La Russia di oggi
La natura di classe del putinismo
“Imperialismo e guerra” da Antitesi n.13 – pag.32
Nel primo numero di Antitesi citavamo un giudizio dell’Istituto di politica internazionale Ispi che affermava come “l’obiettivo della integrazione della Russia nell’Occidente sia stato perseguito dagli Stati Uniti e dall’Europa con la convinzione che, da parte russa, si accettasse il modello culturale e politico statunitense ed europeo”1. Queste parole sembrano riassumere efficacemente quanto vi era nei desiderata della borghesia imperialista Usa e Ue, in merito al contenimento e sfruttamento di un paese economicamente importante e ricchissimo di risorse energetiche come la Russia, che nel 1992 era il paese con il territorio più vasto al mondo, sesto per popolazione e controllava le prime riserve mondiali di gas e le ottave di petrolio. Gli auspici dell’imperialismo statunitense ed europeo erano galvanizzati dalla svendita economica e politica del paese, voluta della presidenza Eltsin negli anni successivi al crollo dell’Urss. Questi progetti dell’imperialismo atlantico si sono scontrati con gli interessi della borghesia imperialista russa, che intanto si era consolidata, capitanata dallo Stato russo impersonificato da Putin. Un processo che oggi è arrivato al suo punto massimo, con l’attacco all’Ucraina per difendersi preventivamente dallo sviluppo e dall’accerchiamento dei paesi Nato presso i suoi confini e le sue storiche sfere di influenza, ponendosi così in maniera antagonistica rispetto agli Usa, all’Ue ed alla Nato.
In questo articolo cerchiamo di analizzare quale sia stato lo sviluppo della Federazione Russa dalla fine degli anni Novanta, con l’insediamento a presidente di Vladimir Putin e come la politica del governo russo in questi ultimi venti anni rappresenti una cesura sostanziale nei confronti della politica di svendita economica e resa politica degli anni eltsiniani. Una politica, quella putiniana, volta a perseguire, difendere e sviluppare gli interessi strategici dell’imperialismo russo, della borghesia imperialista e dei gruppi monopolisti di Stato, finanche arrivando allo scontro con altre potenze imperialiste, dando un definitivo addio ai propositi dei governi Usa e Nato di sottomissione e integrazione, che avevano cullato i sogni degli imperialisti dopo il crollo dell’Urss e dei paesi dell’Europa orientale.
La svendita eltsiniana
Nell’Urss revisionista, la ricchezza sociale che gli operai e i contadini sovietici creavano veniva estorta e accumulata in senso capitalistico dallo Stato, cioè dalla grande borghesia burocratica a livello centrale e, a livello locale, dalle singole aziende capeggiate dai nuovi capitalisti, i dirigenti delle imprese collettive, i funzionari e dirigenti del Pcus.
Il crollo delle democrazie popolari e la dissoluzione dell’Urss a partire dalla fine del 1991 hanno determinato, quindi, il passaggio da una economia sostanzialmente a capitalismo di Stato, retta dalla borghesia burocratica e frutto della restaurazione di rapporti capitalistici da parte dei revisionisti moderni, a un sistema a capitalismo privato, o comunque di mercato, con l’adozione del modello politico della democrazia borghese2.
Negli anni della presidenza di Boris Eltsin, dal giugno 1991 come Presidente della Repubblica russa e dal 1992 al 31 dicembre 1999 come Presidente della Federazione Russa, si completò la liquidazione delle forme socialiste in campo economico, sociale e politico e la nuova borghesia russa, ormai priva di cappi per l’accrescimento del profitto, partorita nella borghesia burocratica revisionista sovietica, fece man bassa di capitale pubblico e distruzione di forze produttive, tramite programmi di liberalizzazioni e privatizzazioni selvagge, sotto la regia del capo dello staff presidenziale Anatoli Chubais e di consulenti delle istituzioni finanziarie dell’imperialismo Usa3.
Fu in questi anni che si cominciarono a delineare i primi gruppi monopolisti, soprattutto nel settore delle materie prime, petrolio, gas, settore minerario, molto spesso capitanati da singole persone che cominciarono ad essere chiamati “oligarchi”, formando, quindi, una oligarchia finanziaria e amministrativa che ha concentrato le enormi ricchezze e il capitale nelle mani di grandi compagnie private.
L’economia degli anni Novanta era sostanzialmente dipendente dall’esportazione di materie prime e dall’importazione di macchinari, tecnologia e prodotti di consumo. Una situazione che in parte derivava anche dalla precedente economia revisionista sovietica: nel 1990, cioè alla vigilia del crollo dell’Urss, il rapporto tra i volumi del commercio estero e il bilancio dello Stato era del 224,8% (questo rapporto nel 1950 era dello 0,4%)4. La classe revisionista borghese all’interno del Pcus e delle imprese collettive, quindi, aveva già creato il passaggio dell’integrazione dell’economia russa nel mercato mondiale, da una posizione di debolezza e di dipendenza nei confronti degli altri paesi imperialisti.
La politica di svendita e rapina economica degli anni della presidenza Eltsin porterà nel 1998 al default dello Stato che si dichiarerà insolvente nel pagare il debito estero, con la Banca centrale russa non più in grado di rimborsare i propri titoli di Stato, portando alla svalutazione del rublo, l’inflazione all’84%, salari e stipendi non pagati a lavoratori e pensionati. La dirigenza eltsiniana, chiese prestiti al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale per 23 miliardi di dollari, approfondendo così il legame di dipendenza con le strutture economiche e finanziarie dell’imperialismo degli Usa e dell’Europa.
