Antitesi n.13Ideologia borghese e teoria del proletariato

L’imperialismo oggi

Elementi di analisi sulla fase di putrefazione del capitalismo

“Ideologia borghese e teoria del proletariato” da Antitesi n.13 – pag.54

La guerra in Ucraina per le sue chiare premesse e le sue probabili conseguenze, entrambe fondamentalmente connesse alla contraddizione interimperialista, pone ai comunisti la necessità di rilanciare un dibattito di approfondimento sulla natura e sui caratteri dell’imperialismo della nostra contemporaneità. Un approfondimento a cui ci interessa portare il nostro contributo al fine di rafforzare ideologicamente la linea giusta di “trasformare la guerra imperialista in lotta rivoluzionaria”.

Il dibattito sul tema, imposto dalla tragica realtà di una guerra in Europa, ha già suscitato disparate posizioni e grande confusione tra chi si considera comunista. Non può essere che così dato lo stato di disgregazione in cui versano le aree contraddistinte dall’influenza ideologica del revisionismo e l’impotenza e il disorientamento che caratterizza quelle più connotate da un punto di vista rivoluzionario.

Chiarezza ideologica e linea rivoluzionaria sono allo stesso tempo presupposti e risultati di questo approfondimento. La chiarezza ideologica rafforza la linea rivoluzionaria, “senza teoria rivoluzionaria non c’è movimento rivoluzionario”1, mentre l’impostazione e la verifica di una linea rivoluzionaria rafforza, con la pratica, la teoria rivoluzionaria. Nello sviluppo di questa dialettica pensiamo sia principale in questo momento il lavoro teorico finalizzato a dotarci di una corretta concezione dell’imperialismo.

Per cogliere l’imperialismo della nostra epoca, per come è connesso strutturalmente, oltre che storicamente, al capitalismo, cioè per indagare la sua natura essenziale, bisogna partire dalla “questione economica fondamentale, la questione della sostanza economica dell’imperialismo, perché senza questa analisi non è possibile comprendere né la guerra odierna né la situazione politica odierna”2. E d’altra parte per comprendere lo sviluppo della tendenza alla guerra, per come si concretizza in questa fase, bisogna considerare lo sviluppo storico delle dinamiche sovrastrutturali: “La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Ogni guerra è indissolubilmente connessa con il regime politico da cui deriva. (…) se non avete studiato la politica svolta dai due gruppi di potenze belligeranti negli ultimi decenni, se non avete mostrato il legame tra questa guerra e la politica che la precede, non avete capito un bel niente”3.

Una difficoltà, che dobbiamo affrontare nel trattare la questione, è quella relativa alla comprensione che l’imperialismo, con cui facciamo oggi i conti, è la concretizzazione dello sviluppo e della crisi della fase imperialista del capitalismo. Questa è la sua natura strutturale con cui si dialettizza sul piano sovrastrutturale la tendenza alla guerra.

Il passaggio a quella che Lenin definisce fase imperialista del capitalismo è un salto di qualità che si è concretizzato nel passaggio dal capitalismo concorrenziale (fase classica) al capitalismo monopolistico (fase imperialista). In questo senso l’imperialismo è il capitalismo della nostra epoca: una modalità che è sia risposta strutturale alle crisi del capitalismo classico-concorrenziale (determinando una nuova fase di sviluppo), che condizione di aggravamento della tendenza alla crisi generale del modo capitalistico di produrre (fase suprema e fase di putrefazione). Se non si perviene a questa comprensione, e non si assume quindi un’impostazione leninista, si cade facilmente sotto l’influenza della concezione geopolitica borghese che riduce l’imperialismo alle politiche imperialiste più o meno aggressive promosse dagli Stati. Si colgono così solo alcuni aspetti fenomenici, alcuni tratti dell’imperialismo che si mostrano sul piano sovrastrutturale, e si lascia in ombra la sua vera essenza economica. Questa concezione è sempre stata gradita e fatta propria da revisionisti e riformisti perché contempla l’illusione della riformabilità delle politiche nell’ambito dell’assetto strutturale dato: cioè l’illusione della possibilità di esistenza, in questa nostra epoca, di un capitalismo non imperialista e quindi non guerrafondaio.

La concezione dell’imperialismo da Marx a Lenin

Lenin, nel suo saggio popolare L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (scritto nel 1916 in piena prima guerra mondiale), tratteggiando il definirsi della fase imperialista del capitalismo (collocabile storicamente con l’uscita dalla grande crisi del 1872-1896) pone l’accento sull’avvento del carattere monopolistico come determinante della struttura economica. Lo sviluppo del capitalismo, con l’immensa crescita dell’industria e il rapidissimo processo di concentrazione e di centralizzazione4 della produzione in imprese sempre più grandi, ad un certo punto della sua evoluzione porta alla soglia del monopolio. Un processo che parte dalla costituzione dei trust settoriali nella seconda metà del ‘800 e arriva alla combinazione, all’unione in una singola impresa di rami industriali diversi, prima su scala nazionale e poi, dopo la seconda guerra mondiale, su scala multinazionale. Si è così confermato nello sviluppo storico che “protezionismo e libertà degli scambi determinano soltanto differenze non essenziali nelle forme del monopolio, o nel momento in cui appare, ma il sorgere dei monopoli, per effetto del processo di concentrazione, è, in linea generale, legge universale e fondamentale dell’odierno stadio di sviluppo del capitalismo”5.

La concorrenza ha determinato la concentrazione e la concentrazione ha portato al monopolio. Ma come chiarisce Marx questo monopolio moderno “non è una semplice antitesi (della concorrenza ndr.)”. Ma è la sintesi del monopolio feudale (tesi) e della concorrenza (antitesi): “Il monopolio moderno, è la negazione del monopolio feudale, in quanto suppone il regime di concorrenza, ed è la negazione della concorrenza in quanto è monopolio. Così il monopolio moderno è il monopolio sintetico, la negazione della negazione, l’unità dei contrari”6.

