Il capitale con l’elmetto
L’Ue e l’Italia nella spirale di crisi e guerra
“Sfruttamento e crisi” da Antitesi n.15 – pag.5
“Vorrei soffermarmi sui due eventi che, assieme alle sempre crescenti tensioni con la Cina, hanno dominato le relazioni internazionali e l’economia globale nell’ultimo anno e mezzo: la guerra in Ucraina e il ritorno dell’inflazione (…). Questi due eventi epocali non sono nati dal nulla e non sono scollegati. Sono piuttosto entrambi una conseguenza di un cambio di paradigma che negli ultimi due decenni e mezzo ha spostato silenziosamente la geopolitica globale dalla competizione al conflitto… Dobbiamo prepararci ad un periodo prolungato in cui l’economia globale si comporterà in modo molto diverso rispetto al passato”. Il discorso tenuto da Mario Draghi all’istituto di tecnologia del Massachusetts lo scorso giugno [1] costituisce un manifesto ideologico perfetto del capitalismo di guerra del campo atlantico. Lo è anche nella sua perentorietà quasi masochistica, quando arriva a dire che la vittoria militare della Russia sull’Ucraina infliggerebbe “un colpo esistenziale all’Ue”. [2]
L’ex banchiere ed ex primo ministro italiano afferma in sostanza che, nella fase attuale di crisi, i governi del blocco atlantico devono darsi due priorità strategiche: la stabilità finanziaria, in particolare tenendo a bada l’inflazione, e la conduzione, fino in fondo, della guerra alla Russia, anche come monito a tutte le altre “autocrazie”, in particolare la Cina. Vi si legge chiaramente che, nella volontà strategica dei circoli imperialisti atlantici, la crisi e la guerra devono essere affrontate come un unico processo di necessaria riaffermazione, a qualsiasi costo economico, politico ed umano, della propria egemonia mondiale.
Draghi è decisamente chiaro sul piano economico rispetto all’inflazione. Innanzitutto, egli la imputa alla guerra, ai suoi effetti destabilizzanti sul mercato energetico e alle strozzature negli scambi mondiali imposti con le misure per il Covid19, dimenticando quanto abbiano concorso a determinarla tutte le politiche di gestione della crisi all’insegna del Quantitative easing (Qe) [3] delle banche centrali statunitense, giapponese ed europea, l’abbassamento, quasi allo zero, dei tassi d’interesse delle banche centrali, i grandi piani finanziari “pandemici” e la corsa al salto tecnologico e alla ristrutturazione industriale nascoste sotto la formula del green. Una serie di misure strategiche, specie per la struttura economica dei paesi del campo atlantico, che hanno determinato l’immissione di una massa enorme di capitali e provocato degli squilibri inediti nel mercato. Draghi non le menziona perché, diversamente, ammetterebbe come siano state le stesse politiche macroeconomiche della sua cricca, ponendosi l’obbiettivo di gestire la crisi sul breve periodo, a contribuire a causarne l’aggravamento sul lungo.
Ad un osservatore cosciente, non può sfuggire infatti il cambiamento di paradigma di colui che fu l’iniziatore del Qe in Europa, inaugurato proprio da Draghi nel 2015, divenuto oggi fautore a tutto spiano del quantitative tightening (Qt), ovvero della riduzione ndella massa monetaria in circolazione mediante l’aumento dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali. È questa infatti la politica che le banche centrali degli Usa e dell’Ue stanno praticando dalla primavera/estate del 2022, cioè dalla fine della fase della cosiddetta “guerra al virus” e come conseguenza dell’aprirsi della fase della guerra alla Russia. Nel discorso di giugno, Draghi afferma chiaramente che l’aumento dei tassi d’interesse, comportante un rincaro su tutti i prestiti bancari, è destinato a produrre un rallentamento economico, a partire dal settore industriale, e come, di fatto, esso rientri propriamente in una conseguenza necessaria per dominare l’inflazione. Già ad autunno 2022, colei che gli era succeduta alla presidenza della Banca Centrale Europea (Bce), Christine Lagarde, aveva indirettamente ammesso come la recessione fosse una variabile persino auspicabile rispetto all’ondata inflazionistica. [4]
Secondariamente, Draghi, come del resto anche la Bce, imputa l’inflazione ai cosiddetti extraprofitti speculativi realizzati dalle imprese con l’aumento dei prezzi: “Finora le aziende hanno reagito cambiando i loro listini: invece di assorbire i costi più elevati riducendo i margini di guadagno (…) hanno trasferito questi costi sui consumatori – mantenendo o addirittura aumentando i loro profitti”. [5]
Il governo dell’inflazione, in tempi di guerra e di ridiscussione degli equilibri mondiali, deve essere un compito preciso e chiaro per le banche centrali, a portare avanti ad ogni costo, come ad esempio con l’imposizione di prezzi calmierati (vedasi il price cap sul gas) o addirittura quello della recessione. Esso rientra in un processo di aumento del dirigismo che le sovrastrutture statuali o sovrastatuali, come l’Ue, sono chiamate ad attuare per disciplinare la stessa classe dominante di cui sono espressione, rispetto alle necessità strategiche poste soprattutto dalla fase di guerra. È un aspetto tipico del capitalismo di guerra, storicamente manifestatosi nell’interventismo statale durante la prima e la seconda guerra mondiale e nei due decenni che le divide. L’attuale dirigismo è stato anticipato dalle misure economiche di gestione della fase “pandemica” e della cosiddetta “emergenza climatica”, che si sono poste la necessità da un lato di sostenere i profitti e la ristrutturazione capitalistica e dall’altro di orientare politicamente la produzione e il mercato secondo gli interessi strategici del singolo blocco imperialista. Dalla propaganda emergenzialista sul virus e sulla svolta green, siamo direttamente passati alla giustificazione esplicita del dirigismo sovrastrutturale, come necessità imposta dalla guerra e dunque all’economia di guerra. La speculazione, sviluppata a partire dal capitale finanziario, è la naturale conseguenza economica della guerra e rappresenta una poderosa boccata d’ossigeno in controtendenza alla fase di crisi per la borghesia imperialista. Ma essa non può sovrapporsi o porsi in contraddizione alla strategia generale di gestione della crisi e alla prospettiva del suo superamento, per la classe capitalista, tramite la guerra, che consente di sottrarre mercati e dunque liquidare i poli imperialisti rivali.
