’Iraq, dal Libano, dove da tempo si combatte contro l’entità sionista e contro l’egemonia e la presenza militare statunitense nell’area. Da Hezbollah in Libano alle milizie della Resistenza in Iraq e in Siria, dal governo degli Houthi nello Yemen alla Repubblica Islamica dell’Iran, le forze di occupazione Usa e dell’entità sionista sono accerchiate e colpite nelle proprie infrastrutture e basi militari. Si tratta del cosiddetto “Fronte della Resistenza”, che fa riferimento politico a Teheran ed è stato costruito nei primi due decenni del secolo anche grazie alla direzione dei Pasdaran iraniani e in particolare al generale Soleimani, ucciso nel 2020 in un bombardamento statunitense in Iraq.
In risposta alle azioni delle Forze Armate Yemenite contro le navi dirette verso i porti sionisti e per le conseguenze che stanno avendo sul traffico di merci nell’area del Mar Rosso, i governi imperialisti del cosiddetto occidente collettivo, hanno dovuto implementare due operazioni navali e militari, la Prosperity Guardian promossa da Usa e Gb e l’operazione Aspides, promossa dall’Ue e a comando italiano, con azioni di intercettamento dei droni e di bombardamento delle postazioni yemenite, arrivando a bombardare la capitale San’a’.
In Iraq e Siria, il sostegno alla Resistenza Palestinese si è sviluppato attraverso vari gruppi e milizie, principalmente filoiraniane, con attacchi sia verso le colonie sioniste e sia diretti alle basi e alle postazioni militari Usa disseminate nel Medio Oriente, come con l’azione del 29 gennaio scorso che ha colpito la base Usa Tower 22, situata in Giordania ai confini con la Siria, provocando la morte di 3 soldati Usa ed il ferimento di altri 35. Azioni alle quali l’imperialismo statunitense ha risposto con bombardamenti che sono arrivati a colpire la capitale dell’Iraq Baghdad, ma che non stanno fermando la lotta dei popoli mediorientali, portando invece il premier iracheno Mohammad Sudani a chiedere formalmente il ritiro dei 2500 soldati statunitensi ancora presenti nel territorio iracheno. [4]
In particolare va poi evidenziato il supporto alla lotta del popolo palestinese fornito dalle milizie sciite di Hezbollah, nel Libano meridionale ai confini con “Israele”, che agiscono da spina nel fianco ai piani militari sionisti, colpendo con ripetuti lanci di missili e droni le installazioni belliche degli occupanti e costringendo allo sfollamento di 43 insediamenti, con lo sfollamento di 230 mila coloni.
Nel quadro mediorientale emerge, però, anche il ruolo contraddittorio dei governi di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Giordania che, per rispondere al blocco navale nel Mar Rosso di fatto imposto dalle milizie Houthi dello Yemen, collaborano con il regime sionista nel rifornimento di merci verso “Israele”, promuovendo una tratta via terra che dal porto di Dubai attraversa questi paesi fino al porto di Haifa. [5] Per questi regimi, la condanna dei crimini sionisti è solo formale, il loro interesse è la stabilizzazione del Medio Oriente a favore delle proprie mire capitalistiche e in questo rientrerebbe anche la normalizzazione delle relazioni con il regime “israeliano”, se non ci fosse la Resistenza Palestinese ad impedirla, negandone, con la sua eroica lotta, le condizioni politiche per portarla avanti.
Altro governo che spicca per la sua contraddittorietà nei confronti dell’entità sionista è quello del turco Erdogan. Nonostante anche in Turchia le masse popolari abbiano manifestato massicciamente a sostegno del popolo palestinese, anche con forme di boicottaggio ed attacco alle sedi delle multinazionali Mac Donalds e Starbucks, il governo turco si è limitato alla retorica propagandistica e non ha finora espresso posizioni di concreta opposizione alle politiche sioniste. Questo atteggiamento dell’ambiguo Erdogan si spiega con la comune ostilità antiraniana, con la necessità di non compromissione dei rapporti con gli altri paesi Nato, di cui la Turchia è membro, e con la volontà di non voler danneggiare i forti rapporti economici che lo Stato turco intrattiene con il regime sionista, che vedono la Turchia settimo partner commerciale di “Israele”, con un volume di esportazione di merci verso Tel Aviv di 6 milioni di dollari e con collaborazioni con la Israel Military Industries per l’ammodernamento di mezzi dell’aviazione militare. [6] Soprattutto, ad Erdogan interessa promuovere il ruolo della Turchia come snodo strategico delle vie energetiche del gas e del petrolio asiatico verso l’Europa e il Mediterraneo e per questo i rifornimenti di petrolio dall’Azerbaijan all’entità sionista, passando per i porti turchi, non sono mai cessati. Così come non è stata messa in discussione l’alleanza economica “israelo”-turca per mettere le mani sul gas del Mediterraneo orientale e portalo dalla penisola anatolica verso l’Europa, che ha sancito il riavvicinamento dei due regimi dopo il massacro della Freedom Flotilla nel 2010.
Rispetto al movimento di solidarietà al popolo palestinese espresso dalle masse popolari nel mondo, vanno sottolineate le posizioni dei partiti comunisti che lottano in senso rivoluzionario contro l’imperialismo, dirigendo processi di guerra popolare nei propri paesi. Così si è espresso il Partito Comunista delle Filippine a proposito dell’Operazione Diluvio Al Aqsa: “La lotta del popolo palestinese è legata alla lotta della classe lavoratrice e dei popoli di tutto il mondo contro il sistema sfruttatore e oppressivo retto dall’imperialismo. Come il popolo palestinese, tutte le classi oppresse e i popoli necessitano di condurre la lotta armata, al fianco dei propri movimenti di massa, per combattere lo stato dominante che utilizza la violenza armata per perpetuare il sistema di oppressione e sfruttamento”. In maniera analoga si è espresso il Partito Comunista dell’India (maoista), con un comunicato, diffuso pochi giorni dopo l’offensiva del 7 ottobre, con il quale salutava “l’attacco senza precedenti portato da Hamas, inevitabile risultato dell’occupazione di Israele e delle aspirazioni del movimento di liberazione palestinese” e chiamava “tutti i Partiti Marxisti-Leninisti-Maoisti, le forze di Sinistra, i popoli, le organizzazioni democratiche e progressiste e le nazionalità oppresse di tutto il mondo a stare fermamente al fianco del movimento di liberazione del popolo della Palestina”. [7]