Il capitalismo con la sua connotazione monopolista di conseguenza entra nello stadio imperialistico mantenendo intatto il quadro generale della libera concorrenza formalmente riconosciuta, ma accrescendo l’oppressione che i monopolisti esercitano sulle altre classi e sui popoli. Il monopolio moderno si sviluppa quindi con la concorrenza, concorrenza che assume così anche la forma della lotta tra monopoli.

Come chiarisce Lenin la comprensione dell’importanza dei moderni monopoli è incompleta se non si tiene conto della funzione esercitata dalle banche. La loro funzione originaria è stata quella di servire come intermediario nei pagamenti. Su questa base hanno sviluppato la raccolta di tutte le rendite in denaro e la loro messa a disposizione dei capitalisti, promuovendo così la trasformazione del capitale liquido inattivo in capitale attivo, cioè produttore di profitto. Con la concentrazione e centralizzazione le banche si trasformano da modeste mediatrici in potenti monopolisti che dispongono di quasi tutto il capitale liquido, dei mezzi di produzione e delle fonti di materie prime sul piano nazionale e internazionale.

Lo sviluppo monopolista del capitale bancario ha determinato una situazione in cui un numero sempre maggiore di imprese separate vengono sottoposte ad un unico centro. E così attraverso l’attività delle grandi banche si è realizzata la possibilità che un pugno di monopolisti controllino la gran parte delle operazioni industriali e commerciali sia sul piano nazionale che internazionale. Si è realizzata cioè la simbiosi monopolista del capitale bancario con il capitale industriale che ha concretizzato il passaggio dal dominio del capitale in generale al dominio di una sezione dominante costituitasi come capitale finanziario7.

A questo stadio dello sviluppo del capitalismo trova anche la sua massima espressione la separazione del possesso del capitale dal suo impiego nella produzione, la separazione del rentier dall’industriale. Il capitale finanziario si concentra nelle poche mani di un’oligarchia finanziaria al cui consolidamento contribuisce l’altissima redditività che si determina con lo sviluppo del capitale fittizio (quotazioni in borsa, emissione di titoli, finanziamento del debito pubblico e dei prestiti e investimenti esteri, ecc.). La speculazione (finanziaria e non) e l’accumulazione per spoliazione (ad esempio conseguente all’insolvenza) enfatizzano il processo. Un effetto rilevante è che questo tipo di capitale, e l’oligarchia finanziaria che lo detiene, realizza enormi profitti sia nei periodi di crescita economica che in quelli di crisi. In questi ultimi infatti, con la recessione, soprattutto le piccole e medie imprese (non monopoliste), ma anche alcuni grandi gruppi, vanno a picco e diventano preda di operazioni finanziarie, possono essere acquisite a prezzi stracciati per essere “risanate”, “riconvertite”, “delocalizzate”, o “spogliate”.

Un’altra condizione indicata da Lenin come caratterizzante lo stadio imperialista del capitalismo è la prevalenza dell’esportazione di capitali sull’esportazione di merci. “La necessità dell’esportazione del capitale è creata dal fatto che in alcuni paesi il capitalismo è diventato ‘più che maturo’ e al capitale non rimane più campo per un investimento ‘redditizio’”8. Con la costituzione dei monopoli, il capitalismo nelle sue formazioni più avanzate è entrato in una condizione di sovraccumulazione strutturale (eccedenza di capitali) in conseguenza dell’aumento della composizione organica (C/V) e della relativa caduta tendenziale del saggio di profitto (P/C+V). È questo eccesso di capitali in rapporto alle possibilità di valorizzazione, che determina la spinta all’esportazione di capitali verso formazioni in cui è facile assicurarsi privilegi monopolistici (colonie, semicolonie, aree di influenza), dove la forza lavoro costa molto meno e dove la composizione di capitale è più bassa.

In definitiva l’investimento estero costituisce una fondamentale e necessaria valvola di sfogo della sovraccumulazione perché limita e rimanda in avanti la possibilità che questa inneschi una crisi strutturale nelle formazioni avanzate. Questa esportazione di capitali, resa necessaria dal fatto che nei paesi a capitalismo ‘più che maturo’ rimane sempre meno campo di investimento redditizio, accelera lo sfruttamento (e lo sviluppo capitalistico) nei paesi in cui affluisce. Si tratta di un flusso di capitali che avviene anche nella forma di prestiti tra entità statali, spesso con la condizione che parte del denaro prestato sia impiegato nell’acquisto di prodotti del paese che concede il prestito, in primo luogo di materiale militare. In questo ambito lo spionaggio e la corruzione la fanno da padroni e viene coltivata la classe della borghesia compradora nelle formazioni dominate.

Con la crescita dell’esportazione di capitali si accelera lo sviluppo del mercato mondiale, si allargano e si approfondiscono le relazioni ‘esterne’ di sfruttamento (colonie, semicolonie e sfere di influenza), si sviluppano gli accordi tra gruppi monopolisti e soprattutto dopo la seconda guerra mondiale proliferano le imprese multinazionali (principalmente Usa) che dominano le catene del valore a livello globale.

Inoltre, “nell’età del capitale finanziario i monopoli statali e privati si intrecciano gli uni con gli altri e tanto gli uni che gli altri sono semplicemente singoli anelli della catena della lotta imperialista tra i monopolisti più grandi per la spartizione del mondo”9. La sinergia tra pubblico e privato è presente fin dalle origini della fase imperialista quando spesso lo sviluppo monopolista si avviò sotto l’egida dell’investimento pubblico e del protezionismo statale: condizione necessaria per impedire che fosse soffocato dall’ingerenza dei monopoli esterni (vedi il caso dello sviluppo monopolistico del settore siderurgico dopo l’unità d’Italia). Sinergia che si è poi sviluppata con l’espansione della spesa pubblica che da tempo ha superato il 50% del Pil nelle formazioni avanzate. Di questa espansione hanno particolarmente fruito i gruppi monopolisti nelle diverse forme: dagli interessi dovuti per la finanziarizzazione del debito pubblico, alle commesse (civili e militari), alle defiscalizzazioni, ai finanziamenti a fondo perduto e agli incentivi vari.

