Antitesi n.14Imperialismo e guerra

L’Ucraina è il mondo

La guerra imperialista a livello globale

“Imperialismo e guerra” da Antitesi n.14 – pag.37


“Gli accordi di Minsk del 2014 sono stati un tentativo di dare tempo all’Ucraina per diventare più forte, come si può vedere oggi. L’Ucraina del 2014-2015 non era l’Ucraina moderna di oggi.” “Era chiaro a tutti che (con gli accordi ndr.) la questione rimaneva irrisolta.” “È stato proprio questo (gli accordi ndr.) a dare tempo prezioso all’Ucraina”. “Dubito che i paesi della Nato avrebbero potuto fare allora quanto fanno ora (in quanto alla forniture di armi ndr)”. [1]

In queste poche frasi Angela Merkel (Cancelliere federale della Germania dal 2005 al 2021) dice molte cose. In primo luogo mette in luce in maniera lampante che nel 2014 la linea “negoziale” del blocco Nato era finalizzata a guadagnare tempo per poter poi dare ulteriore impulso, sulla pelle delle masse popolari del Donbass, al conflitto fra Ucraina e Federazione Russa come sviluppo della linea strategica dell’imperialismo Usa e occidentale di penetrazione nell’area euro-asiatica. Chiarisce, inoltre, che i governi Merkel e Macron (promotori degli accordi) erano perfettamente al corrente del piano e complici nell’ambito della criminale linea guerrafondaia del cosiddetto “Occidente collettivo” a direzione Usa.

Con ciò si conferma chiaramente che la guerra oggi confinata in Ucraina è parte integrante e fattore principale dello sviluppo globale della tendenza alla guerra interimperialista. È il modo in cui già ora questa tendenza si determina concretamente nella prospettiva della terza guerra mondiale, costituendo in questa fase il suo fronte principale. In aggiunta, oltre ad essere il fronte principale, essa costituisce un fattore di accelerazione e un vero e proprio spartiacque: sancisce il radicale cambiamento della situazione globale, decreta la fine del mondo di ieri e drammatizza la prospettiva del mondo di domani.

La nuova ripartizione

L’attuale salto nello sviluppo della linea guerrafondaia Usa-Nato, che si è evidenziato con il precipitare della situazione in Ucraina (volutamente perseguito fin dall’inizio con il golpe di Maidan del 2014), non è dovuto al carattere criminale e avventurista della classe dirigente occidentale. Questo carattere criminale infatti non è una novità. I popoli oppressi di tutto il mondo hanno avuto modo di farne tragicamente i conti, nell’ultimo periodo della fase imperialista del capitalismo, con l’infinita serie di guerre neo coloniali che senza soluzione di continuità si è sviluppata dal Vietnam all’Afghanistan, dall’Iraq alla Libia, dai Balcani alla Siria, solo per indicare le più importanti. [2] Tutte guerre che sono state la continuazione della politica di dominio imperialista con altri mezzi, nell’ambito dello sviluppo della contraddizione imperialismo-popoli oppressi, che fino alla guerra in Ucraina ha occupato la posizione di contraddizione principale a livello globale.

L’attuale salto dello sviluppo della linea guerrafondaia Usa-Nato è connesso appunto al cambiamento della contraddizione principale, che caratterizza questo frangente storico della fase imperialista del capitalismo, cioè l’affermarsi come principale della contraddizione interimperialista. Questa fase di cambiamento della contraddizione che occupa la posizione principale si è aperta come risultato, sia dell’aggravamento della irrisolta crisi generale di sovraccumulazione che asfissia le economie delle aree ‘avanzate’ (Nord America, Europa, Giappone) che delle criticità delle linee di sviluppo che erano maturate per fare fronte alla crisi, e in particolare della cosiddetta globalizzazione. La liberalizzazione della circolazione dei capitali, infatti, ha funzionato come valvola di sfogo per la sovraccumulazione con il grande incremento dell’esportazione di capitali dalle vecchie formazioni, verso formazioni che permettevano maggiori margini di sfruttamento e valorizzazione. Ma questo ha anche accelerato lo sviluppo delle formazioni emergenti caratterizzate da autonomia strategica, rimarcando il carattere diseguale dello sviluppo che caratterizza il capitalismo anche nella fase imperialista. [3] Uno sviluppo diseguale che negli ultimi decenni, in parallelo alla finanziarizzazione esasperata che ha caratterizzato le vecchie formazioni sovraccumulate, ha fatto emergere nuovi competitor strategici come Cina (che nel 2020 è passata al primo posto nel mondo per investimenti diretti esteri in uscita), [4] Russia, ma anche India, formazioni caratterizzate da economie reali in rapida crescita.

Conseguenza diretta di questo sviluppo diseguale è l’acuirsi della tensione sulle sfere di influenza tra i diversi aggregati finanziario-monopolisti e quindi tra le sovrastrutture politico-strategiche (Stati e alleanze tra Stati) che ne tutelano gli interessi. I differenziali dell’accumulazione erodono le vecchie egemonie e determinano nuovi rapporti di forza che domandano di essere registrati con una nuova spartizione del mondo. Questa è la sostanza economica, la radice economica del divenire principale della contraddizione interimperialista. Una sostanza economica che è alla base delle politiche imperialiste e della loro continuazione con altri mezzi, cioè della guerra imperialista.

La registrazione dei nuovi rapporti di egemonia infatti non è un processo indolore. La storia della fase imperialista del capitalismo ha mostrato ampiamente che essa spesso avviene tramite la guerra, e in particolare è stata il fattore determinante delle prime due guerre mondiali.

Anche oggi la posta in gioco è una nuova spartizione del mondo: una contesa per i “diritti” di sfruttamento del capitale monopolistico, che ha come oggetto sempre il dominio sui popoli e le classi oppresse, ma che assume di nuovo il carattere prevalente dello scontro diretto e globale tra le potenze imperialiste. Uno scontro in cui si vanno delineando due campi contrapposti: la “vecchia” catena imperialista a dominanza Usa e l’insieme eterogeneo di grandi e piccole potenze emergenti alla ricerca di uno sviluppo autocentrato, [5] che ha come capofila Cina e Russia.

Nello sviluppo di questa contraddizione interimperialista l’aspetto principale è rappresentato dall’aggressività dell’imperialismo Usa e dai suoi regimi alleati e vassalli. Sono le strategie messe in atto per puntellare la crisi di questo sistema egemonico (uscito vincitore dalla Guerra fredda) le maggiori responsabili dell’acutizzarsi delle contraddizioni interimperialiste.

Come evidenzia il ministro degli esteri russo Lavrov “la ragione principale delle crescenti tensioni odierne è l’ostinato tentativo dell’Occidente collettivo di mantenere un dominio storicamente decrescente nell’arena internazionale con ogni mezzo… È impossibile impedire il rafforzamento dei centri indipendenti di crescita economica, potenza finanziaria e influenza politica. Stanno emergendo nel nostro comune continente eurasiatico, in America Latina, in Medio Oriente e in Africa”. [6]

Le strategie delle rivoluzioni colorate, del Pivot to Asia di Obama, dell’America first di Trump, dell’espansione ad est della Nato sono tutti tentativi, o tappe, che declinano la resistenza dell’imperialismo Usa e del suo “occidente collettivo” alla crisi della sua egemonia globale. Tentativi e tappe che determinano concreti passaggi di aggravamento della tendenza alla guerra.