Ovviamente, se da un lato le istituzioni europee e i loro strateghi, come Draghi, fustigano i monopolisti per l’accaparramento speculativo di guerra tramite l’aumento dei prezzi, dall’altro non possono che, coerentemente alla loro natura di classe, scaricare il costo di tutto ciò sulle classi oppresse.
Secondo Draghi alle misure di stretta sul costo di denaro, con la conseguente diminuzione della massa monetaria in circolazione, non può che corrispondere la riduzione della domanda, cioè in sostanza dei consumi delle masse popolari e dunque anche la moderazione salariale. “Un periodo
più lungo di aumento dei salari comporta naturalmente rischi più elevati che l’inflazione diventi persistente, soprattutto se le imprese continuano ad accrescere i prezzi come abbiamo osservato finora”. [6] Alla stessa conclusione arriva la Bce di Lagarde che, da tempo, predica la moderazione salariale per far pagare ai lavoratori il costo economico del governo dell’inflazione: gli stessi lavoratori che contemporaneamente devono sopportare la crescita del peso dei mutui e dei prestiti contratti con le banche per l’aumento dei tassi.
La stessa politica di Qt, nel suo tentativo di tenere a bada l’inflazione, non può che fare riferimento ai rapporti tra classe padronale e salariati, anche in termini neocorporativi: “Al netto di altri fattori, il grado della futura stretta monetaria dipende dall’interazione tra imprese e manodopera e dalla profondità degli effetti delle passate decisioni monetarie”. [7]
Le parole di Draghi descrivono pienamente la realtà attuale, così come le difficoltà della borghesia imperialista di gestirla. L’inflazione nell’Ue ha superato il 10% ad autunno 2022, salvo poi diminuire, ma rimanere comunque notevole e trascinata dai beni di consumo di massa, come gli alimentari, e non più dai prodotti energetici. Nel vecchio continente, gli alimenti, in media, hanno subito un rincaro superiore al 16%. La Germania è entrata in recessione nel primo trimestre di quest’anno, con un inevitabile aumento della disoccupazione e rischiando di estendere la sua condizione al resto dell’Unione. Le stime di crescita Ue sono di poco superiori allo 0%. I salari dei lavoratori europei vengono erosi dall’inflazione, con aumenti in media attestati a metà della contemporanea crescita dei prezzi. Più dell’11% dei giovani sotto i 29 anni è disoccupato, con percentuali che tendono a raddoppiare nei paesi mediterranei.
Tali condizioni hanno determinato una certa ripresa della lotta di classe in Europa, con massicci scioperi in Germania, Gran Bretagna e soprattutto con il grande movimento contro la riforma delle pensioni in Francia. Ed anche la sollevazione delle periferie francesi a inizio estate di quest’anno, pur se provocata dalla consueta brutalità omicida della polizia, è strettamente legata ad un radicato malessere sociale che la crisi aggrava pesantemente.
È in questo quadro che l’Unione Europea, con la direttiva sul salario minimo, intende porsi il problema della riproduzione della classe lavoratrice, cioè di assicurare delle condizioni retributive che ne permettano il mantenimento sociale, dunque la disponibilità alla vendita della propria forza lavoro e in prospettiva la stessa “tenuta sociale” del vecchio continente. [8] Non si tratta dunque di una misura in contrasto al raffreddamento della domanda mediante la moderazione salariale o a futuri patti neocorporativi tra padroni e classe operaia (leggasi sindacati) così come predicati da Draghi. Si tratta invece, per la sovrastruttura politica delle classi dominanti europee, di porre la questione della riproduzione della forza lavoro come necessità strutturale e di politica complessiva per il capitale, nella spirale dell’impazzimento dei rapporti economici derivati dalla crisi e dalla guerra. E non è nemmeno detto che la definizione di un salario minimo lasciata ai singoli governi non possa produrre un livellamento delle retribuzioni operaie al suo livello, a proposito di raffreddamento della domanda.