La fase imperialista è un quadro in cui, a fianco dello sviluppo del capitale finanziario come sezione dominante e del costituirsi delle imprese multinazionali, si determina la tendenza del processo di internazionalizzazione della forma Stato; uno sviluppo sovrastrutturale che si concretizza in ambiti e accordi sovrannazionali (Onu, Fmi, Bm, Wto, Nafta, Asean, G7, G20, Brics, Quad, oltre che Nato, Csi, Aukus, ecc.) e nella proiezione internazionale dei singoli Stati tramite politiche di potenza volte a definire, allargare e consolidare la sfera di influenza10.

L’idea che questo processo di internazionalizzazione costituisca una speranza di pace tra i popoli nell’ambito del regime economico capitalista, ancora tanto cara a revisionisti ed opportunisti (da Kautsky a Negri), è stata ampiamente falsificata dalla storia della fase imperialista. Una storia in cui tra i diversi gruppi monopolisti “si formano determinati rapporti sul terreno della spartizione economica del mondo, e, di pari passo con tale fenomeno e in connessione con esso, si formano anche tra le leghe politiche, cioè gli Stati, determinati rapporti sulla spartizione territoriale del mondo”11. In realtà “le alleanze ‘interimperialiste’ non sono altro che un momento di respiro tra una guerra e l’altra, qualsiasi forma assumano dette alleanze, sia quella di una coalizione imperialista contro un’altra coalizione imperialista (esempio la Nato ndr), sia quella di una lega generale tra tutte le potenze imperialiste (esempio Onu, Wto, ecc. ndr). Le alleanze di pace preparano le guerre e a loro volta nascono da queste”12.

Se la motivazione principale della lotta tra i gruppi monopolisti è la necessità di dare sbocco alla sovraccumulazione, il contenuto della lotta è la spartizione del mondo sulla pelle di popoli oppressi. È una spartizione che tende a realizzarsi in proporzione al capitale, cioè in proporzione alla forza in regime capitalistico. Questo contenuto della lotta rimane sempre lo stesso, mentre la forma della lotta (economica, politica o militare) cambia a seconda del grado raggiunto dalle contraddizioni. Il fatto che queste ultime nel corso del processo storico si acutizzino è una conseguenza dello sviluppo ineguale che caratterizza il capitalismo; condizione che finisce col cambiare periodicamente i rapporti di forza in campo, determinando la decadenza dei vecchi potentati e l’emergere di nuovi e provocando così lo scatenarsi di nuove guerre di spartizione.

A supporto di questa lotta per la spartizione del mondo assume particolare importanza quello che Lenin definisce il bubbone opportunista che viene coltivato in seno alla classe operaia. I gruppi di borghesia imperialista “raccogliendo gli alti profitti monopolisti hanno la possibilità di corrompere singoli strati operai e, transitoriamente, perfino considerevoli minoranze di essi, schierandole a fianco della borghesia (…). Questa tendenza è rafforzata dall’aspro antagonismo esistente tra i popoli imperialisti a motivo della spartizione del mondo. Così sorge un legame tra l’imperialismo e l’opportunismo”13.

Struttura monopolistica in crisi

Nello sviluppo più recente della fase imperialista è diventato prevalente il carattere della putrefazione. La crisi di sovraccumulazione si ripresenta sempre più frequentemente e sempre più gravemente in primo luogo nelle formazioni avanzate. Qui la crisi della valorizzazione viene affrontata accelerando le ondate di ristrutturazione-riconversione alla ricerca di sovrapprofitti tramite l’innovazione tecnologica, la finanziarizzazione e l’accumulazione per spoliazione. Un’accelerazione che si traduce, sul piano interno, in investimento nel salto tecnologico per accrescere la produttività del lavoro e porsi così nella condizione di essere più competitivi nella lotta monopolistica per l’appropriazione dei sovrapprofitti, come anche in una spinta alla creazione di ambiti produttivi in cui i tassi di sfruttamento sono più elevati, come ad esempio con l’esternalizzazione di mansioni produttive, il corollario di appalti e sub appalti (a piccole imprese e cooperative), il grande sviluppo del settore dei servizi all’impresa, fino al fenomeno delle startup nel campo dell’innovazione.

Parallelamente sul piano esterno si acuisce la competizione globale tra i monopoli nei settori strategici dell’innovazione tecnologica e del controllo delle fonti di materie prime. Una competizione che si sviluppa, e viene enfatizzata, dall’esportazione di capitali e dalla crescita abnorme della sfera finanziaria. La prima porta inevitabilmente allo scontro per il controllo delle sfere di influenza e delle catene del valore e la seconda va a costituire il campo di manovre speculative, come la dinamica di svalutazione-rivalutazione monetaria, che attraverso forme di spoliazione finanziaria puntano a garantire la redditività scaricando gli effetti della crisi di sovraccumulazione sui concorrenti.

Lo sviluppo abnorme della sfera finanziaria è alimentato dall’afflusso di capitali in fuga dalla crisi di valorizzazione che attanaglia il settore produttivo ed è stato enfatizzato dalla “economia del debito” privato e pubblico, implementata allo scopo di rinviare in avanti gli effetti più negativi della stessa crisi. Il keynesismo finanziario che si è concretizzato in manovre espansive come i Quantitative Easing (promossi da tutte le Banche Centrali occidentali) ha come conseguenza il grande incremento della massa monetaria che, non trovando spazi di investimento produttivo, rifluisce in fondi di riserva, o in fondi speculativi, con una dinamica che gonfia bolle finanziarie destinate ad esplodere (come nel caso della crisi dei sub-prime del 2007), provocando crisi finanziarie, che costituiscono tornanti di aggravamento della crisi generale. Quando invece l’espansione monetaria e l’intervento pubblico realizzano un inizio di ripresa economica la condizione di crisi riaffiora nella forma dell’esplosione inflattiva, che costringe le banche centrali a mettere in atto manovre restrittive che riaprono la porta alla recessione.

