Antitesi n.14Sfruttamento e crisi

Crisi e guerra, sorelle d’Italia

Il governo Meloni e la “tempesta perfetta”

“Sfruttamento e crisi” da Antitesi n.14 – pag.7


Il governo Meloni è n.a.t.o.

Il 29 marzo del 2022 avviene un fatto politico che apre una nuova fase della vita pubblica italiana. In commissione esteri e difesa del senato, l’allora governo Draghi accoglie l’ordine del giorno presentato da Fratelli d’Italia, che propugnava l’aumento delle spese militari al 2% del Pil, secondo quanto stabilito nell’ambito della Nato fin dal 2006 e ribadito dopo l’intervento russo in Ucraina.

Piuttosto che alle elezioni di fine settembre, la nascita dell’attuale governo Meloni può infatti essere retrodatata a tale passaggio politico, con cui si realizza una convergenza perfetta sulla direttrice della guerra imperialista tra l’allora principale partito di opposizione e l’allora presidente del consiglio Draghi, nella cui maggioranza, proprio su tale punto, tendeva ad aggravarsi la contraddizione con i Cinque Stelle.

Se quest’ultimi si candidavano, fin da allora, a rappresentare i malumori di parte della classe dominante rispetto all’ortodossia atlantista, la convergenza Draghi – Meloni consentiva un passaggio di consegne a livello governativo non solo indolore per la partecipazione italiana al processo di guerra imperialista, ma addirittura propulsiva rispetto al compattarsi del nuovo esecutivo di destra su questa linea. L’ultimo avvicendamento politico italiano è dunque una delle tante conseguenze dell’intervento russo in Ucraina ed è stato inteso come rafforzamento della linea guerrafondaia della borghesia imperialista italiana nell’ambito dei piani della Nato e delle direttrici fatte proprie, in tal senso, anche da parte dell’Unione Europea.

La guerra si conferma dunque essere l’aspetto principale della realtà, sia sul piano internazionale che su quello delle singole formazioni economico-sociali. Il processo di guerra è espressione sul piano della sovrastruttura della crisi che pervade la struttura capitalistica, dunque dell’aspetto fondamentale della realtà; l’irreversibilità della crisi nella struttura non può che tradursi nella guerra imperialista come terreno sul quale le sovrastrutture degli Stati1 si scontrano per affermare i rispettivi interessi strategici antagonistici.

Meloni è stata chiara anche da questo punto di vista, quando in uno dei suoi primi interventi alle camere, rispetto al nuovo governo, ha dichiarato “ereditiamo la crisi” e soprattutto quando ha assunto il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), impostato da Draghi, come vero programma economico della legislatura.

Il Pnrr, con il suo modello di ristrutturazione produttiva, rilancio del keynesismo come volano del capitale industriale e finanziario, apertura di nuovi spazi di accumulazione di profitto per i monopoli (liberalizzazioni), rappresenta il tentativo di gestire la crisi del sistema sul fronte interno, quanto la guerra imperialista ne rappresenta l’inevitabile orizzonte globale.

Gestione della crisi nell’interesse delle classi dominanti e guerra imperialista rappresentano la dimensione politica nella quale si consuma il passaggio, per l’attuale maggioranza parlamentare, dall’estetica della destra populista, quella delle frasi altisonanti e delle magliette di Putin, all’etica del grande capitale, altresì definita come “interesse del paese”.

Il vaso di Pandora dell’inflazione

Il passaggio tra Draghi e Meloni non è solo quello tra due esecutivi che dovranno servire gli stessi interessi di classe, ma corrisponde in larga misura ad un cambio di fase della crisi del capitalismo internazionale, determinato dall’aggravarsi della tendenza alla guerra. L’attacco russo all’Ucraina si è rivelato ben più efficace di qualsiasi “miracoloso” vaccino nell’estinguere la “pandemia” mondiale di Covid19, per due anni assunta a ideologia egemonica per buona parte delle potenze imperialiste. L’emergenzialismo “sanitario” ha coperto politicamente l’emergenza economica della crisi capitalistica, gestendo preventivamente sul piano finanziario la prospettiva di un imminente nuovo scoppio della bolla speculativa a cavallo tra il 2019 e il 2020, come tra il 2006 e il 2007 (cosiddetta crisi dei mutui subprime). È stata questa dimensione di ulteriore finanziarizzazione del capitalismo globale, che in Europa è stata incarnata dal piano del Recovery Fund / Next Generation Eu, con le sue propaggini nazionali dei Pnrr, a rappresentare il fattore principale di una spirale inflazionistica iniziata ben prima dell’attacco russo all’Ucraina.

Nella crisi dei subprime, i processi di allentamento quantitativo, cosiddetto Quantitative easing (Qe), avviati dalle banche centrali di Usa e Ue, erano volti a rammendare finanziariamente le lacerazioni di un debito privato e pubblico fuori controllo; allora l’immissione di tale massa di denaro provocò una bomba inflazionistica che si scaricò innanzitutto sui prezzi degli alimenti di prima necessità, innescando le rivolte destinate a infiammare il mondo arabo. Il Qe aveva la propria base finanziaria in politiche di tassi straordinariamente bassi da parte delle banche centrali di Washington e Bruxelles, in modo da consentire l’immissione di liquidità e la sostenibilità del più ampio indebitamento possibile.