In ultima analisi ciò dipenderà dai rapporti di forza che la classe riuscirà ad esprimere nella lotta economica. Quello che è già chiaro è come la situazione di crisi e soprattutto le dinamiche inflattive legate al clima di guerra internazionale, obblighino ancora una volta la sovrastruttura a scendere ulteriormente in campo in senso dirigista, anche rispetto al rapporto economico tra le classi. E il “salario minimo” è l’ennesima manifestazione di questa tendenza.
Next Generation War
Con il divampare del conflitto in Ucraina, si è ancora di più mostrato quanto le contraddizioni interne dell’Ue siano legate a quelle esterne, al piano di guerra che l’Unione e i paesi in essa aggregatesi stabiliscono con il mondo. La guerra è figlia della crisi e contemporaneamente madre del suo aggravamento, ma sopratutto è l’unica reale, per quanto criminale e distruttiva, prospettiva strategica del capitalismo in crisi. Draghi non ha remore ad affermarlo, indicando la strada da seguire per riorganizzare l’economia secondo le esigenze belliche: “Una guerra prolungata tra Russia e Ucraina e le continue tensioni geopolitiche con la Cina continueranno a pesare sul tasso di crescita potenziale dell’economia mondiale. (…) il desiderio di garantire che le catene di approvvigionamento siano resilienti rispetto agli scossoni geopolitici significa che i paesi saranno più disposti ad acquistare beni da fornitori affidabili e affini, anche se non sono i più economici, ed ad investire nel reshoring in patria della produzione più sensibile. Ciò porterà ad un aumento della capacità produttiva delle economie occidentali, ma non necessariamente della scala e dell’efficienza necessarie per garantire che l’inflazione rimanga bassa come in passato”. [9]
Un esempio a livello europeo in tal senso viene dal piano dell’Unione per arrivare a coprire il 20% della quota mondiale di produzione di semiconduttori, con un investimento di 3,3 miliardi da parte di Bruxelles, in modo da affrancarsi dalla produzione di Cina e Taiwan.
Insomma, un capitalismo che deve adeguarsi alla guerra, al costo di far pagare alla sfera strettamente economica le scelte politico-militari generali e strategiche. Questo capitalismo in crisi che necessita del keynesismo e in particolare del keynesismo militare [10] per sostenere tale sforzo di riadeguamento (e riarmamento). E il keynesismo, nella fase di crisi, si traduce soprattutto in debito pubblico: “(…) mi aspetto che i governi gestiscano deficit di bilancio permanentemente più elevati. Le sfide che affrontiamo – dalla crisi climatica alla necessità di rafforzare le nostre catene di approvvigionamento più sensibili alla difesa, soprattutto nell’Ue – richiederanno investimenti pubblici sostanziali che non possono essere finanziati solo tramite aumenti fiscali”. [11]
La contraddizione, in campo finanziario, che l’Ue si troverà ad affrontare è quella tra la necessaria stabilità dei conti pubblici – che finora è stata perseguita con il rigorismo pre-fase Covid – e gli investimenti strategici che la fase del capitalismo di guerra impone. La Commissione Europea prospetta infatti di ritornare nel 2024 ai parametri pre-Covid19, cioè limite al disavanzo pubblico al 3% del Pil e rapporto debito/Pil del 60%, anche se intende farlo non più intervenendo a posteriori sui bilanci fuori controllo, ma con un piano di medio termine per la stabilità finanziaria calibrata ai singoli paesi. In sostanza, il modello utilizzato per il fondo Next Generation Eu e per i Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza (Pnrr) dovrebbe diventare permanente, 0sia rispetto alla centralizzazione del debito a livello europeo, inaugurata proprio con gli euro bond (titoli di debito pubblico europeo) previsti per il fondo, sia rispetto al controllo europeo dei conti nazionali del singolo paese per la corresponsione delle rate dei Piani. Anche in questo caso, è Draghi a sintetizzare la linea di approfondire la centralizzazione finanziaria dell’Unione, paragonandola direttamente al modello federale statunitense. In un altro discorso, tenuto il 13 luglio al Consiglio nazionale di ricerca economica a Cambridge, l’ex primo ministro italiano afferma: “Poiché le regole automatiche rappresentano una devoluzione di poteri al centro, possono funzionare solo se sono accompagnate da un maggior grado di spesa da parte del centro. Questo è in linea di massima ciò che vediamo negli Stati Uniti, dove la devoluzione dei poteri al governo federale rende possibili regole fiscali sostanzialmente inflessibili per gli Stati. [12]
E questo modello di centralizzazione finanziaria dell’Ue viene posto in relazione a 0due obbiettivi: ristrutturazione capitalistica, sotto le mentite spoglie della svolta green, e guerra imperialista, sotto le spoglie della “difesa comune europea”: “Lo spazio fiscale asimmetrico dell’Europa – con alcuni in grado di spendere molto più di altri – è fondamentalmente uno spreco quando si tratta di obbiettivi condivisi come il clima e la difesa. Se alcuni paesi possono spendere liberamente per questi obbiettivi ma altri no, allora l’impatto di tutta la spesa è inferiore, poiché nessuno è in grado di raggiungere la sicurezza climatica e alimentare”. [13]
Ed infatti, è con piena naturalezza che, a maggio, l’Ue autorizzava ufficialmente l’impiego del fondo Next Generation Eu e quindi dei singoli Pnrr a livello nazionale, per arrivare, a livello di Unione, alla produzione di un milione di munizioni all’anno, in modo da rimpinguare le scorte, dissanguate con le forniture all’Ucraina. In proposito, il commissario Ue per il mercato interno, Thierry Breton, affermava senza ritegno che il fondo “è stato costruito per tre principali azioni: la transizione verde, la transizione digitale e la resilienza. Intervenire puntualmente per sostenere progetti industriali che vanno verso la resilienza, compresa la difesa, fa parte di questo terzo pilastro”. [14] Come se non bastassero già i 7 miliardi stanziati nel Fondo Europeo per la Difesa, istituito nel 2021, proprio per coordinare e accrescere gli investimenti bellici dei singoli paesi europei, nell’ambito della costruzione delle politica militare comune dell’Unione. Ora si parla chiaramente di scorporare le spese militari dei singoli paesi dal calcolo del deficit, in modo da consentire ai governi sforamenti per le spese militari.
