Antitesi n.12Sfruttamento e crisi

Il capitalismo pandemico

Come gestire la malattia del capitale con la malattia Covid

“Sfruttamento e crisi” da Antitesi n.12 – pag.5


Il 24 febbraio 2022, con l’inizio dell’offensiva russa in Ucraina, la narrazione mediatica globale si è catapultata dalla “guerra globale al Covid19” allo spettro di una nuova guerra mondiale. Contemporaneamente, se fino a poco tempo fa si parlava della crisi economica determinata dal Covid19, adesso si parla di crisi economica determinata dalla guerra.

Lo scopo di questa narrazione è presentare le fasi di crisi come a sé stanti, ieri frutto dell’azione di un “terribile virus”, oggi dei “terribili russi”, per nascondere la costante e sempre più grave crisi generale del capitalismo.

Qualcuno si ricorda forse cosa si diceva prima dello scoppio dell’epidemia di Covid? Guarda caso anche allora, seppur molto più sommessamente, si parlava di crisi, ma ancora non si poteva attribuire la colpa a chicchessia, se non alla normalità capitalista. Era l’ottobre del 2019 quando il Fondo Monetario Internazionale (Fmi), nel suo periodico Rapporto sulla Stabilità Finanziaria Globale, annunciava una nuova e imminente fase di recessione.”(…) i rischi a medio termine per la crescita globale e la stabilità finanziaria continuano fermamente ad aggravarsi. La politica deve urgentemente agire per affrontare le vulnerabilità finanziarie che possono esacerbare la prossima recessione economica”1.

Nello stesso periodo sempre il Fmi presentava l’annuale documento intitolato World Economic Outlook, che stimava la crescita mondiale al 3%: la più bassa dalla fase di aggravamento della crisi, conseguente all’esplosione della bolla dei subprime alla fine del 2006. Secondo l’analisi del Fmi la scarsa crescita economica e l’instabilità finanziaria derivavano, oltre che dalla guerra dei dazi tra Usa, Cina e Ue avviata nell’era Trump, dal livello di caotica finanziarizzazione raggiunto dall’economia mondiale (lievitazione di tutti gli asset finanziari, enorme crescita dei titoli con tassi negativi, diffusione del prestito non bancario, indebitamento delle imprese, degli Stati, esposizione del dollaro come moneta mondiale…). Allo stesso tempo, l’istituto internazionale indicava la politica dei tassi bassi delle banche centrali, cioè la fonte principale di tale processo di finanziarizzazione, come l’unica via praticabile per evitare ulteriori rallentamenti e lo spettro della recessione, nonostante ciò aggravasse tutti i suddetti rischi di instabilità.

Di fronte all’incedere della crisi di sovrapproduzione, il capitale si confermava “contraddizione in processo”2: la finanziariarizzazione ribadiva sia il ruolo di valvola di sfogo per la massa di capitali sovraccumulati in ricerca di valorizzazione, sia la criticità di questo sviluppo incontrollato, di questa superfetazione di tale massa, potenzialmente foriera dell’esplosione di bolle, come con l’insolvibilità dei mutui subprime nel 2006, il fallimento della Lehman Brothers nel 2008 e la cosiddetta crisi dei debiti sovrani in Europa, nel biennio 2010-11.

Tra l’estate e l’autunno del 2019, effettivamente, vi furono pesanti manifestazioni di instabilità finanziaria, coinvolgenti soprattutto il mercato dei contratti cosiddetti repo, abbreviazione di repurchase agreement, cioè degli accordi di riacquisto, in italiano chiamati “pronti contro termine”, che vedono alienazione di titoli, di solito bond governativi, in cambio di liquidità, con l’impegno a riacquistarli entro un termine prefissato, ad un determinato tasso di interesse. Si pensi che nel solo mercato statunitense, ogni giorno si effettuano operazioni repo per il valore di un miliardo di miliardi.

Ebbene, il 17 settembre del 2019 il tasso d’interesse dei repo overnight, cioè a più breve termine, che di solito viaggia tra i 10-20 punti base, raggiunse i 700 punti, dimostrando l’enorme fragilità degli assetti finanziari e provocando l’intervento della Federal Reserve (Fed), la banca centrale statunitense, che avviava l’acquisto di 60 miliardi di titoli di Stato per garantire la liquidità dei repo. È importante anche comprendere da cosa derivò questo impazzimento dei tassi d’interesse. In tal senso, va chiarita l’interconnessione che la bolla dei repo ha con l’equilibrio finanziario pubblico degli Usa e con il sistema bancario. Infatti, alla fine di giugno 2019 le quattro principali banche statunitensi avevano generato prestiti netti sul mercato dei repo per 300 miliardi e nello stesso periodo detenevano più del 50% dei titoli pubblici degli Usa. Se non che, a fine luglio del 2019, di comune accordo, repubblicani e democratici statunitensi avevano deciso la sospensione del tetto del debito pubblico, vista la sua esplosione nell’era Trump a causa anche dei consistenti tagli alle imposte, operati a sostegno dei profitti. Ad approfittare della sospensione del tetto fu proprio il Tesoro statunitense, che tra il 14 agosto e il 17 settembre prelevò 120 miliardi di riserve della Fed: quanto di solito ne viene prelevato in due anni. La conseguenza fu che il sistema bancario Usa rimase senza liquidità, generando così l’aumento vertiginoso dei tassi di interesse sui repo e un’esposizione potenzialmente gravissima per i titoli pubblici e per gli assetti finanziari federali.

