L’India in bilico
L’imperialismo indiano alla ricerca di autonomia strategica
“Imperialismo e guerra” da Antitesi n.15 – pag.37
Oramai da tempo gli analisti economici borghesi si riferiscono all’India parlando di un nuovo “miracolo asiatico” in termini di crescita produttiva, dopo quello della Cina. In effetti, l’economia indiana negli ultimi anni ha raggiunto tassi di sviluppo elevati: il Pil indiano nel decennio 2012/2021 è cresciuto in media del 5,46% all’anno, è stimato al 7% per il 2023, con previsioni di crescita di media annua del 6,7% fino al 2031 e con prospettive a lungo termine che la portano a prima economia mondiale nel 2075, già ora superata solo da Usa, Cina, Giappone e Germania. [1] La continua crescita demografica – proprio quest’anno l’India è divenuto il paese più popoloso al mondo, con 1,4 miliardi di abitanti superando la Cina – lo sviluppo dei mercati interni e la proiezione internazionale che si sta dando la borghesia indiana, sia relativamente al peso politico globale del suo paese che su quello di sviluppi commerciali e accordi di libero scambio con altri paesi, sono le caratteristiche principali dello sviluppo che il paese ha conosciuto negli ultimi anni.
Lo Stato indiano, da quasi dieci anni governato dal nazionalista induista Narendra Modi, sta perseguendo politiche di sviluppo del capitalismo nei settori della tecnologia informatica, farmaceutica, della tecnologia duale, tramite progetti di lungo respiro come Make in India e Digital India. Questi ultimi, attivi già da otto anni, hanno l’obiettivo di sviluppare le imprese manifatturiere, le infrastrutture, sia a livello di logistica che di sviluppo tecnologico legato all’informatica ed ai semiconduttori. Questi programmi di sviluppo stanno raggiungendo notevoli successi per la società capitalistica indiana: nel 2021, ad esempio, 42 startup indiane sono state valutate oltre 1 miliardo di dollari, seconde solo a Usa e Cina. Sul piano infrastrutturale dei trasporti dal 2014 ad oggi il governo indiano ha aggiunto dieci mila chilometri di autostrade all’anno. Inoltre il Sagarmala project, programma infrastrutturale per la modernizzazione dei porti, inserito nel progetto complessivo Make in India, sfruttando la centralità geografica della penisola indiana ha l’obiettivo di sviluppare l’industria attraverso il commercio via mare, intervenendo complessivamente su 802 porti. Già oggi 184 porti sono stati completamente rinnovati, tra cui quello di Nhava Sheva, a sud di Mombay, il più grande scalo marittimo del paese. [2]
Questi progetti della borghesia imperialista dell’India vogliono dare continuità e profondità allo sviluppo capitalistico del paese, interessando sempre più aree del subcontinente indiano, ricco di materie prime come rame, zinco, piombo e ferro, anche attraverso l’afflusso di capitali esterni. [3]
Inoltre il mercato interno digitale indiano si sta fortemente sviluppando, crescendo ad un ritmo doppio rispetto agli altri settori. Si prevede che nei prossimi cinque anni l’80% della popolazione raggiungerà l’accesso alla banda larga con un utilizzo medio mensile per persona di 40 giga byte di dati, contro gli attuali 17. Già ad oggi in India si contano 880 milioni di abbonati ad internet, con un mercato secondo solo alla Cina che ha circa un miliardo di abbonati. [4] Lo sviluppo del comparto informatico ha prodotto la creazione di un sistema centralizzato statale di registro e di database di dati di persone e imprese a livello nazionale, che ha portato alla anagrafe digitale per tutti i cittadini indiani e facilitato lo scambio di dati tra aziende private ed entità governative e statali per lo sviluppo del commercio e di tutte le relazioni tra i settori economici del paese.
Il digitale è un campo strategico per i rapporti internazionali del capitalismo indiano. È recente l’iniziativa della multinazionale statunitense Amd, produttrice di semiconduttori, di costituire in India, a Bangalore, [5] il suo più grande centro di progettazione, con l’assunzione di 3 mila ingegneri entro il 2028. Complessivamente, questo monopolio yankee investirà 400 milioni di dollari nei prossimi cinque anni nel paese asiatico, dove conta già 6500 dipendenti. [6]
Lo sviluppo del digitale e di altri settori industriali in India è frutto anche del fenomeno del reshoring statunitense fuori dai confini della Cina, cioè della ridislocazione dei propri investimenti via via che le relazioni politiche con Pechino si fanno più compromesse. L’India diviene così la meta naturale, anche per consolidare i rapporti con tale potenza in ascesa. Si pensi alla multinazionale Apple che punta, entro due anni, a ridislocare almeno un quarto della sua produzione in India.