E, a proposito della ridefinizione, citando Draghi, delle “catene di approvvigionamento”, il piano RePowerEu, presentato nel maggio del 2022, e sul quale il governo Meloni ha rideterminato quest’estate tutto il Pnrr, è esplicitamente rivolto a perseguire l’autonomia energetica dell’Unione dalle forniture russe di gas e petrolio. Il programma strategico perseguito dalle oligarchie imperialiste, finanziarie e tecnocratiche, che dirigono l’Unione Europea, per farla procedere nel mare in burrasca della crisi e della guerra, consiste in tre punti: stabilità e centralizzazione finanziaria, ristrutturazione industriale e potenziamento militare, complementare e integrativo rispetto alla Nato, per vincere la guerra alla Russia e, in prospettiva, quella contro la Cina. E per attuarlo, a livello di politiche economiche, aldilà del necessario ruolo dirigente della banca centrale da rilanciare ulteriormente, bisogna alternare da un lato austerità – a danno delle masse popolari – per conquistare la stabilità finanziaria, e dall’altro keynesismo – a beneficio dei capitalisti – per conquistare gli obbiettivi strategici, come ad esempio il riarmo e l’integrazione militare dei paesi aderenti all’Unione.
Austerità e corporativismo
“Fine reddito di cittadinanza, si rivolga ai servizi sociali”. È il laconico messaggio che, via sms o e-mail, ha raggiunto il 28 luglio scorso 169 mila percettori della misura di sostegno al reddito, avvisandoli della sua cessazione dal primo agosto. Il primo atto dello smantellamento progressivo dell’istituto deciso dall’esecutivo. Se l’alta finanza imperialista dell’Ue indica di calmierare la domanda, per il governo Meloni non c’è stato dubbio da chi iniziare a farlo, coerentemente alla sua natura di classe e alle storiche campagne stampa della destra contro i “fannulloni”.
La questione generale nella gestione della crisi, per governo e padroni, rimane però quella di schiacciare il lavoro nell’interesse del capitale. Nel Documento di Economia e Finanza (Def) di aprile, l’esecutivo inseriva nero su bianco la dottrina della moderazione salariale di matrice europea “per prevenire una pericolosa spirale salari-prezzi”. [15] A fine maggio gli ha fatto eco il governatore di Banca d’Italia, Ignazio Visco, che, dopo dodici anni di mandato, si è congedato dichiarando: “Non chiedete aumenti salariali”. [16]
Si tratta di indicazioni in parte superflue, poiché già ampiamente attuate dai padroni e recepite dai burocrati dei sindacati confederali nei rinnovi contrattuali di categoria. Veniamo da anni di caduta libera del potere d’acquisto dei salari nel nostro paese e il 2022 ha visto un’erosione record che il 7,6% indicato dall’Istat rende solo molto parzialmente. Per dare un dato più significativo si può guardare al salasso sui mutui sulla casa conseguente al rialzo dei tassi deciso dalla Bce: si parla di circa 15 miliardi di rate non versate e di circa un milione di famiglie che non riesce più a pagare, mentre le banche hanno aumentato i profitti del 60% nei primi sei mesi dell’anno corrente.
Nell’anno in corso, i rinnovi contrattuali hanno portato qualche minimo e, appunto, “moderato” recupero salariale rispetto all’inflazione, ma anche esiti infami, come quello del comparto “guardie giurate”: 120 euro spalmati su quatto anni, con un aumento effettivo di 0,28 centesimi all’ora e una paga minima oraria fissata a 6 euro. Il quadro complessivo è quindi drammatico: circa 3 milioni di lavoratori vengono pagati con meno di 9 euro lordi l’ora, non solo impiegati in settori tradizionalmente sottopagati, come la ristorazione, lo spettacolo, le cooperative “sociali”, ma anche più di 600 mila dipendenti del settore manifatturiero e delle costruzioni. E la contrattazione che ha stabilito tali retribuzioni è spesso frutto di accordi stilati dai confederali assieme alle maggiori rappresentanze padronali, come Confindustria e Confcommercio. [17]
In questo quadro, non stupisce che la direttiva Ue sul “salario minimo” emerga nel dibattito pubblico italiano, sia, come già detto, rispondendo alla logica oggettiva della riproduzione della forza lavoro che la retribuzione dovrebbe garantire, sia perché una parte dell’opposizione parlamentare (e sindacale) all’attuale governo intende utilizzare la questione per rifarsi una presentabilità nella classe operaia. Sul punto il governo Meloni, rigettando l’adozione di una soglia salariale fissata per legge, da un lato sta giocandosi la sua immagine di “esecutivo politico” che non ha bisogno di larghe intese, dall’altro compatta dietro di sé la parte più apertamente retriva del padronato italiano. Se è vero, infatti, che Confindustria non ha espresso preclusioni al “salario minimo”, magari calcolandolo come un’opportunità per indebolire la contrattazione collettiva, vi è una parte di padronato – dei settori tendenti a pagare di meno – che può temerne gli effetti. Guarda caso la stessa porzione di borghesia, anche media e piccola, come ad esempio albergatori e ristoratori, che ha fatto la voce più grossa contro il reddito di cittadinanza, proprio perché concorrente ai salari infimi – più che minimi – dispensati in certi settori.