L’aggravarsi della crisi di egemonia Usa è l’aspetto fondamentale di questa fase storica e la loro reazione feroce è l’aspetto principale dell’aggravamento delle contraddizioni interimperialiste fino al precipizio della terza guerra mondiale.

L’Ucraina fronte principale

Il dominio sull’area euroasiatica è da lunga data il cruccio delle classi dominanti Usa e delle formazioni occidentali. [7] Nell’area euroasiatica infatti già si concentra più della metà della produzione e del commercio mondiali e questo accadrà sempre di più. In quest’area si concentra la maggior parte delle risorse globali per la valorizzazione del capitale: masse proletarie da sfruttare, materie prime a basso costo e potenzialità di sviluppo tecnologico. È sempre da questo contesto che sono emersi i competitori strategici, principalmente la Cina, ma anche la Russia e l’India, che espandono la loro influenza a livello globale: in Medioriente, in Africa e in America Latina.

L’incubo degli strateghi Usa è l’affermarsi di un’interconnessione e di un ordine euroasiatico che non sia diretto dai loro interessi. È un incubo reale perché è proprio quello che sta succedendo parallelamente alla crisi della loro egemonia. Il loro sogno, invece, è la frantumazione delle formazioni russa e cinese con la dissoluzione delle loro entità statali centrali e la trasformazione dell’Eurasia in una lunga serie di Stati e staterelli, in cui coltivare borghesie compradore e regimi vassalli, per avere un enorme campo libero per lo sfruttamento delle risorse in favore dei propri monopoli. Uno sfruttamento da poter perseguire anche nella forma dell’accumulazione per spoliazione. Un sogno che da decenni cercano di concretizzare tramite la linea principale dell’allargamento della Nato ad est con il corollario delle “rivoluzioni colorate” (Georgia, Ucraina, Bielorussia, ecc.).

La promessa di non allargare la Nato a est, fatta a Mosca il 9 febbraio 1990 dal segretario di Stato Usa James Baker [8] si è rivelata dello stesso tipo di quelle fatte dal “Grande padre bianco” agli indiani d’America: un grande imbonimento confezionato con la complicità di tutti i principali leaders occidentali (oltre George Bush, Helmut Kohl, Francois Mitterend, Margaret Thatcher, John Major e Giulio Andreotti). Mentre, sulla base della “dottrina Wolfowitz”, [9] si pianificava lo sfondamento, che si è concretizzato poi con l’entrata nella Nato di 14 paesi dell’area ex sovietica.

La complicità delle classi dominanti europee all’interno del piano statunitense è una chiara conseguenza del rapporto di vassallaggio cristallizzato dall’esito della Seconda guerra mondiale. Una complicità che ha vissuto fasi alterne in relazione al progetto di sviluppo della Ue come polo imperialista (con la nascita dell’euro in competizione con il dollaro) sotto la direzione dell’asse franco-tedesco. Una complicità che, fin dall’inizio, è stata caratterizzata dall’ambiguità della borghesia imperialista tedesca che, incassata da Gorbaciov la riunificazione (come risultato della ostpolitik e della falsa promessa di non allargare la Nato ad est), ha puntato a coniugare l’espansione del suo indotto produttivo ad est, e gli accordi di fornitura di semilavorati e materie prime a basso costo (energetiche e non), con l’utilizzo del piano yankee (espansione Nato e rivoluzioni colorate contro la Russia) per destabilizzare la parte contraente e ottenere così ulteriori migliori condizioni di sfruttamento. Un’ambiguità che non ha retto alla reazione russa, prima con l’annessione della Crimea e l’appoggio alla secessione delle popolazioni del Donbass in reazione del golpe di Maidan (che diede fuoco alla guerra delle sanzioni nel 2014) e poi con l’invasione russa del 2022 che ha provocato una nuova “cortina di ferro” dal Baltico al Mar Nero. Un dato di fatto di cui prende atto anche la Presidente Ue Ursula von der Lien: “L’economicità della fornitura di energia da parte della Russia faceva parte di un modello di business di molte industrie europee. Quel modello è stato infranto dall’attacco della Russia all’Ucraina. E la scomoda verità è che quel modello non tornerà”. [10]

Quella delle classi dominanti europee, poste di fronte al fatto compiuto della guerra “americana” in Ucraina, è quindi un’ineluttabile complicità di vassalli, che però ha come fondamento principale la sostanziale condivisione dell’obiettivo strategico del controllo occidentale dell’Eurasia. Obiettivo imposto dalla borghesia imperialista Usa, e condiviso dall’oligarchia finanziaria occidentale, come necessario per uscire definitivamente dalla crisi della sua egemonia globale e poter quindi continuare a dettare le regole di qualsiasi spartizione futura sul piano globale.

In questa condivisione di fondo sta la risposta alla domanda sul perché le borghesie imperialiste Ue hanno tirato la zappa sui piedi dello sviluppo della loro base strutturale per come fin qui si è definito, schierandosi immediatamente, intensificando le sanzioni, ampliando ulteriormente la Nato con l’entrata di Svezia e Finlandia, trasformando di fatto l’Europa occidentale nel retrovia della guerra e aprendo i propri arsenali in favore del regime fantoccio ucraino. È un processo carico di contraddizioni, come mostra il travaglio tedesco (da ultimo con i venti di crisi della Deutsche Bank), ma che tuttavia ha chiare risultanti. Il fulcro della Vecchia Europa, rappresentato dall’asse franco-tedesco, di fronte al dato di fatto della guerra ha messo da parte qualsiasi velleità di autonomia e subisce il protagonismo della Nuova Europa del Patto di Tallinn (Regno Unito, Polonia, Olanda, Danimarca, Estonia, Lettonia, Lituania, Repubblica Ceca, Slovacchia) caratterizzata da un riarmo accelerato [11] e paladina del piano di sfondamento Usa nell’area eurasiatica fino alla dissoluzione della Russia come entità centralizzata. Un’opposizione al piano Usa e della Nuova Europa la esprime sommessamente solo il debole Macron che alla Conferenza di Monaco sulla sicurezza del febbraio scorso (svoltasi senza la Russia) ha ammonito che “nessuno può cambiare la geografia della Russia, e nessuno cambiare il fatto che la Russia è parte dell’Europa”. [12]

L’allineamento europeo non è esente da contraddizioni perché la scelta sovrastrutturale di aderire al piano Usa cozza con le basi strutturali dello sviluppo economico europeo, per come fin prima della guerra si sono date: materie prime a basso costo dalla Russia, sviluppo dell’indotto produttivo e sbocco di mercato ad est.

