Dalla seta ai cannoni
La Cina di Xi Jinping di fronte alla guerra imperialista
“Imperialismo e guerra” da Antitesi n.14 – pag.53
In un clima internazionale sempre più segnato dallo sviluppo delle contraddizioni interimperialiste che stanno sfociando in guerra aperta, come il caso del conflitto ucraino sta dimostrando, la Cina si sta attrezzando per affrontare la sfida con l’imperialismo Usa. Lo stesso che la identifica come il nemico strategico numero uno, da combattere sul piano economico, politico e militare, affinché non venga messo in discussione il proprio ruolo di comando nella gerarchia imperialista.
L’accelerazione del processo e dei piani di guerra da parte dell’imperialismo statunitense costringe il socialimperialismo cinese a rivedere i piani di “crescita armoniosa e pacifica”. Piani che vedevano nell’attuazione della Belt initiative road (Bri), la cosiddetta “via della seta”, la realizzazione di infrastrutture e reti di rapporti a livello planetario per gli scambi commerciali della “fabbrica mondo” cinese, con l’espansione delle proprie sfere di influenza economica e azione politica. Piani che oggi devono essere spostati, invece, sul terreno del contenimento e dello scontro inevitabile con il nemico esterno, l’imperialismo statunitense.
Questo nostro contributo vuole anche sottolineare una necessaria presa di posizione contro il revisionismo cinese, che sebbene usi fraseologia e riferimenti maoisti lo fa unicamente per stravolgerne il reale significato, al fine di giustificare la propria politica capitalista e imperialista. Vogliamo, una volta di più, affermare come sotto la maschera del Partito Comunista Cinese (Pcc) e dei suoi leader si nasconda la vera natura di Stato socialimperialista: socialista a parole imperialista nei fatti. A nostro avviso, chi nega questa realtà di fatto diventando “tifoso” dello Stato cinese (poiché è posizionato contro l’imperialismo dominante, anche in casa nostra, ovvero quello Usa e Nato) non favorisce il rilancio del processo di sviluppo, nel nostro paese, di un movimento di classe rivoluzionario e realmente antimperialista.
Il socialimperialismo cinese
“Se noi fossimo rovesciati e prendesse le redini la borghesia, questa, senza stare a mutarla, potrebbe anche continuare a servirsi della denominazione Repubblica popolare cinese. Ciò che conta è quale classe ha in mano il potere statale. Chi detiene il potere: questo è il problema fondamentale, che non ha nulla a che spartire con la denominazione”1.
Queste parole del compagno Mao ben sintetizzano quello che è avvenuto in Cina, con la presa del potere della borghesia all’interno dell’entità statale e con la piena restaurazione capitalistica nella formazione economico-sociale cinese.
Proprio per combattere la formazione di una nuova borghesia nello Stato socialista, come si stava delineando all’interno dei quadri del Pcc e delle istituzioni governative centrali e locali, raccogliendo la spinta che veniva dai giovani della classe operaia, delle scuole e delle università che criticavano i quadri dirigenti burocratici del Pcc2, Mao e la sinistra del Pcc davano corso alla Grande Rivoluzione Culturale Proletaria (Grcp), con la parola d’ordine “Fuoco al quartier generale”, lanciata durante l’undicesima sessione del comitato centrale del Pcc, nell’agosto 1966.