Nella fase del “capitalismo pandemico”, l’immissione di denaro da parte delle banche centrali, specie nelle formazioni più gravate dalla crisi come Usa e Ue, ha aperto un rinnovato ciclo di neokeynesismo volto a dare nuovo slancio sul piano industriale, in particolare nei settori ad alta composizione organica di capitale, cioè di tecnologia applicata alla produzione, di modo da aumentare la produttività e dunque la profittabilità. Ideologicamente, le borghesie imperialiste di Usa e Ue hanno giustificato queste politiche con la retorica della “svolta green”, quando in realtà esse producono nei fatti solo un aumento generalizzato della domanda di materie prime, comprese quelle tradizionali di gas e petrolio. Per non parlare poi di fenomeni specifici come la questione dei bonus all’edilizia varati dagli ultimi due governi, con conseguenze inflattive pesanti a livello settoriale. Anche nella fase del “capitalismo pandemico”, tali politiche non potevano che basarsi su politiche dei tassi d’interesse delle banche centrali tendenti fortemente al ribasso.

Inoltre, lo shock alla globalizzazione prodotto dalla politiche di gestione della cosiddetta pandemia è stata l’occasione storica per avviare ristrutturazioni economiche in senso autocentrato, in coerenza con le tendenze protezioniste arrivate a massima espressione durante la presidenza di Trump. Se i blocchi alle catene del valore a livello globale durante i lockdown, soprattutto rispetto alla Cina, sono stati passaggi congiunturali che hanno comunque infiammato l’inflazione per il venir meno dell’offerta, le politiche di accentramento della produzione di valore rappresentano una base strutturale all’inflazione per la loro fame di materie prime industriali. Si veda ad esempio il piano dell’Unione Europea per raddoppiare la produzione di semiconduttori nei paese membri, per il valore di oltre 43 miliardi di euro. Anche in questo caso, il fattore fondamentale è la crisi e dunque l’inasprimento della lotta tra monopoli per ripartirsi i mercati su un terreno economico globale che offre sempre meno margini e spazi di profitto.

Tutto ciò conferma la vox populi dell’inflazione scatenatasi ben prima dell’intervento russo in Ucraina. Ovviamente non si vuole negare che quest’ultimo sia stato l’ulteriore fattore dell’ascesa inflattiva. Stiamo assistendo infatti ad una guerra scoppiata sulle rotte del gas e del petrolio russo verso l’Ue, con le sanzioni, controsanzioni e ritorsioni tra Bruxelles e Mosca, i sabotaggi al North Stream uno e due, la conquista forzosa dei mercati europei da parte del costoso gas statunitense, la potenziale carenza delle forniture. Tutto ciò ha provocato un nuovo riverbero dell’inflazione, generalizzatasi a partire dal gas e dai carburanti e scatenatasi secondo interessi e meccanismi della speculazione finanziaria, da sempre convolante a nozze con la guerra. I prezzi di mercato del gas europeo, anche di quello cosiddetto tutelato, sono largamente determinati dalla borsa di Amsterdam, il Title Transfer Facility (Tff), un punto di scambio virtuale istituito nel 2003 per la contrattazione di futures, contratti di vendite future, che ovviamente si basano su fattori d’influenza mutevoli di giorno in giorno, a differenza dei contratti a lungo termine che regolano i rapporti tra estrattori e distributori. Si tratta dunque di un meccanismo tipicamente speculativo, che il capitalismo finanziario ha adottato, nella crisi, proprio per aumentare esponenzialmente i propri extraprofitti. In Italia, ad esempio, il prezzo del mercato tutelato stabilito dall’Autorità di Regolazione per Energia, Reti e Ambiente segue, dal 2013, quanto stabilito dal Tff. In questa maniera, nei mesi successivi all’intervento russo in Ucraina, il prezzo del gas è salito anche di 15 volte le medie stagionali, con importi pesantissimi per i consumi domestici e industriali.

Neokeynesismo pandemico, ristrutturazione industriale e soprattutto guerra imperialistica, tutti sviluppati sul terreno fondamentale della crisi del capitalismo, sono dunque i fattori che hanno generato un fenomeno inflattivo foriero a sua volta di un ulteriore aggravarsi della crisi. E tale fenomeno inflattivo non è cosa da poco: si tratta di ulteriore benzina gettata sul costo dei processi produttivi, che va a colpire il capitale industriale e alla lunga destabilizza anche quello finanziario nel suo complesso, aldilà del suo inevitabile legarsi a fenomeni speculativi. Le classi dominanti statunitensi e soprattutto europee temono anche le conseguenze che l’aumento dei prezzi può determinare per la mobilitazione delle masse popolari, la loro perdita di egemonia a livello generale e l’impopolarità di scelte politiche strategiche quali la guerra alla Russia.

Il tentativo di tappare il vaso di Pandora dell’inflazione è consistito nell’aumento dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali di Usa e Ue. Di mese in mese, a partire dall’autunno scorso, la Federal Reserve statunitense (Fed) e la Banca Centrale Europea (Bce) hanno proceduto ad un progressivo aumento dei tassi, come non si vedeva da circa quindici anni, ovverosia da prima dei programmi di Qe conseguenti allo scoppio della bolla dei mutui subprime. Ugualmente hanno fatto anche la banca centrale del Regno Unito e della Svezia, ovverosia tutte le capitali bancarie della guerra alla Russia, a conferma del pesante boomerang dell’inflazione che ha colpito i paesi del blocco atlantico dopo le sanzioni.

Ovviamente, sia l’inflazione che le politiche per arginarla sono pagate dalle masse popolari e vi sono settori di borghesia imperialista che vi guadagnano direttamente. Tanto per fare un esempio, gli utili delle cinque maggiori big oil, le statunitensi ExxonMobil e Chevron, la britannica Britsh Petroleum, l’olandese-britannica Shell e la francese Total avrebbero raggiunto nel 2022 profitti record per 200 miliardi di dollari, a spese del salasso sul prezzo dei carburanti che ha colpito le masse europee.

