Antitesi n.13Sfruttamento e crisi

L’economia di guerra

Dal capitalismo “pandemico” al capitalismo bellico

“Sfruttamento e crisi” da Antitesi n.13 – pag.5


“L’era dell’ordine mondiale unipolare dominato dagli Stati Uniti è finita, nonostante tutti i tentativi di preservarlo con ogni mezzo”. È con queste parole che il presidente russo Putin apriva il suo discorso al forum economico di San Pietroburgo, nel giugno scorso, ribadendo come l’intervento militare in Ucraina rappresenti il punto più alto, finora, del processo di disfacimento degli equilibri mondiali usciti dopo il crollo dell’Urss.

Infatti, se è vero che “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” e che la politica è l’espressione dei rapporti economici e sociali fra le diverse classi, appare chiaro come l’intervento russo in Ucraina, non può essere letto come effetto della volontà di potenza di Putin, ma come il frutto del mutare reale delle contraddizioni internazionali negli ultimi anni. Già il capitalismo “pandemico”, con la messa in discussione delle catene mondiali del valore e il forte interventismo statale, aveva mostrato la crisi della globalizzazione. Ora, l’esacerbarsi della guerra e della contraddizione interimperialista rende la globalizzazione una tendenza che, pur non esaurendosi (essendo lo sviluppo del mercato mondiale “naturale” nel capitalismo), procede comunque via via in maniera sempre più contrastata.

La fase della cosiddetta globalizzazione capitalistica seguita al crollo dell’Urss avrebbe dovuto fondarsi su tre elementi politici di fondo: la permanenza dell’egemonia degli Stati Uniti come potenza globale, l’addomesticamento della Russia a seguito della dissoluzione dell’Urss socialimperialista e l’integrazione della Cina nei mercati mondiali, con il nuovo corso revisionista impresso da Deng Xiao Ping. A questo schema politico globale avrebbe dovuto corrispondere, alla sua base, una crescita capitalistica inarrestabile, garantita dalla sempre maggiore integrazione delle economie dei singoli paesi e, in ogni caso, con la preminenza finanziaria degli Usa.

Si trattava in realtà di uno schema prettamente ideologico professato dagli Stati Uniti e da qualche apologeta (globalista o alterglobalista che fosse) del loro ruolo mondiale, che puntava vanamente a cristallizzare le contraddizioni internazionali, negandone taluni aspetti e assolutizzandone altri. Il punto nodale della fallacia ideologica dello schema era quello della “crescita inarrestabile”: in realtà il capitalismo internazionale era entrato in una fase di crisi già sul finire degli anni sessanta, con il manifestarsi della caduta tendenziale del saggio di profitto e con il determinarsi delle condizioni per la sovrapproduzione di capitali in cerca di valorizzazione nelle economie delle tradizionali potenze imperialiste (Usa e Ue in primis). Al punto che è proprio nella crisi che va ricercato l’aspetto fondamentale che muove e contrassegna la cosiddetta globalizzazione. La massima spinta all’internazionalizzazione della produzione, la finanziarizzazione selvaggia, l’imposizione del dollaro come moneta mondiale, il salto tecnologico dell’informatica, sono tutti elementi della “globalizzazione” che si spiegano con la necessità del capitale di trovare nuovi spazi e margini di valorizzazione e di profitto di fronte alla sua stessa crisi.

In aggiunta dobbiamo considerare come l’imperialismo, nella sua fase di cosiddetta globalizzazione, abbia influenzato, incrociato e per certi versi determinato, il processo di restaurazione capitalistica nei paesi socialisti, che già era iniziato con il rinnegamento di Stalin al ventesimo congresso del Partito Comunista dell’Urss, nel 1956.

In Unione Sovietica, la parte dominante della borghesia reinstauratasi al potere nel partito, nello Stato e nella direzione dei gangli degli apparati economici e delle aziende ancora formalmente socializzate, avviò lo smantellamento definitivo della sovrastruttura socialista attraverso l’opera di Gorbacev e poi di Eltsin, arrivando alla disintegrazione del paese. In Cina, l’arresto dei compagni dell’ala sinistra del Partito Comunista Cinese, nell’ottobre del 1976, aprì le porte al revisionismo di Deng Xiao Ping, che, nei decenni, ha reintrodotto progressivamente il capitalismo, integrato il paese nei mercati mondiali con massicce aperture agli investimenti esteri, soprattutto statunitensi, e contemporaneamente creato le condizioni per l’attuale ruolo imperialista della Cina sugli scenari globali.

La fase della cosiddetta globalizzazione, che trovò il suo culmine negli anni Novanta del secolo scorso, si presentava formalmente come un unipolarismo statunitense, ma in realtà, detta in termini dialettici, l’uno si stava inesorabilmente dividendo in due.

Nella borghesia russa postsovietica, e in particolare nella borghesia burocratica degli apparati statali, crebbe, durante la seconda metà degli anni novanta, il revanscismo rispetto al predominio statunitense sul paese, incarnato da una figura che progressivamente si impose politicamente, rompendo con il corso vendipatria di Eltsin. Si trattava di un ex direttore dei servizi segreti destinato a diventare piuttosto famoso, ovverosia Vladimir Putin.

In Cina, invece, la borghesia revisionista trovava nella permanenza della sovrastruttura socialista una barriera poderosa rispetto ai tentativi di distruggere l’autonomia politica del paese, ad esempio strumentalizzando il malcontento di massa per le controriforme antipopolari, come nel caso della rivolta di piazza Tienanmen (1989). Pur aprendo massicciamente il paese agli investimenti diretti esteri e orientando la propria produzione all’esportazione, l’autonomia politica della Cina consentì alla sua classe dominante di utilizzare tali fattori come propulsori di accumulazione di capitali a favore dei propri monopoli di Stato o privati, che progressivamente hanno assunto un ruolo via via più preponderante nell’economia interna e sui mercati mondiali.

