Antitesi n.13Classi sociali, proletariato e lotte

Movimento contro la guerra in Italia

Organizzare la resistenza alle politiche di guerra

“Classi sociali, proletariato e lotte” da Antitesi n.13 – pag. 17


Dopo otto mesi dall’inizio dell’escalation della guerra sul fronte ucraino, dall’inchiesta in alcuni luoghi di studio e di lavoro e dalla nostra partecipazione pratica nelle piazze, possiamo trarre alcune conclusioni parziali sui riscontri delle masse nostrane rispetto alla campagna mediatica che la classe dominante ha condotto nel tentativo di rafforzare uno spirito atlantista e nazionalista, in funzione dell’appoggio alla guerra imperialista.

Abbiamo ampiamente visto come, dopo otto anni di guerra nelle aree del Donbass, i mass media abbiano improvvisamente scoperto il fronte ucraino, schiacciando la narrazione in un unico senso, sorvolando sui battaglioni nazisti ucraini e, anzi, dando loro spazio come “eroi”. Dalle televisioni all’accademia ogni forma di espressione della cultura russa è stata spesso silenziata. Negli istituti scolastici, come mai accaduto prima, è cominciata rapidamente la corsa alla raccolta fondi e al sostegno ai profughi ucraini, diretta e organizzata a livello istituzionale, personale scolastico, genitori e studenti hanno raccolto pacchi alimentari, abbigliamento, coperte, dimostrando un grande senso di umanità e generosità da parte delle masse popolari. Un’azione che ha però palesato una netta distinzione tra profughi di serie A e di serie B, in base a provenienza e colore della pelle, mentre chi fugge da altri scenari di guerra finiti nel mirino dell’imperialismo continua a morire in mare, nel deserto e nei boschi, che cerca disperatamente di attraversare.

Se la solidarietà nei confronti dei profughi ucraini è stata strumentalizzata, a sua volta la spinta genuina di tante persone a scendere in piazza contro la guerra ha registrato il tentativo di trasformare la mobilitazione per la pace in mobilitazione a favore della Nato.

Politicamente il Partito Democratico è stato il soggetto al vertice di questa campagna e possiamo fissare il 12 marzo scorso a Firenze come l’evento pubblico che ha fatto comprendere chiaramente la direzione guerrafondaia e di appoggio al fascismo ucraino della borghesia. Infatti nel capoluogo toscano il sindaco Nardella, nonché presidente di Eurocities (ovvero rappresentante delle principali città europee con più di 250mila abitanti), ha annunciato la necessità di esprimere “una sola voce qui e nelle città d’Europa” in appoggio al regime ucraino, con tanto di Zelensky sul maxi schermo, in un florilegio di bandiere gialle e blu1.

A partire da questo momento il regime ne ha tentato la replica in molte città, trovando però non pochi ostacoli e scarso consenso, soprattutto quando ha cercato di infiltrare persino la ricorrenza della liberazione dal nazifascismo con le bandiere della Nato e l’appoggio al fascismo ucraino. Oltre che con quelle dello Stato sionista di Israele, tentando di silenziare qualsiasi altra voce, compresa addirittura quella delle sezioni dell’Anpi (che hanno dovuto protestare per non perdere la propria base).

Il tentativo politico è stato quello di “cancellare dal discorso pubblico la realtà del capitalismo nella sua fase imperialista, realtà fatta di guerre in ogni continente e che, anzi, vede nella guerra uno degli strumenti per risolvere le proprie crisi economiche, sempre più ravvicinate e devastanti. Inutile dire che il principale fautore di guerre al mondo sono gli Stati Uniti ed i suoi alleati, sia europei che non, tra i quali l’Italia, secondo paese al mondo per numero di missioni all’estero. Posta tale premessa, possiamo dire che in queste piazze abbiamo visto l’articolazione della linea propagandistica della classe dominante che “avrebbe voluto trasformare il movimento per la pace in movimento per la guerra (…) per garantirsi un fronte interno allineato e pronto ai sacrifici”2. Non è un caso che quello nostrano sia l’unico parlamento europeo ad aver secretato i numeri e i costi degli armamenti inviati al governo ucraino.