Il processo, guidato da Eltsin e dalla sua dirigenza, di restaurazione completa dei rapporti capitalistici nella società, la svendita, la liberalizzazione e privatizzazione delle risorse energetiche, delle ricchezze produttive, a vantaggio di gruppi di pochi capitalisti, la chiusura di fabbriche e i licenziamenti di massa nel settore pubblico e privato, la distruzione delle garanzie e delle difese sociali, come casa e sanità, in nome del neoliberismo e del profitto, è stato pagato duramente dalle masse popolari russe. L’agenzia Onu per lo sviluppo, nel 1999, stimò in 10 milioni i morti provocati dal crollo dell’Urss e degli altri paesi ex socialisti ed in Russia, a causa dello smantellamento delle conquiste sociali del periodo sovietico. Tra il 1990 e il 1995 vi furono tre milioni di morti in più rispetto agli anni precedenti, con un aumento del tasso di mortalità del 41%5.
Putin e il putinismo
Negli anni di presidenza Eltsin, parte della borghesia burocratica russa cercò di contrapporsi alla politica presidenziale di privatizzazione e di modellamento di un regime sempre acquiescente agli interessi dell’imperialismo atlantico. Tale fazione vide nel processo di compradorizzazione agli Usa una minaccia strategica per i propri interessi economici e politici che, sia in patria che all’estero, dovevano essere subordinati ai capitalisti stranieri. L’apice dello scontro all’interno della borghesia si ebbe nel settembre – ottobre 1993 quando Eltsin dichiarò la dissoluzione del soviet supremo (il parlamento russo, che era ancora definito così e che poi riprenderà il nome di Duma, il vecchio “parlamento” zarista), con l’ordine di bombardarne il palazzo, dopo che questi ne aveva chiesto la destituzione. Uno scontro al quale, peraltro, parteciparono migliaia di proletari e comunisti russi, in opposizione al regime eltsiniano, pagando un altissimo tributo di sangue, con una vera e propria carneficina commessa dai militari.
Verso la fine del mandato presidenziale di Eltsin, lo scontro si concretizzava in cambi continui nelle nomine a capo del governo dell’una o dell’altra fazione in lotta, con crisi istituzionali, quattro nomine diverse a capo del governo in poco più di un anno, instabilità economica e politica.
La parte di borghesia burocratica che propendeva per una politica di difesa degli interessi nazionali, di non accettazione del modello unipolare imposto da Washington e di apertura con i mercati di Cina e India vide in Vladimir Putin, allora capo dei Servizi di sicurezza (Fsb, i servizi segreti russi succeduti al Kgb sovietico), il personaggio politico da sostenere: il 9 agosto viene nominato alla carica di presidente del governo e, nelle elezioni presidenziali del marzo 2000, è eletto per la prima volta presidente della Federazione Russa. Putin in realtà si presentava come uomo vicino ad Eltsin, di raccordo tra la fazione borghese filoccidentalista e quella nazionalista, raccogliendo consensi da entrambe le parti. Però fin da subito la nuova presidenza segna un cambio di passo non confermando al vertice dei ministeri le figure più significative dell’era eltsiniana.
I primi anni della presidenza Putin sono stati caratterizzati da una favorevole congiuntura economica: al momento in cui Putin arriva alla presidenza il prezzo del petrolio era di 10 dollari al barile, al termine del 2008 era di 94 dollari al barile. I bassi salari, la svalutazione del rublo conseguente alla crisi del 1998 che ha reso i beni e servizi russi più competitivi sul mercato mondiale, come ad esempio i beni agricoli, e l’aumento del prezzo e della domanda di petrolio hanno provocato un boom economico dal 2000 al 2008, che ha permesso di sviluppare anche altri settori dell’economia, non solo quelli collegati al settore energetico, con piani di investimento governativi per modernizzare le infrastrutture. Dal 2000 la crescita economica è stata in media del 7% annuo, con l’aumento delle entrate dello Stato che hanno permesso di abbassare il debito pubblico. Inoltre il debito estero è sceso dal 90% del Pil nel 1999 (negli anni eltsiniani) al 12% del Pil alla fine del 2005. Negli stessi anni il Pil russo cresce del 94%, raddoppiando la quota di Pil pro-capite, passando dai 210 miliardi di dollari del 1999 ai 1200 miliardi nel 2008, attestandosi nel 2021 a 1775 miliardi di dollari6.
La politica industriale del governo russo in questi anni di presidenza Putin è stata indirizzata alla riduzione delle influenze esterne e alla ricerca di una maggiore indipendenza dell’economia dalle fluttuazioni del prezzo del petrolio. Ricordiamo che l’esportazione di petrolio e gas rappresenta ancora il 55% del totale delle esportazioni e il 40% delle entrate del governo federale.

La consolidata crescita economica ha permesso di accumulare nella banca centrale russa riserve auree per 130 miliardi e riserve in dollari per 630 miliardi; di queste ultime circa 463 miliardi sono in attività finanziarie in banche al di fuori del territorio russo e quelle che erano detenute negli Usa, nei paesi Ue, in Inghilterra e Giappone sono ora oggetto di blocco e sequestro, frutto delle sanzioni che questi paesi attuano contro la Russia dopo l’intervento in Ucraina, il 24 febbraio scorso7.
Questo periodo di crescita economica ha contribuito a dare stabilità politica e consolidare il regime putiniano, migliorato le condizioni generali delle masse popolari rispetto agli anni precedenti e aumentato il consenso popolare nei confronti delle politiche presidenziali, dopo la disastrosa esperienza degli anni Novanta. Ad esempio il dato sull’aspettativa di vita in Russia è migliorato dopo che nel 1994 (gli anni eltsiniani) era di 57,5 anni per gli uomini e 71,2 anni per le donne: tra il 2003 e il 2015 le aspettative sono incrementate di 7,4 punti percentuali per gli uomini e 4,9 punti per le donne e attualmente si attesta a 67,5 per gli uomini e 77,6 per le donne8.