Il governo Meloni, in chiave egemonica, punta a rappresentarla in maniera diretta, facendo il muso duro al Pd e nascondendosi, in maniera inedita per la destra, dietro al valore della contrattazione collettiva, nella situazione in cui i contratti con retribuzioni infime, sono firmati anche dai confederali e dalle maggiori associazioni padronali.
D’altronde, quanto il governo voglia colpire i proletari nell’interesse del padronato, lo si è visto con il “decreto lavoro” varato sfrontatamente lo scorso Primo Maggio, all’insegna del rilancio della precarizzazione per milioni di lavoratori. Le norme che vi sono contenute, poi tradotte durante l’estate in legge, ampliano ulteriormente le giustificazioni per rinnovare contratti temporanei, dando un ulteriore colpo al cosiddetto “decreto dignità” del 2018, [18] e aumentando la quota di pagamento del lavoro occasionale con i famigerati voucher, reintrodotti proprio dall’attuale esecutivo nel 2022, portando da 18 a 25 il numero massimo di dipendenti che l’azienda deve avere per poterli utilizzare.
Il “decreto lavoro” è anche stata l’occasione per portare l’affondo al reddito di cittadinanza, come già si diceva, abbassandone la platea di possibili riceventi, e sostituendolo con il cosiddetto “assegno di inclusione”. Quest’ultimo non solo prevede un importo minore, ma impone, pena la perdita dell’assegno, ricatti più gravi. Le offerte di lavoro rifiutabili, anche con contratti precari e a notevole distanza dall’abitazione, scendono a due e, nel caso di rinnovo dell’assegno, si scende addirittura ad una.
Nel caso di seconda offerta a tempo indeterminato, non si può rifiutare l’offerta di assunzione qualsiasi sia la distanza dal luogo di residenza, nel solo limite del territorio nazionale. Più che un reddito di inclusione si tratta dunque di un reddito di sottomissione! Per il governo e per i padroni, peraltro esonerati dal pagamento dei contribuiti per un anno in caso di assunzione a tempo indeterminato dei percettori, si tratta di una comoda pistola alla tempia per ricattare le fasce più deboli del proletariato.
Ma la novità più strombazzata dai mass media rispetto al “decreto lavoro” è stata quella del taglio al cuneo “fiscale”, cioè al costo del lavoro dovuto al versamento dei contributi previdenziali, prevista fino al 7% per i lavoratori con retribuzioni annuali non oltre i 25 mila euro fino al 31 dicembre 2023. Si tratta di un gioco delle tre carte praticato dal governo per rendere la busta paga dei lavoratori leggermente più pesante a carico dei lavoratori stessi, cioè dirottando una parte degli importi che andrebbero normalmente al sistema pensionistico. A ben vedere infatti lo stesso aggettivo “fiscale” è improprio, perché si tratta di dirottare in busta paga accantonamenti contributivi; ma la formulazione corretta di cuneo contributivo renderebbe chiaramente l’operazione cialtrona della politica borghese e delle burocrazie sindacali. Infatti, lo scopo dei padroni e di tutti coloro che in questi anni si sono riempiti la bocca con la retorica sul taglio del cuneo “fiscale” – come programma unificante da Confindustria alla Fiom, dalla destra reazionaria alla sinistra borghese – è spostare una parte del salario indiretto, a spese dunque anche del sistema previdenziale italiano, a beneficio del salario diretto, per fare in modo che i salari dei lavoratori rimangano di fatto sempre quelli, guardandosi dall’intaccare minimamente i profitti aziendali. In tempi di prescritta austerità ciò è particolarmente importante, come ha messo nero su bianco il governo Meloni nel sopracitato Def, dove si preannunciava, garantendo il deficit pubblico esistente, “un taglio dei contribuiti sociali a carico dei lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi di oltre tre miliardi per quest’anno. Ciò sosterrà il potere d’acquisto delle famiglie e contribuirà alla moderazione della crescita salariale. Unitamente ad analoghe misure contenute nella legge di bilancio, questa decisione testimonia l’attenzione del Governo alla tutela del potere d’acquisto dei lavoratori e, al contempo, alla moderazione salariale per prevenire una pericolosa spirale salari/prezzi”. [19] Insomma, è così che i “sovranisti” Meloni e Giorgetti traducono pedissequamente in Italia le indicazioni di Draghi e Lagarde sulla moderazione salariale e sul rinnovarsi neocorporativo dell’“interazione tra imprese e manodopera”. [20]
Il taglio al cuneo fiscale è un tipico provvedimento corporativo: il governo decide di dare qualcosina agli operai direttamente in busta paga per tentare di imbonirli e promuovendo l’unità delle classi, di modo da impedire lo sviluppo della contraddizione salario-profitto e dunque capitale-lavoro.