Gli Stati Uniti si sono ritrovati però anche una sfida all’interno del proprio campo di alleanze, con la nascita dell’Unione Europea, a moneta unica e a preminenza tedesca. Pur essendo imbrigliata dal sistema di relazioni politico-militari della Nato, l’Ue costituisce una sfida implicita al ruolo globale degli Usa, sia sul piano monetario-finanziario, con l’euro in competizione con il dollaro, sia sul piano industriale-commerciale, con l’integrazione dei sistemi produttivi europei sotto l’egida della Repubblica Federale Tedesca, che peraltro non ha nascosto la volontà di legarsi sul piano energetico alla Russia (il primo progetto per il gasdotto North Stream è del 1997).

L’Unione Europea vorrebbe essere un aggregato di borghesie imperialiste e capitaliste che puntano, in un processo di integrazione economica e di graduale centralizzazione politica, a resistere e rilanciare una ripartizione dei mercati globali a proprio favore, nella fase in cui la crisi restringe gli spazi di valorizzazione e inasprisce la concorrenza interimperialista.

Tuttavia la contraddizione principale che segna l’intera fase a cavallo tra i due secoli è quella tra imperialismo e popoli oppressi, in primis l’imperialismo Usa, sia per il suo storico ruolo preponderante nell’oppressione del tricontinente (Asia, Africa, America Latina), sia per il suo interventismo militare teso costantemente a rafforzare tale ruolo, laddove messo in discussione, e ad espanderlo laddove non si fosse già imposto, come in Europa Orientale e nell’area ex sovietica.

Le borghesie nazionali dei paesi oppressi sono spinte dalla crisi a ricercare ambiti di affermazione regionale o, comunque, a resistere alla pressione soffocante delle potenze imperialiste, mentre le masse popolari sono portate a ribellarsi dal peggioramento delle loro condizioni di vita, determinato anch’esso dalla crisi, doppiamente grave nelle aree sottoposte a dominio coloniale o neo coloniale.

Il procedere della crisi del capitalismo, e dunque l’aggravamento delle sue contraddizioni, è il terreno nel quale si sviluppano anche tali processi. Lo sviluppo di queste contraddizioni, portò gli Usa a tentare di mantenere il proprio predominio globale attraverso l’apertura di una lunga fase di guerra: dal 1991, con la prima aggressione all’Iraq, al disastroso ritiro dall’Afghanistan a fine agosto 2021. Un ciclo di guerre che, a partire dal venir meno del contrappeso sovietico, ha avuto come scopo diretto quello di colpire l’autodeterminazione dei popoli, ma che ha puntato a livello generale a ripartire i mercati a proprio favore, rispetto alle potenze imperialiste rivali, Russia e Cina in primis. La strategia di puntellare l’unipolarismo con l’interventismo militare si è rivelata però un fallimento, riproponendo il paradigma della vittoria del popolo vietnamita nel 1976 in buona parte dei paesi aggrediti direttamente o tramite propri addentellati. La Siria, in particolare, è un vero e proprio spartiacque: gli Usa falliscono una micidiale guerra per procura scatenata contro il regime di Assad e all’intervento statunitense nel paese segue anche quello della Russia, che va a mettersi di mezzo direttamente ai piani statunitensi per l’intero Medio Oriente. L’Ucraina rappresenta l’ulteriore sviluppo: dopo otto anni di conflitto, la Russia decide di intervenire militarmente e in termini preventivi rispetto alla possibilità che il governo di Kiev schiacci la ribellione delle Repubbliche Popolari. È la Russia che decide di applicare uno schema tipicamente statunitense – la “guerra preventiva” – per fermare l’avanzata statunitense. E con ciò l’unipolarismo statunitense, dopo aver da sempre scricchiolato, definitivamente crolla.

La faglia est/ovest

La definitiva messa in crisi dell’unipolarismo statunitense con l’attacco russo all’Ucraina segna la fine della struttura economica mondiale della cosiddetta globalizzazione, cioè di una fase del sistema imperialista mondiale, che vide una tendenziale integrazione globale, sotto l’egida economica e politica degli Usa. Dal fatidico 24 febbraio scorso, la reciproca imposizione di sanzioni tra Stati Uniti e Ue da una parte e Russia dall’altra ha definito una faglia pesantissima nei rapporti internazionali, che va posta in continuità con lo sviluppo di un “capitalismo politicamente diretto”, non più liberista e globalista, già ampiamente manifestatosi con il protezionismo dell’era Trump e con il dirigismo e le tendenze autarchiche della fase “pandemica”. La dialettica che ci consente di capire questo passaggio è quella tra economia e guerra, mediata dalla politica. La guerra imperialista è sviluppo della politica imperialista e la politica imperialista traduce gli interessi economici delle classi dominanti. Con un movimento di ritorno, la guerra imperialista finisce per riflettersi dialetticamente sull’economia stessa, sempre tramite l’azione politica delle classi dominanti, in modo da strutturare un’economia di guerra, cioè adatta e funzionale a garantire l’accumulazione nella situazione concretizzatasi con il procedere del conflitto politico-militare.