Dopo la morte del compagno Mao Tse Tung, il 9 settembre 1976, la componente revisionista, traditrice della rivoluzione, ha preso il potere, eliminando le componenti rivoluzionarie ancora presenti nel Partito ed esautorando l’influenza e il ruolo delle organizzazioni di massa degli operai, dei contadini e dell’esercito popolare che si erano mobilitati negli anni della Grcp. È iniziato così il predominio dei reazionari all’interno degli organi dirigenti della società cinese, dapprima con la nomina di Hua Kuo Feng a capo del governo e successivamente, il 7 ottobre 1976, a presidente del Pcc e alla presidenza della commissione per gli Affari militari, centralizzando nella sua figura funzioni di governo, partito ed esercito, con una possibilità di controllo politico e sociale che non si era mai verificata prima. In questo nuovo ruolo Hua Kuo Feng e la sua cricca hanno proceduto alla eliminazione delle componenti rivoluzionarie che contrastavano la linea revisionista e reazionaria, con l’arresto, il 21 ottobre 1976, di membri dirigenti del Pcc: Jiang Qing (vedova di Mao) Zhang Chunqiao, Yao Wenyuan, Wang Hongwen e alla liquidazione di tutti i quadri del Partito legati alla linea di Mao. Così si chiuse definitivamente l’esperienza della Grcp, nata proprio per contrastare il revisionismo nelle fila del Partito e la restaurazione di rapporti capitalistici nelle campagne e nelle fabbriche. Successivamente veniva riabilitata pienamente la figura di Deng Xiao Ping, che negli anni della Grcp era stato destituito da tutti i ruoli dirigenti nel partito e nell’amministrazione. Così, nel 1981, il reazionario Deng approdò alla guida del Pcc e sotto la sua direzione il processo di restaurazione capitalista subì un’accelerazione attraverso una serie di misure economiche e politiche3.
Le “riforme” economiche introdotte per re-instaurare rapporti di produzione capitalistici all’interno della società cinese attraversarono due fasi: le “riforme” della prima generazione dal 1978 al 1989 e quelle della seconda generazione, dal 1990 in poi.
Nella prima fase si procedette a implementare metodi capitalistici e a favorire il profitto nei vari campi economici, agricoli, industriali, sanitari ed educativi. Nel settore agricolo vennero abolite la proprietà collettiva, le comuni e le cooperative di produzione agricola e introdotti i contratti di responsabilità, con le terre assegnate a gruppi di famiglie che potevano vendere i beni eccedenti nel libero mercato. I contadini rimasti senza terra andavano ad ingrossare le file degli emigranti interni, mingong4, che cercano occupazione nelle aree urbane, creando così le condizioni ideali per lo sfruttamento capitalistico, una grande massa lavoratrice pauperizzata, ricattabile, pronta a vendere la propria forza-lavoro per un salario infimo nella nuova economia di mercato.
Nel settore industriale, venivano portate avanti tutta una serie di privatizzazioni e di liberalizzazioni che portarono a migliaia di licenziamenti, venne sancita la fine della piena occupazione e del lavoro stabile introducendo i contratti di lavoro a termine e incentivando il lavoro a cottimo. Sono stati reintrodotti criteri capitalistici nella gestione delle aziende, molte delle quali sono state privatizzate, e dunque la produzione finalizzata al profitto dei padroni, nelle vesti di proprietari o di burocrati di Stato. La classe operaia cinese ritornava, dunque, ad essere sottoposta allo sfruttamento del lavoro salariato.
In questo periodo veniva, inoltre, approntata, sotto la direzione del revisionista Deng Xiao Ping la politica delle “porte aperte”, acconsentendo cioè al capitale straniero la possibilità di investire e produrre merci in Cina attraverso le cosiddette Zone economiche speciali (Zes), situate nelle aree costiere della Cina e in alcune grandi città come Shanghai. Venivano favoriti i capitali esteri che investivano in impianti di produzione, macchinari e tecnologia, sfruttando la grande quantità di manodopera a basso costo che le privatizzazioni e liberalizzazioni della restaurazione capitalista nella società cinese avevano creato (ad esempio, nel 1983 la Banca Mondiale investe 220 milioni di dollari per lo sviluppo delle infrastrutture ferroviarie).
Nel contempo la direzione del Pcc invece proibiva investimenti di capitale estero in attività finanziarie o di speculazione, mirando al controllo autocentrato di questo settore, tramite la propria Banca centrale. Questo perché la classe burocratica capitalista, che si era affermata nella direzione del Pcc durante il periodo della restaurazione, mirava a mantenersi indipendente dal controllo imperialista straniero, diversamente da altri settori del capitalismo privato che propugnavano uno sviluppo “libero” dal controllo centrale, o che miravano alla integrazione, anche in posizione di subalternità, al sistema imperialista dominante. La borghesia burocratica, che rappresenta la classe dominante in Cina, diversamente da quanto accade negli Stati imperialisti occidentali, decide, tramite il Pcc e il governo, degli investimenti delle compagnie private. Inoltre, molti dei proprietari e dirigenti delle grandi compagnie a capitale privato sono membri del Pcc o del governo (nel 2002 un quinto degli industriali privati in Cina erano membri del Pcc). Quindi, la classe burocratica e la borghesia capitalistica in forma classica, la cosiddetta “borghesia rossa”, sono così, intrecciate l’una all’altra, con la prima in posizione dirigente.