Sempre in senso corporativo va la promozione ulteriore del welfare aziendale contenuta nel “decreto lavoro”, con l’innalzamento a tremila euro per i cosiddetti “fringe benefit” cioè i pagamenti in buoni spendibili negli ambiti più diversi – una sorta di salario in natura – che i padroni possono dispensare ai dipendenti con figli. Anche in questo caso si tratta di corporativismo pagato dalla collettività, cioè dalla classe lavoratrice in senso complessivo, perché il vantaggio per il padronato è l’esenzione delle tasse per tali forme di pagamento, coperte con centinaia di milioni della spesa pubblica. A differenza del welfare aziendale classico, che è comunque di applicazione collettiva a livello aziendale, i “fringe benefit” possono essere anche individuali e dunque funzionali a precise politiche padronali per premiare certi dipendenti invece di altri.
Altri provvedimenti del governo Meloni – rivolti in generale alle masse popolari e non specificatamente alla classe lavoratrice – sono chiaramente improntati in senso corporativo, cioè politiche economiche di integrazione e cooptazione del consenso all’esecutivo e quindi indirettamente alla classe dominante. Possiamo ascrivere al computo del corporativismo, la minima tassazione sugli extraprofitti delle banche (richiesta anche da Carlo Messina, amministratore di Intesa – San Paolo), il cui ricavato dovrebbe andare “a famiglie e imprese”, il fondo “salva casa” per chi non riesce a pagare il mutuo, la Social card, simile alla tessera annonaria fascista, il “carrello tricolore”.
Si tratta di puntelli di politiche sociali, rivestite spesso da retorica nazionalista, con i quali si punta a far digerire l’austerità generale che l’esecutivo ha promesso per la legge di bilancio 2024, proprio mentre i dati sulla produzione industriale e la crescita del pil mostrano un progressivo peggioramento.
Insomma il governo Meloni, nell’austerità imperante e da esso stesso promossa, punta ad attuare specifiche politiche corporative, per tentare di gestire le contraddizioni sociali determinate dalla spirale crisi/guerra/crisi. Si tratta di modalità tipiche delle formazioni capitalistiche deboli nelle fasi di guerra, come fu per il fascismo storico, che rimane il riferimento ideale di buona parte del ceto dirigente governativo attuale.
Keynesismo e militarismo
“Leonardo si candida ad essere il primo vero grande banco di prova della manifattura per la riduzione dell’orario di lavoro, per le vie della contrattazione e delle buone relazioni con il sindacato. La maggior azienda manifatturiera italiana, nella definizione del nuovo contratto integrativo (2024-2025-2026) con i sindacati di categoria, ha tracciato i binari su cui si svilupperà il dialogo su premio, tempo e welfare (…)”. [21] Così si apre un articolo sul quotidiano di Confindustria che reclamizza, di fatto, il modello Leonardo come avanguardia delle relazioni tra capitale e lavoro, rispetto a formule innovative per la riduzione dell’orario di lavoro e per la costruzione di un welfare aziendale, strettamente legato alla produttività, ma in grado di remunerare adeguatamente gli operai.
Che tutto ciò avvenga nel principale monopolio italiano della produzione militare, mostra come il corporativismo a livello governativo si concretizza in una dimensione aziendale. Leonardo, lo scorso anno, ha avuto una crescita di ordini di oltre il 20%, ricavi a 14,7 miliardi, con un aumento del 4%, un utile netto pari a 932 milioni, un flusso di cassa lievitato del 158%… Insomma una straordinaria crescita di capitale industriale e di profitti, dimostrata anche dall’ottavo posto occupato dalla multinazionale di Stato italiana nella classifica mondiale dei produttori di armamenti, con una salita strepitosa di quattro posti in un anno, visto che nel 2022 risultava al dodicesimo.
Non c’è da stupirsi se in questo quadro, la direzione del gruppo, in mano a Cingolani, ex ministro alla “transizione ecologica” del governo Draghi e ora nominato amministratore delegato da quello Meloni, decida di allargare le maglie nel rapporto con i sindacati e i lavoratori stessi, avendo margini rilevanti di trattativa, a causa della crescita aziendale nella situazione generale del capitalismo di guerra.
Il corporativismo ha spesso la sua base strutturale nel keynesismo, cioè negli investimenti statali a livello capitalistico. Un fatto per certi versi scontato per un’azienda, come Leonardo, il cui azionariato è più del 30% in mano al ministero dell’economia, ma che va inevitabilmente ribadito rispetto agli attuali grandi piani di investimento europeo, vera e propria ossatura finanziaria del capitalismo di guerra nel vecchio continente.