Le sanzioni imposte dall’Ue alla Russia, varate già dall’annessione della Crimea, nel 2014, ma pesantemente aggravate quest’anno, prevedono tutta una serie di misure per limitare il commercio con Mosca, tra cui spicca l’embargo progressivo per il petrolio. Si prevede inoltre, per restare alle principali misure economiche, il divieto di sorvolo per gli aerei russi e di attracco per le navi, il blocco delle transazioni per dieci banche russe a cui è precluso il sistema Swift, il bando di ogni operazione con la Banca centrale nazionale russa e il divieto di trasferimento in Russia di banconote denominate in euro. Per quanto riguarda il gas, invece, l’Ue ha dovuto limitarsi, data la dipendenza strutturale dalle forniture russe, ad una sorta di impegno politico alla diminuzione delle importazioni, prospettando, ma appena per il 2030, il loro totale superamento. Che il gas rappresenti il tallone d’Achille degli imperialisti europei, lo conferma anche il fatto che è la Russia stessa, in ritorsione alle sanzioni di Bruxelles, a condurre una sorta di guerriglia energetica sulle forniture, ora diminuendole e ora aumentandole, costringendo l’Ue a piani di disciplinamento interno dei consumi dei singoli paesi e seminando zizzania al suo interno, come nel caso della posizione ungherese.

Da parte statunitense vi è, invece, la volontà strategica di procedere ad una ulteriore ripartizione dei mercati europei a proprio favore, determinando un’integrazione dell’Unione Europea nella propria sfera di influenza economica ancora più forte di quella attuale. In sostanza gli Usa hanno lavorato alacremente, negli ultimi anni, per scavare un fossato profondo tra Bruxelles e Mosca, temendone l’integrazione energetico-industriale, e per colmare questo baratro con i propri capitali. Con il precipitare della situazione in Ucraina dopo l’intervento russo, gli imperialisti Usa sono riusciti pienamente nel loro intento, anche se, ad esempio, i progetti di una progressiva sostituzione del gas russo con quello liquefatto statunitense appaiono oggettivamente di difficile attuazione, in termini di costi economici, logistica, strutture e soprattutto per la conclamata incapacità a coprire il fabbisogno del vecchio continente. Le esportazioni russe di gas verso l’Europa, negli anni precedenti, erano pari a 150 miliardi di metri cubi e Biden, nel suo ultimo viaggio nel vecchio continente, ha annunciato forniture Usa pari solo a 50 miliardi di metri cubi1. Tanto che le potenze europee si stanno muovendo in ordine sparso per tentare di stabilizzare l’afflusso interno di gas, non senza contraddizioni, come dimostra l’accordo di luglio tra Italia e Algeria, un paese storicamente nell’orbita francese e la cui compagnia energetica di Stato, la Sonatrach, è legata alla russa Gazprom da collaborazioni per l’ampliamento dell’estrazione di gas nel paese africano. Ancora più significativo è l’acquisto a livello internazionale di gas da parte della Germania, durante la scorsa estate, che spiega in parte la crescita esponenziale del prezzo, ovviamente fregandosene delle conseguenze per gli altri paesi comunitari2. Del resto, anche la trattativa intereuropea per stabilire un tetto massimo al prezzo del gas si è rivelata difficoltosa: tra il veto dell’Ungheria, che punta a relazioni normali con i fornitori russi, ma anche dell’Olanda, sede della “borsa del gas” dove si realizzano le speculazioni finanziarie sul prezzo, e le titubanze della Germania, interessata a mantenere il rapporto con i propri fornitori sul mercato del Gnl, aldilà delle importazioni dalla Russia. Inoltre ovviamente pesano sulla trattativa gli interessi statunitensi ad esportare al massimo prezzo il gas verso gli alleati/subordinati europei.

Dopo l’inizio della guerra l’interscambio commerciale tra Russia e Ue non è disceso in termini di valore nominale, a causa dell’aumento dei prezzi di gas e petrolio, con conseguente guadagno russo, ma la dinamica complessiva delle importazioni e delle esportazioni è un altro segnale della faglia est/ovest scavata dal conflitto in Ucraina. Vi è stato, infatti, un calo netto delle importazioni dirette in Russia dall’Ue, dovuto alle sanzioni europee e, in minima parte, alle stesse controsanzioni varate da Mosca. Questa tendenza è iniziata dal 2014, cioè dopo l’imposizione delle sanzioni dell’Ue in risposta all’annessione russa della Crimea, ma è cresciuta pesantemente dopo il nuovo giro di vite voluto da Bruxelles. La Russia però non si può dire isolata. Quello che sta accadendo è la progressiva sostituzione delle importazioni in Russia dall’Ue con quelle provenienti dalla Cina. Ugualmente si può dire per le esportazioni della Russia: con una diminuzione speculare di più della metà di quelle dirette verso l’Ue e un contemporaneo aumento all’incirca equivalente di quelle dirette verso Pechino. In particolare, la crescita è dovuta all’aumento delle esportazioni di greggio, cioè della materia prima energetica sanzionata dall’Ue, con un aumento di più della metà della quantità importata dalla Cina. Un dato che oggi consente alla Russia di definirsi il primo fornitore di petrolio della Cina, superando Arabia Saudita e Iran.

La maggiore integrazione con la Russia da parte della Cina va letta anche rispetto ai valori dell’economia cinese che, nonostante le contraddizioni interne, continua a crescere sul piano del commercio mondiale. Il 2021 si è chiuso con un aumento delle esportazioni cinesi del 26%, mentre gli Usa hanno avuto una crescita al 18%. Oltre a ciò gli imperialisti cinesi possono rinfacciare ai loro concorrenti Usa un surplus di 396 miliardi di dollari3 in ulteriore crescita rispetto agli anni precedenti, nonostante Biden abbia rimosso solo a luglio 2022 una parte dei dazi imposti a suo tempo da Trump. Questa è stata presentata come una mossa in grado di disarticolare il rapporto sino-russo, ma è stata subito vanificata, ad inizio agosto, dalla provocatoria visita della speaker della camera Nancy Pelosi a Taiwan. D’altronde, da parte cinese non manca la volontà di sganciarsi dagli Usa anche a livello finanziario, come dimostra la progressiva vendita, da parte di Pechino, di titoli pubblici statunitensi e l’abbandono da parte di diverse imprese statali cinesi della borsa di New York4.