Laddove il Pd e i suoi addentellati nel movimento contro la guerra non riescono ad egemonizzare le piazze, allora procedono al loro depotenziamento. Un esempio è rappresentato dalla mobilitazione a Coltano, in provincia di Pisa, lo scorso 2 giugno. Dopo un rimpallo di notizie e ipotesi contrastanti, forte del Pnrr, il governo Draghi ha scelto questo luogo come sede di una base militare per un totale di 440 mila metri cubi di edifici e 73 ettari di territorio cementificato all’interno di un parco naturale, con un costo di 190 milioni di euro, coperto dalla complicità e dall’omertà delle istituzioni locali. Davanti all’imposizione di questo progetto militare, è stata organizzata una grande mobilitazione che, nata con una caratterizzazione popolare e partecipata da un’ampia componente giovanile, sviluppatasi interessando numerose realtà genuine di tutta Italia, ha rappresentato un’occasione sprecata, essendo stata collocata, proprio per depotenziarla, nel nulla della campagna, anziché nella città di Pisa. Sebbene in questo modo la mobilitazione sia stata affossata, ricordiamo comunque che all’interno del movimento è stata portata la linea corretta di mobilitarsi a Pisa. Ciò testimonia che non siamo di fronte ad una situazione appiattita, bensì all’interno di uno scontro tra due posizioni ben distinte: da un lato i sinceri antimperialisti e dall’altro le forze legate (chi più e chi meno) al Pd ed ai riformisti.

Laddove è invece presente un movimento dichiaratamente antimperialista, la risposta dello Stato, incapace di cercare di indirizzarlo e depotenziarlo, è semplicemente quella di reprimerlo. È il caso del movimento no Muos che, da dieci anni, è in lotta contro l’installazione e il funzionamento delle antenne del Muos (Mobile user objective system), ovvero un sistema di comunicazioni satellitari militari in capo al Dipartimento di Difesa degli Stati Uniti, installate a Niscemi, in provincia di Caltanisetta. Anche la scorsa estate i manifestanti sono stati oggetto di denunce, idranti e uso di gas Cs, le cosiddette armi da guerra di terza categoria, ossia armi chimiche: “una sostanza prevalentemente utilizzata dalla polizia di innumerevoli Stati per il “controllo” dell’ordine pubblico (…) provocando “gravi effetti sull’apparato respiratorio”3.

Da un punto di vista di classe, un altro esempio di repressione nei confronti di chi si mobilita concretamente contro la guerra imperialista è rappresentato dalle denunce e dall’inchiesta, con l’accusa di associazione a delinquere, a danno del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali (Calp) di Genova protagonisti di scioperi, blocchi degli accessi ai varchi del porto del capoluogo ligure e azioni contro le navi cariche di armamenti e contro le aziende belliche. Questi lavoratori sono stati anche in grado di legarsi con i portuali di Livorno e con gli aeroportuali di Pisa, impegnati sul medesimo fronte. Le azioni dei portuali di Genova hanno prodotto un risultato concreto: la nave saudita Bahri, con rotta dagli Usa e trasportate armi per la guerra in Yemen (prodotte anche da Leonardo e Iveco) non effettua più operazioni di carico e scarico nel porto genovese, sebbene prosegua il suo transito mortifero.

Un’azione, quella dei portuali, che non si ferma alla controinformazione e ai blocchi, ma che è forte di un’analisi chiara che sottolinea come, con la crisi “pandemica” prima e ora con la guerra, si siano disvelate le contraddizioni del sistema capitalistico. A questo proposito il Calp ha sottolineato che “Bisogna ragionare da compagni. Noi non siamo “né, né”, noi siamo “contro”, contro la Nato e contro tutto questo. Il ruolo del Calp è anche quello di chiedere l’Italia fuori dalla Nato, ma soprattutto la Nato fuori dall’Italia”4.

Consapevoli che ciascuna delle situazioni citate meriterebbe molto più spazio, riprenderemo e approfondiremo alcune considerazioni nel corso dell’elaborazione dell’articolo, ma possiamo fin d’ora affermare che se la campagna atlantista della borghesia imperialista scricchiola, il tentativo di trasformare il movimento per la pace in movimento pro-Nato è fallito. Il 25 Aprile scorso vi sono state grosse contestazioni, soprattutto al corteo di Milano, contro chi ha cercato di sfilare con le bandiere della Nato, dell’Ucraina o dello Stato sionista di Israele. Questo dato ci rincuora sebbene non sia sufficiente e ci sia molto lavoro da fare, come comunisti, all’interno del movimento contro la guerra nel nostro paese.

