Antitesi n.14Classi sociali, proletariato e lotte

Donne e guerra

La centralità della guerra nella questione femminile

“Classi sociali, proletariato e lotte” da Antitesi n.14 – pag.29


In questo articolo affronteremo due questioni: la centralità della guerra nella questione di genere e la strumentalizzazione che la classe dominante fa delle lotte per l’emancipazione della donna. È un contributo per orientare il lavoro dei comunisti in questa fase, nella loro dialettica con i movimenti attuali.

Partendo dall’analisi della situazione concreta vediamo come la guerra influenzi e inasprisca ogni contraddizione, compresa quella tra i sessi. Nei paesi dove la guerra è direttamente condotta, le condizioni di vita delle donne peggiorano drasticamente e ad esse talvolta spettano conseguenze ancora più nefaste rispetto a quelle che gravano sugli uomini. Nelle zone di conflitto, in particolare, il fenomeno dello stupro assume un significato importante: la donna viene stuprata non solo perché identificata come parte del nemico, ma soprattutto perché generatrice di futuri nemici. Tramite questa pratica i militari si appropriano anche del corpo della donna, come se questo fosse un “bottino”.

La guerra, creando povertà e distruggendo i territori in cui si combatte, diventa una delle principali cause dell’emigrazione. I ricatti a cui le donne emigranti possono essere costrette sono brutali: la prostituzione ne è un esempio, così come lo è lo sfruttamento in ambito lavorativo. Le donne che scappano dai paesi in guerra costituiscono, insieme alle altre donne emigranti1, un contributo notevole al cosiddetto esercito industriale di riserva nei paesi in cui arrivano. Qui sono costrette a svolgere lavori sottopagati, soprattutto nel settore della cura di anziani e bambini o come colf, oppure a farsi sfruttare pesantemente nell’agricoltura o in mansioni poco qualificate nell’industria fungendo così da elemento utile ad abbassare la massa salariale.

Anche sul fronte interno la guerra inasprisce le condizioni di vita delle donne. Infatti, per preparare e poi per alimentare la guerra la spesa pubblica viene usata per investire nel settore bellico e della ricerca militare a scapito di investimenti in altri settori, con conseguenze drastiche per le classi proletarie e in particolare per le donne. I continui tagli alla sanità pubblica si concretizzano nella diminuzione generale di alcuni servizi, in particolare rivolti alle donne. In molti ospedali, per esempio, la privatizzazione del servizio di anestesia sta eliminando la figura dell’anestesista di reparto, e i primi reparti in cui questa figura scompare sono proprio quelli di ostetricia e ginecologia. A questo si aggiunge la politica di chiusura dei presidi medici territoriali che ha determinato la chiusura di molti consultori o la riduzione al minimo dei servizi al loro interno. Inoltre, il taglio incessante di servizi pubblici di cura come asili nido o case di accoglienza e cura per anziani, costringe le donne ad occuparsene.

Tutto ciò accade nel contesto di una società capitalista e patriarcale dove già è cronica la condizione di super sfruttamento della donna proletaria nel luogo di lavoro. Condizione che continua ad aggravarsi con la costante diminuzione del salario e con una precarietà contrattuale sempre maggiore, basata sull’idea che la donna dovendosi occupare anche della cura della casa e della famiglia non può lavorare al pari di un uomo.

In questi ultimi mesi, incalzati dagli eventi di guerra, diversi gruppi di femministe, la cui attività è centrata sulla questione di genere, hanno dovuto giocoforza porsi la questione “guerra” analizzandone, però, soltanto le conseguenze, senza indagarne la causa, ovvero, la crisi irreversibile del sistema economico capitalista nella fase imperialista. Inoltre, il fatto che il movimento femminista nelle sue varie sfaccettature o taccia sulla questione o si schieri dietro un generale “no alla guerra”, non ponendosi il problema che il principale nemico non è il “maschio” ma la classe dominante imperialista, lo porta spesso a posizioni meramente riformiste e di connivenza con lo schieramento guerrafondaio euroatlantico.