Di fatto, l’intervento russo in Ucraina ha accelerato un processo di divisione/integrazione economica (e politica) di due blocchi imperialisti che sembrano destinati a far competere sempre di più i rispettivi interessi nell’ambito della contesa globale, dunque nel processo di guerra imperialista. Da una parte Usa e Ue, con la netta preminenza dei primi e la seconda tenuta più o meno al guinzaglio, dall’altra Russia e Cina, con la prima che si conferma potenza energetica e militare e la seconda concorrente globale sul piano economico generale degli Usa. In questo scenario di multipolarismo di fatto, l’indebolimento dell’influenza statunitense a livello mondiale è ben rappresentata anche dalla decisione dell’Opec, ad inizio ottobre, di tagliare la produzione petrolifera, contribuendo al rialzo dei prezzi del petrolio, assecondando gli interessi russi di destabilizzazione dei mercati di Usa e Ue.

Vaso di coccio e tallone di ferro

Schiacciata tra Russia e Usa, ovvero due poli dotati di autonomia strategica politico-militare, e ridotta a prima linea nella guerra condotta da un blocco diretto da oltreoceano, l’Ue rischia di palesarsi come il classico vaso di coccio tra i vasi di ferro. Le previsioni economiche per l’Unione parlano chiaro: si sta andando verso la recessione, l’inflazione sta montando e la scarsità di gas ha già portato Bruxelles a varare misure di contenimento dei consumi per tutti i paesi membri.

Quali sono dunque i fattori che hanno portato l’Ue a schierarsi nettamente con gli Usa rispetto al conflitto con la Russia? L’aspetto fondamentale del determinarsi di questa posizione riguarda la capacità degli Stati Uniti di imporre la propria agenda strategica politico-militare nel contesto del capitalismo in crisi, cioè procedente verso l’aggravamento e la generalizzazione della guerra imperialista. In sostanza, i circoli imperialisti della cosiddetta Europa unita, hanno chiaro, da un lato, che la guerra è lo sbocco delle contraddizioni oggettive della crisi capitalistica, in particolare dello scontro interimperialista per una nuova ripartizione globale dei mercati, dall’altro sono consapevoli che non hanno la forza strategica politico-militare per imporre una propria linea nello sviluppo concreto di questo scontro, subendo così l’iniziativa degli Usa. Emblematico, da questo punto di vista, il tentativo della Francia di Macron di impedire la deflagrazione del conflitto, nelle settimane antecedenti l’intervento russo, proponendo anche una neutralità ufficiale dell’Ucraina, poi ignorato completamente sia dagli Usa che dall’Ucraina nonché dalla Russia. Un fallimento poi seguito dall’allineamento della presidenza francese alla guerra contro Mosca.

Aspetti secondari che però non possono essere tralasciati nell’analisi della posizione europea sono l’interesse dell’Ue a direzione tedesca alla espansione verso est (la vecchia questione dello “spazio vitale”), che comunque si sviluppa a danno dell’influenza russa e in rapporto al parallelo allargamento della Nato, nonché la tradizionale sudditanza dei regimi europei verso Washington a seguito della vittoria statunitense nella seconda guerra mondiale e ai quasi cinquant’anni di guerra fredda contro l’Urss.

Tuttavia il dato principale della subalternità europea agli Usa va soprattutto ricercato nella sfera strutturale dell’economia. Pur essendo oramai la Cina il primo esportatore di beni nei paesi dell’Ue, i flussi di investimento e quelli commerciali tra Ue e Usa rappresentano il sistema più integrato a livello mondiale, equivalendo al 40% del Pil globale e al 40% degli scambi globali di merci e servizi. La presidenza Biden si è mossa per rafforzare questo legame, ad esempio, abolendo i dazi sull’acciaio e sull’alluminio imposti da Trump e varando il Trade and Technology Council, un accordo di cooperazione economica e strategica tra le due sponde dell’Atlantico, per quanto riguarda semiconduttori, intelligenza artificiale e robotica. Va detto, per definire più concretamente il rapporto Usa-Ue, che i primi scontano un deficit negli scambi di beni pari a 184,25 miliardi di dollari nel 2020, mentre l’Unione detiene un deficit nel campo dei servizi, pari a 61,50 miliardi nel 20205.

La netta predominanza degli Usa va ricercata però sul piano della sfera finanziaria, ovverosia il tallone di ferro del capitalismo nella fase imperialista. È pur vero che l’euro vent’anni fa nacque come progetto di valuta alternativa al dollaro, non solo nel vecchio continente, ma come denaro mondiale, cioè utilizzata negli scambi a livello internazionale e tesaurizzata dalle banche centrali. Va detto, però, che l’incapacità dell’Ue di esercitare egemonia a livello mondiale, poiché priva di forza politico-militare affiancata a quella economica, ha bloccato sul nascere questa prospettiva. Esemplare l’attacco statunitense all’Iraq nel 2003, avversato allora da un triumvirato oggi (quasi) impossibile, ovverosia la Francia di Chirac, la Germania di Schroder e la Russia di Putin, motivato anche dalla dichiarata volontà da parte del governo di Saddam Hussein di commerciare il petrolio in euro.

All’incirca negli ultimi due decenni è invece aumentata la compenetrazione tra il capitale finanziario statunitense e quello europeo. Pensiamo al caso della statunitense BlackRock, la più grande società di investimento a livello globale, che ha finito per detenere la prima o la seconda quota in tredici delle quindici maggiori banche europee ed è stata persino scelta dalla Commissione Europea come consulente finanziario per la valutazione di sostenibilità ecologica degli investimenti6. Notevole, da questo punto di vista, è stata anche la crescita, all’interno della stessa Ue, del ruolo delle banche d’investimento statunitensi rispetto a quelle europee, con una ripartizione del predominio finanziario che ha seguito, a discapito degli istituiti di credito europei, le recenti fasi di aggravamento della crisi capitalistica7.