La solidarietà in Italia

Dal 7 ottobre in poi migliaia sono state le manifestazioni e mobilitazioni in tutte le città italiane a sostegno della lotta palestinese, fino ad arrivare a quelle nazionali di Roma del 28 ottobre scorso e di Milano del 24 febbraio, che hanno visto ognuna la partecipazione di circa 50 mila persone.
Sicuramente, facendo un paragone tra le manifestazioni che si sono avute in Italia e quelle in altri paesi europei, come l’Inghilterra, o negli Usa, c’è da registrare che, in quest’ultimi, la partecipazione è stata molto più numerosa rispetto all’Italia. Questo è dovuto a diversi fattori. Uno ad esempio è la presenza di comunità immigrate più vaste e organizzate rispetto a quelle nostrane, con la forte componente di identità islamica che le lega alla causa palestinese. Inoltre, in alcune situazioni nazionali, come in Inghilterra, la politica borghese ufficiale ha dimostrato delle crepe rispetto all’allineamento al sionismo; non per quanto riguarda gli assetti governativi ma sicuramente a livello di opposizione: vedi il caso del laburismo inglese e delle sue lacerazioni al riguardo. Ciò ha contribuito alle mobilitazioni di massa. Infine, vi è da ricordare la continuità dei movimenti contro la guerra imperialista in questi paesi, che invece in Italia non vi è stata, a causa anche del ruolo nefasto della sinistra borghese e dei suoi addentellati che hanno fatto di tutto per impedirne lo sviluppo.
Comunque l’aspetto positivo della situazione odierna, nel nostro paese, è che l’esempio della Resistenza del popolo palestinese e lo sviluppo del movimento di solidarietà hanno permesso, anche qui, di aprire spazi politici di intervento principalmente tra i lavoratori e le lavoratrici immigrati ed immigrate, come anche nei settori studenteschi e nei luoghi di lavoro.
La Resistenza del popolo palestinese contro l’entità sionista sta avendo il ruolo positivo di far riemergere il protagonismo e l’attivismo di diverse componenti, dagli studenti medi e universitari, ai lavoratori e alle lavoratrici, alle donne e, appunto, della componente immigrata, che vedono un terreno comune di mobilitazione e di espressione di contrarietà nei confronti delle politiche del nostro governo in appoggio all’entità sionista.
In tutte le manifestazioni vi è stata la folta presenza di componente immigrata, di prima e seconda generazione, formata essenzialmente di classe lavoratrice, che è la principale protagonista di queste mobilitazioni, scendendo in piazza, dimostrandosi zoccolo duro contro la propaganda imperialista che appoggia le politiche sioniste. La mobilitazione dei lavoratori immigrati ha fatto emergere chiaramente la contraddizione rispetto alla borghesia imperialista, che non riesce, nei confronti di questo settore di classe, ad imporre la propria egemonia politica.
Importanti, in questo senso, sono state le mobilitazioni studentesche, con occupazioni e proteste nelle aule scolastiche ed universitarie, a cui governo e polizia hanno risposto con la repressione ed i manganelli (come a Pisa e Firenze nello scorso febbraio), o con la minaccia di sanzioni, penali e disciplinari, da parte del ministro dell’istruzione Valditara per chi si rende protagonista di occupazioni delle scuole in sostegno della causa palestinese. Da notare la forza con la quale, in molte università, gli studenti e i ricercatori hanno saputo criticare la questione delle collaborazioni degli atenei con il