Quale antifascismo?
Rompere con la sinistra borghese per contrastare la reazione
“Controrivoluzione ed egemonia di classe” da Antitesi n.14 – pag.66
Lo scorso settembre in Italia, con l’ascesa al governo di Giorgia Meloni, è salita al potere quella destra che è erede diretto del Movimento Sociale Italiano, il partito neofascista che rivendicava apertamente la continuità con la Repubblica Sociale e il regime mussoliniano.
Una lettura superficiale e parziale della questione potrebbe portare a unirsi alla sinistra borghese che, per presentarsi come “nume tutelare della democrazia (borghese)” strilla ai fascisti. Col rischio di trovarsi risucchiati nello stesso carrozzone – anche elettorale – di chi urla al fascismo in maniera interessata.
Secondo noi è invece importante inquadrare la funzione dell’attuale governo nel contesto dello scenario odierno. Uno scenario caratterizzato principalmente dalla crisi economica del sistema capitalista e dal suo sbocco nella guerra interimperialista, che effettivamente il blocco della Nato sta perseguendo, in particolare contro la Russia e la Cina.
La crisi attuale è di sovrapproduzione di capitali, nel senso che la massa di capitali accumulatasi non riesce più a trovare valorizzazione nella produzione industriale, cioè nella cosiddetta “economia reale”. La crescita a dismisura della sfera finanziaria, che va a fondersi e a prevalere rispetto al capitale industriale, costituisce un ambito di valorizzazione capitalistica via via sempre più instabile e fragile – come dimostrano i periodici fallimenti bancari e crolli borsistici – in mancanza di un rilancio sostanziale dell’accumulazione sul piano dell’economia reale. Ciò riguarda soprattutto le vecchie formazioni imperialiste (Usa e aggregato Ue) e, in tal senso, si spiega il loro premere l’acceleratore sulle dinamiche di guerra contro le nuove formazioni imperialiste, in particolare verso Russia e Cina, poiché rivendicano piena autonomia politico-strategica sul piano globale. La crisi del capitalismo assume, infatti, una dimensione pienamente globale, dato l’oggettivo strutturarsi dei rapporti economici in tal senso, e diventa lotta tra gruppi monopolistici, o meglio tra le loro sovrastrutture politiche e militari (gli Stati) per la ripartizione dei mercati. Tale ripartizione, in una prima fase, si sviluppa con la contraddizione tra imperialismo e popoli oppressi, con la tendenza delle potenze imperialiste ad approfondire il loro dominio coloniale e semicoloniale su intere aree del pianeta, per stroncare ipotesi di autodeterminazione nazionale e ridurre lo spazio di influenza dei concorrenti. Successivamente, tale contraddizione si sviluppa ad un livello più aggravato, rispetto alla determinazione della tendenza alla guerra imperialista, perché si delinea lo scontro diretto tra potenze. La ripartizione dei mercati assume la dimensione concreta della contesa su spazi strategici, sui mercati della materie prime, su quote di forza lavoro, si svolge tramite guerre valutarie e finanziarie, politiche protezionistiche, sanzioni, embarghi, accerchiamenti politico militari e progetti di regime change.
Seguendo la direttrice della lotta per la ripartizione dei mercati, le borghesie imperialiste conducono i popoli del globo ad una nuova guerra mondiale. Tale guerra dovrebbe sancire la prevalenza delle nuove o delle vecchie potenze nel sistema imperialista internazionale e avrebbe come risultato la distruzione generale di capitali. In tal modo sarebbe possibile una ripresa economica attraverso un nuovo ciclo espansivo: il “boom economico” seguito alla seconda guerra mondiale rappresenta un esempio emblematico.
La crisi e lo sviluppo della tendenza alla guerra imperialista, ovviamente, hanno anche delle ricadute sul fronte interno, nei rapporti economici, sociali, politici e culturali dei singoli paesi. La condizione di crisi comporta attacchi alle condizioni di vita delle masse popolari da parte delle classi dominanti e la guerra imperialista, con tutte le sue ricadute economiche e sociali (pensiamo ad esempio al fenomeno inflattivo), tende ad peggiorarle ulteriormente. Crisi economica e guerra imperialista comportano una crisi di egemonia da parte delle classi dominanti, per cui vengono messe in discussione le tradizionali forme del loro potere politico. Ciò può sfociare nella lotta di classe aperta, come è avvenuto in Francia per la riforma delle pensioni voluta da Macron, ma anche in fenomeni di destabilizzazione dell’ordinario quadro politico borghese: pensiamo ad esempio all’ascesa di Trump negli Stati Uniti.