Nella classe dominante tedesca il contrasto è reso acuto [13] perché la Germania riunificata è la formazione che ha tratto maggiori vantaggi nella relazione con la Russia e di conseguenza paga i maggiori costi per la sua rottura registrando nel 2022 un calo della produzione industriale di quasi il 4%. [14] La rottura della relazione prefigura per la Germania uno scenario di recessione sul piano economico e di riconfigurazione su quello strategico. Il governo di Olaf Sholz ha deciso di affrontare ciò a suon di miliardi di euro: 200 al Fondo di stabilizzazione economica, con il compito di frenare la pressione al rialzo dei prezzi del gas (che con l’incetta fatta nell’estate 2022 ha alimentato l’ondata speculativa e fatto schizzare il prezzo sul mercato internazionale) e 100 per l’enorme piano di riarmo dell’esercito tedesco (che porta la Germania a diventare la terza potenza al mondo per spese militari dopo Usa e Cina) puntando sul keynesismo militare come linea di contenimento della crisi.

La più evidente contraddizione tra i gruppi imperialisti Usa e Ue non è relativa alla necessità della guerra di fronte alla reazione russa. Necessità che lo sviluppo della crisi di sovraccumulazione (e non certo la difesa dell’integrità territoriale dell’Ucraina) rende agli occhi di tutti inevitabile. Ma è relativa al problema di chi debba pagarne il costo e di chi invece ne tragga vantaggio nell’immediato. Qui la contraddizione si evidenzia con gli Usa che, al netto della fornitura di armi (40 miliardi di dollari), puntano a scaricare la maggior parte dei costi accessori della guerra di dissanguamento della Russia sugli alleati europei (che pure hanno da parte loro già inviato più di 20 miliardi di euro in armamenti). Il caso del gas, come quello di molte altre materie prime fornite precedentemente a basso costo all’Europa, è emblematico della modalità in cui, non solo il costo della guerra si scarica sulle economie Ue (in misura anche maggiore di quanto ne subisca economicamente la Russia), ma anche di come la crisi di sovrapproduzione Usa venga scaricata sulle spalle dell’economia e delle masse europee. Questo avviene con operazioni speculative come la fornitura di gas Usa ad un costo più che triplo di quello russo, operazione che non poco sta contribuendo all’attuale tenuta del Pil degli States. L’export di gas Usa verso la Ue, con la guerra e le sanzioni alla Russia, ha registrato un aumento del 34% rispetto alla situazione precedente, a tutto vantaggio dell’accumulazione dei monopoli del settore energetico industriale statunitense.

Che gli Usa non facciano sconti alla Ue è dimostrato anche dal lancio dell’Inflation Reduction Act, il piano del governo che stanzia 370 miliardi di dollari per le industrie che producono tecnologie green in territorio statunitense. Piano che mette in crisi l’Europa che teme un esodo di aziende verso gli Usa e che ha suscitato aspre critiche da parte del presidente francese Macron e della presidente della Commissione Europea Von der Leyen nel dicembre scorso. [15]

In particolare il braccio di ferro sulla fornitura di carri armati Leopard 2 o Abrams M1, tra governo tedesco e statunitense, mostra chiaramente la riluttanza tedesca ad assumersi l’onere di essere il principale fornitore strategico dell’esercito ucraino (con le conseguenze in termini di linee di addestramento, rifornimento e manutenzione). Infatti il vincolo posto alla fornitura dei Leopard è stato quello di un’analoga fornitura di Abrams da parte statunitense.

Non ultima, tra le questioni che turbano il sonno delle classi dominanti europee, è l’acutizzazione della lotta di classe che può determinarsi in conseguenza della guerra (come evidenzia l’onda di scioperi in Inghilterra e Francia contro il carovita, l’aumento dell’età pensionistica e per gli aumenti salariali) e che può alimentare l’ancora purtroppo debole movimento contro la guerra promossa dagli imperialisti occidentali contro la Russia.

In definitiva la carta dell’operazione speciale russa, giocata preventivamente contro l’entrata dell’Ucraina nella Nato, ha trasformato quello ucraino nel fronte principale della partita per il controllo dell’Eurasia. Per gli Usa, come dichiara il Segretario di Stato Antony Blinken, “in gioco non c’è soltanto l’Ucraina, ma la definizione del nuovo ordine mondiale”. [16] Questo in un quadro in cui i diversi tentativi (dal ‘Pivot to Asia, all’America first) di porre al centro la contesa con la Cina, per indebolirne lo sviluppo e la proiezione strategica, creando una cintura di isolamento, fatta di accordi con le formazioni del sud est asiatico, e il controllo militare sugli stretti dell’Indopacifico, si sono rivelati di scarsa efficacia di fronte alla strategia cinese della ‘via della seta’. Strategia che, soprattutto nella sua diramazione terrestre, punta ad investire e riorganizzare le relazioni euroasiatiche in funzione dello sviluppo dell’egemonia cinese.

Anche il disimpegno relativo dal Medioriente, promosso per concentrare le forze contro il competitore strategico rappresentato dalla Cina, puntando sull’utilizzo strumentale spregiudicato di elementi locali, dalle primavere arabe, all’islam politico, alla questione curda, ha mostrato il punto debole di lasciare spazio all’intervento russo nella guerra siriana. Intervento risolutore che ha decretato la sconfitta dei piani di dominio Usa e occidentali, come anche la relativa espansione dell’influenza russa, iraniana e turca. Caratterizzando così una situazione destabilizzata che trova riscontro anche nel caos libico.

Da tutti questi elementi scaturisce la centralità del fronte ucraino. Centralità che risulta rimarcata da quelli che sono gli obiettivi, dichiarati o non dichiarati del piano statunitense: 1) sabotare la connessione strategica euro-asiatica, sia sul lato della relazione euro-russa che su quello della relazione euro-cinese (la cortina di ferro dal Baltico al Mar Nero interrompe infatti anche la ‘via della seta’ nello suo ramo terrestre); 2) promuovere il dissanguamento economico e militare della Federazione russa con una guerra di logoramento che ha l’obiettivo immediato di impedirne, o limitarne, l’impegno in altre aree del modo (come ad esempio in Medioriente e in Africa), e quello strategico di puntare alla sua dissoluzione; 3) riaffermare e rinsaldare il vincolo atlantico con una Ue, ancora più subalterna in una più rigida configurazione della catena imperialista a direzione Usa, e scaricare sulle sue economie i maggiori costi delle guerra e della crisi di sovraccumulazione.

Conseguenze sistemiche

Se la tappa della guerra in Siria può essere definita un prologo di guerra mondiale con carattere confinato e centripeto, un conflitto in cui, sulla pelle delle masse siriane, in una singola sfera di influenza (quella mediorientale) si è concentrata la contesa egemonica tra potenze regionali e globali. La tappa della guerra in Ucraina costituisce un salto di quantità e qualità con carattere centrifugo. Qui sulla pelle delle masse del Donbass, ma anche di quelle ucraine, russe ed europee, si realizza una più completa internazionalizzazione del conflitto, con la scesa in campo sostanziale contro la Russia dell’intero campo occidentale e con conseguenze centrifughe che si ripercuotono sul sistema delle relazioni internazionali e in tutte le sfere di influenza.