Il predominio del capitale finanziario statunitense in eurolandia arriva a determinare anche la sovrastruttura. Mario Draghi, prima di divenire presidente del consiglio italiano, è stato presidente della Bce dal 2011 al 2019 e precedentemente era advisormanaging director e vicepresidente della statunitense Goldman Sachs dal 2002 al 2005, la banca d’investimenti più grande del mondo. Da presidente della Bce promosse il quantitative easing, cioè l’immissione di denaro per l’acquisto di titoli a rischio, sul modello della Fed statunitense e di fatto su pressione Usa, vincendo la resistenza dell’imperialismo tedesco. Un altro ex-presidente del consiglio italiano, Romano Prodi, presidente della commissione europea dal 1999 al 2004, era stato consulente della Goldman e il suo successore alla commissione, Josè Barroso, una volta terminato il mandato, è stato ingaggiato dalla stessa banca niente di meno che come presidente non esecutivo. Mario Monti, altro ex presidente del consiglio italiano, è stato international advisor della Goldman dal 2005 al 2011, provenendo dal ruolo di commissario europeo per la concorrenza, sotto la presidenza della commissione da parte di Prodi.

Il keynesismo militare

La capacità degli Usa di influenzare l’Unione Europea determina l’adeguamento della borghesia del vecchio continente al capitalismo di guerra, con relative ricadute di sanzioni, inflazione e carenza energetica e con la necessità di rideterminare in tal senso una buona parte del settore industriale. Lo strumento principale, a livello strutturale, per compattare la borghesia industriale dietro le sirene della guerra è il keynesismo militare, cioè l’utilizzo massiccio della spesa pubblica per stimolare lo sviluppo del settore bellico. Si tratta, nell’attuale fase di crisi e guerra, della prosecuzione diretta dei grandi piani finanziari “pandemici”, che già avevano avuto ufficialmente il ruolo di rilancio dell’industria militare e di rinnovamento delle infrastrutture belliche. Peraltro, in alcuni casi, si è utilizzata la giustificazione tragicomica del “war green”, come nel caso della realizzanda base militare di Coltano, presso Pisa, finanziata con i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

Complessivamente, durante il governo Draghi, le spese militari italiane sono arrivate a 35 miliardi di euro all’anno, arrivando a toccare quasi il 2% del Pil, come da accordo del 2006 in ambito Nato. Tale obbiettivo è stato posto nel cosiddetto decreto legge “Ucraina”, lo stesso che ha stanziato l’invio di materiale bellico, secretato nella quantità e qualità, al regime di Zelesky.

Il nostro paese, essendo peraltro stimato come nono esportatore di armi a livello mondiale, si colloca così perfettamente in una tendenza internazionale, già iniziata chiaramente nel 2001, anno dell’avvio della guerra al “terrorismo”, per salire clamorosamente dopo l’annessione russa della Crimea e destinata a fare un balzo vertiginoso quest’anno, dopo l’avvio della cosiddetta operazione militare speciale russa. In realtà, già il 2021 era stato un anno record per la spesa militare mondiale, stimata a 2113 miliardi di dollari, con gli Stati Uniti che da soli ne coprono il 38% e assieme a Cina, India, Regno Unito e Russia arrivano al 62%. In Italia il 2021 aveva visto il finanziamento di ben 40 missioni militari all’estero, con 9.500 soldati stanziati su tutti i fronti di guerra in Europa, Asia e Africa, e la presentazione di 31 progetti di riarmo al parlamento, di cui 25 approvati già in corso d’anno, a beneficio dei monopoli del settore come Leonardo e Fincantieri, di cui lo Stato detiene quote azionarie rispettivamente per circa il 30 e il 71%.

Il settore industriale-militare italiano è fortemente integrato a livello internazionale, in rapporto alla collocazione politica del paese nelle contraddizioni globali. L’ultimo esempio in tal senso viene dalla fusione della divisione statunitense dell’italiana Leonardo con un suo equivalente israeliano, la Rada Electronic Industries, che le consentirà di essere quotata sia all’indice Nasdaq sia alla borsa di Tel Aviv. L’ennesima conferma, questa volta sul piano finanziario, dell’alleanza tra imperialismo italiano e sionismo israeliano.

Fincantieri è appaltante non solo della marina militare italiana (si veda da ultimo l’aggiudicazione del rinnovo di parte della flotta, per 13,5 milioni)8 ma si è vista attribuire, da parte Usa, anche la costruzione della loro terza fregata lanciamissili, nell’ambito del programma “Constellation”, assegnato nel 2020 proprio al monopolio italiano, escludendo i suoi equivalenti statunitensi e prevedendo la costruzione di 10 unità belliche navali per la marina yankee9.

Non a caso, il famigerato Comitato parlamentare per la sicurezza della repubblica (Copasir), quello delle liste di proscrizione dei cosiddetti filorussi, ha indicato in Leonardo e Fincantieri i monopoli italiani che dovranno partecipare alla “difesa comune europea”10, dopo il recente varo della “bussola strategica” dell’Ue, definita come complementare alla Nato, con la quale si punta a creare una forza di dispiegamento rapido unitario di un massimo di 5 mila soldati, nonché tutta una serie di misure per rafforzare il coordinamento bellico e securitario dei paesi dell’Unione11.