Tuttavia, le “riforme” economiche della prima generazione implementate dal Pcc nella società cinese, atte a dare principalmente sviluppo alla “libera iniziativa” economica, avevano contribuito a rafforzare la componente dell’allora nascente borghesia capitalistica privata. Questa auspicava una completa liberalizzazione economica e voleva eliminare il ruolo dirigista e centralizzato dello Stato nella sfera economica, mirando a costruire le condizioni politiche per rovesciarne il comando e accelerare il movimento verso una integrazione con le istituzioni imperialiste. Questo scontro con la classe burocratica al potere vide il suo apice con i fatti di Tienanmen nel giugno 1989. In quel frangente settori della classe della nuova borghesia capitalista, strumentalizzando le istanze dei lavoratori, delle lavoratrici e delle masse popolari e studentesche (che protestavano contro l’aggravamento delle proprie condizioni di vita sotto il nuovo regime di sfruttamento instaurato nella società cinese) puntarono al rovesciamento del regime, all’integrazione con l’imperialismo occidentale e all’adozione delle istituzioni democratico borghesi.
Dopo Tienanmen, con la feroce repressione che ne conseguì, venne rinsaldato il controllo del Pcc sull’economia (controllo che si era indebolito in seguito alla prima generazione delle “riforme”) e la dirigenza del Pcc accentrò la gestione della allocazione dei fondi alle imprese. Successivamente, nel 1992, le Zes furono introdotte in molte altre città e aree della Cina e furono avviati i Profit partnership agreements, accordi stipulati con le multinazionali che operavano nelle Zes mediante i quali parte dei profitti delle compagnie erano incamerati dallo Stato. Inoltre, vennero create joint-ventures tra le multinazionali presenti in Cina e il governo, in maniera che quest’ultimo mantenesse il controllo e parte dei profitti delle attività produttive che si svolgevano nel proprio territorio. Nello stesso periodo, gli investimenti esteri in Cina da poco meno di mille miliardi di dollari nel 1992 passano a 50 mila miliardi di dollari nel 1994 e complessivamente dal 1979 al 1996 si sono impiantate 140 mila imprese a capitale estero, principalmente degli Usa, Hong Kong e del Giappone5.
Il colossale sviluppo economico, susseguitosi negli anni, ha permesso allo Stato di incassare enormi profitti e accumulare quantità incredibili di riserve valutarie, dando alla borghesia burocratica dominante anche una proiezione imperialista, e caratterizzando la formazione economico-sociale cinese come socialimperialista. Le attività bancarie cinesi vengono stimate in 40 mila miliardi di dollari, mentre circa 2200 miliardi di dollari (equivalente al Pil dell’Italia!) sono il volume dei prestiti delle banche cinesi al di fuori della Cina. Inoltre, lo Stato cinese è a oggi il più grande creditore al mondo superando, i crediti del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale6.
Analogamente allo sviluppo economico e la completa restaurazione del sistema capitalista (seppure formalmente sotto la guida di un “partito comunista” e di una “economia pianificata di mercato”) la borghesia burocratica socialimperialista cinese ha costruito negli anni un piano sovrastrutturale per legittimare e rinsaldare, in termini corporativi, la collaborazione di classe e la propria egemonia nei confronti delle masse popolari. Sull’aspetto più propriamente politico è stato inserito il concetto delle “tre rappresentanze” elaborato dall’allora segretario generale del Pcc Jiang Zemin, inserito nello statuto del Partito nel 2002 e nella costituzione nel 2004. Secondo questa elaborazione revisionista, il Partito Comunista è avanguardia della classe operaia, del popolo e delle diverse nazionalità che compongono il popolo della Cina. Viene così abbandonato il principio della lotta di classe, del Partito come avanguardia della classe operaia, per affermare che all’interno del Partito devono essere espresse sì le istanze dei lavoratori e dei contadini, ma anche quelle degli imprenditori, dei dirigenti d’azienda, nel nome della collaborazione di classe per la costruzione di una “società armoniosa socialista”.