Il piano economico viene inoltre ridefinito sulla base della guerra imperialista. Non solo perché le normali relazioni internazionali vengono investite dallo scontro bellico con inevitabili ricadute interne (pensiamo a quello che hanno comportato le sanzioni alla Russia per l’economia europea), ma anche perché al centro della produzione viene messo il settore militare. Quest’ultimo non è solo funzionale al processo di guerra, ma è anche il volano economico che punta ad agire in controtendenza rispetto alla crisi, con i grandi investimenti pubblici nell’industria bellica, un settore tra l’altro ad alta composizione organica di capitale. Si sviluppa così il cosiddetto keynesismo militare1 che riesce a porsi al centro delle relazioni industriali all’interno di un sistema definibile come “capitalismo di guerra”.
La carta giocata dalla classe dominante italiana
Cosa centra in tutto questo il governo Meloni? Perché la borghesia imperialista italiana è ricorsa ad un governo identitario di destra dopo anni di maggioranze “tecniche”, di “unità nazionale” o comunque di variegato colore politico?
Per quanto detto finora, è chiaro che la “pace imperialista” non è più sufficiente per le esigenze di valorizzazione del capitale. Così come non sono più sufficienti le “semplici” guerre contro singoli paesi, come fu per l’Iraq, l’Afghanistan e la Libia.
La tendenza è quella dell’inferno di un terzo conflitto mondiale e la frazione dominante della borghesia imperialista italiana non vuole e non può farsi trovare impreparata davanti a tutto ciò.
Fratelli d’Italia è il partito più organico all’industria militare, se pensiamo che uno dei suoi fondatori, l’attuale ministro della difesa Crosetto, è stato presidente della Federazione Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza, cioè l’ala militare di Confindustria, vista la sua carriera di dirigente di aziende del settore bellico, tra cui Leonardo e Orizzonti Sistemi Navali, la joint venture per la costruzione di navi militari tra Fincantieri e la stessa Leonardo, entrambi monopoli a prevalente capitale pubblico.
Crosetto è il tipico esempio della tendenza alla compenetrazione tra ambito politico ed economico determinatasi col keynesismo militare, ma questa dimensione non è tipica solo dei fascisti come lui. Il presidente della fondazione Leonardo è Luciano Violante, storico dirigente Pci-Pds-Ds, ora Pd, peraltro padre del revisionismo storico, in quanto promotore della riabilitazione dei combattenti della Repubblica Sociale.
In questa fase, però, Fratelli d’Italia offre più garanzie per la borghesia imperialista italiana rispetto alla guerra. In particolare una giustificazione “progressista”, com’era quella fornita dalla “sinistra” per le guerre in Jugoslavia, Afghanistan, Iraq etc. (“esportazione di democrazia”, “missioni di pace”) non riesce ad essere molto efficace in questa fase, non basta più. Specie nella misura in cui la guerra inizia e inizierà a pesare in termini via via più pesanti anche sullo stesso fronte interno, ad esempio in termini di condizioni materiali (bollette etc.), costi umani, rapporti sociali e politici… Fratelli d’Italia giustifica, invece, l’appoggio al regime di Kiev con toni più schiettamente nazionalistici, praticamente di cameratismo con i golpisti ucraini, di cui condivide apertamente le concezioni scioviniste ed anticomuniste. Inoltre fa propria apertamente una retorica suprematista del mondo “occidentale” sul resto dei popoli del pianeta, da aperto “scontro di civiltà”, ereditata chiaramente dalla propria visione fascista del mondo. Caratteristiche queste importanti per un governo che deve assumersi e gestire un contesto di guerra di una certa portata. Del resto, similare è la cultura che si sta affermando in tutta l’Europa orientale, prossima ai confini con la Russia (Ucraina, Polonia, Paesi Baltici…), ove, in nome della contrapposizione a Mosca, viene pienamente riabilitato il nazionalismo fascista.