Ad aprile scorso è stato nominato il nuovo presidente di Fincantieri, il generale Claudio Graziano, con una carriera di missioni all’estero, già addetto all’ambasciata italiana negli Usa e soprattutto attuale presidente del comitato militare dell’Ue. Le gerarchie militari sono oramai direttamente parte della vita economica e politica, come già avvenuto nella gestione della sindemia di Covid-19, con il ruolo del generale Figliuolo come commissario straordinario all’emergenza, anche lui con una formazione nelle missioni all’estero e poi transitato al vertice del Comando operativo di vertice interforze, che coordina tutte le forze armate (terrestri, marina, aeronautica, spaziali e cibernetiche).

Nell’ambito dell’Unione, il dato più rilevante rispetto al keynesismo militare è il riarmo della Germania, che ha stanziato niente di meno che 100 miliardi di euro per il rafforzamento della potenza bellica, un cambio di passo storico che ci riporta ai tempi del nazismo, decidendo anche una modifica alla costituzione per consentire, senza freni, l’indebitamento pubblico per esigenze militari. Oltre ad essere una risposta alle storiche pressioni statunitensi in tal senso, non più eludibile a causa del precipitare del rapporto con la Russia, questo piano corrisponde alle necessità interne di sostenere l’industria nazionale, che pagherà un prezzo enorme per le sanzioni a Mosca e il caro-energia.

A livello di interscambio nel campo militare tra paesi comunitari, va inoltre segnalata la direttiva europea del 2019 che punta ad abolire l’iva sulla vendita di armi nell’ambito Ue, alla quale il governo Draghi si è adeguato a maggio.

Rispetto al ruolo statunitense nel riarmo europeo va ripresa la questione del capitale finanziario di cui si diceva poc’anzi. Se è vero che le aziende europee che producono armamenti sono per lo più a prevalente azionariato pubblico, come già visto per quelle italiane, va altresì detto che i fondi finanziari statunitensi, come BlackRock, Vanguard, Wellington e altri, ne detengono quote rilevanti. Ad esempio, Blackrock detiene una quota del 13,77% dell’azionariato di Airbus, il monopolio franco-tedesco-spagnolo dell’aeronautica, sia nel campo civile che militare. Paradossalmente, lo stesso fondo finanziario controlla al 13,86% la Boeing statunitense, la sua principale rivale, i cui interessi concorrenti avevano in passato portato Washington e Bruxelles a scontrarsi a suon di sanzioni12. Anche all’interno di Leonardo i fondi finanziari statunitensi (in particolare BlackRock, Vanguard, Dimensional, T. Rowe) hanno quote di azionariato.

In sostanza, il keynesismo militare europeo sta andando a braccetto con l’alta finanza Usa nell’aggravamento del processo di guerra imperialista a livello globale e anche questo contribuisce a spiegare la posizione europea. Ovviamente non si tratta di un processo già definito: la posizione tedesca si sta rivelando fortemente contraddittoria e non è detto, ad esempio, che la Germania mantenga per forza la posizione rigidamente atlantista, difronte alle contraddizioni interne che essa comporta.

Discorso analogo può essere fatto per l’allargamento della Nato a Svezia e Finlandia. È vero, dal punto di vista generale, che tale mossa rientra nel più vasto processo di accerchiamento alla Russia e che l’accelerazione in tal senso costituisce una risposta politico-militare dell’Alleanza Atlantica al tentativo russo di spezzare tale accerchiamento con l’offensiva in Ucraina. Tuttavia il ruolo del keynesismo militare e del capitale finanziario nell’avanzata della Nato in Nord Europa non può essere ignorato. Jacob Wallenberg, oligarca svedese che detiene un terzo del mercato azionario di Stoccolma, tra cui la maggioranza delle azioni della Saab, monopolio svedese dell’industria bellica, nonché membro del gruppo imperialista Bildenberg13, ha avuto un ruolo diretto nelle pressioni sui governi svedese e finlandese per decidere sull’adesione. I profitti operativi della Saab sono già cresciuti del 10% quest’anno rispetto al trimestre 2021, arrivando a 32 milioni di dollari14. Anche la pianificazione della centralizzazione della produzione in patria della multinazionale finlandese Wartsila, con l’annunciata chiusura dello stabilimento triestino, che produce motori anche per mezzi di guerra, può essere legata all’adesione del paese alla Nato e alle relative possibilità di laute commesse industriali militari direttamente entro in confini della Finlandia.

In Italia, invece, i padroni dell’industria militare vanno spesso direttamente a coincidere con la dirigenza dei partiti politici borghesi. Nell’ultimo Antitesi15 citavamo il caso della compenetrazione tra i vertici del complesso politico-militare-industriale italiano e le gerarchie del Pd. Fratelli d’Italia non è da meno: il cofondatore, assieme a Meloni, è Guido Crosetto, presidente della Federazione Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza, cioè la sezione “militare” di Confindustria. Non a caso Pd e FdI fanno a gara per chi è più atlantista.

La tempesta imperfetta

“È finita l’era della spensieratezza e dell’abbondanza”. Sono queste le parole che il presidente Macron ha avuto il coraggio di pronunciare, prospettando tempi ancora più difficili per le masse popolari, che la spensieratezza e l’abbondanza non l’hanno mai certo vissute.

Aldilà della provocatoria comunicazione dei politici europei, siamo sicuramente di fronte ad una fase di aggravamento pesantissimo della crisi per tutti i paesi Ue, nella quale la guerra imperialista e tutte le sue conseguenze vanno a costituire l’aspetto fondamentale e sul cui terreno si vanno muovendo la speculazione commerciale e finanziaria, come ha già dimostrato il caro prezzi delle materie prime energetiche.

Non si tratta di una “tempesta perfetta”, con dei manovratori in grado di prevedere e dirigere volontariamente tutto quanto accade. Crisi e guerra sono due aspetti della realtà oggettiva che gli imperialisti hanno sempre più difficoltà a governare e scaricare sulle formazioni della periferia per tener lontano dal loro riverberarsi nelle formazioni Usa e occidentali. Il conflitto dispiegato in Ucraina e, dunque, in Europa lo ha definitivamente dimostrato.