Da parte sua, lo Stato indiano, rispondendo ai propri interessi strategici che lo mettono in netto contrasto con le politiche del governo cinese, soprattutto nello scenario asiatico, ha rifiutato una proposta di investimento per un miliardo di dollari della casa automobilistica cinese Byd. [7]
Altro elemento che dà la visione dello sviluppo economico e delle forze produttive del sistema capitalista indiano è il successo della missione Chandrayaan-3 sulla luna del 22 agosto scorso, con l’allunaggio sul polo sud della Luna del rover Prayan e del lander Vikram: importante perché fornisce un quadro della capacità economica e volontà dello Stato indiano di investire nel settore aerospaziale, anche per i possibili risvolti in campo militare che la ricerca e gli investimenti in missioni spaziali come questa possono offrire.
Sicuramente l’India, dal punto di vista economico e sociale, sta conoscendo uno sviluppo considerevole, ma rappresenta anche una situazione molto contraddittoria: un immenso territorio, diviso in 28 Stati federati e otto territori, questi ultimi governati direttamente a livello centrale. Il paese è diviso in un numeroso complesso di etnie e lingue, con più del 40% della popolazione impiegata nell’agricoltura, e di questa l’85% in aziende agricole condotte da famiglie singole. Vi sono inoltre profondi squilibri economici: l’India del sud e dell’ovest ha una crescita economica del 12% più veloce dell’India del nord e dell’est, con il 10% della popolazione indiana che detiene il 77% della ricchezza nazionale. [8] Si tratta però di aspetti che possono essere considerati in contraddizione alla crescita economica generale del paese, ma di fatto essi costituiscono da un lato l’eredità oggettiva della fase coloniale e dall’altro il dipanarsi concreto dei rapporti sociali capitalistici, con tutto ciò che ne consegue (dittatura della città sulla campagna, polarizzazione dello sviluppo industriale, divario di classe più ampio…). Anche se nel paese permangono rapporti sociali di tipo feudale e semifeudale, a livello agricolo ad esempio, i rapporti sociali prevalenti a livello generale sono quelli di tipo capitalistico, anzi, a ben guardare, di tipo monopolistico. Basti vedere come il peso del settore agricolo nella formazione del Pil nazionale sia sceso attorno oggi solamente al 15% , tutto a vantaggio della crescita poderosa del settore industriale e dei servizi. Tra le trenta più grandi aziende a capitalizzazione di mercato dell’India troviamo tre del settore auto e motocicli, nove del settore bancario e finanziario, sei del settore dell’energia, petrolio, gas, minerali ed estrazione del carbone, una del settore farmaceutico (la Sun Pharmaceutical) e cinque del settore delle telecomunicazioni, informatico-digitale. Le tre più grandi multinazionali sono la Reliance Industries, con una capitalizzazione di circa 166 miliardi di euro [9] operante nei settori della raffinazione petrolchimica, del gas, del petrolio, del commercio, tessile e telecomunicazioni, la Tata Consultancy Services, con una capitalizzazione di circa 130,5 miliardi di euro, società del gruppo Tata operante nei servizi di consulenza informatica, sviluppo di applicazioni per aziende, pianificazione dei processi aziendali, software aziendali e formazione tecnologica, la Hdfc Bank con una capitalizzazione di circa centoventicinque miliardi di euro, più grande banca privata indiana, quarta società finanziaria al mondo, che ha sviluppato la sua presenza anche all’estero, in Bahrain, Hong-Kong e Dubai. [10]
Nell’esportazione di capitali, il monopolismo indiano ha un totale di investimenti diretti esteri in uscita di circa 13 miliardi di dollari all’anno e partecipazioni del capitale bancario in altri istituti finanziari, con, ad esempio, la State Bank of India che in Nepal controlla il 50% della Nepal Sbi Bank, in Indonesia il 76% della PT Bank Indo Monex ed in Kenya il 76% del capitale della Giro Commercial Bank. [11]
Complessivamente dunque, la borghesia indiana si può definire come monopolista e imperialista: l’attrazione di investimenti internazionali corrisponde ad un processo di accumulazione autocentrato che si riversa nella sempre maggiore partecipazione del capitalismo indiano alla ripartizione dei mercati globali. [12] Secondo la definizione leninista dell’imperialismo bisogna guardare infatti a cinque principali caratteristiche: “1) la concentrazione della produzione e del capitale che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica 2) la fusione del capitale bancario con il capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo capitale finanziario, di una oligarchia finanziaria 3) la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitali in confronto con l’esportazione di merci 4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti che si spartiscono il mondo 5) la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche”. [13] Tali caratteristiche oggi connaturano il capitalismo indiano, pur nella specificità dello sviluppo e nella consapevolezza che l’emersione di ogni potenza imperialista è limitata dai rapporti oggettivi con le altre contendenti a livello internazionale. L’imperialismo indiano si sta consolidando e sviluppando, cercando di far pesare il suo ruolo nelle relazioni internazionali, pur avendo sicuramente un ruolo e capacità economiche più arretrate rispetto ad esempio all’imperialismo cinese, che ha uno sviluppo complessivo cinque volte superiore all’India.