Con la guerra delle sanzioni scatenata contro la Russia le catene del valore (non solo quelle energetiche), già terremotate dalla “pandemia” da Covid e ancor più dalla sua gestione autoritaria e sciovinista, si vanno riorganizzando sulla base dei golden power, del reshoring e del nearshoring, [17] Il sistema finanziario globale è destabilizzato da profonde crepe che arrivano a terremotare anche la finanza Usa ed europea, come è visto con il fallimento della Silicon Valley Bank, della Signatur Ban e della First Republi Bank e la crisi di Credit Suisse. Questo in un contesto in cui si dividono sempre di più i sistemi di pagamento internazionale [18] con la minaccia Usa di espellere anche le banche cinesi dal sistema di pagamento Swift, se si interconnettono con quelle russe, e le confische-rapina delle riserve finanziarie estere russe (300 miliardi di dollari) che hanno alimentato un onda di diffidenza e di riflussi negli investimenti globali.

Se anche una potenza nucleare, che fa parte del G20, può vedere confiscate le riserve valutarie all’estero vuol dire che chiunque può subire la stessa misura. E questo ha già prodotto degli effetti rilevanti come l’aggravamento della crisi finanziaria che ha interessato la City di Londra, con il deflusso di capitali che ha portato alla caduta dei governi Jhonson e Khirsc, [19] e i deflussi di capitali da Credit Swisse che ne hanno aggravato la crisi. [20]

Tuttavia il fattore determinante nel contesto finanziario globale, destabilizzato dalla guerra, è l’accelerazione della perdita di presa del dollaro come denaro mondiale, come denominatore negli scambi commerciali internazionali e riserva di valore. Russia, Cina, India e Iran durante il vertice del’’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Sco) del 15 settembre 2022 hanno stabilito una tabella di marcia per aumentare gradualmente la quota delle valute nazionali negli scambi reciproci. Analogo orientamento è da tempo emerso anche in ambito Brics, un club che sta preparando un grande allargamento nella forma di Brics+, con tredici candidati confermati che hanno chiesto di partecipare (tra cui Argentina, Arabia Saudita, Indonesia e Algeria).

Nei primi nove mesi del 2022, le banche centrali di tutto il mondo hanno acquistato 763 tonnellate di oro (dato maggiore dal 1967), 250 delle quali acquistate dalla banca centrale cinese. Trainata dagli acquisti delle banche centrali, la domanda globale di oro nel 2022 è aumentata del 18% rispetto al 2021, come segno evidente dell’accelerazione, operata dalla guerra, della tendenza globale all’affrancamento dal dollaro come riserva di valore. [21] Tendenza che si era già concretizzata in precedenza con la diminuzione dal 71% al 59% della quota delle riserve valutarie mondiali denominate in dollari nel periodo 2001-2021. Questa perdita di presa del dollaro come denaro mondiale da una parte spinge alla guerra e dall’altra, dialetticamente, risulta aggravata dalla guerra.

In campo tecnologico, la riorganizzazione delle catene di approvvigionamento globali, come si è già evidenziato, si va trasformando in una vera e propria deglobalizzazione dell’alta tecnologia con la guerra sul controllo dello standard 5G e con il rilancio messo in atto nel 2022 da Usa e Ue con i rispettivi Chip Act [22] nel tentativo di riacquisire posizioni di leadership nel mercato dei semiconduttori, sviluppandone la produzione nei propri territori. Una linea declinata in funzione anticinese come dimostra l’accordo Chip4 promosso dagli Usa, con il coinvolgimento di Giappone, Taiwan e Corea del sud, in un progetto di ricostruzione della catena del valore del settore tesa ad escludere la Cina. Sulla stessa linea converge anche l’Olanda che, in accordo con Usa e Giappone, ha deciso di introdurre limitazioni all’esportazione di macchinari per la produzione di microchip in Cina da parte dell’olandese Asml. [23]

La questione dei chip, e l’esasperazione dello scontro sul controllo di questo mercato, ha diversi elementi di intersezione con la crisi e la guerra: 1) la linea obbligata di uscita dalla crisi di sovrapproduzione attraverso il salto tecnologico, perseguita con la gestione “tecnologica” della “pandemia” e con il lancio della green economy, determina un’aspettativa di raddoppio della produzione di semiconduttori entro il 2030; 2) l’Ucraina è il principale esportatore di neon, il gas che serve all’incisione dei chip, mentre un terzo del palladio mondiale viene dalla Russia, e la guerra e le sanzioni ne hanno azzerato le forniture; 3) a Taiwan viene fabbricato il 60% dei chip di tutto il mondo che viene assemblato e collaudato per la maggior parte in Cina.

Sul fronte indo-pacifico

La guerra dei chip rimanda alle tensioni latenti nel sud-est asiatico e finisce inevitabilmente per aggravarle. Il braccio di ferro sui mari e sugli stretti che circondano la Cina continentale ha come fulcro l’isola di Taiwan, dove viene prodotta la maggior parte dei semiconduttori utilizzati (anche per scopi militari) dagli Usa e dalla Cina. Come suggeriscono gli analisti di Barclays “mantenere lo status quo nei confronti di Taiwan è fondamentale per garantire che il governo Usa e le principali aziende tecnologiche possano continuare ad accedere a questa capacità produttiva avanzata”. [24] E il mantenimento dello status quo, coniugato con le restrizioni all’export tecnologico verso la Cina e il rafforzamento del controllo militare sulle rotte (con il pretesto della garanzia della libertà di navigazione) è la linea di condotta degli imperialisti Usa e alleati. L’obiettivo è bloccare l’espansione del socialimperialismo cinese mantenendo la presa su Taiwan, vera e propria spina nel fianco del loro avversario strategico.

“L’Asia orientale potrebbe essere l’Ucraina di domani” ha dichiarato il primo ministro giapponese Fumio Kishida a conclusione del suo viaggio per il vertice G7 a Washington. Lian Degui, direttore del Dipartimento di Studi Giapponesi dell’Università di Shanghai, ha spiegato che con questa affermazione il Giappone, con gli Usa, ha il proposito di ostacolare la riunificazione della Cina. [25]

Il pomo della discordia, rappresentato da Taiwan che è al tempo stesso provincia ribelle (la cui indipendenza non è riconosciuta dallo Stato cinese) e semi colonia Usa (utilizzata come spina nel fianco contro lo sviluppo geopolitico della Cina) può trasformarsi in qualsiasi momento nel fattore di apertura del fonte sud-est asiatico della guerra. Ne sono una chiara evidenza le ripetute e contrapposte esercitazioni militari che imperversano nel cielo e nel mare dello stretto di Formosa. Nel week end di Natale 2022 più di 70 aerei da combattimento cinesi hanno partecipato ad una esercitazione di sconfinamento dello spazio aereo taiwanese. La più grande incursione giornaliera registrata nella storia di Taiwan. [26]

Sempre in tema di esercitazioni, già a fine maggio 2022, Cina e Russia hanno condotto la prima esercitazione militare congiunta dall’inizio della guerra in Ucraina. Bombardieri dei due paesi hanno sorvolato assieme per 13 ore il Mar del Giappone, nello stesso momento in cui si teneva a Tokio il vertice del Quad [27] con la presenza di Biden, dell’indiano Modi e dell’australiano Albanese. Esercitazione congiunta a cui hanno fatto seguito nei mesi successivi diverse altre, di terra, mare e cielo, che hanno interessato l’estremo oriente.