In questa situazione, la paura delle classi dominanti europee è costituita dal rafforzamento della mobilitazione di massa e della lotta proletaria. Lo si è visto dalla repressione dura, anche violenta e omicida, contro i movimenti di massa fuori dal loro controllo, come il movimento dei “gilet gialli” in Francia e quello contro il green pass in Italia, con l’utilizzo dei reati associativi contro le lotte popolari e i gruppi organizzati che le mettono in campo (inchieste contro i sindacati di base, contro l’Askatasuna di Torino, contro i portuali di Genova…). Inoltre, attraverso la gestione autoritaria dell’epidemia di Covid-19, i governi europei hanno messo in campo delle misure politiche di tipo emergenziale che diventano permanenti nelle loro modalità di gestione delle contraddizioni sociali, a tutti i livelli. Innanzitutto, gli schemi del disciplinamento sociale, presentati come misure sanitarie, tendono ad essere ripetuti per la gestione della crisi energetica. Senza contare il fatto che vecchie e nuove epidemie potranno essere utilizzate per ulteriori strette autoritarie, unendo l’emergenzialismo “sanitario” a quello bellico. Inoltre, alla faccia della presunta svolta green, il tentativo degli imperialisti europei è quello di legittimare e promuovere ogni prospettiva che possa sopperire alla penuria energetica, fregandosene dell’impatto ambientale di impianti di rigassificazione, centrali nucleari e a carbone, estrazione di gas e petrolio con tecnologie di fratturazione idraulica.

L’Italia rischia di essere un vaso di coccio tra i più fragili nel vaso di coccio complessivo dell’Ue. La classe dominante nostrana ricerca disperatamente un governo forte, saldamente legato a Bruxelles e Washington, ma contemporaneamente è segmentata in fazioni i cui interessi divergenti esplodono periodicamente, come si è reso evidente con le dimissioni premature dei governi Conte e del governo Draghi.

Come comunisti la storia ci ha dato ragione: la tempesta di guerra e crisi infuria come non mai ed è destinata probabilmente ad infuriare con sempre più violenza. Ora a questa ragione, alle azzeccate previsioni meteorologiche, dobbiamo dare forza concreta, imparando cioè a navigare in senso rivoluzionario nella tempesta.


Sull’Unione Europea

Nei termini della politica borghese, l’Unione Europea si caratterizza come un’entità politica formata da un insieme di Stati del vecchio continente che hanno deciso, dapprima, di darsi delle regole comuni in ambito commerciale ed economico e, poi, di strutturare degli organismi politici di coordinamento sovrastatuale in tutti gli ambiti delle loro relazioni, della loro politica interna e della politica estera, adottando anche una moneta comune. Nei termini della politica proleta-ria, va detto che, a taluno di questi Stati, corrisponde una diversa classe dominante borghese, con una propria natura capitalistica e, nei casi delle maggiori potenze, imperialistica. Definiamo perciò l’Ue un aggregato di borghesie capitaliste e imperialiste. Tramite il loro processo di in-tegrazione economica e politica, contraddittorio visto i loro interessi spesso divergenti, queste classi dominanti puntano a proporsi in maniera più forte sul piano globale nel confronto con le altre potenze imperialiste, costituendo un polo sovrastatuale monopolista, autonomo e unitario. Questo aspetto generale convive, scontrandosi, con la tendenza specifica di alcune potenze ad esercitare un’egemonia economica e politica all’interno dell’Unione Europea, egemonia che consentirebbe loro di utilizzare la Ue come proprio specifico strumento. È il caso della Germania. L’aspetto fondamentale che ha segnato l’esistenza politica dell’Ue è la sua mancanza di autonomia politico-strategica che, nell’epoca dell’imperialismo, si determina con lo sviluppo di un piano militare. Il dato storico della vittoria statunitense nella seconda guerra mondiale, il cinquantennio di guerra fredda contro l’Urss e in particolare la subordinazione alla Nato, con il corollario delle centinaia di basi Usa sparse nel vecchio continente, hanno da sempre determina-to l’incapacità della Ue a definire una propria proiezione militare. A conferma di ciò vi è il dato di fatto che ogni progetto europeo di politica estera e di “difesa” comune viene ufficialmente posto come integrato all’Allenza Atlantica, a partire dalla Permanent Stuctured Cooperation (Pesco), istituita solo nel 2017 per la collaborazione in ambito militare tra i paesi comunitari. Oltre a ciò, va fatta una riflessione sulle contraddizioni interimperialiste che covano proprio all’interno dell’Ue. Esempio emblematico è quello della guerra civile libica, con l’Italia schierata (con la Turchia) a fianco del governo di Tripoli, custode dei maggiori giacimenti Eni, e la Francia (con la Russia) schierata con le autorità di Tobruk e con il generale Haftar, a difesa degli interessi della Total. Alle contraddizioni sulla politica estera si affiancano quelle in politica economica interna, ad esempio lo storico conflitto tra la posizione, sostenuta dalle gerarchie burocratiche della com-missione e della Bce, che persegue la centralizzazione finanziaria e quella della Germania, che punta esclusivamente al tornaconto della moneta unica, opponendosi all’assunzione di obblighi finanziari a livello centrale e scaricando le conseguenze di ciò principalmente sui paesi mediter-ranei, più instabili a livello finanziario.


Viva la lotta degli operai della Wartsila!