Un sentiero sempre più stretto che viene affrontato con l’implementazione di piani di intervento finanziario pubblico come quelli post pandemici e di cui il Recovery Plan è l’esempio europeo14. In questo modo il keynesismo finanziario si compendia con piani di intervento in ambito produttivo che perseguono l’obiettivo di innalzare rapidamente la composizione organica del capitale tramite l’innovazione tecnologica. Si imbocca così la strada del finanziamento pubblico per implementare la cosiddetta green economy (elettrico, rinnovabili, economia circolare, ecc.) e si da avvio ad una nuova determinazione del keynesismo militare (ricerca dual band, drastico incremento delle spese militari, sviluppo dei complessi militar-industriali e del settore aerospaziale, ecc.).

Quella del keynesismo militare, e in generale quella dell’intervento pubblico orientato a promuovere lo sviluppo dei monopoli militar-industriali come volano della ripresa economica, è la carta estrema che la borghesia imperialista ha imparato ad utilizzare per cercare di fronteggiare le esplosioni della crisi strutturale nel corso della fase imperialista. Questa risposta alla crisi, che si determina nell’ambito della struttura economica, conclude il passaggio dal wellfare al warfare state ed è alimentata dall’acutizzarsi delle contraddizioni interimperialiste. Si rende così evidente che non è la guerra che porta alla crisi, ma la crisi che porta alla guerra. L’aggravarsi della crisi ha come conseguenza diretta l’accelerazione della tendenza alla guerra interimperialista fino alle sue più nefaste conseguenze (come le due guerre mondiali).

La questione della sovrastruttura

Come si è potuto intuire da quanto abbiamo considerato fin qui, il rapporto dialettico tra struttura produttiva e sovrastruttura giuridica, politica, istituzionale e militare si è sviluppato grandemente lungo il corso della fase imperialista, particolarmente in seguito all’aggravarsi della crisi.

Per affrontare la questione dobbiamo tenere conto dei limiti posti a Lenin nella stesura del suo saggio sull’imperialismo, limiti che lui chiarisce nella prefazione15, e procedere quindi nell’analisi.

L’incapacità o la difficoltà di cogliere lo sviluppo del rapporto tra struttura e sovrastruttura nell’ambito della tendenza alla guerra sta nell’assolutizzazione di uno dei due poli della dialettica: o l’aspetto strutturale, o l’aspetto sovrastrutturale. Nel primo caso si pone l’accento solo sugli elementi strutturali della centralizzazione del capitale finanziario, del flusso globale dei capitali multinazionalizzati. Assolutizzando così la cosiddetta globalizzazione ci si preclude la possibilità di indagare il rapporto che concretamente e storicamente si determina tra interconnessione globale e competizione monopolistica, tra crisi e rotture sovrastrutturali. Nel secondo caso si considera solo l’aspetto dello scontro in ambito sovrastrutturale, lo scontro tra le sovrastrutture politico, militari, strategiche, e si riduce la questione della guerra interimperialista a mera politica di potenza come fa la geopolitica borghese.

In realtà, come indica Lenin, il capitalismo della fase imperialista è un capitalismo in cui i monopoli realizzano una più grande integrazione tra capitale privato e pubblico-statale. Con la fase imperialista è diventato necessario che la sovrastruttura statale entri in relazione con la struttura economica in forma direttamente produttiva, che la sua azione economica non si limiti alla forma del debito pubblico, ma che assuma anche quella del capitale pubblico (monopoli pubblici o partecipati). Una verità di fondo ampiamente riscontrata nella fase imperialista è che un’ampia crescita del cosiddetto settore pubblico è una delle condizioni necessarie a fare fronte alle crisi di valorizzazione a cui va incontro il capitale nella sua forma monopolistica. In particolare, nella crisi, l’azione economica dello Stato è finalizzata a favorire la valorizzazione del capitale monopolistico di riferimento. È un’azione che si sviluppa in diversi campi: 1) promozione (con investimenti diretti o sovvenzioni) di settori produttivi strategici (ad es. energia, Itc, ecc.) e di reti logistiche strategiche (ad es. reti energetiche, di telecomunicazioni, strade, ferrovie, aeroporti, ecc.); 2) incentivi pubblici allo sviluppo della ricerca scientifica e della formazione di quadri (ad es. università, centri e laboratori di ricerca, ecc.); 3) assunzione delle passività dei settori deficitari (ad es. sanità e istruzione pubblica e privata); 4) creazione di mercati di tipo pubblico per favorire lo sviluppo dei settori strategici (ad es. armamenti, aerospaziale, ecc.); 5) finanziamento diretto o indiretto in favore del capitale monopolistico (interessi sul debito pubblico, sovvenzioni, defiscalizzazioni, iper ammortamento per l’industria 4.0, bonus energetici per l’impresa, salvataggi delle imprese too big to fail, ecc.).

L’intervento dello Stato interagisce con l’economia dei monopoli in primo luogo allo scopo di potenziarne la capacità d’urto verso l’esterno (vedi le politiche coloniali o semicoloniali), o la capacità di difesa da invadenze di monopoli concorrenti (politiche protezionistiche), nel contesto dell’aumento incessante dell’esportazione di capitali. E quando la contraddizione interimperialista arriva a un punto critico questa integrazione si fa valere come elemento di forza nel conflitto tra i gruppi che si scontrano per la rispartizione del mondo. Con la guerra, poi, lo scontro tra i monopoli si trasforma in scontro tra le sovrastrutture con cui essi sono in rapporto dialettico. La cosa è resa oltremodo evidente nel processo storico recente: dalle guerre valutarie, dalle misure direttamente o indirettamente protezionistiche (di cui il Golden power è l’esempio più significativo), dall’escalation delle sanzioni (ben prima della guerra in Ucraina), oltre che dagli scontri armati veri e propri (sia in forma diretta che come guerra per procura, dalla Siria alla Libia, fino all’Ucraina). A questo stadio la lotta tra i monopoli è una lotta che ha come armi principali le sovrastrutture statali e le loro capacità complessiva di esercitare egemonia e far valere la forza economica, politica e militare.

