Antitesi n.13Editoriale

Contro il capitalismo di guerra

“Editoriale” da Antitesi n.13 – pag.3


Le esplosioni nei gasdotti Nord Stream 1 e 2 avvenute in questi giorni sono state mass mediate all’unisono, in tutti i paesi filoatlantici, come atti terroristici russi, senza alcun dubbio. Questo evento, a cui ha fatto seguito l’attentato contro il ponte di collegamento Russia-Crimea, mostra drammaticamente l’escalation della guerra verso la guerra mondiale e il ruolo indubbio, questo sì, di chi sta soffiando sul fuoco. Visto che la memoria è un’arma per il presente, ricordiamo l’incidente del Golfo di Tonchino nel’64 che diede carta bianca agli Usa per dichiarare guerra al Vietnam. Solo nel 1982, si “scoprì” che era una messinscena dei servizi statunitensi. Insomma il lupo anche se perde il pelo non perde il vizio.

Questa corsa alla guerra, nella quale gli Usa hanno trascinato l’Europa, ci mostra la nuova situazione mondiale e la strada imboccata, dai vecchi potenti del mondo, del capitalismo bellico come ultima opzione per far fronte alla crisi strutturale del modo di produzione capitalistico.

L’economia mondiale, infatti, è sull’orlo del precipizio, e a dirlo è l’Fmi. La guerra in Ucraina, l’aggravamento delle contraddizioni tra poli imperialisti, sono sia il riflesso della crisi sia un ulteriore fattore di precipitazione della crisi stessa. Le principali economie, Usa in testa, sono in recessione tecnica, le banche centrali aumentano i tassi d’interesse per cercare di calmierare l’inflazione galoppante e con questo aggravano la recessione.

Il mondo di ieri, quello che aveva caratterizzato lo sviluppo economico globale degli ultimi decenni è finito; la globalizzazione, per come l’abbiamo conosciuta, non esiste più.

In particolare la globalizzazione finanziaria, terreno principale di valorizzazione del capitale sovraccumulato, in quanto “valvola di sfogo” che ha permesso di gestire e posticipare gli effetti della crisi, ma non di risolverla, si è fratturata (vedi esclusione banche russe dal sistema Schift). La stagnazione globale degli investimenti diretti esteri, frutto dell’uso sempre maggiore del golden power e delle tendenze protezionistiche, denunciata in uno degli ultimi rapporti dall’Unctad (Conferenza delle nazioni unite sul commercio e lo sviluppo) ne è la dimostrazione.

L’apertura dei mercati aveva permesso alle economie del vecchio centro imperialista di poter accedere a materie prime, semilavorati e forza lavoro a basso costo, ma allo stesso tempo è grazie ad essa che nuovi aggregati economici si sono sviluppati a tal punto da mettere in discussione l’unilateralismo a stelle e strisce che aveva diretto il processo finora.

Tutto ciò si preannuncia un massacro per le economie del blocco “occidentale”, principalmente per l’Ue. Quanto stiamo vivendo rispetto al gas vale altresì per tutte le principali materie prime. La rottura delle attuali catene di approvvigionamento e la corsa a caccia di nuove alleanze tra formazioni, la ricerca di autonomie strategiche e le conseguenti tendenze protezionistiche caratterizzeranno il mondo di domani.

Il mondo di ieri, lascia il posto al mondo di oggi, quello del capitalismo bellico con la leva del keynesismo militare come estrema opzione sul piatto. Il green new deal è già un ricordo passato, la transizione energetica oggi passa per i rigassificatori, la riapertura delle centrali a carbone e la costruzione di nuove centrali nucleari.

La fine del mondo di ieri è sancita dalla crisi dell’egemonia Usa, tanto sul piano militare che su quello finanziario, con lo sviluppo da parte del blocco cinese-russo di alternative al dollaro e di sempre più stretti legami con quelle economie emergenti che aspirano ad un mondo multilaterale. Con la guerra in Ucraina, oltre a contrastare l’egemonia russa, gli yankee impongono il riallineamento dei paesi europei sotto la loro guida nella Nato. Una posizione contraddittoria per l’Ue che vede i propri interessi strutturali sacrificati anche a rischio di una profonda recessione, in favore degli interessi dell’oligarchia finanziaria Usa.

La crisi strutturale con i suoi avvitamenti fa da sfondo e si traduce nella crisi delle sovrastrutture e nella destabilizzazione degli assetti istituzionali. Dagli Usa con Trump, alla fine di Johnson in Gran Bretagna, passando per le difficoltà di Scholz in Germania, di Macron in Francia ed, infine, alla caduta del governo Draghi in Italia, la classe dominante dei paesi “occidentali”, logorata nella sua egemonia, divisa al suo interno, non riesce a definire un blocco sociale egemone ed è costretta a rimescolare continuamente le carte. C’è necessità di governi forti per gestire le conseguenze della crisi e della guerra sui fronti interni. È questa la chiave con cui leggere la caduta del governo Draghi, una mossa d’anticipo rispetto al riflesso della recrudescenza della crisi, prevista per l’autunno. Draghi, dopo aver preparato il terreno, senza essere sfiduciato dal parlamento, sotto indicazione delle consorterie finanziarie internazionali, ha rimesso il mandato.