Al contrario quando le lotte delle donne partono da una analisi corretta e sono orientate ad affermare concretamente il diritto ad una vita dignitosa, a decidere del proprio corpo, a vivere senza essere doppiamente sfruttate (con il lavoro salariato e con il lavoro domestico), possono collocarsi nel campo della ricerca di una strada del cambiamento dell’attuale sistema sociale diviso in classi. Sistema che produce sia la guerra imperialista sia l’oppressione delle donne, in particolare delle donne proletarie. Proprio a partire da questo si può quindi affermare che l’esito della rivoluzione dipende dal grado in cui vi partecipano le donne proletarie, e di questo la storia ne fornisce molteplici esempi

La strumentalizzazione della questione femminile nella fase imperialista

Le rivoluzioni e le guerre di liberazione hanno ricevuto sempre un impulso decisivo quando le donne vi hanno partecipato attivamente. Pensiamo alle donne del Terzo Stato e in particolare alle proletarie dei sobborghi parigini che animarono momenti decisivi della Rivoluzione francese, come il corteo diretto a Versailles per contestare il ritorno a Parigi del re e della regina; come anche alle operaie che l’8 marzo 1917 uscendo dalle fabbriche invasero le strade di San Pietroburgo per rivendicare la fine della guerra e dare così impulso alla Rivoluzione d’Ottobre; o ancora alle partigiane italiane, che furono base sociale diffusa della lotta di liberazione, organizzando scioperi, sabotaggi e prendendo parte alla resistenza armata contro il nazifascismo.

Anche nell’attualità vediamo che le resistenze più durature sono quelle dove le donne sono impegnate in prima fila, come nel caso delle donne palestinesi. “Le donne devono unirsi alle proteste: non abbiamo scelta! Dobbiamo alzare la voce, non dobbiamo avere paura e dobbiamo rivendicare i nostri diritti”. Queste sono le parole urlate da alcune donne durante la protesta dello scorso gennaio nel villaggio palestinese del Negev dove si intensifica la politica israeliana di sfollamento violento della popolazione palestinese per far posto a un progetto di forestazione del Fondo nazionale ebraico. Da oltre 70 anni le donne palestinesi, con la loro instancabile lotta contro l’oppressore israeliano legato agli interessi imperialistici statunitensi, sono un esempio per le donne di tutto il mondo di come la lotta per la propria emancipazione sia indissolubile dalla lotta rivoluzionaria che, nel caso palestinese, si declina nella lotta di liberazione dall’occupazione sionista.

Il contributo che le donne organizzate riescono a dare alla lotta è quindi decisivo e diventa motivo di preoccupazione per la classe borghese dominante che, riconoscendone tutta la forza e la determinazione, utilizza ogni mezzo per eliminarlo. Il principale mezzo che lo Stato borghese usa è la repressione, ma esso ricorre anche ad altri strumenti più subdoli che attaccano la donna non solo in quanto militante, ma avvalendosi della mentalità patriarcale. Ne è un esempio Niscemi, per esempio: paese siciliano dove la lotta contro il radar Muos della marina statunitense è riuscita a bloccarne la costruzione per qualche anno. Qui la repressione subita dalle donne del movimento, organizzate nel comitato Mamme No Muos, è stata feroce. È riuscita ad insidiarsi di più facendo leva sul giudizio che una donna potesse lottare anziché occuparsi esclusivamente del focolare domestico e che le forme di lotta adottate poco si addicessero all’attitudine femminile. Giudizi morali che hanno preso facilmente piede in un paese dell’entroterra siciliano dove la mentalità patriarcale è molto diffusa. In verità, la determinazione di quelle donne che hanno visto la propria terra piegarsi al volere dell’imperialismo statunitense, e che le ha portate in prima fila nei blocchi stradali e nelle invasioni della base militare, ha fatto paura proprio perché era facile riconoscerne la forza.