Insomma, nell’estate 2019, negli Usa si era rischiato un crack quantomeno paragonabile a quelli di dieci anni prima, con conseguenze ovviamente a livello globale. La massa di capitali in cerca di valorizzazione nella sfera finanziaria si era confermata, allo stesso tempo, sia come manifestazione macroscopica sul piano economico della crisi di sovraccumulazione di capitali e sia come potenziale elemento scatenante di una nuova fase di aggravamento di quest’ultima.

Il capitalismo pandemico

Del rischio corso nell’estate del 2019 per gli equilibri finanziari mondiali (simile a quello già vissuto a fine del 2006 con la bolla dei subprime) nessuno nei mass media più diffusi si dilungò a parlarne e dunque si trattò di un evento cancellato dall’informazione e dalla memoria collettiva. Diversamente, di lì a pochi mesi, la stampa internazionale iniziò invece a svolgere una propaganda martellante e terroristica sull’epidemia di Covid19, definita a marzo 2020 “pandemia”, nonostante i due criteri richiesti per tale etichetta, la diffusione globale e l’alta mortalità, siano stati applicati in maniera alquanto discutibile. Vi sono stati infatti paesi che hanno avuto percentuali di morti ufficiali molto basse, anche del tutto assenti o comunque minime. La mortalità è stata stimata a livello mondiale attorno allo 0,25%, quindi confrontabile con quella delle normali influenze stagionali, semmai con un’incidenza maggiore di ospedalizzazione e mortalità per i soggetti anziani, immunodepressi e pluripatologici.

Fatto sta però che con la diffusione tendenzialmente globale del Covid19, si apre una fase nuova per il capitalismo internazionale. In questa nuova fase sul piano oggettivo la crisi si aggrava, ma contemporaneamente gli Stati, le istituzioni sovranazionali imperialiste e le classi dominanti mettono in atto una gestione della crisi stessa che non avrebbero potuto giustificare o voluto attuare senza la copertura ideologica o comunque la contingenza della cosiddetta pandemia.

La più evidente caratteristica saliente del capitalismo “pandemico” è l’aggravamento delle misure di disciplinamento politico dall’alto dei rapporti economico-sociali, in relazione soprattutto alla sfera della circolazione delle merci. Confinamenti, coprifuochi, lasciapassare sanitari e via dicendo, se dal punto di vista sanitario hanno rappresentato un fallimento generale sul piano della diffusione del Covid19, dal punto di vista politico-sociale hanno implementato un modello securitario di controllo e repressione sulle masse popolari; dal punto di vista economico, sono stati il campo reale in cui implementare un processo di ristrutturazione del capitale fisso, alla ricerca di un nuovo modello di accumulazione in grado di far uscire il sistema dalle secche della sovraccumulazione. La risultante è stata una spinta ulteriore verso la concentrazione monopolista in capo alle grandi multinazionali in grado di procedere verso tale ristrutturazione.

Da sempre, per il capitale, tentare di gestire la propria crisi significa produrre delle dinamiche, nella dialettica tra concorrenza e monopolio, di concentrazione economica che tende a massimizzare i profitti per sempre più ristrette oligarchie borghesi, selezionando le frazioni di borghesia vincente e estendendo lo sfruttamento sul proletariato. Concretamente, nella fase del capitalismo “pandemico”, le frazioni di capitali in grado di legarsi a un salto organico verso la digitalizzazione e l’alta tecnologia sono emerse vincenti, schiacciando sopratutto la piccola borghesia legata al modello di consumo tradizionale e determinando l’allargarsi e il consolidarsi di inedite sezioni di proletariato, come i riders. I nomi delle aziende capitaliste e degli oligarchi imperialisti più arricchitisi durante il 2020-2021 parlano chiaro: Tesla di Musk, Amazon di Bezos, Microsoft di Gates, Facebook di Zuckenberg, Pinduoduo di Colin Huang (monopolio cinese dell’e-commerce), Shin Etsu di Jun Hamuro (monopolio giapponese della chimica applicata ai semiconduttori) e così via…