Le espressioni dei movimenti di massa contro la guerra

Cerchiamo in questo paragrafo di dare uno sguardo alle espressioni dei movimenti di massa in Italia contro la guerra imperialista, consapevoli che non si possa sottolinearne ogni sfumatura, ma intenzionati a individuarne punti di forza e di debolezza, per inquadrare, facendoci forza del pensiero maoista sulla linea di massa, quali rappresentino una destra, un centro e una sinistra ovvero quali siano le posizioni e le pratiche avanzate da valorizzare, con la nostra presenza politica militante5, e quali siano quelle arretrate da contenere e isolare.

La posizione alla quale la borghesia ha riservato un rinnovato eco mediatico è quella pacifista. Questo perché rappresenta principalmente l’espressione delle forze che denunciano il procedere della guerra a livello globale, senza indicarne in nessuna maniera le cause ed i responsabili. Questo pacifismo rende il movimento contro la guerra facilmente permeabile dall’ideologia delle classi dominanti legate alla Nato, che giustificano il proprio interventismo bellico proprio con la retorica della pace e dei diritti umani, portando, quindi, a posizioni di destra. La posizione di destra è, infatti, quella filoatlantica, anche se si maschera da pacifista con la fandonia dell’intervento Nato a sostegno della democrazia e della libertà.

La necessità è invece quella di “studiare la politica che precede la guerra, la politica che porta e che ha portato alla guerra. Se la politica è stata imperialistica, ha difeso cioè gli interessi del capitale finanziario, ha depredato e oppresso le colonie e gli altri paesi, la guerra che scaturisce da una simile politica è imperialistica. Se la politica è stata una politica di liberazione nazionale, ha espresso cioè il movimento delle masse contro l’oppressione straniera, la guerra che ne deriva è una guerra di liberazione nazionale”6.

Un esempio di espressione del movimento pacifista può essere rappresentato dalla marcia Perugia-Assisi: organizzata e partecipata da oltre sessant’anni, oggi le parole d’ordine sono quelle di fermare la guerra perché “è una follia” e, citando le parole del Pontefice: “le guerre si fermeranno soltanto se noi smetteremo di alimentarle”. É palese che questo “noi” crei confusione e distolga l’attenzione dal vero e solo responsabile, la borghesia imperialista. Mentre la definizione della guerra in quanto “follia”, per quanto comprensibile, contribuisce a non coglierne la “sostanza reale”, ovvero quella della continuazione della politica con altri mezzi. Infatti emerge come il movimento pacifista non si domandi per quale motivo si combatta la guerra, quali schieramenti siano in campo e per quali fini politici ed economici (non a caso il pacifismo poco o nulla ha espresso rispetto alla guerra che da otto anni si combatte nel Donbass). In altre parole il movimento pacifista non concretizza il minimo accenno alla politica che precede l’escalation di questo conflitto.

L’unico pregio che, d’altra parte, si può riscontrare in questo movimento è invece la denuncia della crescita della spesa militare e degli investimenti per la ricerca e la produzione di nuovi armamenti. Anche in questo senso, però, non vengono inquadrati il processo di militarizzazione dell’economia nel suo complesso e i ruoli interconnessi che giocano oligarchia finanziaria, vertici militari e direzione delle commesse militari statali, fino alle fusioni e le joint venture di industrie militari (si veda ad esempio il recente caso di Leonardo Drs con l’azienda israeliana Rada Electronic Industries Ltd).

Nelle mobilitazioni contro la guerra è emersa anche la posizione di equidistanza, ovvero delle forze che affermano “Nè con Putin, né con la Nato”, le quali, pur individuando le responsabilità imperialiste nel processo di guerra a livello globale, pongono sullo stesso piano la Nato, gli Usa, l’Ue e la Russia in quanto anch’essa espressione dell’imperialismo. Non indicano, quindi, il nemico principale, cioé la Nato e, nel nostro paese, il regime filostatunitense, e così non si smarcano nettamente dall’egemonia della classe dominante. Questo slogan, storicamente, ci può ricordare anche il noto “nè aderire, né sabotare”, espressione della dirigenza del Partito socialista durante la Prima guerra mondiale, con le conseguenze nefaste che abbiamo conosciuto.