Il 14 luglio scorso, la direzione della multinazionale finlandese Wartsila annuncia di botto il dimezzamento occupazionale dello stabilimento di Trieste, con il conseguente avvio della proce-dura di licenziamento per 451 dei 973 dipendenti del sito, il più grande centro per la produzione di motori navali in Europa. La fabbrica è quella della storica Grandi Motori Trieste, centro produttivo di Stato acquistato dai padroni nordici nel 1999, a seguito del processo di svendita e ristruttura-zione dell’industria pubblica del nostro paese a cavallo tra i due secoli. All’annuncio del licenziamento di massa, viene subito proclamato uno sciopero, dal quale nasce il presidio permanente all’esterno dello stabilimento, organizzato su spinta diretta dei la-voratori, con i sindacalisti della triplice che all’inizio si erano espressi in maniera piuttosto recalci-trante sull’iniziativa. Lo scopo del presidio è quello di vigilare sull’uscita di materiali e strumenti di lavoro dall’interno dello stabilimento, impedendo che nelle ore in cui la fabbrica è ferma i padroni possano svuotarla. Frattanto nel periodo successivo, all’interno della fabbrica si continua a lavorare, rallentando però i ritmi in maniera meticolosa e con frequenti scioperi in occasione dei presidi che i sinda-cati cominciano a convocare in centro città. All’opposizione operaia rispetto ai licenziamenti, si aggiunge quella istituzionale, sopratutto la regione Friuli Venezia Giulia capeggiata dal leghista Fedriga (uomo dell’ex ministro dello sviluppo economico Giorgetti) e quella di Confindustria e Fincantieri, contrari al reshoring finlandese per tutelare la catena del valore del sistema indu-striale italiano. Ad agosto arriva la solidarietà concreta dei portuali triestini: viene proclamato lo stato di agitazione volto ad impedire qualsiasi operazione di imbarco di materiali provenienti dallo stabi-limento Wartsila. In particolare, la multinazionale coreana Daewoo è costretta a rinunciare ad un imbarco di dodici motori prodotti a Trieste. Poi il 3 settembre si tiene una grande manifestazione in solidarietà agli operai: dodicimila persone sfilano per le vie del centro cittadino, con la presenza anche di una delegazione solidale dei lavoratori della Gkn di Firenze. Venti giorni dopo, il tribunale di Trieste blocca la procedura di licenziamento per condotta antisindacale tenuta dall’azienda: una prima vittoria sul piano giu-diziario che non sarebbe stata possibile senza la mobilitazione reale. Le burocrazie sindacali, coerenti con la loro natura, ne approfittano subito per un tradimento: revocano lo stato di agita-zione portuale, per consentire la consegna dei motori a Daewoo in cambio di una sua presa di posizione contro la dismissione del sito triestino. Una decisione che provoca rabbia e sconcerto tra la base operaia, con le direzioni sindacali che provano a smorzare promettendo che null’altro uscirà dallo stabilimento. L’insegnamento da trarre è che anche nella lotta per la difesa dei posti di lavoro alla Wartsila di Trieste, così come in ogni vertenza operaia, conta la capacità della classe di darsi una sua autonoma organizzazione e direzione, che sviluppi rapporti di forza adeguati con il padronato, costringendo le burocrazie sindacali a venire al traino. Bisogna in particolare che si sviluppi l’uni-tà e la solidarietà di classe, ben rappresentata dalla scesa in campo dei portuali, contando sulla forza della lotta, senza delegare a sindacalisti, politicanti e giudici la difesa dei posti di lavoro.


1 Tra l’altro, ad inizio giugno, il principale sito per lo stoccaggio del gas naturale liquido statunitense verso l’Europa ha subito un misterioso incidente, che ha bloccato i flussi oltre l’Atlantico, contribuendo ad un ulteriore rialzo dei prezzi. Vedi K. Carboni, L’incidente che ha fatto impennare di nuovo i prezzi del gas in Europa, wired.it, 18.6.2022; vedi anche M. Bottarelli, Game over: l’hub che invia LNG in Europa chiuso fino a fine anno. Mosca o Canossa?, money.it 14.6.2022. Si è trattato di un caso o di un atto deliberato di speculazione e/o di boicottaggio economico dell’Ue?

2 P. Annoni, SPILLO GAS/ Così la Germania manda in frantumi la solidarietà europea, sussidiario.net, 24.8.2022.

3 G. Modolo, Cina, il boom dell’export fa volare il settore commerciale, repubblica.it, 14.1.2022.

4 La Cina vende titoli di Stato Usa: incassati 113 miliardi di dollari in 7 mesi, tg24.sky.it, 17.8.2022.

5 E. Baroncelli, I rapporti economici tra Stati Uniti ed Unione Europea e il rilancio dell’ordine liberale: vincoli e opportunità per la Presidenza Biden, geopolitica.info, 13.4.2022.

6 G. Marchetti, BlackRock, come il capitale finanziario controlla la politica in Usa e Ue, 14.2.2021, sinistrainrete.info

7 D. Schoenmaker, C. Goodhart, The United States dominates global investiments banking: does it matter for Europe? 7.3.2016, bruegel.org

8 A Fincantieri appalti per 13,5 milioni su navi della Marina Militare, shippingitaly.it, 18.1.2022

9 Fincantieri costruirà per la Us Navy la terza fregata del programma “Constellation”, fincantieri.com, 17.6.2022

10 C. Rossi, Difesa comune europea, il ruolo di Leonardo e Fincantieri. Report Copasir, startmag.it, 28.7.2022

11 Consiglio dell’Ue, comunicato stampa, Una bussola strategica per rafforzare la sicurezza e la difesa dell’UE nel prossimo decennio, consilium.europa.eu, 21.2.2022

12 V. Neri, L’industria militare europea è nelle mani dei soliti noti, valori.it, 7.4.2022

13 Vedi scheda p. 64

14 L. Linch, New Left Review, La neutralità perduta di Finlandia e Svezia, in Internazionale n° 1462, 27 maggio – 2 giugno 2022

15 Vedi Antitesi n° 12, p. 66


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