Il disciplinamento politico-sociale rientra del resto in una tendenza ben più vasta di intervento autoritario statale nel capitalismo o di capitalismo politico tout court, che già era stato anticipato nell’era Trump con la cosiddetta guerra dei dazi. Tendenza poi sviluppatasi nell’epoca del Covid19 con l’ulteriore spinta dei processi di deglobalizzazione. Si tratta di processi attraverso i quali le singole classi dominanti, sfruttando l’emergenzialismo “sanitario” a livello globale e quindi la destabilizzazione delle catene del valore e della divisione internazionale del lavoro, puntellano il proprio mercato nazionale, con l’intervento regolatore dello Stato. In taluni casi è proprio lo Stato come soggetto politico che incarna l’interesse complessivo delle classi dominanti (rispetto ai concorrenti e al processo di guerra imperialista) a spingere al disciplinamento dei “propri” capitalisti, ad esempio per ridurre gli investimenti esteri o dirigerli verso determinati paesi piuttosto che altri. Ovviamente tutte queste tendenze si combinano con la strutturazione di blocchi politico-economici a livello mondiale, con relativa potenzialità militare, che si pongono concretamente come limiti al processo di globalizzazione e rappresentano, invece, i poli del processo di guerra imperialista. Una tendenza notevolmente acceleratasi con l’attacco russo in Ucraina, con relative sanzioni da ambo le parti e una sorta di economia di guerra varata in molti paesi dell’Ue (tra cui spicca l’Italia) allo scopo di recedere i legami con la Russia e sopportarne le conseguenze sul piano energetico, industriale e commerciale.

Già sulle pagine di questa rivista si diceva, anche prima della fase cosiddetta pandemica3, di un ritorno del capitalismo alle politiche del protezionismo, di spinte autarchiche e di tendenza alla deglobalizzazione, che poi la fase “pandemica” ha ulteriormente aggravato4. Tali spinte si legano evidentemente alla ristrutturazione/concentrazione capitalistica: com’è evidente dal fatto che, ad esempio, i fenomeni del reshoring e del nearshoring, cioè delle ricollocazione degli investimenti in patria o in paesi geograficamente e/o politicamente vicini, riguardano soprattutto quelli ad alta composizione organica di capitale, cioè ad alta tecnologia. Questa deglobalizzazione non significa per forza cessazione degli scambi mondiali, ma sicuramente ricerca di salvaguardia della propria quota di capitale a spese altrui, in dialettica con una ristrutturazione/concentrazione capitalistica che è anche ridefinizione delle gerarchie globali tra blocchi imperialistici. L’interventismo statale (o sovrastatale nel caso dell’Ue) ne è il naturale corollario, laddove il mercato e la concorrenza globali devono essere influenzati, limitati o falsati come ben evidenzia l’ampliamento, operato da tutti gli stati imperialisti, della sfera degli asset e delle produzioni ‘protette’ dal cosiddetto golden power.

Un esempio lampante che racchiude quanto detto finora sono i 50 miliardi stanziati dall’Unione Europea per la produzione di microchip nel vecchio continente, addirittura con la creazione di grandi impianti per la produzione dei semiconduttori, denominati Mega Fab, e con l’annessa possibilità di limitarne l’esportazione. In senso uguale stanno procedendo gli Usa, con 52 miliardi stanziati per l’industria interna di microchip e 45 miliardi per rafforzare le catene di approvvigionamento dell’alta tecnologia, in modo da limitare la dipendenza dall’estero.

Il salto verso l’alta tecnologia e la digitalizzazione, cioè il processo di ristrutturazione/concentrazione capitalistica operato in dialettica con la gestione politica e autoritaria della cosiddetta pandemia, ci riconduce dunque alla seconda caratteristica del capitalismo in questo fase: l’interventismo economico statale, il neokeynesismo. Con la giustificazione della “crisi provocata dal Covid19”, gli Stati hanno avviato politiche di spesa pubblica impensabili nella precedente fase liberista, alimentando quella spirale debitoria che è connaturata al capitalismo, specie nella fase imperialista5. Lo si è visto con il Recovery Plan in ambito Ue e con la sua declinazione italiana, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr)6, ma anche con il rilancio straordinario della spesa pubblica negli Usa da parte della presidenza Biden, che ha stanziato 6 mila miliardi nel 2022. In tutti questi casi si tratta di manovre strategiche dal punto di vista finanziario per sostenere un capitalismo gravato da una crisi ben prima del Covid19, ma che l’emergenza in nome del virus ha consentito di trattare con strumenti per molti versi inediti.