In generale possiamo infatti dire che la posizione di equidistanza si concretizza in una constatazione delle sole conseguenze della guerra, arrivando ad assumere un ruolo paragonabile a quello della socialdemocrazia che, fondamentalmente, serve lo scopo ultimo di sostenere una via riformista di questo sistema sociale. Gran parte della sinistra antagonista, del movimento femminista e di alcune componenti comuniste e anarchiche abbracciano e fanno propria questa posizione, dimostrando di non comprendere in maniera scientifica la nozione di imperialismo e, conseguentemente, lasciando spazio all’influenza della sua ideologia nelle proprie fila. Questa posizione riflette una lettura della guerra imperialista che è schiacciata su blocchi contrapposti ben definiti, non venendo inquadrata nel suo sviluppo attraverso l’interpretazione delle contraddizioni interimperialiste che si aggravano a causa della crisi del sistema capitalista in cui viviamo. Inoltre è una posizione che non ha nessuna concretezza sul piano reale, perché la sola lotta reale che possiamo organizzare all’interno di un paese collocato nel blocco Nato è lottare contro quest’ultimo e i suoi esecutori e complici politici.

Analogamente, all’accettazione di fatto della gestione securitaria della pandemia, chi assume una posizione di equidistanza rappresentata dallo slogan prima citato, non denuncia chiaramente la narrazione mainstream del conflitto in corso, secondo cui Putin sarebbe il solo e unico cattivo che ha dato sfogo ad una guerra predatoria scatenata dalla Federazione Russa.

Suscita, inoltre, un certo sobbalzo il fatto che molti collettivi e assemblee femministe denuncino ora i rischi per le donne e le persone omosessuali nei territori occupati dai russi, ma abbiano taciuto sul carattere del governo golpista di Kiev, abbondantemente noto per le sue posizioni filonaziste e conseguentemente violente e discriminatorie.

In diverse di queste aree di movimento abbiamo assistito alla ripresa dei contributi delle attiviste femministe ucraine. Il prezzo della guerra viene pagato in primis dalle donne, nei termini di condizioni sempre più difficili e precarie, violenze, stupri, esodi forzati che alimentano il mercato della prostituzione e ingrassano l’esercito industriale di riserva fornendo manodopera sottopagata, come dimostra il caso della Polonia, dove le ucraine e gli ucraini sono costretti ad impiegarsi in lavori ulteriormente sottopagati rispetto a quelli che svolgevano prima, ponendosi in una condizione di ricattabilità e vulnerabilità. Tuttavia, nell’analisi delle femministe ucraine non è presente il minimo accenno di critica al governo di Kiev, al conflitto protrattosi nelle aree del Donbass, a come l’imperialismo occidentale abbia soffiato sul fuoco, anzi viene caldeggiato un maggior sostegno politico e militare in questo senso, prestando di fatto il fianco al nazionalismo ucraino.

Per inciso, constatiamo, ancora una volta, come la figura della donna sia stata quella sulla quale si è costruita la propaganda guerrafondaia per mobilitare le donne e tutte le masse in senso reazionario.

Vogliamo piuttosto citare le parole delle donne del Donbass, del collettivo “Aurora”, che dichiarano come non esista un movimento per la pace in Ucraina “e chi è contrario non lo può dire perché subirebbe ritorsioni, mentre invece esiste in Russia. Nella parte occidentale ucraina ci sono donne che si mobilitano per i figli e i mariti che sono obbligati ad andare alla guerra. Raccontano che molti dicono “la guerra è brutta”, ma queste sono posizioni ipocrite perché quando i carri armati e le forze ucraine sono entrate in Donbass a uccidere le persone che protestavano non hanno detto nulla e nulla hanno detto nemmeno contro le sanzioni economiche degli ultimi anni che hanno causato gravi problemi alla popolazione, addirittura hanno tolto le pensioni a molti costringendoli alla miseria”7.

Possiamo dire che queste posizioni sommariamente sopra descritte, caratterizzate dalla parola d’ordine del “né, né”, sono posizioni di centro poiché possono essere influenzate/cooptate sia dalla destra che dalla sinistra. I comunisti devono criticarle e farle evolvere con la promuovendo la loro trasformazione, relazionandosi a chi le porta avanti genuinamente e in buona fede, valorizzandone gli aspetti positivi per la crescita politica e gli interessi generali del movimento contro la guerra imperialista.