La natura imperialista è confermata anche dal protagonismo militare del paese. Storicamente lo Stato indiano ha affrontato conflitti militari con i paesi vicini come il Pakistan e lo Sri Lanka, volendo mantenere una posizione di predominanza nell’area e attualmente l’Indian Army conta circa un milione e 300 mila effettivi, un milione e 200 mila riservisti e circa un milione e 300 mila paramilitari, quarto esercito al mondo per numero e dotato di armi atomiche. Le spese militari per l’anno 2022 sono ammontate a 76,6 miliardi di dollari (aumentate del 33% dal 2012), al terzo posto dopo Usa e Cina, addirittura precedendo la Russia.
Un piede in due staffe
In merito alla postura internazionale della politica dello Stato imperialista indiano, questa è contraddistinta da un’ambivalenza nei rapporti con gli altri paesi imperialisti, giocando un ruolo di sponda sia con il cosiddetto occidente collettivo che con Cina, Russia ed altri paesi emergenti.
Principalmente questa ambivalenza è determinata dal fatto che gli interessi strategici dell’imperialismo indiano sul piano globale sono molto spesso collimanti con quelli di Russia e Cina, mentre sull’aspetto degli interessi regionali, dell’area asiatica prossima ai confini indiani, si scontrano nettamente con il protagonismo dell’imperialismo cinese e puntano a convergere con gli Stati Uniti. Questa posizione si riflette anche sul piano economico: gli Usa sono il primo partner commerciale dell’India, ma tra il 2012 e il 2022 il commercio con la Cina è cresciuto dell’83%.
La partecipazione dell’India al Quad, l’accordo di cooperazione ed esercitazione militare tra Usa, Australia, Giappone, quello che lo Stato cinese definisce Nato asiatica, va vista nell’ottica del contenimento della proiezione cinese nel Sudest asiatico e delle spinte espansioniste dell’imperialismo indiano nei paesi prossimi ai suoi confini.