Nella crisi i padroni ricercano affannosamente nuovi margini di profitti, nuovi e più ampi spazi di valorizzazione e accumulazione del capitale. Attraverso l’aumento della produttività vogliono produrre di più e a costi ridotti, facendoli ricadere per quanto possibile sulla collettività, sulle masse popolari, oltre che aumentare il tasso di sfruttamento dei lavoratori. Nell’ambito di un rinnovato sviluppo delle contraddizioni internazionali, alla base delle quali vi è la concorrenza tra gruppi imperialisti per la ripartizione dei mercati, ogni potenza imperialista o aggregato di potenze (come l’Ue) punta, con il rilancio della spesa pubblica, a imporre e garantire la propria supremazia industriale, commerciale, finanziaria e, naturalmente, militare.

I nuovi “piani Marshall” dell’autoproclamata “guerra al Covid19” servono in particolare, come si diceva, a determinare quel salto tecnologico a cui il capitalismo è obbligato in nome del profitto e della concorrenza. Tale ristrutturazione concretizza anche la contraddizione fondamentale per cui, a fronte dell’aumento progressivo del capitale costante (materie prime, investimenti in macchinari e tecniche di produzione) diminuisce in proporzione il saggio di profitto. Diminuisce quanto il capitalista guadagna per ogni quota di capitale investito configurando quella che Marx ha definito la caduta tendenziale del saggio di profitto. In tal modo il capitalista è obbligato a sfruttare di più i lavoratori e ad aumentare continuamente la produzione7.

Sulla questione del salto tecnologico e del rilancio della spesa pubblica, bisogna inevitabilmente citare la campagna sul “capitalismo green” che le classi dominanti stanno portando avanti proprio come giustificazione di tali passaggi. Si tratta ovviamente di una lettura ideologica che punta a fagocitare nell’egemonia imperialista movimenti e istanze legittime, i quali denunciano la sempre più evidente distruttività del sistema economico rispetto alle condizione ambientali. Ideologica nel senso negativo del termine, poiché vuole coprire di un manto ecologista processi di gestione della crisi del capitalismo, in particolare la ristrutturazione del capitale fisso, cioè dei mezzi di produzione e delle tecniche produttive, che in realtà non solo non comportano nessun risparmio ambientale reale, ma aumentano progressivamente i costi anche dal punto di vista ambientale. Un sistema fondato e votato unicamente al profitto non può che esacerbare in senso antagonistico la contraddizione tra uomo e natura8.

Infine, l’ultima tra le caratteristiche principali della gestione della crisi del capitalismo “pandemico” è la politica dei tassi zero, ovvero il tendenziale azzeramento dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali. Tale politica ha contraddistinto, nella fase della cosiddetta pandemia, tutte le vecchie formazioni imperialiste del campo atlantico – occidentalista, a partire dalla Fed statunitense fino alla Banca centrale europea, alla Bank of England, dalla banca centrale del Giappone a quella del Canada, dall’Australia a Israele. Si tratta di politiche, giustificate anche in questo caso dalla condizione di emergenza legata al Covid19, che si legano intrinsecamente ai processi di ristrutturazione/concentrazione e in particolare al neokeynesismo. In questa maniera si pongono, infatti, le basi dell’ulteriore spinta alla finanziarizzazione che tali processi inevitabilmente comportano, sciogliendo le briglie alla circolazione di capitale in modo da alimentare le bolle di mercato, definite dalla stampa borghese “ripresa”. La finanziariazzazione è un processo connaturato alla crisi del capitalismo, determinato dalla difficoltà del capitale a trovare valorizzazione nella sfera della produzione reale, a causa soprattutto della caduta del saggio di profitto, e dunque del formarsi di una massa crescente di capitali che cercano di valorizzarsi attraverso il parassitismo e la speculazione finanziaria.

Nell’inverno scorso, ad esempio, quando si parlava già di rialzo dei tassi d’interesse a fronte della crescente inflazione, la comparsa della variante Omicron, più contagiosa ma con sintomatologia debole, è stata l’occasione per giustificare un ulteriore rinvio. Viceversa, man mano che si parla di un aumento dei tassi d’interesse, l’emergenza sanitaria viene, su scala globale, ridimensionata.