Nei primi anni della sua presidenza, Putin provvede a riorganizzare l’apparato politico e amministrativo, posizionando persone di fiducia provenienti dai cosiddetti “ministeri della forza” (ministero degli interni, della difesa, apparati di sicurezza), i siloviki, con lo scopo di formare un ceto dirigente in grado di conoscere ed attuare tutte le misure necessarie, di controllo e repressione. In merito alla considerazione di questo aspetto da parte del potere statale russo riportiamo un giudizio espresso da Vladislav Surkov, ex primo consigliere di Putin: “Il nostro Stato non è diviso tra Stato profondo (Deep State) e Stato esteriore, è integro e le sue componenti sono ben visibili (…) Forti tensioni interne, dovute al bisogno di mantenere il controllo permanente su immensi spazi eterogenei e la partecipazione costante del nostro paese alla lotta geopolitica internazionale rendono indispensabile e decisivo il potere militare e poliziesco”9.
Sempre in questi anni vengono promossi organi amministrativi come il Consiglio di Stato composto dai rappresentanti federali delle 85 regioni, incluse le 22 repubbliche, componenti la Federazione Russa, il Consiglio legislativo per armonizzare le legislazioni delle singole repubbliche con la legislazione centrale, il Consiglio presidenziale per i progetti economici, politici e culturali di rilevanza nazionale, preposti a creare gran parte dell’iniziativa decisionale governativa, estendendo nei vari settori della società la struttura di controllo e repressione e rafforzando la componente di borghesia burocratica dello Stato.
Inoltre, per radicare e ramificare ulteriormente il proprio controllo sul territorio e raccogliere e selezionare nuovi elementi per le strutture politiche locali, regionali e nazionali, viene creato il partito politico del Presidente: Russia Unita.
Questo partito, ideato dal già citato Vladislav Surkov, sorge nel 2001 dalla fusione del primo partito pro-Putin, Unità, con il blocco Patria dell’ex ministro degli esteri ed ex premier Primakov. Rappresenta una macchina elettorale per macinare consenso alle iniziative governative di Putin e stabilizzare la struttura di potere, consentendo al regime putiniano di gestire i governatori regionali, le elezioni e la lealtà al Cremlino, attraverso incentivi, premi, elargendo finanziamenti a progetti specifici a livello locale, ed ottenere così maggiore consenso popolare, nonché clientelismo politico attraverso assunzioni e promozioni di carriera. Il partito ha anche una struttura giovanile, Giovane Guardia, con 170 mila iscritti, raggiungendo i 2 milioni di iscritti, superando il Partito Comunista Russo che con 500 mila iscritti era stato per lungo tempo il partito politico di Russia con più militanti10.
Altro passaggio del putinismo consiste nel potenziamento del centralismo dello Stato per mantenere l’egemonia sulle periferie, contrastando la forte regionalizzazione e le autonomie regionali che caratterizzavano invece lo Stato russo di Eltsin. È così aumentato il potere del centro governativo sulle regioni, con l’intento di reprimere preventivamente eventuali richieste di maggiore autonomia e addirittura di secessione come è stato con le due guerre contro il separatismo ceceno del 1994-1996 e del 1999-2009. Il centralismo russo, di vecchia tradizione zarista, prevede che le entrate derivanti dalla politica fiscale a livello locale vengono trasferite al centro governativo e successivamente da questo redistribuite alle strutture locali. Inoltre viene inizialmente modificata la legislazione in materia di elezioni regionali e i governatori vengono designati dai parlamentari locali su proposta del presidente russo. Successivamente, dal 2012, si ritornerà alle elezioni dei governatori regionali, ma con una serie di filtri che assicurano comunque il controllo del governo centrale sulle nomine locali: il presidente della Federazione Russa ha il diritto di rimuovere il governatore per mancanza di fiducia e dopo la revoca questi non può assumere il ruolo di governatore per 5 anni11.
Vi è stata così una forte centralizzazione della linea di comando del governo federale rispetto alle autonomie locali e i rappresentanti del partito filogovernativo Russia Unita insieme ai rappresentanti del ramo della sicurezza dello Stato (siloviki) hanno colonizzato le istituzioni politiche locali e centrali.
Tutti questi passaggi politici amministrativi dei primi anni della presidenza Putin hanno portato ad una ridefinizione dei rapporti tra quella che possiamo definire borghesia burocratica e la oligarchia finanziaria determinatasi dalla fusione del grande capitale industriale privato, principalmente del settore delle risorse energetiche, e del grande capitale bancario. Putin ha proceduto a rafforzare la componente di borghesia burocratica ed il ruolo dirigente dello Stato nell’economia attuando un programma di nazionalizzazione di grandi compagnie, soprattutto del settore petrolifero ed energetico, scontrandosi anche con parte della nuova borghesia imperialista russa. In questi anni Gazprom diviene per il 50% di proprietà dello Stato russo, Bashneft e Yukos vengono nazionalizzati espropriando il capitalista Michail Chodorkovskij e arrestandolo per evasione fiscale nel 2003, oltre a inserire partecipazioni statali (golden share) in numerose altre società.
Con questi provvedimenti e azioni nei primi anni della sua presidenza, Putin si è così caratterizzato come rappresentante complessivo della classe borghese, che vuole dare linea strategica all’imperialismo russo, scontrandosi ed emarginando chi, quantunque capitalista, non si conforma a questo progetto, riservando un ruolo fondamentale alla grande borghesia burocratica. Quest’ultima è stata chiamata a governare i processi decisionali ed economici in funzione di perseguire gli interessi strategici complessivi dell’imperialismo russo, unificando forzatamente l’intera classe dominante, anche quella dei capitali monopolistici privati.
Natura imperialista del sistema russo
Nell’opera Imperialismo fase suprema del capitalismo, Lenin illustrava le cinque principali caratteristiche dell’imperialismo12: “1) La concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica; 2) La fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo ‘capitale finanziario’, di un’oligarchia finanziaria; 3) La grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci; 4) Il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo; 5) La compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche”13.