In tal senso, il governo di Narendra Modi, negli incontri dell’ultimo G20, tenutosi a New Delhi nel settembre scorso, ha stretto accordi con quello Usa in merito all’utilizzo delle basi navali indiane come appoggio tecnico per la marina militare statunitense in missione nell’Indo-Pacifico, affermando l’India come centro per la manutenzione e la riparazione dei mezzi della Us Navy. Lo scalo tecnico-operativo nei porti indiani permetterà alle navi statunitensi di acquisire maggiore efficienza e capacità di azione nell’Indo-Pacifico, in funzione di controllo anticinese delle rotte marittime di trasporto delle merci. [14]
L’atteggiamento di contrasto alla proiezione cinese nell’area del Sud-Est asiatico è dimostrato anche dallo sviluppo della proiezione regionale indiana attraverso la politica dell’Act East. Inaugurata nel 2015 dal governo Modi, questa strategia economica e politica è rivolta al potenziamento della connessione logistica, sia marittima che terrestre, per intensificare i rapporti commerciali e rafforzare i legami con i paesi dell’area, come Myanmar, Buthan, Nepal, Bangladesh, Sri Lanka, Thailandia e quelli dell’Asean [15] (Brunei, Laos, Cambogia, Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore, Vietnam) con l’obiettivo di contrastare l’espansionismo della Cina nell’area, esplicatosi con i progetti della cosiddetta “via della seta”. Sono stati avviati programmi, per gran parte finanziati dall’India, volti alla costruzione di infrastrutture di trasporto e rafforzamento delle comunicazioni digitali, alla sicurezza degli approvvigionamenti energetici e dei trasporti marittimi. Inoltre sono stati instaurati rapporti positivi con il Bangladesh, con cui verteva una disputa sui confini risalente alla fine degli anni Settanta (risoltasi con la visita del presidente Modi nel paese e la firma dei trattati) e riallacciati i rapporti diplomatici e commerciali con lo Sri Lanka, dopo il conflitto nel 1987. Anche sul piano culturale nell’Act East vi è il progetto di rivalutazione dei legami storico-religiosi tra l’India e i paesi vicini affacciati sull’Oceano Indiano, mirando ad un’egemonia ideologica basata sulla difesa delle tradizioni comuni e nazionali, contro la Cina “atea ed espansionista”.
Rispetto alla potenza cinese, il governo indiano vede con preoccupazione i legami di questa con il Nepal e soprattutto con il Pakistan, storico nemico dell’India che rivendica la regione del Kashmir, occupata da Nuova Delhi. Attraverso il progetto della “via della seta”, il governo cinese sta intensificando i reciproci legami economici e politici con questi due paesi. Da parte cinese sviluppare solidi legami con il Pakistan e il Nepal è importante per la propria sicurezza e integrità territoriale, poiché sono paesi confinanti con le regioni dello Xinjiang e del Tibet, entrambe attraversate da movimenti indipendentisti, la cui connotazione e direzione politica, rispettivamente islamismo e buddismo lamaista, trova sponda aldilà dei confini. Inoltre gli accordi economici relativi all’ampliamento dei progetti collegati al corridoio economico Cina-Pakistan permettono a Pechino di connettere la regione dello Xinjiang all’Oceano Indiano, attraverso il porto di Gwadar in Pakistan, già ora sotto controllo economico cinese. In tal modo, gli imperialisti cinesi puntano a diversificare le proprie vie commerciali e marittime, storicamente costrette a transitare per lo stretto di Malacca, facilmente bloccabile e sulle cui coste l’India ha ottenuto dall’Indonesia di insediare una base militare navale.
Da parte indiana, la controversia principale con lo Stato cinese riguarda la contesa dei confini (India e Cina condividono circa tremila chilometri di territorio confinante), che già nel 1962 aveva portato ad uno scontro armato per le pretese dello Stato indiano, concluso in breve tempo con la vittoria cinese e l’ottenimento della regione dell’Aksai Chin. Questa tensione sulla definizione dei confini ha portato il governo indiano ad ammassare negli anni truppe fino a 120 mila effettivi nei territori a ridosso della Cina. Scontri tra militari di frontiera dei due paesi si sono verificati episodicamente più volte negli anni, nel 2013, 2017 e arrivando nel giugno 2020 all’uccisione di 20 soldati indiani negli scontri nella valle di Galwan, nello Stato del Ladakh. Più recentemente, nel dicembre 2022, vi sono stati sconfinamenti di soldati cinesi a Tawang, in risposta alla provocazione dell’esercitazione militare, la Yudh Abhyas 2022, tra gli eserciti Usa e indiano che si era svolta nel novembre, in Uttarakhand, vicino al confine con la Cina.