Una riflessione va svolta sulla differenze di politica economia, nella fase della cosiddetta pandemia, tra potenze imperialiste tradizionali e potenze emergenti, come Cina, India e Russia. Le caratteristiche del capitalismo “pandemico” sono riscontrabili in termini molto più diversificati, se non per certi versi inconsistenti, nella seconda serie di paesi. Qui l’unica chiaramente manifestatasi è la ristrutturazione/concentrazione, con la tendenza alla promozione di svolte verso la digitalizzazione e l’alta tecnologia, fortemente accelerate nella fase “pandemica”. Processo che si combina con il rafforzarsi delle oligarchie capitaliste, con un’eccezione parziale in Cina, dove la linea di Xi Ping è quella di pretenderne fedeltà assoluta alla compattezza e alla proiezione imperialista del paese, anche a scapito di singoli rappresentanti della classe capitalista. Del resto il modello del disciplinamento di massa (confinamenti, chiusure, coprifuochi, lasciapassare) ha trovato una prima applicazione in Cina, a Wuhan, e poi è stato esportato a livello mondiale, come campo privilegiato dei processi di ristrutturazione/concentrazione. In questo ambito, con la crescita esponenziale del settore dell’alta tecnologia nell’economia cinese, si è determinata una forma di intervento statale per limitarne il potere e ricondurlo sotto il controllo governativo, in modo da non lasciare alle multinazionali, anche cinesi, mano libera sul mercato dei dati della popolazione e impedire che gruppi privati interni possano in qualche maniera cedere dati a potenze ostili, come gli Usa. Più che una nuova fase di keynesismo, come nell’Ue e negli Usa, in Cina (dove comunque il capitale statale in economia gioca un ruolo importante) si è visto infatti un intervento regolatore del regime a diversi livelli, per tentare di frenare gli sviluppi caotici e potenzialmente destabilizzanti del mercato, sopratutto nel campo immobiliare, con l’esplosione della bolla speculativa che ha interessato monopoli come Evergrande e Shimao.

Per quanto riguarda l’India, possiamo dire che essa costituisce un esempio chiaro della tendenza al protezionismo e all’autarchia, nell’ambito del capitalismo “pandemico”. Il governo Modi, già nato con un programma sciovinista, ha approntato tutta una serie di misure di intervento in campo economico, anche di tipo keynesiano con sostegni all’industria nazionale e fiscali nei confronti dei prodotti importati, per garantire la cosiddetta “atmanirbhar”, cioè l’autosufficienza.

Per quanto riguarda invece la Russia, il suo essere al centro delle dinamiche di guerra imperialista a livello internazionale e dunque delle sanzioni varate dal blocco a guida Usa, l’ha spinta verso un’economia calibrata sull’assedio che è stata ancor di più confermata nella fase del capitalismo “pandemico”. I suoi fondamenti sono il debito basso, che non ha consentito forti politiche keynesiane come nell’Ue e negli Usa, ampie riserve finanziarie anche auree e peraltro, a partire dallo scontro sull’Ucraina nel 2014, sempre meno investite nelle banche statunitensi.

Ovviamente tutto ciò si basa sui due pilastri dell’imperialismo russo, ovvero il potere energetico e quello militare, poiché senza queste condizioni, largamente sviluppate dalla direzione di Putin, le condizioni di autonomia strategica del paese verrebbero meno. Con le sanzioni varate dai paesi della Nato contro la Russia per ritorsione rispetto all’invasione dell’Ucraina, l’economia russa dovrà, molto di più di quanto fatto finora, da un lato rafforzare ulteriormente la sua autonomia sul piano finanziario e industriale, mentre dall’altro andrà inevitabilmente a legarsi sempre di più alla Cina, come già avvenuto durante prima serie di sanzioni, varate dopo l’annessione della Crimea nel 2014.

Ciò che accomuna Cina, India e Russia, pur nelle diverse condizioni economiche, è il non aver attuato politiche di tasso zero da parte delle banche centrali. A differenza infatti delle formazioni imperialiste del campo cosiddetto occidentale, le condizioni della crisi di sovrapproduzione di capitali nelle formazioni cosiddette emergenti non sono ancora al punto tale da spingere per una finanziarizzazione così forte, come nei mercati delle potenze tradizionali, nonostante non manchino bolle speculative come dimostra il caso cinese. C’è poi un altro punto di cui tenere conto: la crescita smisurata della sfera finanziaria è una tendenza connaturata dello sviluppo del capitalismo monopolista, ma deve confrontarsi dialetticamente con i rapporti di forza tra le potenze imperialiste. La finanziarizzazione incontrollata, grazie anche al ruolo del dollaro come moneta mondiale9, è uno dei terreni in cui l’imperialismo Usa punta a influenzare le altre formazioni capitalistiche, e dunque per le potenze emergenti, specialmente Russia e Cina, si tratta di una condizione da evitare, promuovendo una sorte di dirigismo finanziario assente invece nel campo “occidentale”. Allo stesso tempo Russia e Cina stanno promuovendo le condizioni per erodere il ruolo del dollaro nei mercati internazionali, contrastando così l’egemonia finanziaria statunitense e creando le condizioni, anche sul piano monetario, di equilibri globali multipolari. La Russia, in particolare, si propone di resistere all’assedio finanziario da parte di Usa e Ue: con l’imposizione del pagamento in rubli per le forniture energetiche dei paesi considerati ostili (tra cui l’Italia) punta a esautorare il ruolo del dollaro (e dell’euro) nel mercato del gas e del petrolio e a impedire il crollo del valore del rublo, aumentandone la domanda.