Tuttavia, l’elemento ad oggi più significativo che evidenzia le ripercussioni della guerra ucraina nello scenario indo-pacifico è comunque il grande piano di riarmo del Giappone approvato nel dicembre scorso dal governo Kishida. Un piano di riarmo quinquennale del valore di 320 miliardi di dollari. Annunciando il piano, il capo del governo giapponese ha fatto esplicito riferimento al fatto che la guerra in Ucraina costituisce un precedente che può replicarsi anche in altri contesti internazionali. Obiettivo del piano, condiviso con gli Usa, è lo sviluppo militare dell’imperialismo giapponese in funzione del contenimento cinese, con attenzione anche al contrasto con la Federazione Russa, con la quale è aperta dalla fine della seconda guerra mondiale la questione delle isole Curili meridionali, sotto controllo di Mosca e rivendicate del Giappone.

Di fronte alla velocità di espansione militare cinese, ben esemplificata dal fatto che negli ultimi anni la sua marina militare ha commissionato la costruzione di più navi da guerra di qualsiasi altro Stato al mondo, [28] il rafforzamento dello schieramento Usa e occidentale nell’area indopacifica soffre di alcune fondamentali criticità: 1) lo storico conflitto di interessi tra Giappone e Corea del Sud; 2) l’ambiguità della maggior parte degli Stati che si raccolgono nell’Asean, propensi a farsi ‘tutelare’ dall’ombrello militare Usa, ma meno propensi ad interrompere le relazioni economiche (e anche politiche) con la Cina; 3) l’orientamento indipendente dell’India di Modi che, pur aderendo all’accordo Quad, non si è allineata nello schieramento anti russo.

Altri fronti

Nell’area del Medioriente e del Mediterraneo allargato in seguito alla guerra in Ucraina si è rafforzata la tendenza allo sviluppo autocentrato, la quale ha come campione la Turchia, ma che coinvolge gran parte delle formazioni arabe in cui si registra la crescita della volontà di avere le mani libere nel campo delle relazioni internazionali. A fianco del coinvolgimento nella guerra dell’Iran, entrato a pieno titolo nella Sco con il vertice di Samarcanda del settembre 2022, si assiste ad uno sganciamento dell’Arabia Saudita dai piani Usa e occidentali. Sganciamento che si è reso evidente con il rifiuto di aderire alla guerra delle sanzioni contro la Russia e con la politica petrolifera di contenimento delle quote di produzione concordata con Putin, che tanto ha fatto indispettire Biden. La svolta saudita è di ampio respiro, rimescola le carte destrutturando la storica relazione con gli Usa e apre alla possibilità di nuovi equilibri che si prospettano assai svantaggiosi per gli interessi dei gruppi imperialisti occidentali, come si è evidenziato con la visita di Xi Jinping a Riad del dicembre scorso. Visita in cui tra l’altro si è pianificato l’utilizzo dello yuan per gli acquisti cinesi di petrolio saudita. [29] Inoltre, in contrasto con il tentativo occidentale di destabilizzare l’Iran, soffiando sul fuoco della rivolta sociale, i sauditi riaprono (dopo più di 6 anni di assenza di relazioni diplomatiche) i rapporti con il regime degli ayatollah, con la dichiarazione congiunta di ripresa delle relazioni sottoscritta a Pechino il 10 marzo 2023.

Tuttavia, lo specchio che riflette più chiaramente il terremoto provocato dalla guerra in Ucraina negli equilibri mediorientali è la guerra di Siria. Dove, alla sconfitta Usa e occidentale, fa seguito la “riabilitazione” di Assad ad opera non solo dei russi, ma anche della Turchia e degli Emirati Arabi Uniti, che sono stati tra i principali sostenitori delle milizie jihadiste antiregime. [30]

In questa situazione, la strategia di dominio occidentale sull’area, che puntava sul Patto di Abramo e sulla prospettiva di una sorta di Nato mediorientale imperniata su Israele e in funzione anti iraniana, risulta essere stata un azzardo irrimediabilmente sconfitto.

Qui, come in tutto il Tricontinente (Asia, Africa e America Latina), rimane forte la contraddizione imperialismo-popoli oppressi come si evidenzia, nella catastrofe sociale libanese e nel riaffermarsi della resistenza del popolo palestinese. Un quadro in cui si assiste anche al complicarsi delle relazioni russo-israeliane, in conseguenza del ventilato appoggio dei sionisti al regime ucraino, con la possibile messa in discussione del permesso di sorvolo fin qui concesso informalmente dai russi ai caccia di Israele nello spazio aereo siriano. Il bastione dell’imperialismo occidentale nell’area, rappresentato dalla super colonia sionista, di fronte alle difficoltà, sul fronte esterno e sul fronte interno, opta per un’ulteriore svolta reazionaria con l’entrata al governo delle rappresentanze partitiche più fasciste e razziste dei coloni. Mentre la resistenza palestinese infiamma la Cisgiordania e la causa del popolo palestinese trova un nuove aperture da parte russa, come ha evidenziato l’incontro del 7 ottobre 2022 a Mosca tra una delegazione del Fronte Popolare di Liberazione con esponenti del governo di Putin.

Anche in Africa si registra un grave indebolimento dell’egemonia Usa e Ue. I successi della penetrazione russa in Africa sono ormai un fatto assodato. In Mali e in Burkina Faso i cambi di regime dell’estate 2022 hanno imposto l’evacuazione delle truppe neo coloniali francesi (ma anche di altri Stati Ue) e non si fa fatica a scorgere l’influenza della Federazione Russa, assunta come riferimento dalle nuove frazioni della classe dominante locale. Un’influenza radicata da anni, poiché ereditata dal periodo sovietico, anche in Sudan (dove c’è il progetto di costruire una base navale russa), Libia, Repubblica Centrafricana, Mozambico. Inoltre, la milizia privata filo russa Wagner è piazzata in Burundi, Repubblica Democratica del Congo, Ciad, Guinea Bissau, Botswana e Nigeria. Il caso forse più eclatante è rappresentato dall’Algeria che, oltre ad aver svolto in ottobre-novembre esercitazioni congiunte nell’ambito dell’operazione Desert Shield (circa 100 soldati algerini e 100 soldati russi), sta diventando la più grande importatrice di armamento russo al mondo (superando perfino la Cina e l’India). [31]

In America Latina, a livello governativo Venezuela, Cuba e Nicaragua si sono fin da subito schierati con la parte russa, con cui da tempo vanno sviluppando rapporti stretti anche in campo militare, come ha evidenziato l’esercitazione militare Sniper Frontier di fine agosto 2022 a Maracaibo che ha visto la partecipazione di 34 stati tra cui Russia, Cina, Iran, Siria, Bolivia, Ruanda e Niger. [32] Mentre non hanno aderito alle sanzioni occidentali contro la Russia le due più grandi potenze regionali: il Brasile, che partecipa ai Brics (Brasile, Russia, Cina, Sud Africa), e l’Argentina, che ha fatto da tempo richiesta di entrata.