Nel tentativo di contrastare su più livelli l’espansionismo cinese, il governo indiano, durante la riunione del G20 del settembre scorso, assieme ai rappresentanti governativi di Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Unione Europea, Francia, Germania e Italia ha presentato un piano infrastrutturale per collegare l’India al Medio Oriente e all’Europa. Il progetto di corridoio economico, definito India-Middle East-Europe Economic Corridor, ha lo scopo di facilitare il commercio tra i paesi aderenti, il trasporto di materie prime ed energetiche, rafforzare la connettività digitale ed ha il chiaro obiettivo di essere una alternativa alla “via della seta” cinese. Tra l’altro anche questo è un segnale dell’aumento dei rapporti tra il governo Modi e quello italiano di Meloni, dopo la visita in India nel marzo scorso, con la definizione di progetti di connessione, come il Blue Raman, tramite cavi sottomarini per il trasporto di dati che collegano l’Europa all’India. [16] La multinazionale italiana Tim, tramite la controllata Sparkle, partecipa al progetto Blue Raman, che collegherà Italia e India passando anche per Israele, alleato strategico sia di Roma che di Nuova Delhi. [17]
Inoltre, lo Stato imperialista indiano cerca di ripartire a proprio favore i mercati anche nell’Africa contendendo alla Cina lo spazio lasciato dall’indebolirsi dell’influenza statunitense ed europea. Dal 2017, i governi di India e Giappone hanno dato vita al progetto dell’Asia Africa growth Corridor, che ha l’obiettivo di costruire un corridoio marino collegato con i porti africani per l’interscambio di merci, sviluppare la collaborazione economica nei campi farmaceutici, dell’agricoltura e delle reti infrastrutturali.
Se è vero che Cina e India si contendono l’espansione imperialista in Asia e, secondariamente, in Africa, va però notato come, su diversi livelli, Nuova Delhi sia formalmente alleata con Pechino.
L’India è infatti paese membro fondatore dei Brics, assieme a Brasile, Russia India, Cina e Sudafrica, i quali nell’ultima riunione dell’agosto scorso hanno ratificato l’entrata, a gennaio 2024, di altri 6 paesi: Arabia Saudita, Argentina, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Iran, venendo così a rappresentare circa il 36% del Pil mondiale e il 42% della popolazione mondiale. Un aggregato di paesi che sicuramente ha progetti di rottura dell’egemonia dell’imperialismo statunitense e del blocco Nato, guidati in questo soprattutto da Cina e Russia, ma che nello stesso tempo contiene degli elementi di contraddizione. Ad esempio in merito al processo di de-dollarizzazione dell’economia, pur avendo ridotto l’utilizzo del dollaro negli scambi commerciali tra i paesi aderenti al Brics, arrivando al 28,7% del totale, [18] non vi è stata una scelta unitaria
sulla questione della creazione di una valuta comune, che nei progetti iniziali doveva essere ancorata alle materie prime di cui i paesi Brics sono ricchi. Anche in questo caso il governo indiano ha “giocato” autonomamente, frenando sui progetti di valuta alternativa al dollaro, in virtù degli scambi commerciali con gli Usa. [19]
Inoltre l’India fa parte, dal 2017, della Shanghai Cooperation Organisation (Sco), organizzazione economica nata tra i paesi di Russia, Cina, Kazakistan, Uzbekistan, Tagikistan per facilitare le relazioni, gli scambi commerciali tra paesi confinanti e il compimento di esercitazioni militari unite. Di questa organizzazione fa parte, sempre dal 2017, anche il Pakistan, storico nemico dello Stato imperialista indiano e per la prima volta, nel giugno 2018, in Russia, i due paesi hanno effettuato esercitazioni militari congiunte.
La Sco di fatto costituisce un ambito di integrazione a più livelli per i paesi dell’Asia centrale, ma la Cina e la Russia spingono perché essa assuma una conformazione di vero e proprio blocco alternativo all’influenza statunitense nella regione, superando anche i conflitti storici, come quello tra Pakistan ed India. Quest’ultima però teme che tale impostazioni porti acqua semplicemente al predominio cinese, tanto che all’ultimo vertice della Sco, il governo Modi si è rifiutato di firmare la “Strategia di sviluppo economico per il 2030”, giudicata troppo organica agli interessi di Pechino.
L’India, primo paese al mondo per importazione di armamenti, ha stretti legami con la Russia proprio sulla base delle importazioni militari. Fin dai tempi dell’Urss revisionista, Mosca è sempre stata primo fornitore di armamenti a Nuova Delhi: attualmente il 46% delle importazioni militari e prima, nel 2016, era arrivata persino al 69%. Nel complesso circa il 70% dei mezzi e dei sistemi d’arma in dotazione alle forze armate indiane sono fornite dalla Russia. Per giunta vi sono in atto intese per la coproduzione di missili ipersonici (missili Brahmos, crasi delle parole Brahmaputra, fiume che attraversa l’India, e Moscova, fiume della Russia) e sottomarini nucleari di attacco. Altri fornitori importanti sono la Francia, con il 27% e gli Usa, con il 12%. [20] Gli Stati Uniti puntano a contendere agli imperialisti russi il tradizionale rapporto privilegiato con l’India in campo militare, come dimostra l’esito dell’incontro tra Biden e Modi del giugno scorso, con forniture di droni e altri strumenti bellici da parte yankee e il progetto per costruire nel paese asiatico i motori della tipologia più moderna di caccia.