Ma l’arma più potente che oggi viene usata dalla borghesia e dal suo Stato è la strumentalizzazione della questione femminile per coprire gli obiettivi della guerra imperialista. Vediamo come ciò avviene attraverso qualche esempio.

Il caso più eclatante ci viene fornito da quanto accaduto in Afghanistan a seguito dell’invasione statunitense. Inizialmente, nel 2001 l’invasione delle truppe Usa viene giustificata con l’obiettivo di esportazione della democrazia e di liberazione delle donne afghane: l’occidente si è riempito così di immagini di donne musulmane velate i cui corpi vengono definiti imprigionati. Poi, nel 2021, al ritiro delle truppe, la distruzione dei vent’anni di occupazione statunitense e Nato viene nascosta ai riflettori occidentali invitati a concentrarsi soltanto sulle “conquiste perse dalle donne” essendo, adesso, “tornati i talebani”. Viene così occultato cosa ha rappresentato per il popolo afghano, e in particolare per le donne afghane, vivere due decenni sotto il tallone degli invasori e del regime compradore: decine di migliaia di morti civili sotto i bombardamenti, stragi degli squadroni della morte, imprigionamenti di massa, l’arbitrio assoluto dei signori della guerra filostatunitensi, il loro utilizzo sistematico dello stupro, la distruzione dell’economia, l’avvelenamento dell’ambiente, la schiavitù della prostituzione inflitta soprattutto alle ragazze e alle bambine, il ritorno alla monocultura dell’oppio… Durante l’occupazione, l’oppressione del fondamentalismo religioso era rimasta tale e quale a prima dell’aggressione statunitense, in quanto sovrastruttura di dominio delle classi dominanti afghane che avevano gestito il regime fantoccio, con tutto ciò che significava questo per le donne, sottoposte non solo alla locale tirannia patriarcale, ma anche a quella delle truppe di occupazione. Nel 2009, il regime era addirittura arrivato ad affermare esplicitamente il “diritto allo stupro” nella legislazione coniugale da applicare alla comunità islamica sciita dell’etnia hazara. Peraltro, rispetto al fondamentalismo islamista, gli Usa hanno una responsabilità storica diretta, avendolo sostenuto militarmente e politicamente in funzione antisovietica negli anni ottanta.

La retorica occidentalista sull’emancipazione delle donne nell’Afghanistan occupato si scontra anche con la realtà della partecipazione femminile alla lotta di liberazione, ovviamente taciuta dagli stessi Talebani, ma dimostrata ad esempio dal numero di attacchi portati da “donne kamikaze” a soldati invasori, mercenari stranieri e collaborazionisti. Insomma, come in ogni lotta di liberazione nazionale, le donne hanno rappresentato una forza attiva della mobilitazione contro gli invasori e questo ruolo sarà la base sia per la lotta di emancipazione femminile contro i Talebani ritornati al potere sia per impedire che essa venga strumentalizzata dai neocolonialisti, che hanno dovuto ritirarsi dall’Afghanistan sotto i colpi dell’insurrezione popolare, ma che continuano a strozzarlo con barbare sanzioni finanziarie e commerciali.

Quando si parla delle donne che sotto l’occupazione della Nato “si sono emancipate” diventando giornaliste, giudici, medici, artiste, dipendenti pubblici, si fa riferimento esclusivamente alle donne delle grandi città e in particolare di Kabul. Le sole, del resto, interessate da progetti di empowerment ed imprenditoria femminile organizzati dalle svariate Ong arrivate in Afghanistan nel 2001. Si tratta quindi di percorsi di “emancipazione” rivolti a poche donne, costruiti a partire da una prospettiva borghese di affermazione individualista, per creare collaborazione e basi di consenso al regime di occupazione.

Parlando poi dell’istruzione, un reportage della giornalista Azmat Khan dall’emblematico titolo Ghost Students, Ghost Teachers, Ghost Schools2 rivela una verità diversa da quella raccontata dai media statunitensi. La giornalista ha esaminato delle scuole finanziate dagli Stati Uniti e ha visitato 50 scuole in 7 province: il 10% di queste scuole non sono mai state costruite o non esistono più, una grande maggioranza di loro sta cadendo a pezzi e buona parte di esse è frequentata da pochissime bambine. Tanto che il 70% delle donne afghane è rimasta in condizioni di analfabetismo anche durante i vent’anni di occupazione presuntamente “illuminata”.