Il sub continente in generale è caratterizzato in questi ultimi anni da grande instabilità, come evidenzia la serie di golpe e contro golpe attuati o tentati (Equador, Bolivia, Perù, Brasile), le grandi rivolte di massa (come quella peruviana nell’inverno scorso) e lo spostamento a sinistra dell’asse istituzionale governativo in Messico, Argentina, Cile, Colombia e Brasile. Insomma, il cortile di casa degli Usa è tutt’altro che allineato e tranquillo.

Capitalismo di guerra

Se la crisi generale di sovraccumulazione delle formazioni avanzate porta alla guerra interimperialista, la guerra stessa offre nuove condizioni per la valorizzazione capitalista. In questo primo anno di guerra, a fronte del calo globale della capitalizzazione in borsa del 19% (Msci Index), si riscontra una crescita (in gran parte speculativa) nel settore energetico, con gli affari delle prime cinque imprese globali cresciuti nel periodo della guerra del 66%. Nel settore dei complessi militari industriali, con gli affari delle prime cinque imprese globali aumentanti del 15% (l’italiana Leonardo realizza un +60% in borsa). [33]

La guerra in Ucraina rappresenta una “splendida” opportunità di crescita per il complesso militare industriale Usa, come per tutti i produttori di armi. Da alcuni anni è in corso una vera e propria corsa agli armamenti: nel 2020 la spesa globale per la difesa stimata è di 2 mila miliardi di dollari e nel 2021, per il settimo anno consecutivo, sono aumentate le vendite di armi a livello mondiale.

Naturalmente questo trend positivo è destinato a decollare ulteriormente. In conseguenza delle massicce forniture all’Ucraina, tutti gli arsenali occidentali si sono svuotati e le scorte devono essere reintegrate nel momento in cui tutti accelerano i piani di riarmo. Non si tratta solo di Germania e Giappone, ma di un movimento generalizzato che coinvolge tutti gli Stati occidentali che alzano la quota di spesa militare sul Pil anche al di sopra del 2% (vedi Polonia). È un grande mercato in espansione, alimentato da gran parte delle formazioni: dalla Polonia all’India, dall’Algeria all’Arabia Saudita, dal Qatar all’Australia, dalla Turchia a Taiwan, e l’elenco sarebbe troppo lungo.

Sul lato dell’offerta, le cento maggiori società che producono per la “difesa” nel mondo già nel 2021 hanno venduto armi e servizi militari per circa seicento miliardi di dollari. Quaranta di queste aziende hanno sede negli Usa (anche le prime cinque in classifica) [34] e hanno venduto armi per più della metà dell’importo complessivo globale, con l’export Usa che nel 2022 ha concretizzato un +49%. [35]

Non sono solo i monopoli Usa che producono armi ad avvantaggiarsi nel modello di accumulazione che si configura con la guerra. La parte del leone la fanno, come sempre, i gruppi finanziari che detengono partecipazioni azionarie nelle aziende sia del settore energetico che di quello militare industriale. [36]

Questo sviluppo del capitalismo di guerra ha un effetto anche nella definizione delle porte girevoli che regolano le relazioni tra i monopoli e i governi. Lo mostrano bene i casi di Antony Blinken, segretario di Stato, e vero e proprio capo guerrafondaio dell’amministrazione Usa fin dai tempi di Obama, cofondatore della società WestExec Advisor in affari con l’impresa israeliana di higt tech di guerra Winward, o quello del nostrano Guido Crosetto, ministro della difesa del governo Meloni, ex presidente di Aiad (Aziende Italiane per l’Aerospazio e la Difesa) e senior advisor di Leonardo.

Tuttavia, l’aspetto principale che emerge con i piani di riarmo generalizzato è l’opzione del keynesimo militare per rilanciare un modello di accumulazione funzionale ad interrompere la spirale di avvitamento della crisi generale. È un’opzione che chiude con il liberismo, sia nella sua versione neoliberista della scuola di Chicago che in quella dell’ordoliberismo tedesco, rilanciando l’indebitamento pubblico come volano dell’economia. Un cambio di prospettiva, già in corso prima della guerra, che si è evidenziato con i piani di salvataggio con cui è stata affrontata la crisi del 2007-9 e che si è consolidato con i recovery plan post pandemici, oltre che con il green new deal della transizione energetica.

La declinazione militare del keynesismo con lo sviluppo dei complessi militar-industriali offre notevoli vantaggi: 1) sviluppa una importante valvola di sfogo alla sovraccumulazione offrendo opportunità di investimento in un settore in cui la valorizzazione è garantita a livello statale; 2) in campo finanziario puntella la tenuta degli asset e contrasta la tendenza all’esplosione delle bolle e dei crolli in borsa; 3) favorisce l’innovazione tecnologica (con ricadute sul settore industriale “civile”) con il connesso aumento della composizione organica del capitale, che è la via maestra da sempre perseguita per tentare di uscire dalla crisi rilanciando la produttività; 4) combinata con lo stato di guerra riorganizza le relazioni istituzionali, politiche e sociali in funzione del dirigismo economico e dell’autoritarismo di tipo fascista.

Naturalmente l’indebitamento, prima o poi, deve essere ripagato con le diverse forme di accumulazione per spoliazione, pena il crollo del sistema, e quindi la risultante è la guerra di conquista. E cosi l’accelerazione del keynesimo militare apre la porta alla terza guerra mondiale.

Multipolarismo e fase rivoluzionaria

“Non vi è dubbio che lo sviluppo (della fase imperialista ndr.) segue la linea di un unico trust mondiale, che assorbisca tutte le imprese e tutti gli Stati, senza eccezione, ma la segue in circostanze tali, a tali ritmi, con tali contrasti, conflitti e sconvolgimenti – e non soltanto economici, ma anche politici, nazionali, ecc. ecc. – che, immancabilmente, prima che si giunga a un unico trust mondiale, all’associazione mondiale ‘ultraimperialista’ dei capitali finanziari nazionali, l’imperialismo dovrà immancabilmente saltare e il capitalismo trasformarsi nel suo contrario”. [37] Questa frase di Lenin, scritta nel 1916 in piena prima guerra mondiale, illumina bene anche la situazione attuale. Una situazione in cui l’utopia di un superimperialismo globale in versione Usa e occidentale si è rovesciata nella distopia dello scenario di una terza guerra mondiale.