Quest’ultimo concetto riprende temi espressi nella dottrina confuciana basata su ordine, obbedienza ai superiori, devozione allo Stato, salvaguardia della famiglia. Secondo questa dottrina, al fine del mantenimento dell’ordine generale, è importante la conservazione del ruolo che ognuno occupa nella gerarchia sociale: il subordinato è vincolato al proprio superiore, se ciascuno sta armoniosamente al proprio posto anche la società e il paese saranno in armonia. Nella traduzione confezionata dalla classe dominante cinese, il popolo deve devozione e obbedienza allo Stato ed al Partito, che a loro volta hanno il compito di garantire la stabilità sociale e lo sviluppo “armonioso” della società cinese.
Cina verso l’economia di guerra
L’attuale sviluppo delle contraddizioni interimperialiste, che conduce sempre più al confronto militare diretto tra le potenze imperialiste, sta portando lo Stato cinese a uno scontro frontale con l’imperialismo Usa, che individua nella Cina il suo nemico strategico. Questo ha come conseguenza una ridefinizione dei piani del socialimperialismo cinese, che si sta quindi attrezzando per affrontare la sfida in un clima internazionale sempre più segnato dai venti di guerra.
Sul piano economico è in atto, a livello globale, da parte delle diverse potenze imperialiste, una riorganizzazione delle catene di approvvigionamento delle materie prime (dalle terre rare ai semiconduttori) per poter mantenere un’indipendenza e supremazia rispetto agli avversari. Questo riguarda anche il socialimperialismo cinese che in merito alla fornitura di materie prime sta siglando accordi commerciali con vari paesi (come Iran e Arabia Saudita) e stringendo legami sempre più forti con la Russia. Per quanto riguarda la sfida dei semiconduttori, la Cina è ancora dipendente dalla tecnologia straniera, non solo per i processi finiti, ma anche per forniture software essenziali nella fase della progettazione, in quella della produzione e assemblaggio e nella fase di test qualità e imballaggio7. Inoltre deve fare fronte alla guerra commerciale attuata dagli Usa che in questo settore, con l’Inflaction reduction act dell’agosto 2022, hanno messo in pratica ulteriori misure restrittive sull’export di semiconduttori (e delle tecnologie inerenti) verso la Cina e sanzioni verso quelle aziende che forniscono tecnologia statunitense alle compagnie cinesi (come Yangtze Memory e Shangai Micro) produttrici di chip. In questo stesso comparto tecnologico, tramite il progetto Made in China 2025, il governo cinese ha elaborato un piano di sviluppo delle proprie aziende produttrici di semiconduttori con l’obiettivo specifico di produrne in patria per una quota pari al 70% del proprio fabbisogno entro il 2025. Piano che complessivamente punta a un’espansione del controllo governativo delle industrie chiave, all’incentivazione della ricerca e sviluppo e alla modernizzazione della produzione, erogando sussidi e sgravi fiscali a chi investe in tecnologia e avvantaggiando fortemente le imprese nazionali rispetto a quelle estere.
Altro aspetto di grande rilievo è la politica finanziaria di de-dollarizzazione attuata negli ultimi anni dal governo cinese, per affrancarsi dal rivale statunitense e poterlo indebolire economicamente. Questa si è concretizzata nel 2015 con l’istituzione del sistema Cross-border interbnaking payment system (Cips) per effettuare transazioni internazionali di denaro nella moneta nazionale e creare un sistema alternativo a quello dominante Swift (da cui è stata esclusa la Russia in virtù delle sanzioni comminate dai paesi Usa, Ue e Nato dopo l’attacco all’Ucraina del febbraio 2022). Il sistema di regolazione e transazione Cips è una realtà finanziaria che coinvolge 868 banche, cinesi, russe, africane ma anche giapponesi ed europee8. Seguendo questo processo di de-dollarizzazione della propria economia, lo Stato cinese negli ultimi anni ha siglato numerosi accordi di scambi commerciali, soprattutto di petrolio, pagati in yuan con Russia, Iran, Venezuela e nel dicembre 2022 con l’Arabia Saudita. Ancora, la Banca centrale cinese ha siglato accordi per favorire lo scambio commerciale in yuan con la Banca centrale del Brasile e, sempre per rafforzare la propria valuta, ha acquistato massicce quantità di oro (si stima che ora ne detenga nelle proprie casse 20 mila tonnellate, il 2,5% delle riserve mondiali).