monopolio dell’industria bellica italiana Leonardo, esportatrice di armi verso l’entità sionista. A Torino, la lotta è riuscita ad imporre il disimpegno dell’università dal bando del ministero degli esteri per la collaborazione con l’entità sionista in materia di ricerca scientifica, a Bari il rettore si è dovuto dimettere dalla fondazione Med-Or, promossa da Leonardo, e sono state messe in discussione tutte le relazioni dell’ateneo con l’industria bellica, l’esercito, la Nato e le università “israeliane”. [8]
Oltre al protagonismo che si è espresso nelle mobilitazioni pro-Palestina da parte degli immigrati e dei giovani, vi è un forte protagonismo da parte del movimento delle donne, sia italiane che immigrate. Questo nonostante che la propaganda reazionaria abbia lavorato e stia lavorando, prendendo a pretesto la questione femminile, per far emergere una concezione islamofobica e anti-Hamas, come dimostra l’infame iniziativa del giornale “La Repubblica”, di proprietà degli Elkann e diretto dall’acerrimo sionista Molinari (cacciato il 15 marzo scorso dagli studenti dell’Università Federico II di Napoli al grido “fuori i sionisti dall’università”), che ha lanciato un appello affinché si paragoni l’attacco della Resistenza del 7 ottobre a un femminicidio di massa.
Ma il ricatto borghese (per stare con l’emancipazione della donna bisogna stare con “Israele”) non è stato accettato, molte associazioni e movimenti delle donne si sono schierate a sostegno della Resistenza Palestinese, in questo fortemente sostenute da componenti di donne immigrate. In particolare, nelle ultime manifestazioni dell’Otto Marzo, sono stati rigettati i tentativi di associazioni sioniste di creare divisione rispetto all’appoggio a “Israele”. Il movimento delle donne ha invece ricordato il massacro continuo di donne, questo sì un vero femmincidio di massa, [9] che l’esercito sionista sta commettendo e rivendicato il pieno appoggio alle donne palestinesi nella loro lotta contro l’occupante, negando la partecipazione alle donne sioniste.
Il movimento in solidarietà alla Palestina si è espresso anche in alcuni luoghi di lavoro, con l’esempio importante dei lavoratori portuali di Genova, che hanno attuato blocchi ai varchi per fermare il transito di armi dirette ad “Israele”, l’ultimo di questi in occasione dello sciopero generale del 23 febbraio. Sciopero indetto unitariamente dai sindacati di base con l’obiettivo politico del cessate il fuoco e della fine del genocidio in atto a Gaza e che ha portato alla grande manifestazione di Milano del 24 febbraio.
Da parte della classe dominante, la volontà di attacco a questi movimenti di solidarietà si sta esplicando su più piani: da quello ideologico e di propaganda a difesa di “Israele”, a quello più strettamente repressivo, con botte e denunce per i manifestanti. Sul piano ideologico e delle campagne di propaganda, la borghesia imperialista sta continuando a portare avanti l’equiparazione dell’antisionismo all’antisemitismo. In questa chiave si sviluppano le proposte di legge presentate dalla Lega, che vogliono impedire qualsiasi manifestazione di solidarietà alla lotta palestinese e di critica dello Stato di “Israele” e addirittura l’idea di introdurre un daspo su misura per gli ospiti in Rai, dopo che alla rassegna canora di Sanremo 2024 dello scorso febbraio due artisti avevano chiesto lo stop al genocidio, senza peraltro citare Gaza o la Palestina.