Quindi, il governo Meloni è ideologicamente forte, con un discreto sostegno tra le masse popolari – a differenza per esempio del Pd – coltivato in anni di campagne politiche in nome della “guerra tra poveri”, proletari italiani contro proletari immigrati, che oggi tornano utili per gestire un ulteriore rafforzamento dell’egemonia di guerra.
Si tratta di un governo per il quale il consenso di massa viene perseguito ad esempio attraverso operazioni di facciata, come la riduzione delle tasse sul lavoro (cuneo fiscale), secondo la prassi del neocorporativismo2 con cui si punta all’egemonia e al controllo della classe operaia.
Si tratta di un governo che, dietro al velo della propaganda patriottica, dietro ai ministeri del made in Italy o “delle donne e dei bambini”, è soprattutto un alleato stretto degli Stati Uniti, della Nato e dell’Unione Europea. Un governo che ben rappresenta l’oligarchia finanziaria imperialista, i cui interessi più profondi sono oggi in gioco, un pericoloso gioco al massacro che passa necessariamente per la guerra. E occorre appunto una sovrastruttura capace di assumersi questo compito. È in questa chiave di lettura che un governo come quello Meloni rappresenta la carta giocata dalla borghesia imperialista nostrana, che partecipa al processo di guerra e cerca di ritagliarsi un proprio spazio strategico e d’interesse.
È chiaro che non tutto il neofascismo ha una collocazione atlantista come Meloni e i suoi. Forza Nuova, i giri stretti attorno ad Alemanno, altri gruppi fascisti e rossobruni3 sbandierano una contrarietà alla guerra a trazione statunitense. Ma, in ultima analisi, è solo l’altra faccia – farsesca – della guerra imperialista: essi rivendicano infatti l’autonomia, anche e soprattutto militare, dell’Italia o dell’Europa, a scapito della subordinazione nei confronti degli Stati Uniti. In questo caso sotto il velo pacifista o filorusso si cela l’auspicio di un mero riposizionamento dell’imperialismo italiano.
La borghesia non torna indietro dal fascismo
Il fascismo storico non a caso è stato l’interprete più stretto, in senso ideologico e politico, della guerra imperialista e oggi continua a suo modo ad esserlo.
Il movimento comunista, a seguito della sconfitta del “fascismo storico”, ci insegna proprio che esso rimane comunque uno strumento irrinunciabile sviluppato dalla borghesia imperialista per le sue guerre, per la controrivoluzione, per il dominio sulle masse popolari, per salvare il capitalismo in putrefazione. Insomma “la borghesia non torna indietro dal fascismo”, per dirla con un vecchio adagio ancora attuale.
E non solo perché dopo il ‘45, mentre migliaia di partigiani venivano gettati in galera, i fascisti venivano amnistiati e riprendevano i propri posti negli apparati statali, tra magistratura, prefetture, questure, esercito etc.
Pensiamo anche solo al modo in cui non torna indietro l’aspetto della sovrastruttura che cristallizza i rapporti di forza tra le classi: la legge e la sua applicazione. Il Codice Rocco-Mussolini è transitato direttamente dal regime fascista a quello “democratico”, con tutte le sue figure di reato utilizzate durante il ventennio per perseguitare ed incarcerare comunisti, socialisti e anarchici, poi rivelatesi nuovamente preziose per la repressione nel dopoguerra.
Ad esempio il reato politico di “associazione sovversiva”, il famigerato art. 270 del Codice penale, non solo è stato mantenuto in vigore nel dopoguerra dal ministro della giustizia Togliatti, ma è sopravvissuto fino ad oggi, segnando anzi una tendenza al suo inasprimento e ad un ampliamento in diverse tipologie di condotte incriminate.
Ad esempio sotto il governo Amato, nel 2000, grazie all’appoggio di Rifondazione Comunista, vengono allungati i termini di carcerazione preventiva per questo tipo di reato. Nel 2016, alla fine della fase della guerra al “terrorismo” guidata dagli imperialisti Usa, ci ritroviamo con ben nove figure di reato derivate dal “semplice” art. 270. In questo modo oggi, non solo gli aderenti a una “associazione sovversiva” vengono ancora puniti non per aver compiuto reati specifici, bensì per l’appartenenza all’associazione, ma c’è molto di più: anche i presunti solidali o finanziatori possono essere puniti in quanto tali con anni di galera. In particolare, l’art. 270 sexies dà una definizione di terrorismo generalizzabile a qualsiasi fenomeno anti-istituzionale: “Sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per loro natura e contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale (…)”.