Invece, la sinistra del movimento contro la guerra è rappresentata dalla posizione di antagonismo alla Nato e alle classi dominanti Usa e Ue, e quindi di schieramento contro il governo filoatlantico del proprio paese, individuandole come i nemici principali contro cui lottare. Si tratta della posizione che, giustamente, colloca l’Ucraina al centro dello scontro generato dalle contraddizioni interimperialiste che diventano acute nella fase di avvitamento della crisi del capitalismo. La posizione comunista è invece rappresentata dalle forze che hanno un’analisi di classe dell’imperialismo e che coerentemente portano avanti il cambiamento rivoluzionario contro la propria classe dominante, puntando a trasformare la lotta alla guerra imperialista in lotta di classe.

Dall’esperienza che abbiamo avuto partecipando all’ultimo movimento significativo che si è dato in Italia, il movimento no green pass, possiamo dire che questo movimento si è dimostrato, dopo lo scoppio della guerra, uno spazio dove la posizione di sinistra ha trovato ampio consenso, grazie agli anticorpi sviluppati dallo stesso movimento rispetto alla narrazione mediatica contro l’autoritarismo “sanitario”.

Con buona pace di coloro che non hanno voluto “sporcarsi le mani”, dichiarando che “altre sono le nostre piazze” (peraltro non pervenute), quello no green pass è inquadrabile come un movimento concreto di dissenso e soprattutto di mobilitazione costante contro il governo e la sua gestione della pandemia come problema di controllo sociale e non sanitario, intendendo concreto perché “sintesi di molte determinazioni e unità, quindi del molteplice”8.

Importanti componenti del movimento contro il lasciapassare verde, nella loro eterogeneità, hanno espresso la denuncia dei ricatti a danno delle lavoratrici e dei lavoratori, la necessità dell’unità tra vaccinati e non vaccinati, registrando tra i suoi diretti protagonisti operai, portuali, ferrovieri e studenti. Ciò ha dimostrato che la borghesia non dirige questo movimento, e per essa è pertanto un elemento fuori controllo.

La pratica ha dimostrato che la costanza nelle mobilitazioni ha creato nel movimento gli anticorpi per mantenere una posizione chiara non solo sulla questione specifica del lasciapassare, ma anche su altre tematiche. Pensiamo al caso di Trieste, dove il movimento no green pass si è mobilitato contro ricatti e licenziamenti a danno degli operai di Wartsila a rischio chiusura, con perdita di centinaia di posti di lavoro, dopo la presa di posizione del governo finlandese riguardo al conflitto in Ucraina9. Sempre a Trieste il 21 settembre scorso si è svolta una partecipata manifestazione, indetta dal Coordinamento no green pass, contro la guerra, la Nato e l’aumento delle bollette: un esempio importante questo per tutti coloro che si sono mobilitati contro la gestione autoritaria curante il Covid-19.

Rispetto invece alle componenti studentesche registriamo che, in particolare a Milano, gli studenti universitari hanno saputo legare l’opposizione al green pass alle questioni specifiche di accessibilità agli spazi, ai servizi universitari, alla didattica a distanza, per poi sapersi esprimere anche rispetto alla guerra imperialista, ragionando proprio sui medesimi meccanismi di gestione borghese di guerra e “pandemia” e contribuendo, in ultima analisi, a non far passare quel tentativo di propaganda bellicista ed atlantista di cui abbiamo scritto all’inizio di questo articolo.

I compiti di noi comunisti

L’escalation del conflitto in corso in Ucraina ci dimostra come la borghesia imperialista attraverso la Nato sfrutti la situazione drammatica per accelerare sul fronte del suo allargamento, come testimoniano i casi di Svezia e Finlandia, rimasti finora fuori dall’alleanza atlantica. Le politiche di guerra investono non solo tutta l’Europa bensì il mondo intero, ma anche la risposta a queste politiche ha già ed avrà sempre più un carattere internazionale, come anticipato dalle piazze in Polonia e nella Repubblica ceca e del resto anche il movimento no green pass ha avuto caratteristiche internazionali.

Dato l’incalzare degli eventi, consci della nostra debolezza, per noi comunisti diviene ancor più importante in questo frangente cercare di colmare il ritardo e di attrezzarci per saper leggere la realtà e il suo sviluppo, ed organizzarsi per la pratica.