Soprattutto nelle vecchie formazioni occidentali (da tempo gravemente sovraccumulate) la politica dello Stato è posta a tutela dei monopoli di riferimento (nazionali o alleati) e la guerra è la prosecuzione con altri mezzi di questa politica necessariamente imperialista. È un processo di subordinazione dello Stato ai monopoli a cui si accompagna il rafforzamento della prevalenza del potere esecutivo su quello legislativo. Un esecutivo che si lega sempre più strettamente alla frazione dominante del capitale finanziario e che per far questo tende a sottrarsi e rendersi più autonomo dalle forme classiche del controllo democratico-parlamentare borghese.

In questo quadro emerge in particolare il ruolo della borghesia burocratica (fascia alta dei funzionari pubblici, politici, burocrati, amministratori, magistrati, dirigenti bancari, gerarchia militare, ecc.)

“Uno degli effetti dello sviluppo della forma-stato è la crescita funzionale e quantitativa della borghesia burocratica. Si tratta di una sezione di borghesia che non gode della proprietà diretta di quote del plusvalore complessivamente prodotto, ma che si trova a gestire l’azione dello stato tesa a garantire la valorizzazione complessiva del capitale. (…) Essa si ‘organizza’ in catene burocratiche in forte osmosi con il sistema politico e con quello economico con cui scambia personale. È una sezione di classe per questo fortemente integrata con la borghesia imperialista di cui costituisce parte essenziale e strategica. Un’integrazione garantita dalle innumerevoli ‘porte girevoli’ che permettono alla fascia dirigente di circolare tra istituzioni statali e sovrastatali, società partecipate, banche e istituzioni finanziarie e grande impresa. Il collante principale è l’oligarchia finanziaria cui anche la fascia più alta della borghesia burocratica partecipa. Lo strato superiore di questa classe, la grande borghesia burocratica, occupa il Deep State e lo mette a disposizione degli interessi del gruppo dominante della borghesia imperialista”16.

La guerra è tra sovrastrutture

Nel momento in cui la contraddizione tra i gruppi interimperialisti diventa antagonista e le politiche imperialiste, promosse dai gruppi monopolisti, proseguono con altri mezzi, lo scontro bellico si sviluppa tra le sovrastrutture statali e sovrastatali. “È attraverso i fattori che compongono la sovrastruttura e la loro interazione che il movimento economico (oggi caratterizzato dalla crisi ndr) finisce per affermarsi come elemento necessario in mezzo ad una massa infinita di cose accidentali”17.

Ogni movimento nella sfera della politica, dell’ideologia, dell’egemonia e del dominio (e quindi anche la guerra) non è espressione diretta, immediata o meccanica della struttura economica perché esso è anche un risultato del processo storico della sovrastruttura, di come le diverse sovrastrutture si sono storicamente sviluppate (sia internamente come blocchi egemonici consolidatisi con la lotta tra le classi, sia esternamente con le guerre e le alleanze tra le potenze imperialiste).

La tendenza alla guerra si sviluppa sulla base strutturale della competizione tra monopoli, dello sviluppo diseguale tra le formazioni socio-economiche e della crisi di sovraccumulazione. Ma la guerra nella sua concretezza storica la fanno le sovrastrutture che sono sorte o si sono ridefinite al fine di rendere egemone il potere della frazione dominante del capitale finanziario.

Le sovrastrutture che oggi puntano allo scontro interimepialista per la rispartizione del mondo sono principalmente quelle delle formazioni socio-economiche “occidentali” (Usa, Ue, G7, Nato, Quad, Aukus, ecc.) e lo fanno contro le sovrastrutture delle formazioni socio-economiche emergenti (Russia, Cina, Brics, Csi, ecc.). Le prime sono spinte allo scontro dalla crisi di valorizzazione che attanaglia le loro economie. Sono le sovrastrutture colonialiste e imperialiste storiche che, con la guerra fredda, si erano riorganizzate in funzione antisovietica nell’ambito di una gerarchia imperialista a dominanza Usa (G7, Nato). Le seconde (principalmente Cina e Russia, ma anche India) devono difendere la loro accumulazione capitalistica che ha ancora ampi margini di valorizzazione (come indica la linea della crescita armoniosa cinese). Sono sovrastrutture che si sono storicamente definite sulla base di processi di rottura rivoluzionaria (o socialista o anticoloniale) e proprio in questo passaggio sono riuscite anche a conquistare l’autonomia strategica necessaria ad affrancarsi dalla sottomissione semicoloniale e dalla compradorizzazione della classe dirigente. Anche queste sovrastrutture si sono poi riconvertite, tramite restaurazioni e derive revisioniste, per essere funzionali al capitalismo della nostra epoca, cioè l’imperialismo (nell’accezione di Lenin).

In quanto a base strutturale i due tipi di sovrastrutture hanno lo stesso sviluppo monopolistico del capitalismo (le condizioni indicate da Lenin ne L’imperialismo). Tuttavia esprimono modalità diverse nel rapporto imperialista. Sulla contraddizione imperialismo – popoli oppressi le vecchie potenze aggravano la modalità dell’oppressione semicoloniale con il corollario di guerre e di golpe (Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, Bolivia..), di occupazioni militari e di omicidi mirati finalizzati ad imporre l’asservimento e la rapina delle risorse. Mentre le potenze emergenti ripercorrono facilmente le relazioni maturate nell’ambito della lotta anticoloniale e impostano rapporti egemonici e di sfruttamento più ‘illuminati’ (infrastrutture in cambio di concessioni di sfruttamento delle risorse).

Sul piano interno i due tipi di sovrastrutture sono caratterizzate da un diverso rapporto tra oligarchia finanziaria, borghesia produttiva e borghesia burocratica. Per farla semplice, e schematizzando per rendere chiaro il concetto, in Usa (e “occidente”) sono i miliardari a designare i presidenti, mentre in Cina e in Russia è il potere politico (detenuto dalla borghesia burocratica) a decidere i miliardari. Questi rapporti di forza diversi che si sono definiti storicamente tra le sezioni che compongono la classe dirigente imperialista strutturano sistemi egemonici diversi: le società ‘aperte’ delle cosiddette democrazie e le società ‘chiuse’ delle cosiddette autocrazie.