Finché l’imperialismo, nell’accezione leninista di fase suprema del capitalismo, non crolla e non si trasforma nel suo contrario (cioè nel socialismo) trascinerà il mondo in una spirale di distruzione. Ma cosi facendo esso finirà anche con alimentare e acutizzare le contraddizioni che lo caratterizzano (di classe, di oppressione semicoloniale e interimperialiste) che favoriranno lo sviluppo di una situazione rivoluzionaria e la promozione della soggettività politica, sociale, culturale e militare che lo farà crollare.

Nella situazione attuale la crisi di egemonia Usa apre il vaso di pandora di una nuova guerra globale, una terza guerra mondiale che per il livello di interconnessione sistemica raggiunta è e sarà ancora più globale di quelle che la hanno preceduta.

L’aspetto principale della contraddizione interimperialista, che si è drammaticamente esplicitata con la guerra in Ucraina, è rappresentato dal piano aggressivo Usa e occidentale: 1) rilancio della variante del capitalismo di guerra (il warfare declinato con il keynesismo militare), come soluzione contingente alla crisi strutturale del sistema; 2) proiezione strategica nell’area euroasiatica con l’obiettivo di dissanguare e disgregare la Federazione Russa (che vi esercita una egemonia autocentrata) per mettere le mani sulle enormi risorse della macroarea; 3) accerchiamento e contenimento del vero competitore strategico, rappresentato dalla Cina, per soffocarne la crescita e azzerare le velleità espansive sul piano egemonico dell’imperialismo cinese.

Quello statunitense e occidentale è un piano carico di contraddizioni e criticità, sia interne che strutturali. Per gli Usa l’unico ordine mondiale possibile è il loro, diversamente vanno incontro al collasso della loro struttura economica (con la possibile conseguenza di una guerra civile interna come si è evidenziato con le rivolte del Blak Lives Matter e dall’assalto di Capitol Hill nel gennaio 2021), che, per come si è definita dal secondo dopoguerra in poi, si fonda appunto su questa supremazia. Basti pensare alle conseguenze strutturali del venir meno del dollaro come denaro mondiale, su di una economia basata sull’indebitamento estero in favore del consumo interno [38] reso possibile dal presupposto che la propria valuta funziona come riserva di valore a livello globale in modo tale che il loro debito fin ora si è trasformato “magicamente” in oro.

Ma, nelle concrete condizioni maturate con la crisi strutturale delle economie delle formazioni avanzate, quello Usa e occidentale è un ordine ormai impossibile. Nuovi poli e aggregati imperialisti sono emersi e strutturati, in un processo storicamente determinato e irreversibile, definendo un multipolarismo di fatto, un disordine mondiale in cui nelle relazioni internazionali si naviga a vista. Una situazione in cui accanto ai grandi poli imperialisti (Usa, Ue, Giappone, Russia, Cina) proliferano anche medie e piccole potenze (India, Turchia, Brasile, Arabia Saudita, ecc.) che nel caos multipolare puntano a tenersi le mani libere per perseguire loro specifici interessi sia in campo regionale che extra regionale.

Il multipolarismo è caos: un caos che trova fondamento nello sviluppo diseguale delle diverse formazioni socio-economiche. È una dinamica connaturata al capitalismo come modo di produzione, i cui squilibri spingono oggi nuovamente alla tragica ricerca di compensazione nella forma della guerra inter-imperialista.

Il principale responsabile dell’attuale avvitamento di questa spirale è l’imperialismo decadente Usa e occidentale. Il quale, tra la battuta d’arresto nella guerra siriana e l’ingloriosa fine dell’avventura afgana, ha promosso con il golpe di Maidan il regime fantoccio ucraino, trovando così la carne da macello da gettare nel calderone dello conflitto interimperialista contro la formazione russa, nella prospettiva del confronto con il competitore strategico, ovvero la Cina.

La crisi del cosiddetto occidente collettivo a direzione Usa e la dinamica multipolare apre una nuova fase rivoluzionaria a livello globale. Una fase in cui si ripropone l’alternativa: putrefazione imperialista e guerra mondiale, o rivoluzione socialista nelle formazioni avanzate e di liberazione nazionale nelle aree dominate dall’imperialismo. Una prospettiva in cui le idee rivoluzionarie avranno nuove possibilità di essere accolte e fatte proprie da larghe masse, tra le classi oppresse e i popoli dominati dall’imperialismo, e le ipotesi rivoluzionarie la possibilità di svilupparsi, strutturarsi e verificarsi nello scontro generalizzato che la condizione di guerra alimenta sulla spinta dell’acutizzarsi di tutte le contraddizioni (oltre che interimperialiste anche di classe e tra imperialismo e popoli oppressi). Uno scontro generalizzato in cui le masse saranno spinte a prendere posizione: o a fianco del proprio imperialismo nella forma della mobilitazione reazionaria per la guerra, o contro il proprio imperialismo nella forma della lotta rivoluzionaria per il rovesciamento del sistema.

Da qui in avanti siamo di fronte ad una nuova fase rivoluzionaria in cui i comunisti dovranno imparare a fare propria e praticare la linea leninista di sviluppare in dialettica con la mobilitazione contro la guerra, e le sue conseguenze sulla vita dei lavoratori, dei proletari e delle masse popolari, la mobilitazione rivoluzionaria per la sconfitta dell’imperialismo e l’instaurazione del socialismo. Il tema della sconfitta dell’imperialismo in particolare per noi va declinato nella sconfitta del “nostro” imperialismo e precisamente nella sconfitta della Nato, degli Usa e della “nostra” borghesia imperialista oggi ben rappresentata dal guerrafondaio e fascista governo Meloni. “Una classe rivoluzionaria non può, durante una guerra reazionaria, non augurarsi la sconfitta del proprio governo (…) La trasformazione della guerra imperialista in guerra civile non può essere ‘fatta’ così come non possono essere ‘fatte’ le rivoluzioni: essa si sviluppa da numerosi fenomeni, aspetti, tratti, particolarità multiformi, risultanti della guerra imperialista. E questo sviluppo è impossibile senza una serie di insuccessi e di rovesci militari di quei governi che subiscono i colpi delle loro classi oppresse”. [39]


Note:

[1] Dall’intervista concessa da Angela Merkel alla rivista Die Zeit e pubblicata l’8 dicembre 2022

[2] A cui vanno aggiunti gli innumerevoli casi di golpe e operazioni sporche condotte in tutto il Tricontinente (Asia, Africa e America Latina), ma anche nelle formazioni avanzate come il piano Stay-behind e la strategia della tensione stragista in Italia nella seconda metà del secolo scorso.

[3] La Cina non solo non ha minimamente risentito della crisi cosiddetta dei sub-prime (nel 2007, quando le economie delle formazioni avanzate precipitavano nella recessione, il tasso di crescita del suo Pil sfiorava il 12%), ma da allora fino ai giorni nostri la crescita del Pil cinese ha mantenuto tassi mediamente più che doppi rispetto alla formazioni avanzate. Fonte: indexmundi.com

[4] Cfr. Wang Wen, La deoccidentalizzazione del mondo è irreversibile, lantidiplomatico.it, 4.1.23

[5] Vedi Glossario di questo numero, p. 88

[6] S. Lavrov, La scelta euroasiatica come base per rafforzare la sovranità, discorso tenuto alla Conferenza Interpartitica Internazionale Euroasiatica, mid.ru, 14.12.22

[7] Vedi manchette: In merito alle mire Usa sull’Eurasia.