Per quanto riguarda la soddisfazione della prima caratteristica sopra esposta, in Russia l’economia è governata dai grandi monopoli privati, dalle grandi imprese pubbliche statali o controllate dallo Stato, principalmente nel settore del petrolio e del gas, ma anche del settore minerario, delle tecnologie, del commercio, ecc. La formazione di capitali monopolistici è stata accelerata grazie anche allo sviluppo che già nell’Urss revisionista aveva avuto la concentrazione della produzione, effettuando un salto in questo processo di monopolizzazione con la fine dell’Urss e l’instaurazione formale della proprietà privata dei mezzi di produzione. I monopoli passavano così nelle mani, anche giuridicamente, dei dirigenti di azienda o ai funzionari di partito che prima nell’Unione Sovietica revisionista avevano ruoli dirigenti nelle fabbriche o nei vari settori dell’economia.
Quella russa è ora una economia dove i grandi gruppi monopolisti la fanno da padroni: nel 2016 i dati ufficiali sulle piccole imprese, fino a 100 lavoratori, rilevano una occupazione solo del 15% del totale dei lavoratori, mentre i dati per l’Europa centrale ed orientale parlano di circa il 40%14, illustrando perciò una alta concentrazione del capitale e della produzione che impiega gran parte dei lavoratori in Russia.
I principali gruppi monopolistici russi odierni sono Gazprom, estrazione del gas, controllata dallo Stato, Rosneft, petrolio e gas, controllata dallo Stato, Lukoil, petrolio e gas, privata, Rostec, ingegneria, privata, Surgutneftgaz, petrolio e gas, privata, Transneft, trasporti, privata, Rusal, metallurgia (più grande produttore di alluminio al mondo), privata, Bashneft, petrolio e gas, controllata dallo Stato, solo per citarne alcune. Parimenti anche il settore bancario è estremamente sviluppato con colossi come la Sberbank, terza banca più grande di Europa e 490 miliardi di dollari in attività, la Vtb Bank, la GazpromBank, di proprietà di Gazprom, creata già nei primi anni novanta, Alfa Bank, la più grande banca d’affari privata della Russia.
Venendo alla seconda caratteristica, nell’imperialismo russo si è concretizzato il legame tra grandi monopoli, banche, fondi di investimento privati, con partecipazioni incrociate del capitale industriale in quello bancario e viceversa, ovvero si è compiuta la fusione tra capitale industriale e capitale bancario.
Anche l’esportazione di capitale (terza caratteristica) comincia ad assumere un ruolo sempre più importante, qualitativamente e quantitativamente. Gli investimenti diretti esteri netti della Russia a livello globale nel 2015 ammontavano a circa 27 miliardi di dollari. Nel 2021 questo valore era arrivato ad oltre 63 miliardi. Per fare un paragone, gli investimenti diretti netti della Francia nel 2015 erano superiori a 53 miliardi di dollari, ma nel 2021 questo valore consisteva in un saldo negativo di quasi 3 miliardi15. Un tanto per dare conto della crescita russa negli anni recenti e della contemporanea erosione degli spazi di investimento delle vecchie potenze imperialiste.
Arrivando alla quarta e alla quinta caratteristica, possiamo definire la natura imperialista dello stato russo odierno anche per il ruolo attivo che la politica internazionale della Federazione russa sta avendo negli ultimi anni, di intervento politico e militare in diversi contesti geografici come Africa, Medioriente, Asia, inserendosi a pieno titolo nella lotta tra le grandi potenze imperialiste per la spartizione del mondo in aree di influenza e dominio economico e politico.
Con questo non vogliamo affermare che la potenza russa, sul piano economico, sia oggi paragonabile a quella di paesi come gli Stati Uniti o la Cina. Si tratta però di un paese imperialista, gravato anch’esso da contraddizioni e per molti versi debole (ad esempio sul piano del capitale tecnologico) che però lotta in generale per il suo spazio globale e principalmente per difendere il proprio “spazio vitale” regionale nell’area eurasiatica, puntando così anche a superare le proprie stesse contraddizioni. Tale lotta si inserisce all’interno di un processo di modificazione dei rapporti economici globali via via a favore delle cosiddette potenze emergenti, che progressivamente le sta strutturando come nuovi poli economici e politici in grado di contendere l’egemonia e il dominio alle vecchie potenze imperialiste. Si tratta di un processo in divenire, sia all’interno delle singole formazioni economiche che sul piano globale, e che ha come suo corollario oggettivo lo sviluppo della tendenza alla guerra, oggi concentratasi nello scontro interimperialista rispetto all’Ucraina.
La sovrastruttura del putinismo
La ridefinizione dell’imperialismo russo nel contesto dello scontro con le altre potenze dell’imperialismo statunitense ed Ue, della difesa delle proprie sfere di influenza e di intervento, ha comportato anche una ridefinizione del piano sovrastrutturale, per sviluppare egemonia e consenso delle masse popolari rispetto alle politiche governative.
In questo senso, il putinismo ha costruito una narrazione che riprende immagini della tradizione e della storia russa con particolare attenzione ai concetti di famiglia, radici cristiane, memoria storica e patriottismo.
Su questo aspetto facciamo alcune considerazioni sulla revisione costituzionale attuata nel 2020. Oltre a prolungare il mandato presidenziale da 4 a 6 anni e quindi mantenere potenzialmente l’insediamento a presidente di Putin fino al 2036, contiene aspetti che offrono una veduta della linea politica impressa dal putinismo, di scontro con i sistemi politici imperialisti degli Usa e della Ue, rifacendosi a concetti come la difesa di valori tradizionali e l’esaltazione della grande guerra patriottica contro la Germania nazista.