Anche il reato di devastazione e saccheggio è stato promulgato sotto il fascismo, mentre il suo uso spregiudicato contro le manifestazioni diventa sistematico in anni più recenti: a Torino per il corteo dopo la morte di Sole e Baleno nel ‘98, a Genova per quello contro il G8 nel 2001, a Milano per la mobilitazione contro Fiamma Tricolore nel 2006, a Roma per quella degli indignados nel 2011, a Cremona per il corteo in solidarietà al compagno Emilio Visigalli aggredito dai neofascisti nel 2015, ancora a Milano per quello contro l’Expò del 2015…
Sorte simile è toccata alle misure di prevenzione volute da Mussolini, come l’avviso orale e la sorveglianza speciale, mentre al posto del tradizionale “confino” oggi ci sono fogli di via e daspo urbani.
Ugualmente si può dire per l’utilizzo del carcere, che per il fascismo fu lo strumento principale per sbarazzarsi concretamente degli oppositori, seppellendoli nelle galere con l’applicazione dei reati associativi e politici previsti dal Codice Rocco-Mussolini. La repubblica cosiddetta democratica affinò e aggravò lo strumento del carcere allo scopo di stroncare il movimento rivoluzionario negli anni settanta e ottanta, con la creazione degli istituti di pena “speciali”, con la prassi della differenziazione e dell’isolamento. Il 41 bis, risalente agli anni ‘90 come misura contro i “mafiosi” e solo in seguito estesa ai “terroristi”, è l’ultimo erede della prassi carceraria volta a spezzare i legami con l’esterno e all’annientamento psicofisico dei prigionieri politici.
Il paradigma fascista non riguarda solo la repressione della lotta rivoluzionaria, ma più generale di tutta la lotta del proletariato, come dimostra il divieto di sciopero voluto dal regime e l’implementazione del corporativismo. Quest’ultimo, assieme al Codice Rocco-Mussolini, vietava la lotta di classe del proletariato, anche quella puramente economica, in nome dell’interesse supremo nazionale, che avrebbe fatto da sintesi sia agli interessi dei padroni che a quelli degli operai. Il corporativismo fu la maschera politico-ideologica, formalmente interclassista, dietro la quale il fascismo nascose la sua natura violentemente classista e padronale. Seppur formalmente abolito, il corporativismo riemerse di fatto nelle democrazie borghesi, laddove, in nome di presunti interessi sopra le classi (interessi pubblici, nazionali, degli utenti…), si nasconde sempre l’interesse della classe dominante, si limita la lotta del proletariato e si promuove la “collaborazione” tra padroni e operai. È il caso ad esempio della normativa sulla “regolamentazione del diritto di sciopero” che, da decenni, colpisce i lavoratori del nostro paese e che, come ai tempi del fascismo storico, pare possa fare scuola agli altri regimi borghesi “democratici”. Per esempio in un’Inghilterra recentemente attraversata da una serie di scioperi, è stata avanzata una proposta di legge per regolare e comprimere il diritto di sciopero nei settori dei “servizi pubblici essenziali”: una misura che ricalca perfettamente la “nostra” legge 146 del 1990, che di fatto fornisce ai prefetti governativi il potere di precettare lavoratori indicati con nomi e cognomi dai propri “datori di lavoro”, per impedire loro di partecipare agli scioperi.
Più recentemente, anche la fase di aggravamento dell’autoritarismo dello Stato per la cosiddetta gestione dell’epidemia di Covid19 ha ripreso prassi tipicamente fasciste e/o dell’emergenzialismo bellico: limitazioni della libertà personali e collettive sulla base di atti amministrativi governativi (i famosi Dpcm), il coprifuoco, l’imposizione di tessere di fedeltà al regime per poter lavorare e partecipare alla vita sociale (tale era il green pass)…
Più in generale l’autoritarismo oggi passa per il rafforzamento del potere esecutivo. Caratteristica questa che è anch’essa tipica del fascismo e che ha compiuto un salto di qualità propedeutico all’attuale governo con gli ultimi esecutivi (Renzi, Conte uno e due, Draghi) e con il loro uso spregiudicato dei decreti legge e dei Dpcm e relativa progressiva spoliazione di funzioni del parlamento. Una presa d’atto del salto autoritario della classe dominante che, nella nostra ottica, deve portarci ulteriormente al rafforzamento della prospettiva politica rivoluzionaria dei comunisti, non a cedere a nostalgie riformiste e liberali di matrice piccolo borghese.