[8] “Se manteniamo una presenza in una Germania che fa parte della Nato, non ci sarà un’ulteriore estensione della giurisdizione della Nato di un solo pollice ad est”. Vedi, E. Burba, L’allargamento della Nato a Est nelle carte del National Security Archive, panorama.it, 21.3.22

[9] Defense Planning Guidance for 1994-1999, documento interno all’amministrazione Usa redatto da Paul Wolfowitz e datato 18 febbraio 1992

[10] Discorso al Parlamento Europeo del 14 dicembre 2022.

[11] Vedi il caso della Polonia che spende attualmente il 2,4% del Pil per la difesa e programma di arrivare al 5%, che dispone di un esercito di 150 mila uomini (più 30 mila della difesa territoriale) e che punta entro il 2030 ad arrivare a 300 mila (per un confronto l’attuale esercito tedesco è di 170 mila). Nel 2022 ha ordinato agli Usa una fornitura di 250 carri armati Abrams e 32 caccia F35, e alla Corea del sud 180 carri armati, 200 obici, 48 aerei da attacco leggeri e 218 lancia razzi. Cfr. T. Oldani, La Polonia nuova superpotenza militare, italiaoggi.it, 12.12.22

[12] Macron, non è ancora l’ora del dialogo con la Russia, ansa.it, 17.2.23

[13] Vedi le dimissioni, il 16 gennaio 2023, del Ministro della difesa Christine Lambrecht contestualmente alla vicenda della fornitura di carri armati Leopard.

[14] G. Vendettuoli, In Germania tonfo della produzione industriale, agi.it, 7/2/2023

[15] Cfr. M. Del Corno, Europa in ordine sparso, ilfattoquotidiano.it, 26.1.23

[16] Dall’intervista concessa da Antony Blinken a Condoleezza Rice (Segretaria di Stato nel secondo mandato Bush) il 17 ottobre 2022, geopolitica.info

[17] Gli investimenti esteri, a partire dai settori ritenuti strategici, vengono rimpatriati o ricollocati in formazioni considerate alleate o amiche.

[18] In alternativa al sistema occidentale Swift (11 mila banche di 200 paesi), basato sul dollaro e da cui le banche russe sono state escluse, si sta sviluppando il sistema cinese Cips (1300 banche di 103 paesi), basato sul renmimbi.

[19] Cfr. S. Danesi, La finanza si è auto isolata nel green zoo occidentale, giornalenazionale.com, 24.10.22

[20] Credit Suisse ha subito nel 2022 deflussi per 123 miliardi di franchi svizzeri, vedi G. Licini, A Zurigo Credit Suisse scivola su deflusso fondi, ilsole24ore.com, 14/3/2023

[21] Cfr. A. Battaglia, Banche Centrali affamate di oro, we-wealth.com, 29.12.22

[22] 52,7 miliardi di dollari stanziati dall’amministrazione Usa e 43 miliardi di euro previsti dal piano della Ue.

[23] Le cinque uniche aziende che producono macchinari per i chip di ultima generazione sono tre statunitensi (Applied Matirials, Lam Research e Kla), una giapponese (Tokyio Electron) e una olandese (Asml).

[24] L. Generoso, La guerra dei chip, milanofinanza.it, 22.11.22

[25] Global Times, Il Giappone rischia di trasformarsi in Ucraina dell’Asia se segue la linea strategica degli Stati Uniti, lantidiplomatico.it, 22/1/23

[26] Cfr. Maxi esercitazione aerea e navale della Cina, avvenire.it, 26.12.22

[27] Il Dialogo quadrilaterale di sicurezza o Quad è un’alleanza strategica informale costituitasi nel 2017 tra Australia, Giappone, India e Usa e finalizzata al contenimento dell’espansione cinese

[28] Vedi su questo numero di Antitesi, Dalla seta ai cannoni, p. 53

[29] P. Escobar, Xi d’Arabia: l’alba del petroyuan e la guerra finanziaria globale, lantidiplomatico.it, 20.12.22

[30] Cfr. La Turchia si avvicina ad Assad, bloomberg.com, 6.1.23

[31] Secondo gli accordi in via di definizione si passerebbe dai 4,2 miliardi di dollari del 2021 ai 12 miliardi previsti per il 2023. Per un confronto basti considerare che l’India importa armi russe per 6,6 miliardi, la Cina per 5,1 miliardi, l’Egitto 3,3 miliardi. Cfr. L. Attanasio, Dilagano le armi turche e russe in Africa, trecani.it, 7.12.22

[32] Cfr. P. Manzo, La Russia alle “Olimpiadi dei cecchini”, tempi.it. 14.8.22

[33] G. Gaiani, La guerra rilancia l’industria della difesa, ma favorisce quella Usa, intervista a Cnbc Class Tv, analisidifesa.it, 23.2.23

[34] Lockheed Martin (produttrice dei lanciarazzi Himars), Raytheon Thchnologie, Boing, Northrop Grumman e General Dynamics. La prima azienda della Ue nella classifica globale è l’italiana Leonardo, di cui è maggiore azionista il Ministero dell’Economia, che nel 2021 ha realizzato vendite per 14 miliardi con un incremento del 18% sull’anno precedente. Cfr. C. Tassinari, Sempre più armi: Leonardo prima azienda “militare” europea, it.euronews.com, 5.12.22

[35] M. Del Corno, La guerra in Ucraina fa volare l’export di armi Usa, ilfattoquotidiano.it, 27.1.2023

[36] Come le statunitensi State Street Global Advisory, Vangard, Blackrock o Jp Morghan. Solo a titolo di esempio la prima delle quattro (il quarto gestore di patrimoni finanziari al mondo) detiene il 14,5% di Lockheed Martin, il 9,2 di Rytheon Thecnologies e il 9,5% di Nord Grumman. Cfr. E. Grande, Guerra Inc. Il conflitto in Ucraina, gli Stati Uniti e gli interessi delle corporation, questionegiustizia.it, 14.4.22

[37] Lenin, Prefazione a L’economia mondiale e l’imperialismo di Bucharin, Opere Complete, vol. 22, pp. 111-112, Editori Riuniti, Roma 1966

[38] Dal 2008 al 2022 la posizione netta degli investimenti internazionali Usa è passata da una passività di 2 mila miliardi di dollari a una di 16 mila miliardi. Cioè dopo la crisi del 2007 i soggetti economici residenti negli Usa hanno incrementato di altri 14 mila miliardi in loro disavanzo con l’estero. Fonte: Ufficio di Analisi Economica del Dipartimento del commercio degli Usa, bea.gov/data/int

[39] Lenin, La sconfitta del proprio governo nella guerra imperialista, 1915, Opere di Mao Tse Tung, vol. 21, p. 249 e ss., Editori Riuniti, Roma 1966.