L’acutizzazione dello scontro strategico sul piano sovrastrutturale ha delle fondamentali ricadute sul piano strutturale. Sono ricadute che interessano in primo luogo la sfera finanziaria dove la perdita di egemonia globale degli Usa determina un’accelerazione della crisi del dollaro e si assiste al fenomeno della dedollarizzazione delle relazioni economiche, con la diminuzione delle riserve in dollari e la vendita di bond Usa da parte delle formazioni emergenti. Solo a titolo di esempi recenti: il possesso del debito pubblico Usa da parte cinese è sceso del 9% in un anno18; la russa Usal, maggiore produttore mondiale di alluminio, a fine luglio ha raccolto 4 miliardi di yuan con la prima emissione in Russia di azioni denominate in yuan; e per settembre 5 multinazionali cinesi hanno annunciato il loro ritiro da Wall Street con un disimpegno di 370 miliardi di dollari19. A questo si aggiunge la promozione, da parte dei Brics, di scambi non mediati dal dollaro. Fenomeno che interessa ormai quote significative del mercato mondiale delle materie prime.

Sono ricadute che riguardano però anche la sfera tecnologico-produttiva: come si manifesta con la guerra del 5G e dei chip e la rottura e riorganizzazione di numerose catene del valore, a partire da quelle delle materie prime, energetiche e tecnologiche, sulla base delle alleanze strategiche (reshoring e nearshoring). Se la guerra in Ucraina ha come particolare risvolto economico il controllo delle risorse di materie prime (terre rare e produzione agricola) la contesa nell’indo-pacifico, incentrata su Taiwan, ha come particolare risvolto il controllo del ciclo produttivo dell’alta tecnologia che vede l’isola cinese, ridotta a semicolonia Usa, leader mondiale della produzione di chip20.

A livello finanziario il sistema è sotto stress. I Brics puntano ad una nuova valuta internazionale che sostituisca il dollaro: una moneta di conto (garantita dalle materie prime delle quali i Brics hanno una posizione monopolista sui mercati) che funzioni da denaro mondiale. Ma la perdita di questo scettro da parte degli Usa, oltre che a registrarne la grave crisi di egemonia globale, ridisegna i rapporti economici e sancisce la fine di un sistema finanziario unipolare, verso uno multipolare o bipolare. Un processo che si è già evidenziato anche con la costituzione dell’Aiib, banca per lo sviluppo promossa dalla Cina e osteggiata dalla finanza occidentale principalmente Usa21.

La fine del monopolio del dollaro come denaro mondiale, oltre ad avviare una nuova corsa all’oro e alimentare il fiume delle cripto valute virtuali speculative come i Bitcoin, rischia di avere delle ripercussioni irreversibili sulla stabilità finanziaria Usa: non potranno più stampare allegramente moneta per finanziare il loro debito abnorme (dato che il dollaro perde il suo ruolo di esclusivo rappresentante universale del valore il loro debito cessa di essere oro)22 e, inoltre, non potranno più drenare risorse globali con il gioco della svalutazione-rivalutazione, mandando in recessione e scaricando la loro crisi sulle altre formazioni (come è già successo negli ultimi decenni per Messico, Argentina, Russia, Tigri asiatiche, ecc.). Tutto ciò non potrà che avere gravi conseguenze sulla loro economia e approfondire la crisi della loro egemonia globale.

La guerra in Ucraina in particolare, con il riallineamento Nato, ha sancito la fine della possibilità di sviluppo delle relazioni economiche euro-russe potenziando invece quelle russo-cinesi (come anche russo-indiane e dei Brics in generale). In questo quadro la posizione della Ue (Germania in primis) è quella del nuovo agnello sacrificale sull’altare degli interessi della frazione finanziaria dominante Usa che, tramite la guerra, oltre a contrastare l’egemonia russa nella stessa sua sfera di influenza, scarica la crisi di sovraccumulazione oltre Atlantico. A questo scopo gli Usa coltivano, come propria testa di ponte, la determinazione della ‘Nuova Europa’ antirussa (Polonia, Paesi baltici).

Nella Ue, l’alleanza sovrastrutturale atlantica, riconsolidandosi con la guerra, entra in contraddizione con lo sviluppo strutturale in cui l’accumulazione era in precedenza garantita da gas e materie prime a basso costo russe. Una posizione scomoda che si manifesta anche nell’attuale debolezza dell’euro e nella possibile prospettiva di una grave recessione di lungo corso. Tuttavia, una volta esplicitatasi la contraddizione in termini di guerra, l’oligarchia finanziaria europea e la borghesia burocratica delle principali formazioni del continente (Germania, Francia, Italia) non possono che schierarsi con la frazione finanziaria dominante Usa e anglosassone (Usa, Gran Bretagna, Canada, Australia), , andando anche contro gli interessi del proprio capitale produttivo.

L’imperialismo sul fronte interno

In gran parte delle storiche formazioni avanzate la crisi strutturale si è travasata in grave processo di destabilizzazione istituzionale. Un avvitamento che risulta oltremodo evidente dallo scontro interno alla borghesia imperialista Usa rappresentato dal caso Trump, dalle dimissioni di Boris Johnson in Gran Bretagna e di Draghi in Italia, dalla grave debolezza di Macron in Francia e di Scholz in Germania. La stessa condizione di crisi di valorizzazione che spinge all’esportazione di capitali e alla conseguente proiezione imperialista, fino alla guerra di rispartizione del mondo, ha determinato sul fronte interno la difficoltà a definire un blocco sociale egemone, un campo di alleanze diretto dall’oligarchia finanziaria. Gli spazi economici si sono ridotti e si è acuita la contraddizione con i ceti della piccola borghesia e del lavoro autonomo. Il capitale monopolistico multinazionale, famelico di profitti, spinge alla ‘liberalizzazione’ per acquisire e riorganizzare a proprio vantaggio ambiti concorrenziali (vedi caso Uber-taxi, concessioni balneari, ecc.). Il drenaggio fiscale dello Stato, per pesare sempre meno sulla valorizzazione del capitale, va a colpire i piccoli patrimoni (vedi riforma degli estimi catastali, ecc.). Una situazione di compressione degli spazi di riproduzione in cui la piccola borghesia va in fibrillazione e cerca di resistere abbandonando le vecchie rappresentanze politiche e alimentando rappresentanze sovraniste (in Italia Lega, 5 Stelle e ora i partitini no green pass).