Quindi, quale referente avere? Quale formazione proporre e praticare per costruire quadri all’altezza dei compiti di oggi? Quale tipo di militanza costruire? Queste sono le domande da porci per attivarci nella pratica. Ed è per rispondere a queste domande che abbiamo analizzato la situazione del movimento contro la guerra per come si è dato finora in Italia.

Ci rivolgiamo alle masse, laddove per masse intendiamo “tutte quelle classi o sezioni di classe che hanno un interesse oggettivo e/o soggettivo nel superamento progressivo dell’attuale ordinamento economico e sociale. Per capirci con alcuni esempi, possiamo includere in questo termine il proletariato, ma anche gli studenti, le minoranze oppresse, la piccola borghesia… Bisogna tener conto che il termine masse non è statico ma è in movimento a seconda della fase e delle condizioni oggettive”10.

Oggi assistiamo al fatto che, dopo anni di relativo silenzio, l’opposizione alla guerra ritorna ad essere percepita come una necessità urgente; ciò è testimoniato anche dal riemergere delle assemblee nei territori, soprattutto quelli da sempre colpiti dalla massiccia presenza di basi militari.

Notiamo che, non a caso, all’interno di questi movimenti ricompaiano, sotto nuove spoglie, accozzaglie di partiti e partitini istituzionali, burocrati vecchi e nuovi che, in maniera opportunistica e in nome di una conciliazione di classe con la borghesia, continuano a proporre una via riformista, strettamente legale e parlamentare come soluzione alla crisi strutturale di questo sistema e alle sue guerre.

La pratica ci insegna invece che nessun governo borghese può seriamente mettere fine al ricorso alla guerra. In una società capitalista, pertanto divisa in classi, il pacifismo rappresenta un’illusione di fronte ad una realtà complessa in cui la classe dominante non cederà mai pacificamente il proprio potere, anzi continuerà a cercare di accrescere la propria egemonia politico culturale e i propri apparati militar-polizieschi, come tenta di fare anche dotandosi di una veste di facciata pacifista. D’altra parte è la stessa borghesia che aumenta e affina lo sfruttamento, con un processo di proletarizzazione della piccola borghesia e di impoverimento delle masse, sperimenta processi di militarizzazione della società nel suo complesso e nei suoi contesti specifici e alimenta guerre imperialiste, nel tentativo di uscire dall’avvitamento della crisi strutturale sistemica.

Le tensioni e le contraddizioni finora rimaste prevalentemente sul piano economico, tendono sempre più a cedere il passo allo scontro militare e, conseguentemente, qualsiasi aspetto della vita viene trattato in modo militare e di controllo: dalla scuola alla sanità ed al lavoro, fino alla gestione dello spazio pubblico.

Di fronte a questa situazione, in cui la borghesia non è così serena come cerca di mostrare, bensì ricca di contraddizioni e debolezze, nostro compito è rafforzarci come componente comunista, per poter intervenire efficacemente anche nel movimento contro la guerra imperialista.

Sappiamo che la mobilitazione reazionaria è fondamentale per gli Stati guerrafondai per mantenere il consenso e procedere con la guerra, a maggior ragione oggi che l’egemonia borghese registra grossa sofferenza, come dimostra la disaffezione al voto e le proteste sulla gestione autoritaria del Covid-19. Ed è per questo che anche i movimenti assumono particolare importanza nel contrastare le guerre. Il movimento antimilitarista e pacifista negli Usa durante la guerra in Vietnam ha mostrato come, affiancandosi alla lotta antimperialista del popolo vietnamita, abbia contribuito alla sconfitta americana: un governo non può continuare a lungo una guerra senza il consenso della popolazione, questo è un innegabile insegnamento storico. Sappiamo che il pacifismo non ha mai fermato alcuna guerra se non affiancato da una linea antimperialista; esso è una forma specifica del riformismo sociale borghese e si rivela impotente a superare i mali del capitalismo nella sua fase imperialista. Esso però determina un indebolimento del nemico di classe, della borghesia e come comunisti dobbiamo sfruttare al massimo questo indebolimento: nella mobilitazione si prende coscienza che i costi della guerra ricadono sul proletariato e sulle masse popolari tutte. É una situazione favorevole per trascinare i proletari alla lotta per difendere i propri interessi il cui esito più importante sarà il loro svincolamento da ogni illusione pacifista. La lotta per le specifiche rivendicazioni pacifiste come l’opposizione all’invio di armi e alla loro produzione per noi è un mezzo per combattere le illusioni pacifiste nelle masse lavoratrici. E il movimento di massa è un campo in cui portare le nostre posizioni e raccogliere le forze che vogliono contribuire ad uno sviluppo antimperialista e rivoluzionario della mobilitazione.