La linea di sganciamento dalle istituzioni finanziarie dell’imperialismo a guida Usa è percorsa anche con la promozione di nuove istituzioni finanziarie, a guida cinese. Come l’Asian Investment Infrastructure Bank, nata nel 2015 (e avente sede a Pechino) in alternativa alla Banca Mondiale e alle altre istituzioni bancarie di sviluppo, con l’obiettivo di investimento di capitali per la costruzione di infrastrutture in Asia e nel progetto della Bri. Oppure, come la New Development Bank, nata di concerto con i paesi Brics, con il fine di erogazione di prestiti, partecipazione a investimenti e mettere a disposizione degli Stati membri strumenti finanziari alternativi, diventando così competitrice diretta delle politiche del Fondo Monetario Internazionale (Fmi).
Sul terreno militare, il governo cinese sta attuando piani di rafforzamento per prepararsi al confronto con i rivali imperialisti, e principalmente rispetto agli Usa, con l’aumento delle spese militari del 7,5% nel 2022, arrivando a circa 300 miliardi di dollari (ancora ben lontani dagli 800 degli Usa)9.
In questi ultimi anni il governo cinese ha dato impulso a riorganizzazioni delle forze armate con l’obiettivo di avere un esercito meccanizzato entro il 2025, pienamente informatizzato entro il 2035 e in grado di competere a livello mondiale entro il 2050. La catena di comando è stata modificata, per avere un maggior controllo e una più veloce capacità di risposta in seno alla Commissione militare centrale, con la creazione di uno stato maggiore supremo presieduto da Xi Jinping. Questa riorganizzazione dell’esercito ha spostato l’obiettivo dalla preparazione alla guerra a quello del combattimento della stessa e ha comportato: un investimento complessivo di 200 miliardi di dollari; il licenziamento di 300 mila unità; la creazione di meccanismi di mobilitazione nazionale; e maggiore integrazione tra industria civile e militare10.
L’aumento delle spese militari riguarda tutti i settori, da quello aerospaziale a quello nucleare, da quello cibernetico a quello delle tecnologie digitali, fino all’aumento degli armamenti e dei mezzi militari. Con lo scopo di controllare e prepararsi ad affrontare lo scontro militare nell’area cruciale delle rotte dell’Indo-pacifico, del Mar Cinese meridionale e orientale, dalle minacce delle navi militari Usa a “difesa” Taiwan, la marina militare cinese tra il 2017 e il 2019 ha commissionato la costruzione di più navi da guerra di India, Australia, Giappone, Francia, Inghilterra messi assieme, diventando la marina militare con più navi da guerra. Inoltre, ad oggi, è in progetto la costruzione di 6 portaerei entro il 2035.
La linea strategica del socialimperialismo della Cina è emersa chiaramente durante i lavori del XX° congresso del Pcc tenutosi nell’ottobre scorso, che ha visto l’incoronazione di Xi Jinping come presidente della Repubblica Popolare Cinese (per il terzo mandato), Segretario Generale del Pcc e Presidente della Commissione centrale militare. Un accentramento dei poteri, nelle mani del Segretario generale, che ha l’obiettivo di prepararsi ad affrontare lo scontro all’esterno con i rivali imperialisti, principalmente gli Usa, e mantenere una stabilizzazione politica all’interno. Nel discorso programmatico, venivano evidenziate quali siano le priorità per il governo, con la risoluzione a investire maggiori risorse scientifiche, economiche ed umane nel settore militare, con le imprese private che devono allinearsi alle priorità e alle strategie dello Stato; e con l’indirizzo economico orientato allo sviluppo del mercato interno e a una sempre maggiore autosufficienza con le riduzione delle importazioni. Quest’ultimo aspetto risponde alle necessità della fase di rottura delle catene di approvvigionamento, a cui lo sviluppo della tendenza allo scontro tra imperialismi e le conseguenti economie di guerra stanno conducendo.