Altra grave iniziativa di censura è stata quella messa in atto alla fiera dell’artigianato a Milano nel dicembre scorso: qui gli organizzatori hanno imposto il divieto di usare il nome Palestina allo stand che conteneva prodotti palestinesi, obbligando i gestori a cambiare la dicitura “Palestina” su ogni prodotto e sostituirla con la dicitura “Asia”.
E dove non arriva la censura, lo Stato imperialista italiano attiva la repressione più dura, come avvenuto con i manganelli della celere alle manifestazioni indette contro la censura degli organi di stampa e di informazione televisiva, a Napoli, Bologna, Torino, davanti le sedi della Rai. La repressione governativa si attiva anche colpendo con misure preventive chi sostiene le organizzazioni rivoluzionarie della Resistenza Palestinese, come accaduto a Mestre, dove, durante un volantinaggio, un compagno che teneva la bandiera del Fronte popolare di liberazione della Palestina, oltre al sequestro della bandiera, ha avuto il foglio di via dal territorio comunale e una denuncia per apologia di terrorismo.
C’è inoltre da rilevare che la classe dominante riprende l’armamentario implementato durante la gestione autoritaria della pandemia, impedendo l’accesso ai centri urbani alle manifestazioni e tentando di imporre una serie di prescrizioni, tese a condizionare i contenuti della mobilitazione (divieto di espressioni a favore dei gruppi della Resistenza Palestinese e “antisemite”), che, se applicate, impedirebbero di fatto ad ogni partecipante di esprimere le proprie opinioni e la propria contrarietà al massacro in atto a Gaza.
D’altra parte, nonostante tutti questi tentativi e la massiccia propaganda governativa, che vuole presentare la guerra dell’entità sionista contro il popolo palestinese come un contrasto all’antisemitismo, riprendendo, in aggiunta, tutta la becera ideologia islamofobica, con la prosopopea delle “guerra progressista contro il patriarcato islamico”, la borghesia imperialista italiana non è ancora riuscita a mobilitare masse consistenti in manifestazioni pro ”Israele”. La Lega di Salvini si è fatta promotrice di iniziative con manifestazioni a Milano a Roma che però non hanno raggiunto che le poche centinaia di partecipanti. Un altro esempio di tentativo di mobilitazione reazionaria messo in atto, proprio in coincidenza con la guerra a Gaza, è stato quello della sindaca leghista di Monfalcone, la quale ha chiuso i luoghi di preghiera mussulmani, determinando, al contrario, il compattamento della comunità islamica immigrata (in larga parte operai nel locale stabilimento Fincantieri), che nel dicembre scorso è scesa in piazza con una manifestazione, con la partecipazione di 8 mila persone.
L’aspetto nettamente più positivo di questo periodo di mobilitazione delle lotte a sostegno del popolo palestinese, con la scesa in campo ed il protagonismo di ampi settori di masse popolari, è che vi è stata, da parte delle piazze, una netta rottura dell’egemonia della borghesia imperialista e una chiara individuazione del nemico principale: la borghesia imperialista Usa ed Ue, che supporta l’entità sionista, e il governo italiano, che è completamente allineato e complice attivo in questo supporto. Una chiara individuazione del nemico principale, da parte delle masse popolari, che rappresenta un importante passo in avanti verso l’unità della lotta di classe nelle metropoli imperialiste con le lotte anticoloniali dei popoli oppressi. Questa comune consapevolezza del nemico principale è una delle condizioni affinché si sviluppi la mobilitazione rivoluzionaria nella prospettiva di una nuova ondata della rivoluzione mondiale contro il sistema imperialista.
Oggi lo sviluppo della mobilitazione a sostegno della Resistenza Palestinese si concretizza in una grande apertura di spazio politico per i comunisti, un terreno vivo di mobilitazione in cui propagandare le idee rivoluzionarie e rafforzare, nella pratica, la nostra posizione tra i lavoratori e le masse popolari. Per questo possiamo solo dire “grazie Palestina” e impegnarci a fondo nel sostegno, chiaro e incondizionato, alla Resistenza Palestinese come avanguardia della resistenza globale che i popoli oppressi oppongono all’imperialismo.


