Antitesi n.11Sfruttamento e crisi

Il Recovery Plan

Il capitale tra programma e propaganda

“Sfruttamento e crisi” da Antitesi n.11 – pag.6


“L’Unione Europea ha risposto alla crisi pandemica con il Next Generation Eu (Ngeu). È un programma di portata e ambizione inedite, che prevede investimenti e riforme per accelerare la transizione ecologica e digitale; migliorare la formazione delle lavoratrici e dei lavoratori; e conseguire una maggiore equità di genere, territoriale e generazionale”1. È questa la retorica che lo stesso Mario Draghi pone a premessa del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), ovvero del Recovery Plan, approntato dal suo governo nell’aprile scorso e approvato dalla Commissione Europea nel giugno scorso. Attraverso tale Piano si dovrebbe definire la destinazione dei 191,5 miliardi di euro stanziati dall’Ue per il nostro paese nel cosiddetto Recovery Fund e cioè nell’ambito del programma Next Generation Eu, di cui 122,6 miliardi di prestiti e 68,9 di sovvenzioni, da spalmare tra il 2021 e 2026, secondo le previsioni di bilancio elaborate dagli organi europei. A fianco del Pnrr, viene attivato anche il Fondo React Eu, sempre parte del programma Next Generation Eu, ma attingente ai tradizionali fondi di politiche sociali e di coesione dell’Ue (Fondo europeo di sviluppo regionale, Fondo sociale europeo, Fondo di aiuti europei agli indigenti).

Effettivamente, come afferma Draghi, si tratta di un passaggio inedito nella storia dell’aggregato imperialista europeo: un ulteriore meccanismo di centralizzazione finanziaria dell’Unione rispetto ai singoli Stati, basato sull’emissione, per la prima volta, di titoli di debito europei, i cosiddetti Eurobond, come avviene da inizio estate 2021. Si prevede così il rastrellamento finanziario di 750 miliardi di euro con i quali condurre la ripresa e la ristrutturazione del capitalismo europeo, ponendovi come garanzia il bilancio centrale dell’Ue e naturalmente integrando sempre di più, in nome del debito comune, i singoli sistemi nazionali.

Per l’aggregato imperialista europeo e per le singole classi dominanti si tratta di una manovra strategica di tipo keynesiano2 per gestire la crisi del capitalismo, ricorrendo dunque agli oramai tradizionali metodi del debito sovrano3 e della finanziarizzazione, ma stavolta elevandoli a livello centrale e non più nazionale. Non a caso, a gestire questo processo in Italia, anello debole tra le potenze imperialiste che guidano l’Ue, è stato chiamato quel Draghi che, come presidente della Banca Centrale Europea dal 2011 al 2019, aveva promosso il quantitative easing, l’acquisto di titoli con l’emissione apposita di miliardi di euro, ovvero l’altro grande passaggio di gestione della crisi tramite il keynesismo finanziario4.

Con il quantitative easing, Draghi era riuscito a rompere la linea dell’austerità finanziaria imposta a livello europeo da parte degli imperialisti tedeschi per i propri interessi, premendo per politiche di forti tagli alla spesa pubblica e di ristrutturazione del mercato del lavoro nei paesi più indebitati, tra cui l’Italia, come passaggio di gestione della crisi, soprattutto a livello di bilanci statali e di stabilità del sistema bancario. Una linea rivelatasi come strettamente funzionale agli interessi dell’imperialismo tedesco e non a quelli complessivi dell’aggregato europeo, nonché debole nel gestire la crisi poiché contraria alla sua gestione tramite il piano finanziario (debito e finanziarizzazione).