La questione dell’inflazione

La crescita al 6% dell’Italia negli ultimi mesi ha scatenato la gran cassa propagandistica della borghesia imperialista, con giornali, televisioni e siti internet celebranti la ripresa dopo i mesi bui della “pandemia”, con annessa glorificazione del salvifico Pnrr e delle misure di autoritarismo “sanitario” del governo che avrebbero consentito la mitica “riapertura”. Dai mass media il messaggio che veniva fatto trapelare era che non si trattava di un mero rimbalzo rispetto al crollo del 2020, come in larga parte è stato, ma che si trattava di una crescita strutturale, basata sull’innovazione e sull’ottimismo diffuso.

In realtà, la macchina retorica della classe dominante ha dovuto presto scontrarsi con la realtà dell’aumento dei prezzi, cioè dell’inflazione, ufficialmente al 5%, e con aumenti delle bollette energetiche che arrivano al loro raddoppio. Un fenomeno che nei fatti ha reso del tutto inconsistente la già fragile e temporanea “ripresa”. L’inflazione, in realtà, consiste in un fenomeno mondiale: è stato stimato che si tratti del livello più alto degli ultimi 25 anni. Ma quali ne sono le principali cause? In realtà, in parte, le abbiamo già citate trattando del capitalismo “pandemico”, dato che sono intimamente legate e consequenziali al procedere reale che ha assunto quest’ultimo. Vediamole più specificamente.

La prima è il procedere della guerra imperialista. Dapprima le contraddizioni interimperialiste e poi l’intervento diretto della Russia in Ucraina, hanno rappresentato un fattore di balzo dei prezzi delle materie prime, soprattutto energetiche. L’Ucraina è la principale via di passaggio del gas russo verso l’Ue e la contesa che la riguarda si basa anche sulla volontà degli Stati Uniti di destabilizzare i legami energetici tra Mosca e Bruxelles, per sostituirli con le proprie esportazioni di Gnl verso il vecchio continente. Oltre a un problema di aumento del prezzo, con lo scatenarsi di dinamiche speculative all’interno del clima bellico, va detto che il procedere del conflitto in Ucraina può porre anche una questione di approvvigionamento di gas, nonché di petrolio, di cui la Russia è rispettivamente secondo e terzo esportatore mondiale. L’Italia, tanto per fare un esempio, dipende per più del 40% dal gas e intorno al 10% dal petrolio provenienti dalla Russia e il governo Draghi sta prospettando una diversificazione delle fonti energetiche anche per prevenire le conseguenze della guerra. Alla faccia della questione ambientale, recentemente inserita anche nella Costituzione, si parla ad esempio della piena produttività per tutte le sette centrali a carbone nonché del ritorno al nucleare. Alla faccia della questione democratica brandita in chiave antirussa, si punta a rafforzare le forniture da regimi chiaramente autoritari come il Qatar, l’Azerbaijan e l’Algeria.

Ma il mercato ucraino e quello russo sono legati anche all’inflazione che coinvolge i beni alimentari, visto che la Russia è il principale esportatore mondiale di grano a livello mondiale e l’Ucraina ne è uno dei maggiori a livello europeo, coprendo il 5% delle importazioni italiane.

Ovviamente, quando si parla di guerra, bisogna anche trattare della guerra dell’informazione e della propaganda. Già precedentemente all’intervento russo in Ucraina, nell’Unione Europea veniva condotta una campagna stampa volta ad accusare Mosca di essere responsabile della salita dei prezzi energetici, a causa di forniture ridotte da parte di Gazprom, l’azienda statale russa del gas. Difficilmente chi si trova nella nostra posizione può verificare concretamente la veridicità di tali accuse, ma, con tutta probabilità, si tratta di fake news che rientrano nella campagna stampa antirussa dei mass media filoatlantici, dato l’interesse della Russia a legarsi all’Ue sul piano economico e il continuo tentativo degli Usa di sabotare tale rapporto. Esemplare, da questo punto di vista, la vicenda del gasdotto North Stream 2, la cui operatività era già sospesa con la scusa di questioni burocratiche, finendo poi bloccato dalla Germania proprio dopo l’attacco russo all’Ucraina.