E per contrapporci alla propaganda di guerra dobbiamo formarci, studiare i successi e gli errori di chi è venuto prima di noi e assumere il carattere di solidarietà internazionale che la mobilitazione deve esprimere in unione con la lotta in Donbass. Tutto questo per essere in grado di dare battaglia alle concezioni errate, in primo luogo al riformismo, e di portare le idee rivoluzionarie nei movimenti e tra le masse dotandoci degli strumenti necessari: testi di propaganda, seminari, gruppi di studio, dibattiti, trasmissioni radio, volantini, tazebao, striscioni ecc.

In ultimo, la nostra militanza deve promuovere e partecipare alle mobilitazioni contro la guerra con l’obiettivo, come comunisti, di radicarci tra le masse e divenire capaci di sviluppare l’organizzazione della resistenza alle politiche di guerra tra i lavoratori, nei territori, nelle scuole e in ogni ambito sociale.


1 L. Montanari, S. Poli, Manifestazione per l’Ucraina, Firenze in piazza, 12/3/2022, repubblica.it

2 Centro di documentazione antimperialista Olga Benario, Sulla guerra in Ucraina, p. 6, Milano, marzo 2022

3 A. Mazzeo, Contro i No Muos a Niscemi, prima gli idranti e poi le armi chimiche al CS, 8/8/2022, antoniomazzeoblog.blogspot.com

4 A. Tedone, Il Calp blocca il porto di Genova. La guerra inizia da qui, 1/4/22, dinamopress.it

5 Sulla linea di massa cfr. Antitesi n. 12 La linea di massa. Il metodo di direzione dei comunisti, pp. 70-80

6 Lenin, Intorno a una caricatura del marxismo e all’economismo imperialistico, vol. 23, pag. 30, Opere complete, Editori Riuniti

7 Commissione Donne – Collettivo Lunga Marcia, Donne e guerra, p. 17, Milano, 2022

8 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica all’economia politica, Vol 1, La Nuova Italia, p. 27; Cfr Antitesi n. 12, Il movimento no green pass ovvero sulle varianti della lotta di classe, aprile 2022, p. 18

9 Vedi Scheda pag. 16

10 Antitesi n. 12, La linea di massa, il metodo di direzione dei comunisti, pp. 71-72, aprile 2022


Campeggio di lotta no Muos agosto 2022

Il campeggio di lotta del movimento no Muos quest’anno ha registrato la partecipazione di circa un centinaio di compagni, per lo più giovani, provenienti da diverse aree di movimento italiane. Hanno partecipato il Comitato di solidarietà Graziella Giuffrida – Catania, Sicilia Libertaria, Fronte della gioventù comunista, gruppi indipendentisti siciliani (Trinacria, Antudo), Spazi Sociali – Catania, Collettivo Comunista Lunga Marcia – Milano, Collettivo Comunista Levante – Padova, Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali – Genova, esponenti del movimento No Tav, Raggia Tarantina, A foras – Sardegna, Cravos – Bologna e La Comune – Ravenna.

Il campeggio, così come la manifestazione di circa 200 persone che ogni anno si svolge lungo la base militare statunitense, ha dimostrato chiaramente la trasformazione del movimento no Muos: da mobilitazione di massa qual era, a un movimento contro la guerra composto per lo più da militanti comunisti, anarchici, indipendentisti siciliani e di sinistra. Venendo a mancare la contraddizione attorno alla quale migliaia di persone si erano attivate, cioè la costruzione della base militare in una riserva naturale a pochissimi chilometri da Niscemi, il movimento ha assunto una composizione diversa fatta per lo più da militanti che mettono al centro della loro analisi la tendenza alla guerra imperialista e le sue conseguenze. Tuttavia le contraddizioni che si vanno acuendo mostrano la possibilità che il movimento possa essere in grado di raccogliere in futuro le problematicità che le masse vivono sulla propria pelle, dalla scarsità d’acqua in paese a dispetto delle grandi quantità riservate alla base militare, dall’aumento dei tagli alla spesa sociale (a Niscemi è stato chiuso l’ospedale e mancano alcune strutture come i consultori), agli ultimi rincari di gas, luce e beni di prima necessità.