L’Italia, sotto il fascismo, è stata pioniera nel cristallizzare nel Codice penale in che cosa consistesse la sovversione politica, nel combatterla e, più in generale, nel realizzare un modello reazionario per tentare di schiacciare il proletariato, facendo scuola a tutta la borghesia imperialista europea e non solo. Ciò fu una risposta controrivoluzionaria alla maturità raggiunta dal proletariato del nostro paese, paventatasi con la potenzialità espressa dal Biennio Rosso, in un momento in cui si sentiva chiaro l’esempio della Rivoluzione d’Ottobre. Una risposta alla quale gli Stati liberali europei non erano preparati, costringendo le classi dominanti, laddove il proletariato minacciava più direttamente il loro potere, come in Italia, in Germania, in Spagna, ad abbandonare le forme istituzionali dello Stato liberale e ad imporre quelle totalitarie.
Il fascismo rappresentò il piano fondamentale per il rafforzamento degli strumenti della controrivoluzione preventiva4, per adeguarli al livello della minaccia potenziale da parte della classe operaia che allora l’imperialismo suscitò. Lo Stato, ieri come oggi, identifica i suoi nemici politici e li combatte in quanto tali. La stessa classe che ieri ha definito il fascismo è quella che oggi definisce la democrazia governante: la borghesia imperialista. Il patrimonio sviluppato in questa lotta controrivoluzionaria permane nel patrimonio della classe dominante, come base per la repressione e l’egemonia, anche se le forme dello Stato cambiano, come avvenuto dal regime fascista a quello “democratico”.
Oggi, nel bel mezzo dell’aggravamento della crisi e della guerra imperialista, occorre un fronte interno che sia per quanto possibile coeso, pacificato e, ove provi a ribollire, sia prontamente represso. È il patrimonio del fascismo è il più utile, in tal senso, alla classe dominante.
Se è vero che molti compagni non hanno capito il rapporto diretto tra fascismo e le moderne democrazie borghesi, anche all’epoca l’affermazione del fascismo e il suo rapporto con i regimi liberi che lo precedettero non fu subito chiaro nel movimento comunista. Uno dei più preziosi lasciti del grande dirigente comunista bulgaro Georgi Dimitrov (1882-1949) è stato proprio l’aver svelato la natura di classe del fascismo.
Fino a quel momento esso veniva considerato da molti compagni come una parentesi eccezionale e temporanea, per alcuni addirittura espressione di un potere statale estraneo sia alla grande borghesia che al proletariato. Una tesi che fa il paio con quella borghese secondo cui il fascismo sarebbe una parentesi storica conclusa e irripetibile.
La miopia dei compagni che fecero proprie questo genere di visioni non permise loro di vedere nel fascismo il riadeguamento strategico del potere del proprio nemico storico: la borghesia imperialista. Quasi allo stesso modo in cui, pur con le dovute distanze di un parallelo tra fenomeni diversi, parecchi compagni dei nostri giorni non hanno riconosciuto nella gestione autoritaria del Covid e nel relativo disciplinamento di massa il proprio nemico storico: come se proletariato e borghesia imperialista si trovassero improvvisamente sulla stessa barca a far fronte contro un nuovo nemico comune, il virus assassino. Come se, in ultima analisi, gli interessi contrastanti che danno luogo alla lotta di classe coincidessero improvvisamente.
La necessaria ricaduta politica della miopia di questo tipo di valutazioni dei fenomeni è prevedibile: l’immobilismo, il non lottare contro le misure reazionarie della borghesia, col risultato di facilitare la sua vittoria. Oggi come all’epoca.