Leonardo ha ricevuto due miliardi dal Pnrr – versione Draghi – per l’industria aerospaziale, che ha principalmente finalità belliche, [22] ha firmato un ulteriore contratto firmato a marzo con l’Agenzia Spaziale Italiana per la progettazione e messa in orbita sperimentale di due satelliti e soprattutto si è aggiudicata, per il secondo anno consecutivo, più del 70% dei fondi per l’industria militare stanziati dall’Ue nel Fondo Europeo della Difesa.
Il corporativismo, cioè l’integrazione a livello egemonico della classe operaia e delle masse popolari con mezzi economici e sociali, tende ad avere la sua base strutturale nel keynesismo e oggi quest’ultimo tende ad essere declinato come militarismo, [23] con lo sviluppo industriale trascinato dal settore bellico.
Oggi il militarismo italiano, europeo ed atlantico hanno la loro base strutturale nei grandi investimenti capitalistici a livello di Ue o di singola formazione capitalistica. Con il keynesismo al servizio del militarismo arriva al suo apice quella tendenza dirigista del capitalismo che già citavamo: il capitale deve fare profitto ma, data la situazione di crisi e guerra, lo deve fare integrandosi nella strategia politico-militare dello Stato, del suo sistema di alleanze e della classe dominante nel suo complesso. Non è tempo di clientele allargate per alimentare genericamente il ciclo produttivo capitalistico, com’è stato con i bonus edilizi ora nel mirino del governo, ma di spese finalizzate a sostenere l’aumento della composizione organica del capitale, i cosiddetti “investimenti qualitativi”. La prospettiva è quella di sviluppare la produttività e la profittabilità del capitale attraverso tecnologie che siano sempre dual use, cioè che uniscano l’applicazione a scopo civile assieme a quella a scopo militare, che diviene politicamente principale e dunque sempre perseguita. Le indicazioni della Camera dei deputati e in particolare della Commissione Difesa sono chiare: tutte le “missioni” del Pnrr [24] devono assumere anche un risvolto militare. [25] Lo sviluppo della digitalizzazione deve spingere al rafforzamento delle “difesa cibernetica” e anche quando, nell’ambito produttivo e urbano, si intende implementare il cosiddetto internet delle cose e dell’intelligenza artificiale, bisogna valorizzare il “contributo della Difesa” e i suoi tornaconti. Non è un mistero, ad esempio, che il 5G abbia uno stretto uso a scopo bellico, in particolare delle nuove armi ipersoniche. La “transizione ecologica” deve trovare piena attuazione nel settore militare, con il modellamento delle basi dell’esercito in “distretti energetici intelligenti”, con l’obbiettivo “di massimizzare il ricorso all’autoconsumo attraverso la produzione di energia da fonti rinnovabili e la gestione dei flussi energetici in tempo reale su rete sicura, impiegando tecnologie innovative, intelligenza artificiale, Internet of Things, automazione ed analisi dei dati”. [26] È in corso il progetto “Grandi infrastrutture – Caserme Verdi” che coinvolge 28 siti a livello nazionale, per una spesa di 1,5 miliardi. Si- parla anche di egemonia produttiva e territoriale delle installazioni militari: “Tali distretti potrebbero favorire lo sviluppo tecnologico delle aree geografiche interessate dal progetto in termini di infrastrutture e infostrutture e, parallelamente, creare le condizioni per l’attrazione di interessi industriali ed investimenti, a tutto vantaggio dello sviluppo economico e sociale delle Comunità interessate”. [27] Nonché, in generale, di egemonia a livello produttivo del settore militare tramite il suo ruolo nella ricerca e nell’ambito accademico: “promozione di soluzioni organizzative volte a razionalizzare la ricerca scientifica e tecnologica del comparto difesa in sinergia con altri dicasteri, università, centri di ricerca pubblici e privati, nonché tramite realtà industriali, piccole e medie imprese, start-up, allo scopo di raggiungere risultati in termini di innovazione tecnologica atti a beneficiare il comparto produttivo del Paese”. [28] Infatti, gli accordi tra ministero della difesa, stato maggiore dell’esercito, marina militare da un lato e università dall’altro si stanno moltiplicando, così come sono stati creati, in diversi atenei, corsi di laurea di formazione politica e militare imperialista (“Scienze strategiche e giuridiche della difesa e della sicurezza” all’università di Sassari, “Scienze strategiche e della sicurezza” all’università di Torino, “Scienza della difesa e della sicurezza” all’università di Napoli…).
Altro punto secondario, ma non trascurabile, nel Pnrr rispetto al settore della “difesa” è quello di promuovere la sanità militare, cioè il ruolo delle forze armate nella ricerca medica e nella gestione, soprattutto, delle cosiddette fasi emergenziali. Non potrebbe essere diversamente, visto il laboratorio autoritario che per la borghesia imperialista italiana (e mondiale) è stata la “pandemia da Covid19”, con un ruolo in primo piano all’esercito nella persona del generale Figliuolo, commissario straordinario all’emergenza “pandemica”. Si è così inaugurata una fase di sempre più stretta compenetrazione tra civile e militare a livello istituzionale, politico, economico e addirittura ideologico. Si veda, ad esempio, la nomina di un altro generale, Graziano, alla presidenza di Fincantieri, secondo monopolio dell’industria militare italiana dopo Leonardo, la nomina dello stesso Figliuolo a commissario per l’emergenza alluvione in centro-Italia e il dibattito politico e ideologico accesosi a seguito della destituzione del generale Vannacci.