Nonostante gli sforzi di Washington, i rapporti consolidati con lo Stato russo hanno contribuito al mancato posizionamento di Modi contro l’intervento militare della Russia in Ucraina e nella riunione del G20 del settembre scorso, sotto la presidenza del governo di New Delhi, nessun rappresentante istituzionale ucraino è stato invitato. La dichiarazione finale, tra lo scandalo da parte atlantista, ha condannato la guerra in Ucraina ma non ha citato il ruolo di Mosca. Del resto, l’imperialismo indiano si sta arricchendo con il conflitto in Ucraina: la Russia vende all’India quantità massicce di petrolio, scontato del 30%, che poi può rivendere nel mercato internazionale, incamerando profitti nell’aggirare le sanzioni imposte dai paesi Ue e Nato. E non mancano, a tal proposito, le ritorsioni occidentali, come sta dimostrando la controversia tra India e Canada sulle accuse allo Stato asiatico di essere il mandante dell’omicidio di un esponente indipendentista della comunità Sikh in territorio canadese.
Ma l’atto economicamente e politicamente più forte dell’imperialismo indiano contro le vecchie potenze imperialiste è stata la sua battaglia all’interno dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) per impedire la liberalizzazione dell’agricoltura a livello globale. Una battaglia che ha visto l’India contrapporsi agli Usa e all’Ue, fare fronte comune con Brasile, Russia, Cina ma anche con Venezuela e Cuba. Di fatto, è stata la posizione indiana che, facendo fallire lo storico negoziato di Doha (2001-2016), ha sancito ufficialmente il tramontare della fase della cosiddetta globalizzazione, cioè della massima integrazione dei mercati mondiali, iniziata con la fine dell’Urss e costituente l’ambito economico nel quale si è sviluppato il tentativo degli Usa di imporsi in maniera unipolare a livello internazionale. È in quella fase che l’India ha dimostrato chiaramente il raggiungimento di autonomia strategica sul piano globale.
In conclusione, l’imperialismo indiano cerca di muoversi autonomamente, perseguendo i suoi interessi specifici, sfruttando le contraddizioni di uno scenario globale via via più lacerato dalla tendenza alla guerra. Se è chiaro che, nello scenario asiatico, l’India ha nella Cina un rivale definito, sul piano globale l’affermazione del paese non può che giocarsi sui rapporti di forza economici e politici che le potenze emergenti dei Brics potranno imporre alle vecchie potenze imperialiste (Usa, Ue e Giappone). La debolezza di entrambi i blocchi imperialisti, quello atlantico e quello sino-russo, non consente a nessuno dei due di porre un aut aut definitivo al gigante asiatico. Gli Usa non possono rinunciare al rapporto con l’India per tentare di tenere a bada la Cina in Asia e dall’altra parte La Cina e la Russia non possono procedere verso un nuovo ordine mondiale senza puntare a integrarvi l’India.
Uno spettro si aggira per l’India
Se all’inizio scrivevamo della potente crescita economica del paese indiano e della sua proiezione imperialista, di tutt’altro tenore sono le considerazioni riguardo le condizioni di vita delle masse popolari indiane. Il 70% della popolazione indiana vive in condizioni di povertà, trovandosi a dover sfamare la famiglia con meno di due dollari al giorno; vi è una percentuale di mortalità infantile al di sotto dei 5 anni del 22% e un tasso di analfabetismo del 30% della popolazione. Da parte del governo indiano vengono attuate politiche di deportazione delle popolazioni tribali che vivono in territori rurali e forestali ricchi di materie prime come ferro, bauxite, carbone, ecc. per lasciare spazio alle multinazionali, indiane o estere, in modo da estrarre agevolmente le materie prime e garantirsi i profitti.