D’altra parte all’epoca l’intervento di Dimitrov durante il Settimo Congresso dell’Internazionale Comunista (1935) sintetizzò il reale carattere di classe del fascismo, aprendo così la strada alla lotta politica contro di esso: “Nella situazione creata dallo scatenarsi di una profondissima crisi economica, dal repentino acuirsi della crisi generale del capitalismo (…) la borghesia dominante cerca, in misura sempre più larga, la propria salvezza nel fascismo, allo scopo di applicare contro i lavoratori delle misure eccezionali di spoliazione (…), di risolvere il problema dei mercati (…) dividendosi un’altra volta il mondo per mezzo della guerra. (…) Il fascismo non è un potere al di sopra delle classi, né un potere della piccola borghesia o del sottoproletariato sul capitale finanziario. Il fascismo è il potere finanziario stesso (…) la dittatura degli elementi più reazionari, più sciovinisti e più imperialisti del capitale finanziario (…). Il fascismo cerca di assicurare una base di massa al capitale monopolistico fra la piccola borghesia, facendo appello ai contadini, agli artigiani, agli impiegati, e ai dipendenti statali e particolarmente agli elementi declassati delle grandi città, cercando di penetrare anche in seno alla classe operaia”5.
Per tutti questo motivi alla borghesia non è convenuto e non conviene tornare davvero indietro dal fascismo. E oggi, a quel vecchio adagio ancora valido del movimento comunista, potremmo azzardarci ad aggiungerne un altro: “la borghesia non torna indietro dalla gestione autoritaria del Covid”. Cioè tutta una serie di procedure e misure eccezionali sono e verranno mantenute, ritoccate, applicate ad altri contesti, magari accantonate momentaneamente per poi essere rigiocate al momento opportuno.
Quale antifascismo oggi per i comunisti?
In un contesto in cui la “sinistra” è stata scalzata al potere dalla destra di Meloni, sembra aprirsi un nuovo spazio neoriformista, dove in nome di un vuoto, generico e inoffensivo “antifascismo” persino parte della sinistra radicale (autonomi, femministe etc.) rischia di favorire una pericolosa operazione di riciclo di Pd e accoliti vari.
In particolare, con l’elezione di Schlein alla direzione del Pd si rafforza una sorta di egemonia di guerra a doppia faccia nei confronti delle masse. Da una parte, quella rigidamente governista, emanazione di Meloni e della destra, che punta a giustificare la partecipazione italiana alla guerra imperialista come “missione di civiltà”, come “dovere nazionale” contro i “barbari” russi, i “comunisti” cinesi e i “fanatici” islamici. Dall’altra quella fintamente di opposizione, che punta a giustificare la partecipazione italiana alla guerra come “difesa dei diritti umani contro le autocrazie fasciste”, con cui la macchina propagandistica funzionale al Pd ricatta i movimenti, facendoli strillare contro il fascismo di Meloni senza opporsi alla guerra imperialista, eliminando quasi del tutto questo termine dal proprio vocabolario. Ed è anche in questo modo che una possibile e potenziale opposizione alla guerra imperialista viene neutralizzata, convogliata altrove, in altri contenuti.
Due facce della stessa egemonia che a volte è persino difficile distinguere, ma che sono utili alla classe dominante per modulare il suo approccio ideologico, rispetto all’obbiettivo strategico di imporre il piano della guerra imperialista alle masse popolari.
È per questo che è importante portare avanti la lotta contro il fascismo come parte, e al tempo stesso tutt’uno, della lotta contro la borghesia dominante, contro le sue guerre imperialiste, una lotta che abbia per obiettivo una trasformazione sociale complessiva.
“Lo sviluppo rivoluzionario è, allo stesso tempo, ostacolato e accelerato dalla furia fascista della borghesia”6, come suggerisce ancora Dimitrov. Il fatto che la classe dominante, alle prese con gravi contraddizioni, ricorra alla reazione e alla repressione più accesa (com’è accaduto ad esempio con la gestione autoritaria del Covid) può rendere più ricettive e sensibili le masse verso la nostra propaganda: perché in questo modo la legalità borghese perde prestigio.
Dimitrov argomentava che “la dittatura della grande borghesia deve entrare inevitabilmente in conflitto con la propria base sociale di massa, tanto più che, proprio sotto il fascismo, le contraddizioni di classe tra la banda dei magnati della finanza e la stragrande maggioranza del popolo acquistano un rilievo particolare”7. A questo proposito, come non pensare all’odierno e sempre più profondo abisso che c’è tra i salari dei lavoratori e quelli degli amministratori delegati delle multinazionali finanziarie? Persino i giornali borghesi ne hanno parlato come di un fenomeno tipico (e preoccupante) della nostra epoca.