Le elezioni del 25 settembre sono state l’ennesima truffa: un derby all’interno della classe dominante per definire chi farà meglio le stesse politiche. Entrambi i principali schieramenti sono servi della Nato e subalterni alla direzione Usa e, sulla politica interna, qualsiasi sia il colore del nuovo governo, c’è una strada tracciata dal Pnrr che passa per la guerra, senza margini di modifica.

Infatti, le forze del centro sinistra che hanno lanciato il grido “Aiuto arriva il fascismo!” sono coloro che, nascondendosi dietro la forma democratica, nella sostanza hanno rafforzato in maniera eccezionale l’autoritarismo (vedi lockdown e green pass) e foraggiato i nazisti ucraini. Da parte loro, le forze del centrodestra, in particolare Meloni, caldeggiano formali cambiamenti costituzionali che vanno nella stessa direzione sostanziale, come il presidenzialismo, che accentuerà ancora di più i poteri nell’esecutivo.

Negli anni trenta del secolo scorso, l’Internazionale Comunista ci insegnò che “il fascismo è la dittatura aperta, terroristica, degli elementi più reazionari, più sciovinisti e più imperialisti del capitale finanziario”. Oggi ci ritroviamo con un regime formalmente democratico che tende sempre di più ad avvicinarsi a questo modello, a causa soprattutto dei “governi tecnici” e di “unità nazionale” che, con continue forzature istituzionali, hanno imposto agende di lacrime e sangue per i proletari a vantaggio del padronato e delle oligarchie finanziarie italiane, europee e Usa, alzando contemporaneamente via via il livello dell’autoritarismo politico, sociale e della repressione per chi osa ribellarsi. Ora il regime della borghesia imperialista gioca addirittura la carta degli eredi diretti del fascismo storico per governare nella crisi e promuovere la guerra imperialista.

L’esito elettorale ci consegna un risultato dove il dato principale che emerge è l’aumento costante dell’astensionismo come manifestazione di sfiducia nelle istituzioni borghesi. Entrambe le coalizioni hanno ottenuto i medesimi numeri di quattro anni prima che però, in virtù della nuova legge elettorale, hanno portato a risultati diversi. Un velo pietoso va steso su tutti coloro che, da sinistra e ammantandosi da rappresentanti degli interessi delle classi subalterne, hanno partecipato al teatrino elettorale. Il riformismo e il revisionismo non hanno mai realmente rappresentato sul piano istituzionale gli interessi delle classi lavoratrici, ma oggi questa farsa è definitivamente finita, con la fine di ogni margine di manovra reale per coloro che predicano di poter cambiare il sistema dall’interno.

Il prossimo esecutivo dovrà fare i conti con una situazione potenzialmente esplosiva: chiusura di aziende, salari da fame, inflazione galoppante che erode il potere d’acquisto dei lavoratori, anche di quei settori di classe operaia che fino a ieri si sentivano “garantiti”. Tutto questo è aggravato dagli aumenti stratosferici del prezzo dell’energia che, oltre sulle bollette per le famiglie, sta già incidendo sull’industria: molte aziende hanno allungato le ferie estive e riorganizzato le produzioni tagliando turni e concentrando la maggior parte del lavoro la notte, con la prospettiva che alcune di queste non riapriranno. Questo aggrava la crisi di interi comparti come il bianco (elettrodomestici), con l’annunciato disimpegno di Whirpool dall’Italia, i fermi linea all’Electrolux e la prospettata chiusura di oltre centomila aziende per l’aumento dei costi di produzione.

La confusione regna sovrana, possiamo ancora dire che la situazione è eccellente?

Di sicuro, oggettivamente, ci sono per i comunisti ampi spazi di azione visto che in questa situazione le masse sono contro la guerra, si pongono il problema di capire ciò che sta succedendo e sono più aperte alle idee rivoluzionarie. La principale idea che dobbiamo affermare è che solo la mobilitazione rivoluzionaria delle masse potrà fermare la guerra, come è successo con la Comune di Parigi, la Rivoluzione d’Ottobre e la Rivoluzione cinese. Spetta oggi ai comunisti il compito di colmare il ritardo in campo soggettivo per ricostruire l’organizzazione politica della classe; la situazione è favorevole, possiamo raccogliere forze applicando la linea di trasformare la lotta contro la guerra imperialista e le sue conseguenze in lotta rivoluzionaria, promuovendo l’organizzazione necessaria in ogni luogo di lavoro, di studio e nei territori.

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