In effetti, l’inflazione è comparsa ben prima del precipitare della guerra in Ucraina e dunque le sue cause vanno ricercate anche altrove. Se la guerra è oggi la prima causa, la seconda va individuata proprio nel processo di ristrutturazione/concentrazione che ha contraddistinto il capitalismo “pandemico”. Questa trasformazione del capitale fisso, cioè principalmente dei mezzi di produzione, condotta in tempi ristretti sulla spinta dei programmi finanziari messi in campo dagli Stati o da entità sovrastatali come l’Ue, implica uno straordinario processo di diversificazione e ampliamento delle materie prime impiegate nel processo produttivo. Alla faccia della presunta svolta “green” del capitalismo, i consumi di materie prime per la ristrutturazione capitalistica in atto sono sempre più vasti e differenziati, in coerenza con la finalità di produrre di più e con più profitto. Gli aumenti riguardano perciò molti minerali, come zinco, rame e litio, impiegati nella svolta industriale che prevede più digitalizzazione e, ufficialmente, abbandono delle fonti fossili. Bisogna dire “ufficialmente” perché in realtà le fonti fossili continuano ad essere impiegate, in taluni paesi (ad esempio Cina e India) sempre di più e anche in quelli che si ammantano di ecologismo, come l’Italia, il loro abbandono è piuttosto propagandistico. Il ministro della cosiddetta transizione ecologica, l’ex manager della multinazionale Leonardo, Roberto Cingolani, aveva recentemente affermato che per il momento non si può abbandonare il settore della generazione di elettricità dal gas naturale, pena il rischio di blackout. Figurarsi dopo il precipitare del conflitto in Ucraina, a causa del quale, come già si diceva, si prospetta la riapertura di tutte le centrali a carbone fino ad adesso dismesse.

Un altro punto rispetto ai consumi di materie prime da considerare è quello relativo all’implementazione di un sistema energetico in cui aumentino le fonti rinnovabili. La diffusione di queste ultime, con la costruzione e la manutenzione di impianti di produzione energetica che coprano una buona fetta del fabbisogno industriale e dei consumi individuali, significa mettere in campo delle tecnologie che utilizzano massicciamente minerali di diverso tipo, la cui estrazione va aumentata esponenzialmente anche rispetto ai potenziali rendimenti raggiungibili da tali impianti rispetto alle fonti tradizionali. Ciò significa che la domanda di materie prime non rinnovabili per produrre energia rinnovabili aumenta e con essa sale l’inflazione, oltre alla devastazione ambientale legata alle procedure di estrazione.

Come già si diceva, la ristrutturazione capitalistica nell’epoca della cosiddetta pandemia risponde al vecchio adagio di socializzare i costi e privatizzare i profitti e i grandi finanziamenti pubblici di questa fase lo concretizzano. E qui arriviamo alla terza grande causa dell’inflazione. Dopo la guerra e la ristrutturazione stessa, a pesare sono le politiche neokeynesiane, con la massa monetaria e finanziaria che mettono in campo per soccorrere un capitalismo con l’acqua alla gola e tentare di garantirgli valorizzazione. Ad esempio, l’Ue è al centro del turbine dell’inflazione a livello mondiale non solo e da ben prima dell’esplosione del conflitto in Ucraina, a causa della gigantesca massa finanziaria messa in circolo prima dal quantitative easing, cioè dal finanziamento del debito da parte della Bce, e poi dal Recovery Plan.

Quindi guerra, ristrutturazione e politiche keynesiane rappresentano le tre cause principali dell’inflazione e tutte si basano sulla causa fondamentale, la crisi sistemica del capitalismo. Ovviamente poi vi sono delle altre cause, secondarie, epifenomeni di quelle principali e ad esse strettamente legate, nonché legate ai singoli contesti nazionali. Lo sono ad esempio l’incidere di bolle di mercato, come avvenuto in Italia nel settore edile, gonfiato dai bonus offerti dai governi Conte bis e Draghi. Oppure le politiche rialziste delle multinazionali petrolifere, che puntano a vendere “cara la pelle” in una fase in cui, per vari fattori (fonti alternative, timore di esaurimento risorse, contraddizioni internazionali…), la loro collocazione nel mercato viene messa in discussione. Oppure ancora la maggiore tassazione sulle fonti fossili, subito scaricata sui consumatori e prevista nell’Ue, per spingere, finanziare e ammortizzare la cosiddetta transizione green. Una certa rilevanza assume inoltre il ruolo delle catene mercantili e del valore a livello internazionale, che le politiche di gestione dell’epidemia hanno in parte temporaneamente stretto, con la conseguenza della scarsità di prodotti. Altro punto più generale è ancora quello legato al modello del just in time, il cosiddetto toyotismo, su cui il capitalismo si è basato negli ultimi anni e che prevede una produzione più strettamente vincolata alla realizzazione, al profitto immediato, per assicurare la valorizzazione nella crisi e in un mercato ondivago. Questo modello prevede l’assenza di scorte importanti di magazzino, cioè di prodotti invenduti, e questo, con la ripresa repentina dopo blocchi derivati dalla gestione dell’epidemia, ha comportato la scarsezza di prodotti e l’improvvisa richiesta di materie prime.

A tutto ciò vanno aggiunte dinamiche squisitamente speculative che i grandi gruppi capitalistici, soprattutto le multinazionali del settore energetico, mettono in campo ogni qual volta, come nel caso del precipitare situazioni di guerra, le condizioni generali danno loro la possibilità di procedere a briglia sciolta sui prezzi.

In questa complessità quello che è univoco e chiaro è che la gestione della crisi e delle sue conseguenze viene fatta pesare sulle spalle del proletariato e delle masse popolari.