Anche solo da questi pochi dati appare chiaro che le condizioni delle donne non sono migliorate per la presenza delle truppe statunitensi e non sono peggiorate adesso, con la loro fuga e l’insediamento del governo talebano. Lo afferma chiaramente l’Associazione Rivoluzionaria delle Donne dell’Afghanistan (Revolutionary Association of Women Of Afghanistan – Rawa): “Ora l’Afghanistan è di nuovo sotto i riflettori perché i talebani sono al potere, ma quella che vedete oggi è la stessa situazione che abbiamo vissuto negli ultimi 20 anni, durante i quali ogni giorno centinaia di persone sono state uccise e il nostro Paese distrutto, solo che raramente è stato riportato dai media”3.

La questione femminile, inoltre, è stata oggetto di tantissimi progetti di Ong che all’indomani dalla ritirata delle truppe statunitensi hanno denunciato l’impossibilità di lavorare con il governo talebano e alcune di loro, da quando da dicembre scorso vige il divieto che all’interno di esse vi lavorino donne afghane, hanno minacciato di andarsene. Minaccia che è sentita più dalle Ong stesse che dalla popolazione afghana, come dichiarano le donne di Rawa: “le Ong nel nostro Paese facevano parte dell’occupazione militare dell’Occidente. Sono state tutte create come funghi dopo l’11 settembre. A parte alcuni piccoli ed efficaci progetti, hanno principalmente giocato un ruolo negativo. L’Usaid (l’agenzia governativa americana), ha attuato principalmente le politiche degli Stati Uniti e così molte altre Ong internazionali. La ragione principale di questo è la corruzione e le tangenti che stavano dietro a queste Ong. Hanno fatto progetti buoni solo sulla carta sotto la supervisione degli stranieri e che non hanno portato a un effettivo cambiamento di vita sulla nostra gente”4.

La propaganda mainstream, oltre ad essere falsa e utilizzata per coprire gli interessi imperialisti, si basa su un presupposto mistificato che considera le donne non occidentali come un’entità omogenea, in cui non interferiscono le condizioni di classe e i cui tratti distintivi sono la subordinazione e la condizione di vittima. La donna non occidentale va dunque salvata e così le finalità economiche imperialiste e militari occidentali vengono giustificate con la menzogna di assolvere ad una funzione civilizzatrice.

Altro esempio della strumentalizzazione delle lotte femminili è quello che sta succedendo in Iran. Qui gli interessi delle borghesie imperialiste occidentali sono chiari. Il paese, governato da una borghesia nazionale autonoma e storicamente ostile agli Usa, va destabilizzato e indebolito. Anche a causa del suo progressivo avvicinamento a Russia e Cina, il regime di Teheran costituisce il problema numero uno per gli interessi degli Stati Uniti e di Israele nella zona mediorientale, vista anche la sua capacità militare, ultimamente dimostrata dalle forniture di droni d’attacco a Mosca, largamente utilizzati nel conflitto in Ucraina.