Inoltre è stato ribadito il concetto di “una sola Cina”, del perseguimento quindi dell’obiettivo della riunificazione con Taiwan contro qualsiasi tentativo di dissuasione da parte di altri paesi (vedi Usa). La questione di Taiwan è fondamentale per la politica cinese, oltre che per gli aspetti nazionalistici, anche per il fatto che l’isola da sola produce il 54% del mercato globale dei semiconduttori, essenziali per le nuove tecnologie11.
Il terzo insediamento di Xi Jinping segna la continuità della linea strategica del socialimperialismo cinese attuata negli ultimi anni, dando seguito al processo di centralizzazione del potere e del ruolo dirigente in campo economico e politico della classe burocratica dominante, ridimensionando, laddove necessario, il patrimonio economico e l’autonomia di singoli capitalisti qualora non si allineino con la direzione politica impressa. In tal senso, esemplare è il caso di Bao Fan, fondatore della banca di investimenti China Renassaince, specializzata nel settore high-tech e che negli anni aveva fornito credito ad aziende come Alibaba, Tencent, Baidu (ora colossi finanziari) destituito di ogni suo ruolo all’interno della istituzione bancaria e sparito completamente dalla vita pubblica.
La Cina all’esterno
La situazione di aggravamento del processo di guerra imperialista sta portando anche a una ridefinizione delle relazioni del governo cinese sul piano internazionale, andando a ridimensionare sempre più i precedenti rapporti con le economie Usa ed Ue e procedendo a una revisione del piano della Bri (soprattutto in quei paesi i cui governi seguono le politiche di alleanza agli Usa ed alla Nato).
Innanzittutto, continua il rafforzamento del legame tra Russia e Cina, sia in termini di interscambio commerciale (intensificatosi già all’indomani delle sanzioni comminate alla Russia nel 2014 dopo l’annessione della Crimea) che in termini di cooperazione ed esercitazioni militari congiunte. In proposito a fine febbraio 2022 le marine militari di Russia, Sudafrica e Cina hanno attuato un’esercitazione nel mare al largo di Durban. Mentre, sul piano delle relazioni economiche internazionali, si sta allargando il bacino dei rapporti e degli scambi commerciali dei paesi Brics (Brasile, Russia,India, Cina e Sud Africa) con manifestazione di interesse e richieste di adesione di paesi come l’Algeria, l’Argentina, l’Iran, Arabia Saudita, Turchia ed Egitto.
Una menzione particolare merita il ruolo del socialimperialismo cinese nel continente africano. La storia delle relazioni tra l’Africa e la Cina affonda le radici fin da quando la Cina socialista sotto la guida del presidente Mao rappresentava un esempio di emancipazione dal giogo imperialista e un sostegno nella lotta che molti paesi africani stavano attuando contro il colonialismo, principalmente inglese e francese. Successivamente, la borghesia burocratica che ha preso il potere in Cina ha sfruttato questi legami per dare sviluppo agli scambi commerciali e per sfruttare le risorse del continente africano. Dal 2009 la Cina rappresenta il primo partner commerciale dei paesi africani, superando gli Usa ed è destinata, in tal senso, a superare anche l’Ue nel suo complesso. Banche di sviluppo a capitale cinese hanno concesso ai paesi del continente africano il doppio dei prestiti rispetto a Usa, Germania, Giappone e Francia messi assieme, con clausole di garanzia molto significative, come la cessione del controllo dei porti (vedi il caso del porto di Mombasa in Kenia). Inoltre, vi sono 2 milioni di lavoratori cinesi, molti di loro laureati, che operano nelle società cinesi presenti nel continente africano12. Nel 2021 la Cina ha costruito in Africa più di 10 mila km di ferrovie e autostrade, e 100 porti. Inoltre il 20% di tutti i finanziamenti nelle infrastrutture sono di capitali cinesi e aziende cinesi sono impegnate nella posa di cavi sottomarini per i collegamenti digitali. Nel perseguimento dell’obiettivo di rafforzare le linee di approvvigionamento di materie prime in maniera indipendente dalla catena imperialista a guida Usa, l’Africa rappresenta un terreno importante, e qui si sono intensificati gli scambi commerciali, come ad esempio con il Congo da dove la Cina importa cobalto. Il paese africano detiene il 54% delle riserve globali di questo componente necessario per la costruzione di batterie al litio per auto elettriche.