La stessa condizione di crisi ha ridotto anche i margini di cooptazione corporativa della classe operaia destabilizzando quello che Lenin definisce il ‘bubbone opportunista’, come ben si evidenzia nella crisi politica che attanaglia il revisionismo e il riformismo, che non riescono più a rappresentare sul piano istituzionale gli interessi di classe. Interessi che spesso finiscono per essere utilizzati strumentalmente in chiave sovranista-reazionaria da frazioni borghesi (Trump, Le Pen, Lega, ecc.).

Tutto ciò si traduce in una grave perdita di egemonia della classe dominante sul fronte interno. Perdita che viene compensata con una più accentuata centralizzazione del potere decisionale sempre più libero dai vincoli posti dai contrappesi ‘democratici’ (come parlamento, corpi intermedi, sindacati, ecc.), con l’implementazione di nuove forme tecnologiche di controllo e disciplinarizzazione delle relazioni sociali (dal controllo del contante al green pass) e con la “dittatura mediatica”. Si configura così un processo di fascistizzazione in risposta al fatto che i vecchi metodi della democrazia borghese diventano per l’oligarchia finanziaria sempre più un ostacolo allo svolgimento della sua politica, sia nel campo interno come nel campo esterno. È un processo di fascistizzazione che per ora si svolge mantenendo formalmente l’involucro della democrazia borghese, ma che forza sostanzialmente, in chiave emergenziale, lo stesso diritto borghese (libertà individuale, di associazione, di espressione, diritti costituzionali). Tale processo risulta peraltro accelerato dal concretizzarsi della tendenza alla guerra interimperialista. In questa situazione infatti la borghesia imperialista è spinta a riorganizzare e rifunzionalizzare la strumentazione ideologica, istituzionale e repressiva per gestire le contraddizioni di classe e contenere la resistenza delle masse nel fronte interno.

La tendenza alla guerra porta ad una nuova determinazione della dialettica tra struttura e sovrastruttura, nella quale il secondo aspetto acquisisce sempre maggiore ruolo dirigente rispetto al primo, in virtù del fatto che la guerra è promossa dai gruppi imperialisti tramite gli Stati i loro eserciti. In questa condizione, agli occhi delle masse, lo Stato perde qualsiasi velleità di ente al di sopra delle classi, svelandosi per ciò che è nel concreto, lo strumento della dittatura di una classe su un altra all’interno e della difesa strategica di interessi monopolistici all’esterno. La guerra come dimostrato dalla storia, se da un lato sprofonda le masse nelle barbarie, dall’altra crea le condizioni più favorevoli per l’azione dei rivoluzionari, per l’abbattimento del vecchio mondo.

Diventano quindi fondamentali chiarezza ideologica e linea rivoluzionaria finalizzati a costruire il soggetto rivoluzionario che agisca nella fase attuale.

Una linea rivoluzionaria sull’imperialismo si distingue dai campi revisionista, riformista e opportunista che leggono l’evoluzione degli eventi in maniera unilaterale e non dialettica. Sono tali le posizioni di chi legge le contraddizioni come mera espressione di scontro tra sovrastrutture e arriva a considerare Russia o Cina, per il loro ruolo anti-Usa, come forze di per sé antimperialiste, presupponendo la possibilità di un capitalismo non imperialista all’estero come a casa propria. Oppure, all’estremo opposto, le posizioni che vedono nell’imperialismo esclusivamente il ruolo della struttura, sono come colui per il quale “al buio tutte le vacche sono nere”. Non considerano le contraddizioni interimperialiste, sono influenzate facilmente dalla concezione del superimperialismo (vedi Impero di Negri) e non comprendono le ragioni della guerra e quindi le determinazioni particolari, necessarie allo sviluppo di una linea concreta contro la propria borghesia, arrivando ad un massimalismo inconcludente. È il caso ad esempio dell’astratta e sterile posizione di chi afferma oggi “né con la Nato né con Putin”, che concretamente significa parificare la contraddizione con il nostro nemico principale e diretto, che muove il processo di guerra imperialista, a quella contro il suo nemico esterno e globale.


1 Lenin, Che fare?, Opere Scelte in due volumi, Edizioni in lingue estere, Mosca, 1947, p. 156

2 Lenin, L’Imperialismo, fase suprema del capitalismo (conclusione della Prefazione), in Opere, vol. 22, p. 190, Editori Riuniti, Roma 1966

3 Lenin, La guerra e la politica, Opere, vol. 24 pp. 409-431, Editori Riuniti, Roma 1966 (conferenza tenuta da Lenin a Pietrogrado il 15 marzo 1917)

4 Marx precisa che si tratta di due processi diversi. Per concentrazione si intende l’espansione di capitali, cioè di mezzi di produzione e di forza lavoro, che si determina sulla base dell’incremento dato dall’accumulazione. Per centralizzazione si intende l’accorpamento, tramite fusione in un unico capitale, di capitali in origine diversi. Cfr. C. Marx, Il Capitale, vol. 1, cap. 23, p. 797-798, ed. Il Sole 24 ore

5 Lenin, L’Imperialismo, Opere, vol. 22, p. 202, Editori Riuniti, Roma 1966

6 C. Marx, Miseria della filosofia, p.127, Editori Riuniti, 1973

7 “Concentrazione della produzione; conseguenti monopoli; fusione e simbiosi delle banche con l’industria: in ciò si compendia la storia della formazione del capitale finanziario”, Lenin, L’Imperialismo, op. cit., p. 227

8 Ivi p. 242

9 Ibidem

10 Per l’Italia la definizione della zona di interesse strategico del ‘Mediterraneo allargato’ come risulta, da ultimo, dall’Atto di indirizzo 2022 del ministero della difesa, reperibile su difesa.it