La stretta sui tassi d’interesse determina poi l’aumento della rendita sui prestiti da parte delle banche, che va a colpire sia il capitale produttivo (prestiti per attività industriali e commerciali) sia la spesa delle masse popolari. Si veda ad esempio il rincaro per i mutui per l’acquisto di abitazioni, saliti fin quasi di tremila euro nell’ultimo anno e gli utili di Unicredit, “banca commerciale paneuropea” con sede in Italia, arrivati a oltre 5,2 miliardi nel 2022.

Sia l’inflazione che il suo tentativo di governo sono contemporaneamente sia il prodotto della crisi che il riflesso della volontà di gestirne gli effetti più dannosi. Ma la borghesia imperialista, laddove tira la coperta da una parte, ne lascia scoperta un’altra. Il rialzo dei tassi tende a portare verso la recessione, ma nemmeno tale shock produttivo, come ha ammesso la presidente della Bce Christine Lagarde2 riesce a fermare il fenomeno inflattivo per come sta procedendo “in cavalleria” sull’onda del keynesimo finanziario, della ristrutturazione industriale e della guerra imperialista. A livello bancario, se è vero da un lato che il “tirare la corda” dei tassi può essere scaricata sulle masse con l’aumento delle rendite dei prestiti, dall’altro lato il rischio è l’esplosione delle bolle dei titoli non più sostenibili con l’aumento del costo del denaro, come successo a marzo con i fallimenti delle banche statunitensi specializzatesi negli investimenti ad alta tecnologia. E ciò materializza per le classi dominanti lo spettro del crollo della Lehman Brothers nel 2008, tanto da mettere in discussione tutta la politica seguita negli ultimi mesi a livello finanziario.

Le politiche di risalita dei tassi rientrano infatti un cambio di strategia ben più vasto deciso da Fed e Bce per contenere l’inflazione, definita quantitative tightening (Qt) cioè stretta quantitativa, che comprende anche la progressiva diminuzione della quantità di titoli acquistati da parte delle banche centrali, al fine di limitare la massa monetaria in circolazione. Nello specifico, la Fed, dal primo giugno scorso, ha deciso di far maturare mille miliardi di titoli di credito nell’arco di dodici mesi, senza reinvestirci sopra. La Bce, dal canto suo, ha deciso di ridurre di quindici miliardi al mese, a partire da marzo, per tutto l’anno corrente, il reinvestimento di capitale rimborsato sui titoli in scadenza, nell’ambito dell’Asset Purchase Programme, cioè il programma di acquisto di crediti avviato sotto la presidenza Draghi nel 2015. Ed anche per il Pandemic Emergency Purchase Programme, l’altro programma di Qe della Bce, varato durante il periodo pandemico, il reinvestimento dei titoli in scadenza è previsto non più come regolare, ma flessibile.

Il punto è che, dopo la destabilizzazione della sfera finanziaria statunitense (ed europea) con i fallimenti bancari di marzo, la prudenza sui rialzi, comunque confermati, è divenuta la nuova parola d’ordine a Washington e Bruxelles. Il capitalismo si ritrova così stretto tra l’incudine dell’inflazione e il martello del crollo dei castelli di carta dei titoli bancari, come manifestazione reale e tangibile della sua crisi irreversibile.

Ed è in questa tempesta che i governi della borghesia imperialista sono costretti a far navigare le formazioni economico-sociali capitalistiche, come sta provando a fare il governo Meloni rispetto alla cosiddetta “azienda Italia”.

Thatcher per i proletari, Keynes per i padroni

La possibilità di sforare i vincoli di stabilità imposti precedentemente a livello europeo, conferita con la gestione dell’epidemia di Covid19, ha dilatato l’intervento pubblico diretto e indiretto per contrastare la crisi capitalistica e porsi da volano per rastrellare profitti in ogni ambito, dalla promozione del cosiddetto green elettrico e digitale alla caterva di bonus per l’edilizia. Successivamente, la spesa pubblica è ulteriormente salita per le misure di sostegno pubblico alla spesa di carburanti, gas ed elettricità dei privati e delle imprese, che in sostanza determinavano l’afflusso di miliardi di capitali di Stato ai monopolisti dell’energia.

Infatti il 2022 è stato un anno record per la spesa pubblica italiana, che ha sfondato la quota di mille miliardi di euro, arrivando al rapporto del 54% del Pil, con un debito pubblico superante i 2700 miliardi, pari al 153% del Pil. Il rapporto tra spesa e prodotto, prima del 2019, era al 48,5%, al settimo posto nell’Ue. Dopo i due anni di emergenza “pandemica”, siamo arrivati al secondo posto, superati solo dalla Francia. Ovviamente si tratta di dati che rischiano di aggravarsi, nella loro dimensione sostanziale, con l’aumento dei tassi d’interesse, con la conseguenza inevitabile della rivalutazione del debito. Non a caso, all’annuncio da parte della Bce di procedere alla stretta dei tassi, con relativa salita dello spread, esponenti del governo quali Salvini e Crosetto hanno protestato per i “miliardi di risparmi bruciati in un pomeriggio”3.

Più in generale, è tutto il Qt a preoccupare il governo Meloni vista l’esposizione debitoria italiana. Le stime economiche ci parlano della necessità, per l’esecutivo, di piazzare qualcosa come 400 miliardi di titoli di Stato nel 2023, che non potranno essere più coperti dalla Bce con la fine del Qe4.