In questo contesto di sfruttamento, miseria e oppressione e dalle lotte di resistenza che ne sono scaturite si è sviluppata la lotta del movimento comunista indiano e della guerra popolare. [21]
La storia del maoismo indiano si intreccia con quella del popolo adivasi, di stirpe dravidica, non praticante l’induismo e originario del subcontinente a differenza della maggioranza delle altre etnie. Gli adivasi sono fra le comunità più misere del paese, appartenenti alla classe contadina e fra i più attivi nella lotta contro il colonialismo britannico. Nel 1967 nel villaggio di Naxalbari, nel Bengala Occidentale, contadini adivasi iniziarono ad espropriare le terre ai latifondisti, guidati da compagni come Charu Mazumdar, futuro dirigente rivoluzionario, che si ispiravano al maoismo ed alla Rivoluzione Culturale allora in corso in Cina. Con l’inizio dell’insurrezione nelle campagne, i comunisti maoisti e le masse in lotta ruppero nettamente con le concezioni e i partiti revisionisti che miravano a contenere le lotte volendole inserire nel quadro delle rivendicazioni puramente legali, abbandonando di fatto ogni obiettivo rivoluzionario. La rivolta di Naxalbari venne repressa nel sangue ma il dardo della lotta rivoluzionaria era stato tratto. Gli anni seguenti furono anni di dure lotte, di repressione dei quadri e dirigenti del movimento comunista da parte dello Stato indiano e di battaglia ideologica tra i vari gruppi comunisti in merito alla continuazione del processo di lotta armata e di guerra popolare.
Questo lungo processo portò alla formazione del Partito Comunista dell’India – Maoista (Pci-maoista) nel 2004 e, sotto la direzione di esso, dell’Esercito Guerrigliero Popolare di Liberazione (Egpl). Il Pci – Maoista raccolse allora i gruppi dirigenti, i quadri, le strutture e le forze combattenti di sei organizzazioni comuniste che avevano condotto la guerra rivoluzionaria e lotte di masse in diversi parti del paese. La nascita del Pci – Maoista e dell’Egpl portò un notevole impulso alle lotte contadine e della popolazione adivasi, arrivando a radicarsi in vaste aree del paese negli Stati del Bengala Occidentale, Bihar, Jharkhand, Orissa, Chattisgarh, Uttar Pradesh, Andrha Pradesh, Madhya Pradesh e Maharashtra, il cosiddetto “corridoio rosso”, un’area dove di fatto si è affermata l’egemonia politica e militare da parte del partito stesso.
La politica reazionaria dello Stato imperialista indiano ha attuato una vera e propria azione di guerra all’interno del territorio indiano, attraverso l’operazione denominata “Green Hunt”, mobilitando 75 mila uomini dell’esercito, e delle formazioni paramilitari come Salwa Judum, contro le formazioni del Pci – Maoista e della popolazione contadina e adivasi.
Nonostante questa feroce repressione e il quotidiano terrorismo del regime, il Pci – Maoista continua ad essere presente in duecento dei 671 distretti che compongono lo Stato federale dell’India. E le azioni armate da parte dell’Egpl continuano a mettere in difficoltà le forze repressive del governo indiano: recentemente negli Stati del Jharkhand e Odisha vi sono state azioni contro la polizia e contro le grandi compagnie sfruttatrici, come la Damodar Valley Corporation, nello Stato del Jharkhand, con 5 guardie di sicurezza ferite e sei veicoli, tra camion ed escavatori, dati alle fiamme. Nel territorio di Odisha vi sono state azioni contro agenti delle forze speciali operativi nella controguerriglia, con 3 agenti eliminati. [22] L’8 settembre scorso nel distretto del West Singhbhum vi sono stati azioni armate contro informatori ed agenti collaboratori dello Stato indiano, con distribuzione ed affissione di volantini di denuncia della politica antipopolare del governo indiano. [23]
La forza del partito maoista è anche la sua capacità di unire la lotta armata ad azioni di massa, convocando, anche con le proprie organizzazioni di fronte popolare, scioperi,
manifestazioni e campagne di solidarietà. Ad esempio a inizio settembre, i compagni hanno chiamato una protesta di massa nell’Andra Pradesh contro la disoccupazione e il caro-vita. Ma anche quella di avere strutture sociali, come mense, assistenza sanitaria e centri di educazione, per dare supporto alla vita concreta delle masse e legarle al partito e alla rivoluzione.