Una delle modalità con le quali il keynesismo va a concretizzarsi, specie nelle fasi di crisi, per sostenere i profitti dei padroni e socializzare i costi sulla spalle delle masse popolari è quello della spesa pubblica per le grandi infrastrutture industriali e di comunicazione, nelle quali spesso convivono l’interesse immediato alla speculazione e l’interesse strategico a costruire le strutture e le vie attraverso le quali il capitale si riproduce e circola. Spesso si dimentica le implicazioni militari che le “grandi opere” hanno, specie in una fase di guerra via via più dispiegata. Ne è un esempio il ponte sullo stretto di Messina, tanto strombazzato dal ministro delle infrastrutture Salvini: un’opera non solo impattante dal punto di vista ambientale e potenziale voragine di ricchezza pubblica, ma soprattutto un’opera voluta fortemente dalla Nato. Lo dice chiaramente la relazione alle camere del marzo scorso presentata da Salvini e Meloni: “Il Ponte sullo Stretto costituisce un’infrastruttura fondamentale rispetto alla mobilità militare, tenuto conto della presenza di importanti basi militari Nato nell’Italia meridionale”. [29]
L’intreccio tra affarismo capitalistico e guerra imperialista emerge anche in un’altra opera altamente impattante sul territorio: la mega acciaieria “green” che si minaccia di costruire nella laguna di San Giorgio di Nogaro, in Friuli, devastando l’ambiente lagunare. L’opera, fortemente contestata dalla mobilitazione popolare, è frutto di un accordo capitalistico tra la multinazionale italiana Danieli e quella ucraina Metinvest, ma discende in realtà da una collaborazione politica nel settore sancita direttamente da Meloni e Zelensky. L’imperialismo italiano mira a realizzare una sinergia stretta nel settore tra Roma e Kiev, facilitando l’ingresso a piene mani, come bottino di guerra, dell’industria nostrana nel settore della metalmeccanica pesante in Ucraina.
Insomma, siamo alla sintesi sempre più pervasiva tra interesse capitalista privato e strategia politica di guerra in ogni aspetto e parte del sistema dominante, ed il keynesismo ne è la base strutturale.
La guerra è l’aspetto principale della realtà, segna il capitalismo contemporaneo e l’egemonia della classe dominante: compito dei comunisti è che inizi a segnare anche la capacità della classe lavoratrice di sovvertire il presente.
Note:
[1] M. Draghi, Miriam Pozen Lecture, ilsole24ore.com, 8.6.23
[2] Ibidem.
[3] Per quantitative easing si intende l’acquisto massiccio di titoli, generalmente di Stato, da parte delle banche centrali, con l’immissione di moneta nei mercati finanziari, in modo da garantire la loro stabilità, assieme a quella dei conti pubblici.
[4] Bce, Lagarde: una leggera recessione non sarebbe sufficiente a bloccare l’inflazione, rainews.it, 3.11.22
[5] Draghi, op. cit.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.
[8] A tal proposito basti guardare al fenomeno dell’abbandono volontario dei posti di lavoro, esploso negli ultimi anni in Ue e soprattutto in Italia. Vedi Le dimissioni volontarie dopo la pandemia, openpolis.it, 12.5.23
[9] Draghi, op. cit.
[10] Vedi Antitesi n. 13, pp. 67 ss.
[11] Draghi, op. cit.
[12] M. Draghi, Per un’Europa nel futuro. Il discorso di Mario Draghi a Cambridge, foglio.it, 13.7.23
[13] Ibidem.
[14] Ue, “i fondi del Pnrr utilizzabili per produrre munizioni”, ansa.it, 3.5.23
[15] G. Andreoli, Davvero un aumento elevato degli stipendi può far risalire l’inflazione? Cosa dice il governo Meloni nel Def, money.it, 17.4.23
[16] M. Palumbi, Visco (Bankitalia) si congeda “Non chiedete aumenti salariali”, ilfattoquotidiano.it, 1.6.23
[17] R. Querzè, Salario minimo, i 22 contratti di Cgil, Cisl e Uil sotto i 9 euro lordi, corriere.it, 21.7.23
[18] Già il governo Draghi aveva allargato le maglie per proroghe di contratti precari, tra l’altro su proposta del Pd.
[19] G. Meloni – G. Giorgetti, Documento di Economia e Finanza 2023 – Programma di Stabilità dell’Italia, mef.gov.it, 11.4.23
[20] Vedi supra.
[21] Il Sole 24 Ore, edizione del 2.8.23, p. 15
[22] Vedi Antitesi n. 14, pp. 14 ss.
[23] Vedi “Militarismo”, Glossario, Antitesi n. 15
[24] Vedi Antitesi n. 11, p. 11
[25] Aspetti di interesse della Difesa nel Pnrr, camera.it, 16.3.21
[26] Le infrastrutture della difesa nel nuovo concetto strategico del capo di stato maggiore, aedef.it, 21.9.22
[27] Aspetti di interesse, op. cit.
[28] Ibidem.
[29] A. Mazzeo, Il ponte sullo stretto di Messina opera di rilevante valenza militare in ambito Nato, antoniomazzeoblog.blogspot.com, 24.4.23