A questo punto, presa dalle ristrettezze finanziarie, la destra al governo non può che rielaborare la sua vecchia retorica dell’autarchia e dell’oro alla patria in chiave attuale, lanciando la formula “più titoli di Stato detenuti dagli italiani”5. Il programma, con i cosiddetti “Btp Italia” e simili, è quello di promuovere l’acquisto di titoli di Stato direttamente da parte dei cittadini e dei residenti entro i confini nazionali, con privilegi fiscali, in modo da rastrellare il risparmio delle masse popolari per trasformarlo in capitale per la stabilità finanziaria statale. “Lo scopo è quello di portare i cittadini ad investire. Basti pensare che sui conti correnti il contante è pari a sette volte il Pnrr: se si riuscisse a convogliarne anche la metà sull’economia reale (!) l’effetto sarebbe enorme”6: così ha dichiarato il parlamentare leghista Centemero, promotore dei nuovi strumenti finanziari “patriottici”.

Insomma, se da un lato è chiaro che si punta esplicitamente a “prendere i soldi dove stanno”, dall’altro risulta assolutamente non credibile che ciò consenta di rafforzare effettivamente la stabilità finanziaria del paese. Soprattutto in un momento in cui la crisi e tutti i fattori annessi e connessi, come l’aumento dei costi di produzione a causa dell’inflazione, porta ad erodere la base produttiva: tendenza che si aggraverà ancor di più con la stretta dei tassi, il relativo stringersi del cappio dei crediti bancari e le possibili ondate di destabilizzazione finanziaria. A questi fattori si aggiungono le conseguenze dirette del conflitto in Ucraina, in particolare delle sanzioni, della messa in discussione delle catene del valore a livello globale, con le difficoltà di reperimento di componentistica (i già citati microchip ad esempio) e delle ristrutturazioni capitalistiche presentante come green.

Un quadro sul quale gli investimenti del Pnrr incidono solo in parte perché la loro funzione, aldilà della retorica governativa, non è quella di risollevare l’industria italiana nel suo complesso, ma proprio di ristrutturarla, attraverso un ulteriore salto di composizione organica a livello tecnologico avanzato, accelerando la concentrazione e la centralizzazione industriale, quindi selezionando i settori e gli ambiti in cui investire in quanto più profittevoli o politicamente strategici, come il caso del militare. La questione occupazionale, così come la conservazione e l’espansione delle forze produttive in sé, è l’ultima preoccupazione del padronato e dello Stato borghese. I rami secchi, in ultima analisi, vanno potati7 e il volano del keynesismo militare rappresenta l’unica base solida a cui ricondurre e tramite la quale espandere la filiera dell’industria pesante e metalmeccanica in genere.

In questo contesto di ulteriore aggravio della crisi, sia sul piano finanziario che su quello industriale, la linea che il governo Meloni ha riproposto è, di fatto, quella dell’austerità, pur rivestita ancora di qualche brandello di populismo, funzionale a nascondere la difficoltà ideologica di una destra che, presentandosi demagogicamente da anni come paladina delle masse e delle loro condizioni di vita rispetto ai “poteri forti”, puntualmente si rivela organica al grande capitale, proprio come la “sinistra”, una volta arrivata al governo. Già il governo Draghi, del resto, nel passaggio tra “capitalismo pandemico” e Qt, aveva anticipato questa tendenza al ritorno di ricette d’austerità, soprattutto dopo il grande spendi e spandi emergenziale del governo Conte bis. Il reddito di cittadinanza, con la legge di bilancio 2022, aveva subito una stretta ad opera dell’esecutivo dei “migliori”, ad esempio con la sospensione del sussidio in caso di due rifiuti di offerte di lavoro da parte di un padrone privato. Con la legge di bilancio 2023, Meloni e la sua cricca continuano l’offensiva verso l’istituto assistenziale, portando, tra l’altro, le possibilità di rifiuto ad una sola e soprattutto prospettandone la sostituzione con nuove formule di “sostegno al reddito” più ricattatorie per i proletari e inquadrate nell’ottica di tagliare la spesa per lo Stato. Si tratta, insomma, di fare cassa sulle spalle dei disoccupati, nonché di rendere l’esercito industriale di riserva ancora più malleabile ai ricatti salariali dei padroni, come da tempo richiesto da Confindustria. I padroni lamentano da tempo l’indisponibilità di parte del proletariato a lavorare per salari paragonabili all’entità del reddito e dunque il suo potenziale effetto rialzista rispetto alle paghe più infime. Una logica simile viene applicata anche all’assistenza agli anziani: qui si tratta di fare cassa sull’indennità di accompagnamento, scorporando il fondo dal servizio sanitario nazionale e prospettandone la rigida determinazione sulla base del reddito del beneficiario8.

Continuità tra Draghi e Meloni è riscontrabile anche rispetto ai bonus per l’edilizia. Già con il decreto “Sostegni ter”, i “migliori” avevano posto dei limiti stringenti alla cessione del credito fiscale per i lavori coperti dal bonus, dopo che Agenzia delle entrate e Guardia di finanza avevano, con i soliti “scandali di pulcinella”, scoperto truffe ai danni del fisco per svariati miliardi. Il 16 febbraio scorso, dal giorno alla notte, i “patrioti” decidevano, con decreto legge, il divieto di cessione del credito, la fine dello sconto in fattura, sostituita da una detrazione fiscale spalmata sui cinque anni, provocando una levata di scudi di Confindustria, Confartigianato e sindacati, che denunciavano la scure sulla crescita del settore e il rischio fallimento per decine di imprese. Una scelta politica netta, anche di disciplinamento rispetto agli interessi borghesi direttamente coinvolti (banche, borghesia del settore edilizio, palazzinari…), che il governo adotta in nome della stabilità finanziaria, minacciata dall’abbuffata di keynesismo edilizio avviata dal Conte bis, con Meloni strepitante che il superbonus è costato duemila euro a cranio di italiano.