Durante il campeggio la tendenza alla guerra imperialista è stata considerata sia per le sue conseguenze sul fronte esterno, con diversi elementi di analisi dei vari focolai di guerra che vedono il coinvolgimento diretto delle basi militari Usa e Nato presenti sul territorio siciliano e italiano, sia sul fronte interno, con un’analisi sulle spese militari in continuo aumento e con il proliferare di azioni di propaganda e di legittimazione della guerra che passano principalmente nei luoghi di formazione come la scuola e l’università. A quest’ultimo ambito è stato dedicato un tavolo di lavoro, che ha visto la partecipazione di decine di studenti provenienti da diversi contesti militanti italiani e che si è dato degli obiettivi comuni, tra cui l’aggiornamento dell’opuscolo Università e guerra. Si tratta di un dossier pubblicato dal movimento no Muos nel 2022, che approfondisce gli interessi economici tra imprese belliche e università italiane, nonché le complicità di queste ultime con le università di paesi come Israele, Turchia e Stati Uniti.

Un altro tavolo di lavoro è stato incentrato sulla questione femminile in relazione alla guerra. Nel dibattito si sono evidenziate posizioni contrastanti sulla contraddizione di genere, evidenziandosi l’antagonismo tra la posizione che la subordina alla contraddizione di classe e quella che la parifica o la pone come principale, finendo di fatto nel femminismo borghese. Tale posizione produce linee di convergenza con l’imperialismo anche sul tema della guerra, basti vedere la campagna a favore del separatismo curdo in Siria, giustificata con l’emancipazione femminile, ma di fatto funzionale all’occupazione statunitense nell’area.

Sul fronte interno vista la condizione di sfruttamento e oppressione delle donne, esasperata dalla partecipazione del nostro governo alle guerre, è stato proposto di intervenire nei territori per coinvolgere le donne nella lotta contro la guerra imperialista.

Oltre a questi due tavoli di lavoro il campeggio ha anche analizzato la fase attuale partendo dalla considerazione che in questo momento la contraddizione tra paesi imperialisti e popoli oppressi lascia posto alla contraddizione interimperialista, che ha come terreno di scontro l’Ucraina. La solidarietà attiva alla lotta antimperialista dei popoli oppressi si è espressa attraverso la presentazione del dossier Processiamo il sionismo editato dal Centro di Documentazione antimperialista Olga Benario di Milano. Rispetto al conflitto in Ucraina, tra le diverse analisi emerse durante il campeggio, la linea internazionalista si è manifestata nella posizione di appoggio alla resistenza del popolo del Donbass e di priorità della sconfitta dell’imperialismo di casa nostra, servo dell’imperialismo statunitense.

I compagni del Collettivo Comunista Lunga Marcia e del Comitato di Solidarietà Graziella Giuffrida, inoltre, hanno ribadito la loro posizione anche durante il tavolo “guerra e ambiente” affermando che all’interno dell’attuale crisi generale del capitalismo la contraddizione capitale-ambiente viene ulteriormente esasperata e la svolta green con i quali i padroni e i governi affermano di risolvere la crisi ambientale e climatica, in realtà, non è altro che una strategia per continuare ad accumulare capitali attraverso investimenti pubblici giustificati dalla ristrutturazione “ecologica”. In concreto questo processo porta ad un ancora più drastico sfruttamento delle risorse e incentiva ulteriormente la distruzione ambientale, ad esempio con l’estrattivismo legato alla digitalizzazione. Inoltre, i compagni hanno introdotto la questione, affrontata nello scorso e in questo numero di Antitesi, del legame tra la gestione della “pandemia” e la guerra, partecipando al corteo anche con la bandiera no green pass.

Il movimento no Muos subisce una costante repressione, sono già arrivate diverse denunce (legate a quest’ultimo campeggio) a compagni e compagne che vi hanno partecipato contribuendo ad azioni militanti contro il Muos. Nel campeggio si è cercato di coniugare l’analisi e la denuncia della guerra imperialista con iniziative concrete. Su questa linea è stata lanciata la proposta di un appuntamento al poligono di Punta Bianca, nell’agrigentino, per il 17 ottobre, giorno in cui riprenderanno le esercitazioni italiane e statunitensi. L’eterogeneità delle posizioni, tipica di un movimento, trova la sua sintesi nel comune terreno di lotta alla guerra imperialista.

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