Tutto ciò non significa che lo sviluppo del movimento rivoluzionario delle masse possa assumere un carattere costante e graduale. Occorre rifuggire da qualsiasi schematismo, gradualismo e meccanicismo perché al contrario, specie in una fase come questa possiamo aspettarci passi indietro e arretramenti, ma anche importanti salti avanti.
Nella nostra linea di massa non dobbiamo trascurare la lotta ideologica e persino la psicologia delle masse popolari. Ad esempio Dimitrov affermava: “Noi comunisti siamo per principio avversari irriducibili del nazionalismo borghese di tutte le tinte. (…) Il compito di educare tutti i lavoratori nello spirito dell’internazionalismo proletario è uno dei nostri compiti fondamentali. Ma chi ritiene che ciò gli permetta o addirittura lo costringa a sputare su tutti i sentimenti nazionali delle masse lavoratrici non ha capito niente della dottrina nazionale di Lenin e Stalin”8. Parole che, ad esempio, ricordano l’atteggiamento di coloro che disprezzavano le piazze del movimento no green pass perché vi compariva qualche tricolore italiano, tacendo contemporaneamente o anzi, spesso accettando e promuovendo, la narrazione di matrice fascista sul virus e sulla sua gestione governativa.
Nella linea di massa è particolarmente importante la concretezza, perché come diceva sempre Dimitrov “la propaganda e l’agitazione, da sole, non possono sostituire per le masse la loro esperienza politica”9. E la concretezza passa, ad esempio, per l’ostacolare o impedire le spedizioni di armi, le esercitazioni militari, il lavoro delle basi Nato…
Al tempo stesso è importante mettere al centro la questione della guerra imperialista anche nel nostro antifascismo. Sulla base dell’analisi concreta della situazione concreta, possiamo sforzarci di volta in volta di collegare l’antifascismo a un’opposizione alla guerra imperialista. Abbiamo un governo fascista e guerrafondaio e dobbiamo essere conseguenti nei suoi confronti.
Ciò passa anche per l’antifascismo militante, declinazione nient’affatto scontata oggi, persino all’interno del “mondo antagonista”. Eppure, se ci si pensa bene, l’alternativa all’antifascismo militante, cioè invocare la messa fuori legge dei neofascisti, tipica dell’antifascismo borghese che ha tentato di riciclarsi a Firenze dopo gli scontri tra studenti antifascisti e l’organizzazione giovanile di Fratelli d’Italia, è fallimentare. Ammesso e non concesso che lo Stato – che dal fascismo non è mai tornato indietro – metta fuori legge i neofascisti, ciò vorrebbe forse dire metterli fuori dalla realtà? No. Colpirebbero ugualmente immigrati, compagni etc., allo stesso modo in cui furono usati dai padroni con la “strategia della tensione” e allo stesso modo in cui vengono tuttora usati per provocazioni come l’assalto alla sede Cgil di Roma, o per sfondare i picchetti dei lavoratori in sciopero e seminare divisione tra proletari immigrati e autoctoni. Ad esempio la messa fuori legge di Ordine Nuovo nel 1973 non ha affatto fermato la violenza fascista nel nostro paese.
Peraltro anche la violenza poliziesca (altro aspetto che tende a inasprirsi sotto i governi di reazione) si rivolge contro immigrati, compagni, lavoratori, ed è legale. Allo stesso modo in cui è legale la guerra imperialista, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la devastazione ambientale.
Ecco perché è importante essere capaci di superare con la propria azione gli argini della legalità borghese. Non è quindi certo per un’estetica dell’illegalismo che occorre, ad esempio, organizzarsi per dar vita a espressioni concrete di antifascismo militante, ma è per necessità rivoluzionaria.
Certo, è un cammino lungo e difficile, ma il fatto che non esistano scorciatoie non dev’essere un motivo per non percorrerlo.

1 Vedi Antitesi n° 13 p. 67
2 Vedi Glossario p. 85
3 Vedi Antitesi n° 6 p. 57
4 Vedi Antitesi n° 0, pp. 54 ss
5 G. Dimitrov, L’offensiva del fascismo e i compiti dell’Internazionale Comunista nella lotta per l’unità della classe operaia contro il fascismo, associazionestalin.it
6 Ibidem
7 Ibidem
8 Ibidem
9 Ibidem