Il virus è il capitalismo

Un’affermazione come “il virus è il capitalismo” può sembrare roba da negazionisti o complottisti. In realtà coglie, seppur in maniera sloganistica, l’essenza della questione Covid19 per come si è manifestata nella nostra società. Il virus è stato un fattore contraddittorio per il capitalismo solo in termini secondari; principalmente esso ha rappresentato un fattore, ideologicamente esaltato dalla propaganda mediatica, per gestire politicamente la propria crisi, evitandone il suo decorso spontaneo, cioè con la ripetizione degli scenari del 2006-2011.

Attraverso la promozione del capitalismo “pandemico”, i grandi gruppi monopolisti hanno potuto accelerare su un processo di ristrutturazione/concentrazione e hanno reso possibile e giustificato la socializzazione delle perdite e la privatizzazione dei profitti, attraverso il rilancio del keynesismo e l’ulteriore spinta alla finanziarizzazione dell’economia attraverso la politica dei tassi zero. Ciò è avvenuto a livello mondiale, visto il pesare di interessi globali in questo processo e la dimensione generale della crisi del capitalismo, ma si è manifestato in maniera diversa nei diversi paesi, anche a seconda delle condizioni concrete e delle finalità specifiche delle classi dominanti o di sue frazioni. Chi considera solo ed esclusivamente il fatto che la gestione dell’epidemia ha provocato crolli dell’economia mondiale, non tiene conto della realtà per cui la borghesia imperialista non esclude affatto shock economici, se essi sono funzionali ai propri interessi di profitto e di tenuta dei rapporti capitalistici, come nel caso delle guerra imperialiste.

Sicuramente quanto detto non vuole cancellare l’argomentazione per cui le misure adottate dagli Stati borghesi per gestire l’epidemia di Covid19 discendano anche dalla debolezza dei sistemi sanitari, prostrati da anni di tagli, dovuti anch’essi alla crisi. Cioè in sostanza che per evitare il sovraccarico degli ospedali si sia proceduto a misure coercitive per le masse popolari per evitarne il contagio, anche a scapito degli interessi economici immediati. Ma questa considerazione deve rimanere secondaria per tre motivi. Il primo è che non vi è stato nessun movimento di massa che ha rivendicato la tutela della popolazione dall’epidemia, mentre sono stati i regimi borghesi a imporre una tutela autoritaria. Il secondo è che durante l’epidemia nulla o pochissimo è stato fatto per migliorare i sistemi sanitari. La terza è che ritenere che le classi dominanti abbiano effettivamente a cuore gli interessi sanitari delle masse popolari e dunque abbiano imposto delle misure per il loro “bene”, significa avere una visione del mondo contrapposta a quella di classe.

Dire che il Covid19 è stato uno strumento politico dell’imperialismo internazionale non ha molto a che vedere con le visioni complottiste, radicatesi in settori delle masse popolari ostili al governo Draghi e alle classi dominanti (anche per l’assenza di una visione e di una pratica di classe che possa dare sostanza politica a una crescente rabbia sociale). Il paradigma del complottismo è prettamente volontaristico, cioè è legato alla concezione per cui i più maligni tra i rappresentanti delle classi dominanti scelgano determinate politiche per imporre i loro interessi. La visione comunista parte invece dalla base oggettiva della crisi che spinge le classi dominanti a politiche di un certo tipo, promuovendo taluni processi o approfittando di talune contingenze, come è avvenuto con l’epidemia di Covid19, tramutata in gestione della crisi e sua giustificazione.

Il “complotto” della borghesia nella visione comunista non è una congiura dei potenti, ma corrisponde alla necessità di un rapporto sociale, quello capitalistico, che si impongono per far fronte alla crisi del suo sistema. Crisi della sua fase imperialista (fase suprema e fase di putrefazione per Lenin) che necessariamente conduce alla barbarie della guerra imperialista, come è già accaduto tragicamente nella storia e come drammaticamente avviene in questi tempi. Un sistema di cui i lavoratori e i popoli hanno il compito storico di disfarsi con la rivoluzione proletaria.


Note:

1 Fmi, Global Financial Stability Report: Lower fon Longer, ottobre 2019, imf.org

2 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La nuova Italia 1970 vol. II, pag 402

3 Vedi sopratutto Antitesi n° 6, Sul protezionismo, pp. 6 e ss.

4 Vedi Antitesi n° 9, Il capitalismo in terapia intensiva, pp. 6 e ss.

5 Vedi Antitesi n° 9 pp. 78 e ss.

6 Vedi Antitesi n° 11 pp. 6 e ss.

7 Vedi la voce “Composizione organica” in Antitesi n° 3 p. 77

8 Sulla questione del capitalismo green vedi infra pp. 44 e ss.

9 Vedi Antitesi n° 11, pp. 81 e ss.


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