L’essenza del passaggio al governo “politico”, volendone inquadrare la parziale discontinuità con quello “tecnico”, è proprio la necessità di operare scelte nette non solo di gestione della crisi, come nelle fase di espansione finanziarista del Qe e del “capitalismo pandemico”, ma anche nel tentativo di governo della crisi, nella fase del Qt e dunque di austerità. Ciò non vuol dire che vi è una corrispondenza meccanica tra la formula del “governo politico” e dell’austerità, come dimostra all’opposto la stagione del governo Monti, “tecnico” ma fautore della stretta sui conti dello Stato. Semplicemente, il governo Meloni, con una maggioranza più coesa e identitaria (a destra) di quella politicamente larga ed eterogenea del precedente esecutivo, offriva, in questa fase concreta, le migliori garanzie possibili per tentare di governare la crisi (e portare avanti il processo di guerra imperialista) rispetto ad ogni altra ipotesi.

E infatti le scelte politiche dell’attuale esecutivo hanno ben peggiorato l’affondo sulle condizioni di vita delle masse rispetto ai tentativi di calmierarle da parte del governo precedente. L’eliminazione dello scontro sulle accise dei carburanti, a sua volta decisa da Draghi per mettere un freno al carovita, va in tal senso, così come il taglio sulle indicizzazioni delle pensioni sopra una certa soglia (1800 netti, quindi assolutamente non da ricchi) ma anche l’ulteriore spinta all’autonomia regionale, che consisterà in ulteriori tagli della spesa pubblica nel campo della scuola e della sanità, lasciando spazi di profitti e rendita al settore privato.

Così i roboanti “sovranisti” nemici dell’austerità “europea”, di fatto, stanno riportando l’Italia verso il pareggio di bilancio pre-Covid19, con il saldo primario del debito pubblico che passa da un disavanzo del 1,5 per il 2022 allo 0,4 per il 2023, così come previsto dalla Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza del novembre scorso.

Peraltro, quello che rimane del keynesismo viene nettamente ripartito a vantaggio dei padroni. Dei 21 miliardi investiti per coprire il caro energia, circa un miliardo va a lenire i rincari per i consumi domestici (il cosiddetto bonus sociale), mentre gli altri andranno a coprire i maggiori costi di produzione per gli industriali.

Come se non bastasse tutto questo in materia di tagli alla spesa pubblica a danno del proletariato e delle masse popolari, il governo porta avanti anche un’offensiva diretta rispetto alle condizioni della classe lavoratrice. Si tratta del rilancio della precarietà dei contratti lavorativi, già attuato con la reintroduzione dei voucher nella legge di bilancio e ulteriormente prospettato con un ulteriore deregolamentazione dei contratti temporanei, abrogando i limiti di causale e durata previsti nel “decreto dignità” del 2018.

Insomma, detta in soldoni, a livello generale Meloni si è rivelata Thatcher con i proletari e Keynes con i padroni, impositrice dell’austerità ai primi, facendo pagare a loro il prezzo del freno posto alla tendenza inflattiva, e dispensatrice di capitali, tramite il Pnrr e ulteriori provvedimenti di gestione finanziaria della crisi, per i secondi.

Il Pnrr e la guerra

Guerra imperialista e tentativo di governo della crisi in tempi di Qt, con un intervento keynesiano mirato direttamente al profitto padronale e calibrato alla sostenibilità finanziaria, sono le due direttrici del governo Meloni. Il keynesismo militare tende ad essere la sintesi di tali direttrici perché da un lato arma l’imperialismo italiano per la sua partecipazione al processo di guerra globale e dall’altro si determina come volano industriale interno, aprendo spazi di profitto garantiti per il padronato grazie all’aumento della spesa pubblica nel settore e al fiorire del riarmo bellico a livello internazionale. E infatti, oltrepassando ogni limite di decenza nella storia repubblicana, Meloni è riuscita a piazzare come ministro della difesa il produttore di armi e ex presidente della Federazione Aziende Italiane per Aerospazio, Difesa e Sicurezza Guido Crosetto, peraltro uno dei fondatori proprio di Fratelli d’Italia.

L’obbiettivo di arrivare al 2% del Pil in spesa militare, e anche oltrepassarlo secondo quanto prospettato da più parti al vertice Nato di febbraio a Bruxelles, comporta il riassestamento a tale fine della propria industria nazionale, il fatto che essa venga legata a tale obbiettivo politico ed alle scadenze concrete dell’escalation militarista. Il Pnrr costituisce, da questo punto di vista, una garanzia capitalistica eccezionale per tale rifunzionalizzazione, come già raccomandavano nel 2021 le Commissioni Difesa di Camera e Senato, secondo le quali il piano doveva porsi come obbiettivi di “incrementare, considerata la centralità del quadro mediterraneo, la capacità militare dando piena attuazione ai programmi di specifico interesse volti a sostenere l’ammodernamento dello strumento militare” , e di “promuovere una visione organica del settore Difesa, in grado di dialogare con la filiera industriale coinvolta, in un’ottica di collaborazione con le realtà industriali nazionali, think tank e centri di ricerca”9.