Se è vero che il mondo sta cambiando grazie all’ascesa delle nuove potenze imperialiste, tra cui l’India, è altrettanto vero che i Modi, gli Xi Ping e i Putin non rappresentano nulla di rivoluzionario. Il cambiamento rivoluzionario può essere determinato solo dalle masse popolari, nella lotta per il rovesciamento dell’imperialismo e la conquista del socialismo. Qualsiasi volto assume la dominazione imperialista, il proletariato rivoluzionario dovrà e saprà combatterlo. Questo è oggi l’insegnamento fondamentale della guerra popolare in India sul piano internazionale.
Note:
[1] Le prime 10 economie del mondo nel 2075, wired.it, 17.7.23
[2] P.Thomas, Linking the infrastructure gaps, marinetraffic.com, 16.06.22
[3] Gli investimenti diretti esteri (Ide) nel paese, sono saliti a 83,6 miliardi di dollari nel 2022, da 45,15 miliardi di dollari nel 2014. Gli Ide annuali sono quasi raddoppiati a 83 miliardi di dollari quando “Make in India” ha completato otto anni, assomac.it, 26.9.22
[4] Nel settore dell’economia digitale per molti analisti economici, l’India ha le condizioni ideali dal punto di vista demografico, economico e geografico per diventare il fulcro della rete di cavi sottomarini che trasportano dati nell’Oceano Indiano (attualmente circa 500 cavi sottomarini trasportano il 97% del traffico internet globale, il 3% dai satelliti). M. Turcato, Così l’India punta a diventare l’Arabia Saudita dei dati, formiche.net, 9.4.23
[5] Bangalore è stata storicamente scelta dallo Stato indiano come città della ricerca scientifica e industriale per la sua posizione geografica, nella parte meridionale del paese, lontana dai nemici storici, Pakistan e Cina.
[6] M. De Agostini, Amd punta sulla ricerca e sviluppo: investirà 400 milioni di dollari in 5 anni in India, hwupgrade.it, 28.7.23
[7] G. Perlasca, L’India rifiuta una offerta di 1 miliardo di dollari dalla cinese Byd. La Cina chiede spiegazioni, scenarieconomici.it, 26.7.23
[8] B. Chakravorti, L’india la prossima grande potenza del mondo, hbritalia.it, 12.09.23
[9] Per dare una cifra di paragone in merito alla capitalizzazione di questa e delle altre multinazionali indiane, il gruppo Stellantis, nato dalla fusione del gruppo Fiat e Psa francese, ha una capitalizzazione di mercato di circa 56 miliardi di euro.
[10] Top 30 aziende dell’India nell’indice Nifty 2019, disfold.com, 30.5.22
[11] Scheda di sintesi: India, infomercatiesteri.it
[12] Sulla condizione attuale dell’imperialismo internazionale vedi L’imperialismo oggi, Antitesi n. 13, pp. 54-66
[13] Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, 1917, Opere scelte, vol II, p. 518, Roma, Editori Riuniti.
[14] F. Michelin, Modi apre le basi alla Us Navy. Dal G20 nuove cooperazioni India Usa nell’Indo pacifico, formiche.net, 9.9.23
[15] Asean sta per Associazione delle Nazioni del Sud Est asiatico ed è volta alla collaborazione politica ed economica tra i suoi membri, corrispondendovi anche un area di libero commercio.
[16] E. Rossi, L’India si lega al Meditteraneo allargato. L’Italia è nel progetto, formiche.net, 10.9.23
[17] Sul legame India-Israele vedi Limes n° 3/2023, L. Di Muro, L’India punta al Mediterraneo attraverso Israele, p. 225 ss.
[18] G. Dibitetto, Vertice paesi Brics: si accende la rivalità contro il G7, lasvolta.it, 25.08.23
[19] P. Chirafisi, L’India frena i Brics sul progetto di valuta alternativa al dollaro, proiezionidiborsa.it, 18.7.23
[20] L. Di Muro, Tra Russia, Cina e Usa Delhi sceglie se stessa, Limes n. 4/2022, p. 213
[21] Sulla nascita e sviluppo della guerra popolare in India vedi Antitesi n. 2, pp. 31-40
[22] India: the people’s war advance in Jharkhand and Odissha, redherald.org, 28.8.23
[23] People’s wars: almost 30 soldiers killed in the Philippines and new action in India, redherald.org, 10.9.23