Abbiamo visto come gli Stati Uniti in primis, e poi tutte le borghesie imperialiste del campo atlantico, tra cui quella italiana, si sono mosse per fomentare, sostenere e strumentalizzare le recenti mobilitazioni popolari iraniane, dove vi è stata un’ampia partecipazione femminile. Sulle proteste che si sono scatenate dalla morte di Mahsa Amini in poi, per mesi, sono stati puntati i riflettori mediatici occidentali che peraltro hanno raccontato soltanto una loro parte. Si sono soffermati, infatti, sulla sola questione del velo, soprassedendo sulle rivendicazioni di classe di lavoratori e lavoratrici su questioni come i salari, i prezzi alle stelle e la corruzione; tutti problemi derivati principalmente dalle sanzioni e dalle pressioni straniere che affliggono il paese. Senza dubbio la presenza massiccia di donne a queste proteste dimostra il ruolo importante che queste svolgono nella lotta contro il regime della Repubblica Islamica e i suoi organi di repressione, una lotta che non troverà giovamento dalle intromissioni occidentali, le quali mirano solo al disordine interno e non hanno nessun reale interesse per l’emancipazione delle donne iraniane. Lo scopo degli imperialisti è sovvertire il regime islamista per sostituirlo con un altro regime ad essi succube. I compagni del Partito del Lavoro dell’Iran (Toufan) a tal proposito affermano: “Gli slogan sovversivi, al contrario di rivendicazioni razionali e specifiche che sono sostenute dalla maggior parte delle persone, non faranno avanzare il movimento di protesta. Cantare slogan sovversivi non rientra in piani ponderati. Sono spontanei ed emotivi e di conseguenza isolano il legittimo movimento del popolo. I media stranieri sostengono queste azioni sovversive e miopi, che hanno come unico obiettivo il regime e non hanno un piano d’azione vantaggioso per il futuro dell’Iran. Propongono slogan che alla fine andranno a beneficio dei loro padroni imperialisti. L’invito a trasformare l’Iran in Libia e Iraq da parte della controrivoluzione sionista e imperialista di New York è uno di questi sforzi. Purtroppo, a causa della mancanza di una direzione rivoluzionaria, il movimento di protesta popolare non è stato in grado di tracciare una chiara linea di demarcazione con i nemici stranieri e i loro media e agenti affiliati”5.

E proprio queste parole dimostrano quanto sia stato facile, allora, istituzionalizzare nel nostro paese lo slogan “Donna, vita, libertà”. Nelle nostre piazze, nei municipi di diverse città italiane, infatti, questo slogan è stato affisso e tante donne lo hanno cantato. Seppure le intenzioni di molte di queste siano autenticamente di solidarietà con le donne iraniane, il risultato reale è quello di prestare il fianco agli interessi imperialistici.

Guardiamo ora al fronte interno, osservando come emerga chiaramente la strumentalizzazione della questione femminile in Italia. Il governo italiano finanzia svariati progetti attraverso bandi ministeriali, europei o di fondazioni private su tematiche di “genere”: da una parte per fare un’operazione propagandistica volta a presentare il capitalismo come un sistema inclusivo del cosiddetto “sesso debole”, e dall’altra per creare una borghesia femminile che rafforzi l’egemonia del sistema sulle masse. Così, anche all’interno del Pnrr viene posta attenzione alla questione con la “quinta missione”6, dove viene fatto uno specifico riferimento alla necessità di incrementare la presenza delle donne nel mercato del lavoro attraverso due misure strategiche: la valorizzazione dell’imprenditorialità femminile e l’introduzione e definizione di un sistema nazionale di certificazione della “parità di genere”. Per valorizzare l’imprenditorialità femminile il Pnrr prevede l’avvio del “Fondo impresa donna”, mentre per quanto riguarda la certificazione questa diventa un modo per monitorare e premiare quelle imprese che riducono i gap qualitativi che sfavoriscono le donne nel lavoro, il cosiddetto gender pay gap. Si tratta ovviamente di misure inutili per la reale emancipazione della donna proletaria in quanto si punta solo a favorire l’imprenditoria e il carrierismo nel mondo del lavoro.