Quest’ultimo rimando all’Urss, lungi dal voler riproporre aspetti di socialismo dell’Unione Sovietica, è invece strumentale e funzionale all’apparato governativo e alla classe dominante russa per una ridefinizione ideologica dell’imperialismo russo, come esaltazione del periodo in cui la Russia poteva contare nel mondo come seconda potenza economica e militare, fronteggiando i pericoli, ora sempre più presenti e palesi, di destrutturazione dello Stato russo da parte dell’imperialismo atlantista.
Quindi la Federazione russa “onora la memoria dei difensori della Patria, garantisce la difesa della verità storica” e “viene fatto divieto di sminuire il significato dell’impresa del popolo nel difendere la Patria”. Inoltre lo Stato si impegna a proteggere i russi che vivono all’estero e tutelare ovunque “l’identità culturale russa”16. L’atteggiamento conservatore è impresso con richiami a dio, per la prima volta citato nella costituzione, rafforzando il legame con la chiesa ortodossa di Russia in questo progetto sovrastrutturale.
Una parte della riforma costituzionale è anche volta al mantenimento del consenso popolare, con l’indicizzazione del salario minimo e delle pensioni, dopo che la riforma pensionistica del 2018, necessaria alla classe padronale russa per la stabilità finanziaria, aveva determinato l’innalzamento dell’età pensionabile a 65 anni per gli uomini e 60 per le donne (rispettivamente da 60 e 55 anni), erodendo il consenso popolare di Putin.
Altro tema rilanciato dal regime putiniano è il concetto del russkij mir, il mondo russo. Riprendendo e rielaborando l’armamentario delle correnti di pensiero sviluppatesi nel periodo imperiale di fine Settecento dalle istituzioni zariste e dal nazionalismo russo (che univano nella cosiddetta “trinità imperiale” lo spirito imperiale, quello nazionalista russo e le radici cristiane), il Russkij Mir è stato adattato nel putinismo come narrazione che rappresenta sul piano sovrastrutturale la linea politica di difesa degli interessi dello Stato russo, definendoli come gli interessi della nazione e declinandoli nella protezione del popolo russo, in qualsiasi posizione geografica si trovi, dentro o fuori della Russia.
Nel 2016 il russkij mir è stato integrato nel concetto di politica estera della Federazione Russa: “le attività di politica estera dello Stato devono mirare ad assicurare una protezione onnicomprensiva ed effettiva dei diritti e degli interessi legittimi dei cittadini russi e dei compatrioti residenti all’estero”17. L’essenza politica del russkij mir risiede nel concetto di compatriota, diventato base di azione per rivendicare l’annessione della Crimea nel maggio del 2014, dopo il golpe dell’Euromaidan in Ucraina e la difesa delle popolazioni del Donbass. In quest’ottica il governo russo ha attuato una politica meno rigida nella concessione di passaporti russi, in Crimea e in Donbass appunto, ma anche in aree potenzialmente instabili, soprattutto per gli interventi esterni dell’imperialismo Usa ed Ue, come nell’Ossezia del Sud e in Transnistria. In questo senso possiamo dire che il concetto del russkij mir ha assunto il ruolo di risposta culturale ai progetti di accerchiamento e disgregazione della Russia da parte dei paesi Nato e Ue. Inoltre è stato usato anche per giustificare l’intervento in Siria a fianco di Bashar al Assad, per contrapporsi all’imperialismo Usa e all’intervento della Turchia nell’area, in nome della difesa delle minoranze cristiane ortodosse nella zona mediorientale.
Da questo quadro sovrastrutturale appena esposto ne traspare una concezione dello Stato corporativista, in quanto il regime putiniano si è dotato di una ideologia e di una prassi per la quale nasconde la natura antagonista degli interessi di borghesia e proletariato ponendo, a presunto beneficio di entrambe le classi, il supremo interesse nazionale come guida e orientamento della politica governativa, sia sul fronte interno che esterno, come il solo che possa sintetizzare questi aspetti contrapposti18.
Putinismo sul fronte esterno
Appena insediato alla presidenza della Federazione russa, l’atteggiamento di Putin verso Usa ed Ue è stato per qualche tempo di sostanziale apertura, soprattutto perché l’economia russa era ancora debole dopo gli anni di svendita eltsiniana e molte risorse economiche e militari erano impegnate nella conduzione della guerra contro il separatismo ceceno.
Un atteggiamento addirittura possibilista di un’entrata della Russia nella Nato (“perché no, se membro a pieno titolo” rispondeva ad una intervista alla Bbc), peraltro offrendo sostegno logistico per l’invasione dell’Afghanistan da parte degli Usa nell’ottobre 2001, con l’obiettivo di combattere l’islamismo politico che al tempo era il nemico comune di Usa e Russia, che accomunava i Talebani e il separatismo ceceno. Questa condotta collaborativa porterà agli accordi di Pratica di Mare nel 2002 con l’istituzione del consiglio Russia-Nato.
Ma l’atteggiamento muterà negli anni successivi, dapprima grazie al rafforzamento e consolidamento dei piani dell’imperialismo russo sotto l’egida del putinismo, ma soprattutto a causa della politica sempre più aggressiva da parte degli Usa e della Nato. In questi anni la Nato si estende ad est, passando da 16 a 30 membri, inglobando gran parte dei paesi dell’Europa orientale: nel 1999 Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, nel 2004 Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia. Nel 2009 Albania e Croazia, nel 2017 il Montenegro, nel 2020 la Macedonia del Nord.