Ciò non vuol dire che tutto ciò che fa riferimento direttamente al militare sia esplicitamente dichiarato come tale nel Pnrr. Ad esempio l’industria aerospaziale, finanziata nel Pnrr per circa 2,3 miliardi e dichiarata come “sostenibile”, ha una natura dual use, tra il militare e il civile, e una chiara finalità bellica, tanto che la Nato nel giugno 2021 ha elaborato una propria specifica risoluzione per indicare lo spazio come proprio campo d’azione ed oramai la dottrina strategica di tutte le potenze imperialiste propugna la costituzione di “forze armate spaziali”. Del resto, la guerra in Ucraina sta dimostrando il salto di qualità militare rispetto alla questione aerospaziale: si veda la messa fuori uso del provider statunitense di comunicazioni satellitari Viasat, oltre che dei segnali Gps e Galileo al momento dell’intervento russo, nel febbraio 2022.

Rispetto allo sviluppo del settore aerospaziale, l’imperialismo italiano ha fatto una scelta di integrazione a livello europeo, destinando la maggior parte dei fondi del Pnrr all’Agenzia Spaziale Europea (che comprende gran parte dei paesi dell’Ue) e non alla nostrana Agenzia Spaziale Italiana. Del resto, il Trattato del Quirinale, firmato il 26 novembre 2021 a Roma da Draghi e Macron, prevede la stretta collaborazione italo-francese allo sviluppo del settore aerospaziale, già consolidata dal rapporto tra i rispettivi monopoli prevalentemente pubblici del settore militar-spaziale: Thales, per i francesi, e Leonardo, per gli italiani. Dalla cosiddetta Space Alliance tra Thales e Leonardo sono nate due società Telespazio (Leonardo 67%, Thales 33%) e Thales Alenia Space (Thales 67%, Leonardo 33%). Leonardo domina l’industria aerospaziale italiana, come del resto l’intero comparto del militare, ponendosi a capo di una filiera produttiva formata per la maggioranza da piccole e medie imprese private, con alcune rilevanti eccezioni, come la Sitael, con 350 dipendenti e sede a Bari10.

Sempre nell’ambito dei finanziamenti del Pnrr, rientra la costruzione a Torino della cosiddetta “Città dell’Aerospazio”, un ambito urbano di circa un chilometro quadrato dedicato alla ricerca e all’industria aerospaziale, progettata in collaborazione proprio da Leonardo e dal locale Politecnico. La stessa Nato intende stabilire all’interno della Città dell’Aerospazio un proprio laboratorio di ricerca tecnologica avanzata, ovviamente in campo bellico, nell’ambito del progetto Diana, acronimo di Defence Innovation Accelerator for the North Atlantic, comprendente un fondo sovrano multinazionale finanziato da 21 paesi aderenti su 3011. La città dell’industria automobilistica, gravemente ridimensionata e ristrutturata nel processo di crisi, è destinata così a diventare uno dei centri d’avanguardia capitalistica dell’industria di guerra.

Come si diceva, infatti, l’integrazione tra strategie di sviluppo militare, politiche belliche, industria e ricerca scientifica è uno degli obbiettivi posti a livello istituzionale per il Pnrr e il caso di Torino è solo l’apice del rapporto sempre più stretto tra le strategie della guerra imperialista e il mondo accademico. Si veda, ad ulteriore esempio, il costante coinvolgimento degli atenei nelle esercitazioni delle forze armate12 gli accordi tra Leonardo e le università (come con la Sapienza) e la pervasiva presenza, nel mondo accademico italiano, della Fondazione Med Or, think tank dell’imperialismo italiano, presieduta dal boia Minniti e creata dalla stessa Leonardo.

Il coinvolgimento delle università e dunque degli studenti nel complesso militare è funzionale anche all’egemonia della classe dominante sulle masse giovanili. Un obbiettivo perseguito anche, per quanto riguarda gli studenti medi, attraverso la famigerata “alternanza scuola – lavoro” oggi denominata “Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento” (Pcto), che, in base al protocollo del 2017 tra ministero dell’istruzione, del lavoro e della difesa, viene sempre più spesso svolta presso basi militari, aeroporti dell’esercito e caserme. Si tratta di un lavoro egemonico, ma anche di reclutamento di giovani, in linea con la campagna politica che la destra sta conducendo sulla necessità del ripristino della leva e come, oltralpe, pare intenzionato a fare Macron in Francia.

Sempre nell’ambito della compenetrazione tra militare e ricerca scientifica, va segnalata la corsa alla riapertura di laboratori biotecnologici, ovviamente con i soldi del Pnrr, a Pisa, Livorno e Pesaro, curiosamente dopo che l’intervento russo in Ucraina ha portato alla dismissione di ben 46 strutture analoghe, le quali, secondo Mosca, sarebbero state utilizzate per la preparazione di armi biologiche da parte del Pentagono. La vicenda, ricorda, per alcuni versi, quella del biolaboratorio militare statunitense Namru 3 trasferito dall’Egitto alla base di Sigonella, in Sicilia, all’inizio della fase emergenziale del Covid19, quando gli interrogativi sull’origine del virus erano ancora presenti nel dibattito pubblico. È interessante notare come, dopo due anni di dogmatismo scientista emergenziale imposto con la questione del Covid19, nella coscienza di parte delle masse queste strutture non siano più “templi del progresso” come ci dice la retorica positivista della borghesia, ma entità su cui porre interrogativi, scetticismo se non opposizione, come dimostra la nascita di un comitato a Pesaro contro il biolaboratorio, e la mobilitazione condotta a Trieste contro l’immunità per legge conferita al locale biolaboratorio Icegb.

Sempre rispetto ai capitali del Pnrr nel settore bellico, va segnalata la costruzione della base militare di Coltano (Pisa), di cui già scrivevamo nello scorso numero13, che, oltre a devastare una superficie naturale di 73 ettari, è destinata ad ospitare i carabinieri del primo reggimento dei paracadutisti “Tuscania”, gruppo di pronto intervento dell’esercito italiano, già schierato in tutti i fronti di guerra.