In campo militare, nel 2017 la Repubblica Popolare Cinese ha inaugurato la sua prima base navale militare all’estero, in prossimità del porto di Gibuti13 che può ospitare fino a 10000 soldati, situata in una posizione strategica importante per le rotte commerciali poiché punto di congiunzione tra Mar Mediterraneo, Mar Rosso e Oceano Indiano.
Cina all’interno
In questo progetto di ristrutturazione economica e militare in vista dell’acuirsi dello scontro con l’imperialismo a guida Usa, la classe dominante in Cina deve fare i conti con il ruolo dei lavoratori, delle lavoratrici e delle masse popolari cinesi, per non perderne il controllo e l’egemonia.
Il malcontento delle masse popolari si è espresso in maniera generalizzata e diffusa negli ultimi mesi dello scorso anno, dopo tre anni di durissime misure anti-Covid19 e lockdown gestiti militarmente. L’onda delle manifestazioni di protesta è partita in dicembre contro il lockdown a Shanghai, dove si era impedito l’arrivo di cibo a centinaia di persone in isolamento sanitario. In seguito alla morte nel novembre di una decina di persone in un incendio a Urumqi, capoluogo dello Xinjian, dove il confinamento imposto aveva rallentato e di fatto impedito le operazioni di soccorso, si è estesa in 17 altre città, tra cui Pechino, coinvolgendo migliaia di persone e obbligando la dirigenza cinese a interrompere la severa politica “covid zero” attuata fino a quel momento. L’importanza di queste manifestazioni è data dal fatto che per la prima volta le masse popolari sono scese in piazza a protestare in maniera estesa contro il potere centrale e non contro singoli funzionari locali di partito o su singole vertenze di fabbrica o di azienda. A queste proteste hanno partecipato molti studenti delle università, lavoratori e lavoratrici; i manifestanti intonavano l’internazionale ed esponevano foto con il ritratto del compagno Mao14. In precedenza, nel novembre 2022 erano stati i lavoratori della Foxconn, multinazionale taiwanese che assembla iPhone per la Apple, a scendere in strada a migliaia per protestare contro la politica anticovid attuata negli stabilimenti, ma anche contro le condizioni e i ritmi di lavoro imposti dalla multinazionale di Taiwan.
Questi esempi ci danno l’indicazione di come il Pcc e il governo cinese, nei momenti di gestione dell’ordine pubblico, attuino la tattica di evitare lo scontro diretto con i lavoratori e le lavoratrici per non perdere il controllo e l’egemonia sulle masse popolari. Negli episodi di lotte operaie in fabbrica, nei servizi, nelle pulizie, nei trasporti, nella logistica, che si sono succeduti negli ultimi anni in Cina, solo in pochi casi vi è stato l’intervento repressivo diretto della polizia per sgomberare i picchetti o le manifestazioni, e in ancor meno casi vi è stato l’arresto di lavoratori15.
Questo atteggiamento della classe dirigente del Pcc, espressione della classe burocratica capitalista dominante, illustra come questa conosca bene quali siano i possibili sviluppi delle contraddizioni esistenti nello Stato socialimperialista. Utilizzando il pa-trimonio del maoismo in senso reazionario, tratta le contraddizioni di classe in modo che non si sviluppino in senso a loro antagonista. Cioè per far sì che nella contraddizione tra forze produttive e rapporti sociali di produzione il proletariato non intraprenda una strada rivoluzionaria di abbattimento dello stato di cose esistenti.