Più dannoso si rivela l’intervento proposto per le scuole, in quanto si ancora la questione dell’emancipazione femminile soltanto alle dinamiche patriarcali presenti nella società. L’assunto dal quale partono è che l’emancipazione delle donne è svincolata dalla questione di classe. Alle studentesse e agli studenti il problema dell’emancipazione femminile non viene posto nella sua essenza, al contrario vengono messi in risalto problemi secondari (come quello del linguaggio sessista) o vengono presentati come modelli di emancipazione donne che ricoprono ruoli di potere in luoghi che solitamente sono riservati agli uomini (le imprese, l’esercito, le cariche di potere istituzionali). Del resto le più alte cariche di potere imperialista sono oggi ricoperte da donne (si veda la Commissione europea o la Bce). E ancora, quando si parla di violenza sulle donne, tema molto affrontato nelle scuole, questa non è mai presentata come una violenza sistemica della quale fa parte anche la violenza economica e istituzionale. L’essenza del problema, ovvero il legame della questione della donna con la contraddizione principale capitale-lavoro, viene scientemente omessa. Del resto non ci si potrebbe aspettare altro dalla scuola che, tramite i programmi ministeriali ma ancor più tramite i progetti finanziati dall’Ue, è l’espressione della cultura borghese dominante.

Sottrarre i movimenti dalla strumentalizzazione borghese

Le comuniste e i comunisti devono porsi diversi compiti nel trattare la questione dell’emancipazione femminile.

Il primo compito è quello di non lasciare che sia la classe borghese a dirigere la lotta delle donne. Quando lo Stato borghese fa proprie le rivendicazioni delle donne il suo fine è quello di controllare e dirigere dall’interno il movimento e, spesso, di utilizzarle come tema di distrazione di massa, o addirittura per abbellire e giustificare gli interventi bellici.

Le conquiste reali sono solo quelle ottenute dalla lotta con l’imposizione di rapporti di forza. Porsi su questo terreno, nella prospettiva politica di liberazione dal doppio sfruttamento (capitalista e patriarcale) significa, nella contingenza attuale, porsi il compito di trovare linee particolari per mettere al centro della lotta delle donne la questione della guerra (ad esempio con parole d’ordine come “più consultori meno armi”). Oggi siamo in guerra, una guerra che durerà a lungo orientando tutte le politiche degli Stati occidentali e che quindi si riverserà anche sulle politiche riguardanti le donne. Abbiamo esempi storici di come la guerra sia stata non solo causa di barbarie e distruzione, ma foriera di rivoluzioni e di come le donne in quei contesti abbiano fatto grandi balzi in avanti nella loro emancipazione. Ricordiamo come, ad esempio, nell’Italia della seconda guerra mondiale l’entrata massiccia delle donne in fabbrica da una parte accentuò il doppio sfruttamento, ma dall’altra favorì un’emancipazione politica e sociale senza precedenti. Lo testimonia il grande numero di partigiane, per lo più provenienti dalle fabbriche, e le conquiste del dopoguerra, prima fra tutte il diritto al voto nel 1946. Tutte conquiste frutto del protagonismo principalmente delle donne operaie e sotto la direzione del Partito Comunista.

Il secondo compito è quello di fare inchiesta nei movimenti odierni al fine di relazionarsi politicamente ad essi, dialettizzandosi anche con le lotte per rivendicazioni riformiste che spesso, nell’epoca presente, sono lotte alle controriforme e in difesa delle conquiste (ad esempio la praticabilità dell’aborto legale). Sicuramente l’obiettivo principale è quello di organizzarsi per un abbattimento radicale del sistema capitalista in cui viviamo, ma non avrebbe nessun senso disdegnare le lotte economiche e riformiste. Esse vanno prese per quelle che sono: hanno finalità che migliorano la condizione della donna e, al contempo, sono una scuola di emancipazione, come tutte le lotte. In definitiva, come diceva Clara Zetkin7: “Per noi tutte le riforme, quali che siano che riusciamo ad ottenere (…) non ci avvicinano alla trasformazione socialista della società ma rappresentano soltanto un mezzo per rendere il proletariato più agguerrito nella lotta”.