Con questa politica l’imperialismo Usa, spinto dalla crisi di sovraccumulazione dei capitali, vuole raggiungere l’obiettivo di una nuova definizione e ripartizione dei mercati, a proprio vantaggio, togliendo spazio vitale per l’accumulazione all’avversario, intervenendo nelle aree storiche di influenza dell’imperialismo russo, quello che Mosca chiama ‘estero vicino’. Infatti i tentativi di destabilizzazione dell’area ai confini con la Russia si concretizzano con le cosiddette “rivoluzioni colorate”, quella “delle rose” in Georgia nel 2003 e la “rivoluzione arancione” in Ucraina nel 2004, dove vengono sostenuti economicamente e politicamente i candidati “filoccidentali”, Saak’ashvili a Tiblisi e Jushcenko a Kiev.
Sarà con il discorso del 10 febbraio 2007 alla conferenza di Monaco sulla Sicurezza, che Putin denuncia i pericoli dell’ordine unipolare voluto e perseguito dagli Usa e la politica di allargamento della Nato che la Russia non vuole più accettare “Considero che nel mondo odierno il modello unipolare sia non solo inaccettabile, ma anche impossibile”19.
E sarà nell’agosto 2008 che la Federazione Russa effettuerà il primo intervento militare al di fuori dei propri confini, attaccando la Georgia che aveva in atto un percorso di adesione alla Nato, con la giustificazione di difendere le popolazioni della Ossezia del Sud ed Abcase, perseguitate da Tiblisi.
Da questo momento si può affermare che la politica estera dello Stato russo, dopo gli anni di consolidamento del sistema di potere putiniano all’interno e il perseguimento degli interessi strategici dell’imperialismo russo, passava all’offensiva rispetto a Washington e da potenza regionale la Russia diverrà attore protagonista in molti contesti per contrastare gli interventi imperialisti di Usa e Nato.
Tale politica si è manifestata innanzitutto in Ucraina, dopo il golpe di Euromaidan del febbraio 2014 che aveva destituito il presidente Yanukovic e fatto così saltare l’accordo con la Russia per l’entrata dell’Ucraina nel progetto di Unione economica euroasiatica (Uee) con Kazakistan e Bielorussia, riportandola sotto la sfera dell’Ue e degli Usa. A tale affondo del blocco Nato, la Russia rispondeva con l’annessione della Crimea e il sostegno alle Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk nel Donbass (peraltro riconosciute dallo Stato russo solo il 21 febbraio 2022, tre giorni prima dell’intervento militare in Ucraina) che lottavano contro il governo fascista, russofobo e genocida di Kiev.
Successivamente, nel 2015, con l’intervento in Siria a fianco ed a sostegno del governo di Bashar Al Assad si metterà di traverso rispetto ai piani Usa di intervento militare nell’area mediorientale, impedendone l’invasione e mettendo freno alla guerra civile alimentata dai paesi della Nato. E lo stesso, qualche anno più tardi, accadrà in Libia, col sostegno militare tramite forze mercenarie, armi e droni al generale Haftar della Cirenaica, contrapponendosi all’Ue e agli Usa che sostenevano Al Serraj. Oggi l’imperialismo russo è attivo e influente sul piano politico e militare sopratutto nei paesi del Sahel, Mali, Mauritania e Repubblica centrafricana.
La “visione del mondo” del putinismo e dell’imperialismo russo di questo ultimo decennio può essere riassunta nel discorso tenuto da Putin in diretta televisiva il 21 febbraio scorso alla vigilia dell’intervento militare in Ucraina, in cui la Russia riconosceva formalmente le repubbliche del Donbass. Praticamente il manifesto degli interessi dell’imperialismo russo nel contrasto agli Usa ed ai suoi piani di dominio. In questa prolusione veniva ribadito il concetto nazionalista dell’Ucraina come parte della storia russa, rifacendosi al pensiero imperiale “delle tre Rus” come fondanti la cultura e l’etnia russa: la Russia come grande Russia, Ucraina come piccola Russia e Bielorussia come Russia bianca.
Successivamente, nello stesso discorso, veniva sferrato un attacco al bolscevismo e a Lenin, responsabile, a suo dire, di aver creato l’Ucraina con un atto autoritario e aver sancito il diritto delle nazioni appartenenti alla Unione Sovietica alla secessione. In questo modo esprimeva tutta l’avversione del sistema imperialista per ciò che è stata l’opera di instaurazione del socialismo in Unione Sovietica, formulando tesi denigratorie e false sull’opera di Lenin e chiaramente ispirate ad una visione neozarista della storia nazionale (con buona pace di chi considera Putin come alfiere di un nuovo socialismo ed erede dell’Urss!).
In altre parti del discorso venivano ribaditi i concetti del russkij mir, quali la difesa dei popoli di origine russa e il contrasto alla russofobia attuata dal governo ucraino. Veniva, inoltre, denunciato il ruolo “di paesi stranieri” nel golpe di Euromaidan, il ruolo del governo ucraino quale servo dei “rivali geopolitici della Russia” ed i suoi rapporti con le forze militari Usa e con la Nato20.
Con l’intervento militare in Ucraina da parte della Russia, quindi con l’acutizzarsi della contraddizione tra potenze imperialiste, stiamo assistendo a una nuova ridefinizione degli equilibri economici e politici mondiali, con scelte di campo strategiche che informano le politiche di tutti i paesi.
Innanzitutto, vi è un rafforzamento dell’area dei paesi del gruppo Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud-Africa): tra giugno e luglio 2022 i governi di Algeria, Argentina e Iran hanno espresso la volontà di entrare a far parte di tale consesso internazionale.
Per ciò che riguarda la Russia si sta determinando un sempre più stretto avvicinamento con la Cina, anche per poter fare fronte alle sanzioni economiche, ricercare nuovi mercati o ampliare quelli esistenti, ora che una parte degli scambi commerciali le sono preclusi. E l’imperialismo Usa rappresenta sempre più il nemico comune, dopo che la visita a Taiwan della speaker della camera Usa, Nancy Pelosi, lo scorso agosto, ha posto sul piatto l’inasprimento della contraddizione tra Usa e Cina.