Ad ogni modo, questi episodi di mobilitazione popolare, per quanto siano limitati e frammentati rispetto alla vastità del territorio cinese, sono manifestazioni di come il maoismo, nonostante decenni di falsificazione e abiura della teoria marxista-leninista-maoista da parte della borghesia burocratica al potere in Cina, sia ancora vivo in settori della classe operaia e delle masse popolari in Cina. È stato proprio il maoismo ad analizzare, denunciare e contrastare la restaurazione dei rapporti di produzione capitalistici nelle società socialiste, con la lotta acerrima contro il revisionismo moderno di Kruscev, salito al potere in Unione Sovietica dopo la morte del compagno Stalin. Precisando che la lotta di classe tra la tendenza borghese, che mira alla reintroduzione di rapporti capitalistici, e la tendenza proletaria, che vuole avanzare nella edificazione del socialismo, continua anche nella società socialista. Ed è stato grazie al maoismo che quelle tendenze di restaurazione capitalista in Cina hanno potuto inizialmente essere combattute con l’esempio della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria, dimostrando come la classe operaia e le masse popolari possono rivoltarsi contro la deviazione revisionista della direzione del Partito.
E dal maoismo dobbiamo ripartire per sviluppare un visione critica dell’attuale socialimperialismo cinese, con la consapevolezza che il nostro nemico principale è l’imperialismo di “casa nostra”, quello italiano, Usa e occidentale, che oggi è anche il maggiore responsabile dell’aggravarsi della tendenza alla guerra.
1 Mao Tse Tung, Discorso sulla Grande Rivoluzione Culturale a Shanghai, 12.2.1967, Opere complete, vol. 23, p. 165, Ediz. Rapporti Sociali, Milano, 1994
2 È con un tazebao affisso all’università di Pechino il 25 maggio 1966 che un gruppo di insegnanti e studenti denuncia e attacca la linea revisionista dei vertici dell’istituto e dell’allora sindaco di Pechino, nonchè dirigente del Pcc, Peng Cheng.
3 Vedi Antitesi n. 2, pp 24-25
4 Sono i cinesi senza documenti. In Cina i contadini necessitano di un permesso amministrativo per stabilirsi in una città o paese differente da quello di origine. Gran parte dei mingong lavorano nelle industrie a salari bassissimi ed a condizioni di lavoro pesanti, in attesa di poter tornare al proprio villaggio. Vedi Antitesi n. 2 p. 25
5 Per questo paragrafo sulle “riforme” Cfr. Il documento del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’India (maoista), China – a new Social-Imperialist power! It is integral to the World Capitalist-Imperialist system!, bannedthought.net
6 A. Galiani, Perché Hong Kong è un hub finanziario decisivo per la Cina, 28/05/2020, agi.it
7 M. Duchatel, Il punto debole della Cina nella corsa ai semiconduttori, aspenionline.it, 21.4.21
8 M. Sgroi, La sfida cinese agli Usa passa anche attraverso il sistema dei pagamenti, ilsole24ore.com, 24.5.2019
9 A. Massarolo, Sempre più soldi per le spese militari: ecco quali sono i paesi che investono di più, ilbolive.unipd.it, 12/03/2022
10 V. Balducci, L’ascesa cinese e la strategia americana di contenimento, tesi.luiss.it, 2019
11 N. Di Luccio, Il discorso di Xi Jinping al XX congresso del Pcc, liberopensiero.eu, 18.10.22
12 T. Oldani, Il global gateway, sfida Ue alla Cina in Africa, è fermo al palo. Intanto migliaia di neolaureati cinesi emigrano nei paesi africani, italiaoggi.it, 11.1.23
13 Peraltro nel piccolo territorio africano di Gibuti sono presenti una base militare Usa, una della Francia, una del Giappone e, dal 2013, una dell’Italia.
14 S. Pieranni, Se Mao scende in piazza contro il Partito Comunista, chinafiles.com, 2.12.22
15 Nel 2019 la polizia è intervenuta in 173 casi di lotte particolari (12,5% del totale) e vi sono stati arresti nell’8% dei casi. Vedi Uno sguardo alle lotte operaie in Cina nel 2019, infoaut.org, 4.3/20