Note:

[1] Primarie Michigan: Trump batte Haley, Biden vince ma è bocciato dagli arabi-americani pro Palestina, euronews.com, 28.2.24

[2] Lutton (Regno Unito): il college locale sospende le collaborazioni con Leonardo a seguito delle proteste degli studenti, rivoluzioneanarchica.it, 14.12.23

[3] Tunisi: al via iter legge che rende reato i rapporti con Israele, ansa.it, 2.11.23

[4] Iraq, premier Sudani chiede ritiro delle forze Usa, ansa.it, 10.1.24

[5] D. Frantini, Una nuova tratta, Israele ed Emirati bypassano il Mar Rosso e gli Houthi via terra, mosaico-cem.it, 15.2.24

[6] P. Baldelli, Una relazione transnazionale: Turchia e Israele nell’era Erdogan, geopolitica.info, 27.5.23

[7] Entrambe le dichiarazioni sono scaricabili dal sito bannedthought.net nella sezione “Palestina”.

[8] Sul ruolo della ricerca a favore della guerra imperialista vedi L’eccezionalità del male, Antitesi n. 8, p. 34

[9] Degli oltre 30 mila palestinesi morti per mano dei criminali sionisti, circa il 70% sono donne e giovani. Questo dato agghiacciante palesa l’intenzione genocida del regime d’occupazione: mirare deliberatamente a donne e bambini significa minacciare la riproducibilità stessa di un popolo.


Processo agli antisionisti o processo al sionismo?

Nell’autunno del 2021 si è concluso a Milano un processo destinato nel suo piccolo a fare storia: quello ai compagni antifascisti e antisionisti che avevano contestato la presenza delle bandiere dello Stato di “Israele” al corteo milanese del 25 aprile 2018.
L’intento della procura, e dei suoi padrini politici, era quello di arrivare a un precedente che sanzionasse penalmente la mobilitazione concreta contro i crimini del colonialismo sionista sulla base dell’equiparazione tra antisionismo e antisemitismo. La confusione premeditata che si è voluta creare tra antisionismo e antisemitismo, mutuata dalla campagna internazionale orchestrata dal movimento sionista mondiale, ha permesso che ai compagni venisse contestata anche la vergognosa “aggravante di odio razziale”. Un’accusa che è caduta in mille pezzi davanti alla sentenza di assoluzione per gli imputati, davanti alla loro unità sulla linea di rovesciare il processo contro di loro in processo contro i crimini sionisti, davanti alla grande mobilitazione e solidarietà internazionale che si sono sviluppate.
“Siamo sempre stati fieramente antirazzisti. Il nostro riferimento teorico principale è Karl Marx, ebreo e nipote di un rabbino”. Crediamo che questa frase, pronunciata dagli imputati in tribunale il 3 marzo del 2021, parli da sola.
Così come parlano da sole tutte le testimonianze e le dichiarazioni, in aula, dirette a denunciare la criminale occupazione sionista della Palestina. Un’occupazione che, come dimostrano anche i testi dei fondatori del regime “israeliano”, non è affatto una conseguenza della Shoah, dello sterminio degli ebrei ad opera dei nazisti, ma risale a ben prima nel tempo.
Gran parte di queste importanti testimonianze e dichiarazioni, orientate a rimarcare il carattere politico del processo, sono state selezionate e raccolte in un dossier, “Processiamo il sionismo”, curato dal Centro di Documentazione Antimperialista “Olga Benario” di Milano. Un altro nome, tra l’altro, che parla da solo: Olga Benario Prestes era, infatti, una dirigente di origini ebraiche del Partito Comunista Tedesco. Fu uccisa insieme a duecento sue compagne nel febbraio del 1942 nella camera a gas sperimentale di Bernburg: i nazisti diedero inizio così allo sterminio cominciando dai comunisti e dagli oppositori politici.