I rapporti economici tra Russia e Cina sono già consolidati e negli ultimi anni hanno avuto tassi di crescita continui: nel 2020 l’interscambio con la Cina equivaleva al 23,7% del totale e per il 2022 le previsioni di interscambio parlano del raggiungimento della cifra di 170 miliardi di dollari. La Russia sta diventando il primo fornitore di greggio per la Cina, scalzando da questa posizione l’Arabia Saudita, e tramite i gasdotti Power of Siberia e Power of Siberia 2 gli scambi di gas raggiungeranno la cifra di 48 miliardi di metri cubi all’anno nel 2025.
I due paesi imperialisti, inoltre, stanno avvicinandosi sempre più anche nel campo della collaborazione militare: dal 30 agosto al 5 settembre 2022 si è tenuta una esercitazione militare a Vostok che ha coinvolto forze terrestri, aeree e navali. Esercitazione a cui hanno presenziato anche contingenti militari e osservatori di Algeria, Siria, Nicaragua, Azerbaigian, Laos, dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (nata nel 1992 tra Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan) e della Shanghai cooperation organization (Sco), organizzazione intergovernativa tra Cina, Russia, India, Kazakistan, Kirghizistan, Pakistan, Tagikistan, e Uzbekistan. Alla Sco peraltro sono interessati ad aderire paesi come l’Iran, l’Afghanistan, Bielorussia e Mongolia21.
Le relazioni in campo economico, politico e militare pongono dunque la Russia, assieme alla Cina, come una sorta di centro egemonico internazionale contrapposto a Washington, capace di estendere la sua influenza ben oltre lo storico “giardino di casa” ucraino.
Alcune considerazioni finali
La Russia è un paese imperialista con caratteristiche peculiari, date dalla sua storia di restaurazione del capitalismo nel periodo del revisionismo in Unione Sovietica, dall’eredità del ruolo dominante nell’area dei paesi ex socialisti e dalla formazione di una borghesia burocratica che ha assunto il ruolo di chiara definizione della linea strategica dell’imperialismo russo. Un paese che ha sviluppato appieno le condizioni di passaggio a paese imperialista negli anni di instaurazione del regime putiniano, con il consolidamento dell’economia e l’attuazione di una politica che all’interno ricerca il contenimento delle contraddizioni con le masse popolari, con possibili movimenti divisivi dell’entità statuale russa, come nel caso della Cecenia, e contro frazioni della classe borghese russa portatrici di istanze di asservimento agli Usa e all’Ue, nonché di subordinazione ai loro modelli politici. All’esterno, come proiezione internazionale, il sistema di potere putiniano si pone come difensore e portatore degli interessi dell’imperialismo russo e della borghesia imperialista, principalmente cercando di far saltare e rompere i piani di accerchiamento attuati dai paesi imperialisti Usa e Nato.
In questa nuova situazione contraddistinta dall’esplodere delle contraddizioni tra paesi imperialisti, che ha portato ora alla guerra in Ucraina, il ruolo della Russia e degli altri paesi che si pongono su piani di rottura dei progetti europei e statunitensi, come la Cina, danno oggettivamente nuovo slancio alla resistenza dei popoli aggrediti dalle potenze della Nato, che ricevono sostegno e appoggio da Mosca e Pechino. È il caso, ad esempio, di Siria, Iran e Venezuela.
Il fatto che il regime putiniano come rappresentante politico dell’imperialismo russo individui come nemico strategico l’imperialismo Usa e Nato, che ora abbia avviato l’intervento in Ucraina per contrastarne i progetti di espansione, ha dei riflessi anche per ciò che riguarda il movimento contro la guerra imperialista qui nel nostro paese. Ovvero da parte di alcuni vi è l’atteggiamento di non considerare e addirittura negare la natura imperialista dello Stato russo e di vederne solo l’aspetto di contrasto all’imperialismo dominante Usa, arrivando talvolta a posizioni surreali di considerarlo un proseguimento dell’azione dell’Unione Sovietica. Una posizione da tifosi pro-Putin che parte da una posizione revisionista, che teorizza un capitalismo non imperialista, un multipolarismo in regime capitalistico che non corrisponda alla ripartizione dei mercati tra potenze imperialiste. Tale posizione propugna di fatto la concezione opportunista della delega della lotta alla borghesia imperialista Usa e Ue ai loro concorrenti e rivali internazionali, negando il ruolo politico strategico ed autonomo che il proletariato, a partire dalle sue avanguardie, è chiamato a svolgere nell’aggravarsi della tendenza alla guerra imperialista.
1 Cfr. Antitesi n. 0 p. 40
2 Sulla restaurazione capitalista nell’Urss guidato dal revisionismo moderno si veda Antitesi n. 4 pp. 8-26
3 Ivi p. 22
4 Ivi, p. 15
5 Cfr. Antitesi n. 3 p. 5
6 O. Moscatelli, Putin e putinismo in guerra, p. 39, Salerno Editrice, Roma, 2022
7 A. Penati, Cosa succede alla Banca centrale russa dopo le sanzioni, startmag.it, 20/03/22
8 M. Morini, La Russia di Putin, Il Mulino, Bologna, 2022, p.111
9 V. Surkov, Lo Stato di Putin e il popolo profondo, Limes n.5/2022, pp. 152-153
10 M. Morini, La Russia di Putin, Il Mulino, Bologna, 2022, pp, 61-66
11 O. Moscatelli, M. De Bonis, Per non spaccarsi la Russia cerca un’idea, Limes n.6/2022, pp 35-46
12 Per una più dettagliata esposizione della condizione attuale dell’imperialismo internazionale vedi in questo numero l’articolo di quinta sezione a p. 54
13 Lenin, Imperialismo fase suprema del capitalismo, Opere scelte in sei volumi, vol II p. 518, Editori Riuniti
14 M. Morini, La Russia di Putin, Il Mulino, p. 137
15 Vedi schede di sintesi Russia e Francia su infomercatiesteri.it
16 O. Moscatelli, Putin e putinismo in guerra, Salerno Editrice, Roma, 2022, pp 89-90
17 G. Natalizia, L’invenzione e il fallimento putiniano del Russkij Mir, Rivista Scenari, Il Mondo di Putin, 2022, p. 29
18 Cfr Antitesi n. 7 pp. 52-53
19 O. Moscatelli, Putin e il putinismo in guerra, Salerno editrice, 2022, Roma, pp. 50-51
20 Per il Donbass. Per la Russia. Il discorso integrale di Putin del 21 febbraio 2022, 22/02/22, m-48.it
21 G. Ravazzo, Una partnership senza limiti. Cina e Russia pronti per esercitazioni a Vostok, formiche.net, 25/08/22
La questione di classe in Donbass e Ucraina
Il conflitto in Donbass ha rappresentato il prologo della guerra in corso tra Russia e Ucraina che si caratterizza sempre di più come guerra interimperialista tra il campo degli Stati Uniti e dei suoi vassalli (paesi Nato e Ue in primis) e il campo della Federazione Russa (con il supporto al momento più economico che militare della Cina e di alcuni paesi dell’Asia, dell’Africa e del Sud America).