Oltre a quanto già dichiarato esplicitamente rispetto agli impieghi militari dei capitali del Pnrr, l’imperialismo italiano si sta armando come non mai per partecipare alla guerra globale, forte degli 80 milioni spesi ogni giorno in tal senso, che dovrebbero arrivare a 104 secondo gli impegni in ambito Nato, nonché della fornitura di armi al regime ucraino fino alla fine del 2023. I monopoli italiani delle armi, non solo Leonardo, ma anche altri gruppi di Stato come Fincantieri o privati come Iveco, Beretta, Fiocchi, Benelli… si candidano ad avere un ruolo via via maggiore nel capitalismo italiano grazie all’espansione del loro mercato di riferimento. Cresce la loro integrazione industriale nelle catene del valore dell’industria militare, politicamente orientate dall’appartenenza al blocco della Nato, in particolare rispetto a Francia, Germania, Turchia e Stati Uniti, e a regimi ad esso tradizionalmente legati, come Israele e le monarchie arabe. Le stesse logiche industriali seguono anche le priorità politiche dettate dalla guerra imperialista. È un esempio il caso dello stabilimento di Wartsila di Trieste, la cui produzione di motori, anche a uso bellico, verrebbe portata in Finlandia, guarda caso dopo l’annuncio della prossima entrata del paese nella Nato, mentre in Italia si parla di garantire la continuità produttiva con gli investimenti di Fincantieri e/o di Rheinmetall, la multinazionale tedesca specializzata in bombe e carri armati.

La realtà è che se la crisi economica del capitalismo porta alla guerra imperialista, la stessa economia capitalista viene ristrutturata attorno alla guerra.

Lo spazio vitale dell’imperialismo italiano

Lo sviluppo del settore militar-industriale per l’imperialismo italiano non è solo necessario per la produzione di plusvalore grazie alle commesse di guerra, ma anche alla sua partecipazione diretta alla ripartizione del globo tra potenze a livello economico, politico e bellico.

Da questo punto di vista la dottrina strategica dell’imperialismo italiano si concentra su tre direttrici principali, che seguono le storiche proiezioni del colonialismo nostrano, ovverosia Europa orientale, Africa e bacino del Mediterraneo in senso “allargato”, cioè inteso come l’intera area avente influenza diretta sul “mare nostrum” di mussoliniana memoria, quindi dall’Europa continentale al Golfo di Guinea.

Alla base della strategia italiana vi è naturalmente l’economia. L’area internazionale del “Mediterraneo allargato” è quella dove è più forte la ripartizione dei mercati a favore del capitalismo italiano, con una quota stimata di quasi il 5% degli investimenti esteri nei paesi della regione, dove esso esporta più merci (con un saldo di valore rispetto alle importazioni superiore al 10%) e dove l’interscambio è quarto solo dopo Stati Uniti, Cina e Germania14. Tra l’80 e il 90% delle esportazioni e importazioni italiane passa per il bacino del Mediterraneo.

Più in generale, il “Mediterraneo allargato” rimane un’area strategica dove transita un terzo del commercio marittimo mondiale e luogo di passaggio delle principali vie energetiche del pianeta (vi passa il 30% del petrolio e il 65% delle restanti fonti energetiche) in quanto spazio di connessione tra Europa, Asia ed Africa. Infatti, uno degli obbiettivi non dichiarati della cosiddetta “operazione speciale militare” della Russia in Ucraina è quella di contenderne il controllo militare al blocco Nato, tanto che con l’avvio dell’intervento sono state inviate da Mosca nel Mediterraneo 18 unità navali belliche, più due sottomarini.

Per quanto riguarda l’Africa a livello generale, anch’essa è una storica area di penetrazione dell’imperialismo italiano e tutt’ora il capitalismo nostrano è ai vertici degli investimenti diretti nel “continente nero” (stimati nel 2018 in 24,5 miliardi di euro15), nonostante sia forte il divario a favore di Usa, Regno Unito e Francia e la Cina sia destinata a diventarne primo partner commerciale, superando singolarmente anche l’intera Unione Europea.

Rispetto all’Africa, il governo Meloni, con il “piano Mattei”, punta all’autonomia energetica dalla Russia e a trasformarsi nel punto di transito fondamentale del gas proveniente dal Maghreb verso l’area Ue. Una velleità che si scontra con il ruolo centrale attribuito, in tale piano, all’Algeria, quale luogo di partenza dei gasdotti marittimi verso la penisola e il cui regime ha un rapporto sempre più stretto, a livello economico (soprattutto energetico) nonché politico e militare con la Russia di Putin16.

Per quanto riguarda l’Europa orientale, anche qui ci troviamo di fronte ad un’area che ha storicamente subito l’imperialismo italiano e sulla quale, peraltro, la narrazione storica dell’attuale “repubblica democratica” tende a coincidere con quella del fascismo: basti vedere il mito nazionalista delle “foibe” e dell’esodo dall’ex Jugoslavia. Tuttora l’Italia costituisce il primo investitore internazionale nei Balcani, dove esporta merci per un valore stimato di sei miliardi, con migliaia di imprese operanti nella regione e la tendenza a proiettarsi in tutta l’area ex socialista, seguendo generalmente l’espansione di Ue e Nato, ma anche anticipandola. Basti vedere che su 17 rappresentanze internazionali di Confindustria, 16 sono situate in paesi ex sovietici o ex appartenenti alle democrazie popolari dell’est Europa (la restante è, significativamente, “Assafrica e Mediterraneo”). Attualmente, a far gola al padronato italiano, è naturalmente l’Ucraina; basti vedere come Bonomi si sia vantato che Confidustria è stata la prima associazione imprenditoriale ad incontrarsi con il governo di Kiev, nel gennaio 2023, e pare che ai capitalisti italiani, assieme a quelli polacchi, sia stato promesso, come area di investimento, l’oblast di Donetsk17. In questa maniera, l’imperialismo italiano dovrebbe essere ripagato non solo per il flusso di armi all’esercito ucraino, ma anche per i 1500 militari di Roma schierati nell’Europa orientale, impegnati nel “contenimento delle forze russe”18.