Per realizzare questi compiti dobbiamo sviluppare una consapevolezza delle contraddizioni che attraversano la nostra società, ponendo come fondamentale quella tra capitale e lavoro, poiché è quella che ne determina la natura. Dobbiamo poi porre come principale quella interimperialista, perché la guerra oggi influenza tutta la realtà della vita sociale, sia a livello internazionale che all’interno dei singoli paesi. Infine, bisogna porre come secondaria la contraddizione di genere, il che non significa non considerarla importante, ma essere coscienti che il suo sviluppo è legato strettamente a quello delle contraddizioni principale e fondamentale. Per contraddizione di genere non si deve intendere (a differenza della concezione femminista) la contraddizione culturale tra i generi femminile e maschile, ma quella tra donna e sistema capitalista, in particolare tra la donna proletaria e il sistema capitalista, che poi tende a concretizzarsi con l’oppressione patriarcale.

Sulla base della comprensione delle contraddizioni che muovono la società, dobbiamo farci guidare nell’azione nei movimenti dalla concezione del fronte, nell’attualità il fronte contro la guerra imperialista. Questo perchè, anche in assenza del partito che vogliamo costruire, dobbiamo agire da partito per costruire il partito, muovendoci nei movimenti orientati dalla concezione del fronte, disdegnando ogni settarismo.

A livello di formazione, dobbiamo attingere dalla nostra cassetta degli attrezzi, riprendendo quindi lo studio della nozione di imperialismo fornitaci da Lenin8 e le analisi sviluppate da Zetkin sulla natura del pacifismo da lei inteso come riformismo sociale borghese9. Allo stesso tempo dobbiamo indagare, partendo dai nostri specifici contesti di intervento (luoghi di lavoro, quartieri dove militiamo, mondo della scuola, ecc.) le questioni particolari che costringono le donne a condizioni di sfruttamento e discriminazioni maggiori in tempo di guerra. Solo in questo modo possiamo contribuire a rendere concreto il motto non “c’è rivoluzione senza emancipazione delle donne e non c’è emancipazione delle donne senza rivoluzione”.

La guerra imperialista, come ci insegna la storia, va letta dalle comuniste come un’opportunità poiché o la rivoluzione ferma la guerra o la guerra scatena la rivoluzione.


1 Si veda ad esempio il libro inchiesta di Stefania Prandi, Oro Rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo, Settenove, 2018, sul lavoro delle immigrate nelle aziende di raccolta e confezionamento di cibo in diversi paesi, tra cui l’Italia, pagato con un salario minore rispetto a quello degli uomini, subendo molestie e violenze sessuali all’interno dei ghetti che sorgono nei pressi dei campi o dei capannoni in cui lavorano.

2 Reperibile sul sito buzzfeednews.com

3 S. Kolhatkar, Contro l’occupazione Usa e contro i talebani, la resistenza delle donne afghane, micromega.net, 27.8.21

4 C. Tinazzi, L’Afghanistan visto dalle donne di Rawa, osservatorioafghanistan.org 17.8.21

5 Partito del Lavoro dell’Iran (Toufan), Some important lessons from the recent popular protests in Iran, The Party of Labour of Iran (Toufan), toufan.org, 25.9.22

6 Viene così propagandisticamente definita: “La quinta missione è volta a evitare che dalla crisi in corso emergano nuove disuguaglianze e ad affrontare i profondi divari già in essere prima della pandemia per proteggere il tessuto sociale del Paese e mantenerlo coeso”. Fonte: Pnrr: inclusione e coesione, governo.it, 30.11.21

7 Clara Zetkin fu esponente di rilievo dell’Internazionale Comunista nata all’insegna della lotta antimperialista e, prima, della sinistra della socialdemocrazia tedesca che confluirà nella Lega Spartachista e darà vita al Partito Comunista Tedesco. Dedicò tutta la sua vita alla lotta contro il riformismo, lo sciovinismo e per l’emancipazione della donna. A lei si deve l’8 marzo come giornata internazionale della donna operaia.

8 Cfr L’imperialismo oggi. Elementi di analisi sulla fase di putrefazione del capitalismo, in Antitesi 13, pp. 54 ss

9 In particolare, rimandiamo al Rapporto tenuto al Plenum del Comitato esecutivo dell’Internazionale comunista, nel 1922 dal titolo La lotta dei partiti comunisti contro il pericolo di guerra e la guerra in La questione femminile e la lotta al riformismo.