Rispetto al Donbass, la debolezza dei comunisti in grado di impostare la discussione nel dibattito pubblico sulla base di un’analisi di classe, ha lasciato spazio a teorie che vedono negli aspetti sovrastrutturali della lingua, dell’appartenenza nazionale/etnica e della religione, le cause primarie della guerra. Senza tralasciare la rilevanza di questi aspetti, ciò che è mancato quasi totalmente è stata un’analisi sociale ed economica della composizione di classe dell’Ucraina prima del conflitto, di come questa sia mutata negli otto anni di guerra e di quali siano le aspirazioni in tal senso per gli imperialismi statunitense e russo.
Il fiume Dnepr, che divide le regioni più vicine alla Russia da quelle più prossime all’Ucraina, rappresenta anche una sorta di confine economico. La parte orientale (tra cui il Donbass) è stata fin dai tempi dell’Urss la zona più industrializzata, principalmente per i settori siderurgici, minerari ed aerospaziali, fortemente integrata nell’allora sistema produttivo sovietico. All’inizio del conflitto il sistema produttivo era in mano a pochi oligarchi, ad esempio Akmethov (poi passato nel campo degli Usa e dell’Ue) e dipendeva fortemente dal settore energetico russo. Data la grande concentrazione industriale, la composizione di classe vede una fortissima presenza operaia e una centralità delle organizzazioni sindacali e sociali, ereditate in larga parte dall’esperienza sovietica a cui la popolazione locale si sente fortemente legata. Le parti occidentale e meridionale del paese sono invece dominate dal comparto agricolo (l’Ucraina conta il 27% dei campi arati d’Europa) e caratterizzate, di conseguenza, da una bassa percentuale di lavoratori specializzati e da un basso tasso di valorizzazione dei materiali prodotti. Dalla mancanza di comparti industriali ne deriva anche la carenza di strutture sindacali forti e organizzate come nell’est.
Ne risulta che il forte supporto popolare (milizie popolari, associazioni di autodifesa dei minatori, ecc.) delle regioni del Donbass alla causa separatista/autonomista può essere derivato anche da un obiettivo di difesa del proprio comparto industriale e del proprio sistema sociale “post-sovietico”. Per dirla in breve, un’Ucraina integrata nell’Ue e nella Nato (casus belli del colpo di Stato del 2014 e del seguente conflitto), avrebbe implicato una disgregazione del sistema produttivo a vantaggio del comparto tedesco, più tecnologico ed avanzato. La causa delle popolazioni del Donbass era quindi sia la causa degli operai e dei minatori, sia la causa dell’oligarchia dei comparti siderurgici e minerari, sia la causa del comparto dell’economia russa a più stretto contatto con la regione. È in questa sovrapposizione di interessi che va analizzata la costruzione delle milizie ed il tentativo fallito di costituzione della Federazione di Novorossija nel 2014/2015, nonché le conflittualità interne a quella regione. Fin dall’inizio della guerra di resistenza contro Kiev, c’è stata una contrapposizione interna alle Repubbliche e le componenti di classe, legate all’eredità sovietica e all’identità comunista, nel tempo hanno perso terreno in favore di rivendicazioni più legate all’appartenenza etnica, sicuramente più confacenti agli interessi dell’oligarchia locale e dell’imperialismo russo. Questo scontro interno alle Repubbliche stesse, unito al logoramento degli anni di guerra, ha ridotto la forza della componente di classe in favore degli interessi dell’oligarchia locale e russa.
Per quanto riguarda l’Ucraina, la direzione che il capitale vuole imprimere ai processi economici e sociali ucraini segue la solita modalità fatta di prestiti delle istituzioni finanziarie imperia-liste, in cambio di processi di ristrutturazione socio-economica diretti a modellare il paese sulle esigenze della borghesia internazionale. In questa logica sono da inserire alcune questioni: 1) il pressing delle istituzioni finanziarie per aprire all’acquisizione da parte di fondi esteri dell’enorme territorio agricolo ucraino; 2) la recente promulgazione di alcune leggi antisindacali, con lo scopo di adattare il mercato del lavoro ucraino agli standard di sfruttamento richiesti dalle borghesie Usa ed Ue, attraverso la riduzione della contrattazione collettiva, l’eliminazione di garanzie sindacali, la facilità di licenziamento, la flessibilità, la possibilità di sospensione dello stipendio e l’introduzione dei contratti a zero ore. In generale, queste leggi imprimono una direzione decisa in senso neo-liberista, con l’obiettivo di scardinare un sistema sociale di derivazione sovietica.