La regola per cui militari e capitali viaggiano assieme si conferma e riguarda anche le altre aree strategiche di proiezione dell’imperialismo italiano. In Africa, circa duemila militari italiani sono stanziati tra Somalia, Sahel, Maghreb e Mozambico, impiegati in missioni di formazione delle forze armate dei regimi compradores, di sorveglianza alle frontiere, di controllo dei flussi migratori e di repressione della criminalità. Si tratta perlopiù di missioni nelle quali attualmente l’imperialismo italiano fa fronte con le altre potenze Ue e la Nato contro le influenze di Russia e Cina, come ha affermato esplicitamente Crosetto19. La marina militare italiana è uno dei principali soggetti di controllo armato del Mediterraneo, con la partecipazione a diverse missioni. In ambito Nato è attiva l’operazione “Guardiano del mare”, in materia di cosiddetto antiterrorismo, mentre in ambito Ue vige la missione Eunavfor-Med, in materia di contrasto all’emigrazione clandestina. Vi è poi la presenza italiana nella Multinational Forces and Observers, attiva nella vigilanza sugli storici accordi tra Egitto e Israele rispetto al Sinai. Vi sono infine due operazioni prettamente italiane, denominate “Mediterraneo Sicuro”, di pattugliamento delle coste libiche e infine quella di tutela sulle attività di pesca al largo della Sicilia. Se a questo quadro aggiungiamo la presenza di truppe italiane sia in Libano che a Tripoli, in Libia, ci rendiamo conto di come l’imperialismo italiano abbia teso a blindare a proprio favore il “mare nostrum”, utilizzando le giustificazioni più disparate, come ad esempio l’emergenzialismo rispetto alla questione dell’emigrazione dall’Africa. Concretamente oggi, questo dispiegamento di forze della marina militare italiana svolge la funzione di monitorare la presenza russa.

In conclusione, dunque, la tesi dei sovranisti di ogni risma, secondo cui il coinvolgimento italiano nella guerra imperialista contro la Russia e a livello globale sarebbe frutto unicamente delle imposizioni di Washington rispetto al nostro paese, non regge al confronto con la realtà. Quest’ultima invece ci dice che la partecipazione dell’Italia al processo di guerra imperialista, seppur, per ragioni storiche e contingenti, collocata nell’ambito del blocco a guida Usa, costituisce il riflesso della contesa per la ripartizione dei mercati internazionali a favore della “nostra” classe dominante. Ed è contro questo nemico di “casa nostra” che dobbiamo principalmente lottare.


1 Vedi Antitesi n° 13, p. 61, paragrafo La guerra è tra sovrastrutture.

2 Bce, Lagarde, Una leggera recessione non sarebbe sufficiente ad abbassare l’inflazione, rainews.it, 3.11.2022

3 Bce alza i tassi, Salvini, Miliardi di risparmi bruciati in un pomeriggio, edicoladelsud.it , 15.12.2022

4 A. Cipolla, Meloni ha un problema da 400 miliardi: ecco che cosa spaventa veramente il governo, money.it, 19.12.2022

5 L. N. Antonelli, BTP autarchico, Meloni: più titoli di Stato agli italiani, finanzaonline, 9.2.2023

6 Ibidem

7 Lo ammettono, fra le righe, anche i tecnocrati del capitale, vedi M. de Francesco, Crisi industriali italiane 2023, intervista a 360 gradi con uno che le conosce bene: Giampietro Castano, industriaitaliana.it , 10.2.2023

8 Vedi Non autosufficienza, “il ddl cancella l’accompagnamento e crea un sistema parallelo a quello sanitario”, 14.3.2023, difesapopolo.it

9 Coordinamento Campagne Rete Italiana Pace e Disarmo, Il Recovery Plan armato del governo Draghi: fondi UE all’industria militare, retepacedisarmo.org, 1.4.2021

10 Vedi Limes 12/2021, Lo spazio serve per farci la guerra, pp. 200-208

11 Torino diventerà il nuovo polo tecnologico militare della NATO, lindipendente.online, 17.7.2022

12 A. Mazzeo, War games cyber spaziali e nucleari, ci sono pure due università italiane, antoniomazzeoblog.blogspot.com, 22.1.23

13 Antitesi n° 13, p.18

14 Vedi Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, La strategia italiana nel Mediterraneo, stabilizzare la crisi e costruire un’agenda positiva per la regione, esteri.it, 2017

15 Vedi Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Il partneriato con l’Africa, 2020, esteri.it

16 Vedi C. Rimessi, Tra l’Algeria e la Russia l’Italia deve mettere il dito, amistades.info, 23.2.2023

17 Vedi C. Statollo, Confindustria all’assalto dell’Ucraina, umbrialeft.it, 13.1.2023

18 1500 soldati italiani nell’Europa dell’Est, fronte Russia, quasi di nascosto, remocontro.it, 11.1.2023

19 MigrantiCrosetto: l’Ue e la Nato vigilano sulle infiltrazioni russe in Africa, agenzianova.com, 13.3.2023