11 Ibidem

12 Ivi p. 295

13 Ivi p. 300

14 vedi Il Recovery Plan, il capitale tra programma e propagandaAntitesi n. 11, p. 6

15 “L’opuscolo è stato scritto tenendo conto della censura zarista. Per tale motivo sono stato costretto ad attenermi ad una analisi teorica, soprattutto economica, ma anche a formulare le poche osservazioni politiche indispensabili con la più grande prudenza, mediante allusioni e metafore, quelle metafore maledette, cui lo zarismo condannava tutti i rivoluzionari, che prendessero la penna per scrivere qualcosa di ‘legale’.” Lenin, L’imperialismo, op. cit., p.189

16 Antitesi n. 6, p. 42-43

17 F. Engels in note a K.. Marx, La guerra civile in Francia, p. 40-41, nota 2, Editori Riuniti, Roma, 1962

18 cfr. Andrea Muratore, La Cina scarica il debito Usa, it.insidover.com

19 M. Carrà, Cinque giganti cinesi lasciano Wall Street: un destailing da 370 miliardi, 12.8.2022, fobers.it

20 In parallelo all’acuirsi del contrasto Usa-Cina il Congresso degli Stati Uniti ha varato il disegno di legge bipartisan Chip and Sciece Act 2022. 52 miliardi di dollari stanziati per rafforzare ricerca e sviluppo di semiconduttori in territorio Usa.

21 La Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture è stata fondata a Pechino nell’ottobre 2014 su proposta della Repubblica Popolare Cinese. Si tratta di un’iniziativa che si contrappone all’Fmi e alla Banca Mondiale. Dopo la fondazione è passata da 57 a 78 membri in quattro anni.

22 vedi Antitesi n. 11, p. 81

Il gruppo Bilderberg

Un ambito in cui la borghesia imperialista del blocco atlantico trova il suo consensus è il club Bilderberg. Una delle migliori definizioni data del Bilderberg è che esso è “il luogo dove il capitale finanziario si incontra con la politica internazionale” (D. Moro, Club Bildenberg – Gli uomini che comandano il mondo, p. 72, Alberti Editore, 2013). Si tratta di un “think thank” composto da finanzieri, proprietari e dirigenti di corporation, grandi manager privati e pubblici, esponenti politici, accademici e giornalisti che ha continuato le sue attività fino a giorni nostri.

Il gruppo fu costituito nel 1954, nella prima fase della guerra fredda, cinque anni dopo la costituzione della Nato con cui condivide precisamente il campo di appartenenza. La sua costituzione avvenne su iniziativa della monarchia olandese (proprietaria della multinazionale Royal Dutgh Shell). Fondatore e primo presidente di Bilderberg fino al 1976 fu Bernhard van Lippe-Biesterfeld, rampollo dell’aristocrazia tedesca con un passato nazista, che aveva sposato nel 1937 la futura regina Giuliana d’Olanda. A patrocinarlo sono i più grandi potentati finanziari (Rockfeller, Rothschild). La ragione costitutiva era quella di favorire l’espansione del modello capitalista nel mondo e di contrastare l’Urss e l’avanzata del socialismo, oggi quella di affermare l’ordine mondiale delle vecchie potenze imperialiste del campo Nato.

Il club Bilderberg è un’associazione “privata”, i partecipanti (circa 130) sono cooptati in virtù del loro potere e delle loro ricchezze, non rispondono ad alcuna autorità pubblica o privata, provengono in gran parte dagli Usa e dall’Europa occidentale. Il gruppo si riunisce annualmente, in conferenze (non accessibili al pubblico) con dibattiti di tre-quattro giorni, a cui partecipano esponenti di spicco dell’alta finanza europea e anglo-americana e dirigenti della maggiori imprese internazionali (Royal Dutch Shell, Bp, Pfizer, Alcoa, Nestlé, Unilever, Coca-Cola, Nokia, Barclays, Rothschild, Goldman Sachs, Zurich Insurance e molte altre), con una rappresentanza dell’élite politica dei paesi del blocco atlantico, che comprende ampiamente capi di Stato, capi di governo, ministri economici e degli esteri, dirigenti di banche centrali, dell’Fmi e della banca mondiale (alcuni esempi di questa partecipazione per l’Italia sono: Mario Draghi, famiglia Agnelli, Franco Bernabè, Tommaso Padoa-Schioppa, Mario Monti, Enrico Letta, Romano Prodi, Matteo Renzi). A questo si aggiunge una significativa rappresentanza del sistema dei media (proprietari, dirigenti e giornalisti dei più influenti mass-media, per l’Italia ad esempio: Lucio Caracciolo, Matteo Feltri, Lilli Gruber). Il contenuto delle riunioni può essere divulgato dai partecipanti ma senza fare riferimento alle fonti, per consentire massima libertà di dibattito, senza responsabilità di fronte alla cosiddetta “opinione pubblica”.

Anche se le regole interne stabiliscono che dal direttivo del club devono essere esclusi i politici, ma il suo ambito è quello dove viene organizzato il meccanismo delle “porte girevoli” che caratterizza l’establishment occidentale, visto che i suoi membri passano normalmente da ruoli economici in gruppi bancari e multinazionali alla direzione di governi e strutture interstatuali (come l’Ue).

Il Bilderberg è solo uno dei più influenti tra gli innumerevoli club di quella che è stata definita “classe capitalistica transnazionale”, ma che è più giusto definire borghesia imperialista del campo atlantico (da Bilderberg sono rigorosamente esclusi russi e cinesi mentre vi fanno parte i turchi).

Altri club, più esposti alla pubblica attenzione, sono la Trilateral Commission e il World Economic Forum di Davos (entrambi promossi da esponenti del Bilderberg). La prima raccoglie, oltre a quelle Usa e Ue, anche la borghesia imperialista giapponese, mentre il secondo è aperto alla partecipazione di sezioni, della stessa classe, del resto del mondo (Russia, Cina, India, ecc.).

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