Ugualmente, il precipitare ulteriore della crisi a seguito del diffondersi dell’epidemia e alle politiche praticate dagli Stati europei nel tentativo di contenerla, ha messo in discussione il cosiddetto “patto di stabilità”, cioè il limite di 3% nel deficit (la differenza tra uscite ed entrate pubbliche) e il 60% del rapporto debito/pil. Nella primavera del 2020, la Commissione Europea ne ha deciso la sospensione, al fine di aprire i rubinetti dell’indebitamento per ogni singolo Stato, con lo scopo di contenere l’aggravamento della crisi economica, nel contesto determinato dall’epidemia e dalle reazioni politiche degli Stati ad essa. È stato così messo da parte, quantomeno temporaneamente, il modello ordoliberista5 egemone nell’Ue a guida tedesca fin dalla sua fondazione.

Tutte le politiche “espansive” dei governi Conte e Draghi, di finanziamento pubblico all’accumulazione capitalistica, ma anche di contenimento delle conseguenze sociali della crisi e del loro possibile deflagrare in termini conflittuali, si basano su tale venir meno dei presupposti della cosiddetta austerità. Tanto che lo stesso Recovery Plan italiano attinge non solo ai capitali europei, ma anche a quelli pubblici messi a disposizione in un apposito fondo complementare finanziato con lo scostamento di bilancio, pari a 30,6 miliardi, voluto dal governo Draghi lo scorso aprile.

Le riforme sovrastrutturali

Secondo la concezione comunista della società, alla struttura economica, fondata su determinati rapporti di produzione, corrisponde la sovrastruttura ideologica, politica e culturale, cioè tutto il costrutto di idee, istituzioni e personale intellettuale, che da un lato oggettivo riflette tale struttura e dal lato soggettivo, di ruolo attivo, vi si pone a servizio e ne influenza il determinarsi.

Nello sviluppo del capitalismo, specie nella fase imperialista, l’entità sovrastrutturale che si è sviluppata maggiormente è lo Stato. Esso non solo si pone, in quanto massima ed esclusiva autorità politica sovrastrutturale, come difensore in armi del potere della classe dominante e principale promotore della sua egemonia sulle classi oppresse, ma finisce per intervenire e assumere un ruolo nello sviluppo della struttura, dei rapporti economici e produttivi. Tale ruolo è esercitato sia con l’intervento diretto, cioè tramite l’investimento di capitali cosiddetti pubblici o attraverso finanziamenti al capitale privato (e in questi ambiti rientra lo stesso Recovery Fund), sia con la regolamentazione, il sostegno e la promozione dei rapporti strutturali, produttivi ed economici in senso generale, attraverso la sua azione sul piano legislativo, amministrativo e giudiziario. Svolge insomma un ruolo politico di “organizzatore e regolamentatore” al servizio del potere economico della classe dominante.

Naturalmente, il ruolo fondamentale di organizzazione politica della classe dominante contro le classi dominate e quello principale di organizzatore politico del potere economico della classe dominante non sono pienamente distinguibili, ma rappresentano comunque delle linee di tendenza specifiche. Il settore della cosiddetta giustizia, ad esempio, è emblematico in tal senso. Da un lato gli apparati giudiziari, polizieschi e detentivi servono come arma della borghesia imperialista di controllo della società e delle masse, in particolare di repressione della classe operaia e delle altre classi oppresse, dall’altro dirimono sul piano del diritto le contraddizioni nei rapporti economico-sociali, anche fra i padroni stessi. Ad esempio, i contratti definiti dal codice civile o dalla prassi servono a regolare i rapporti economici. Il sistema delle autorizzazioni alle attività economiche serve a impedire uno sviluppo contraddittorio e caotico delle stesse, che danneggerebbe il sistema nel suo complesso. La procedura fallimentare serve a tutelare il mercato capitalistico dall’insolvenza debitoria dei suoi attori. E così via…

Ne consegue che, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, tanto la borghesia imperialista ha sviluppato, più di ogni altra classe nella storia, lo Stato come proprio strumento complessivo, quanto più essa appare come la classe che più ne pretenda la perfetta aderenza ai suoi più stretti interessi, lamentandone il ruolo quando non è così. Beninteso, lo Stato e i suoi apparati strutturano dei meccanismi di funzionamento e impongono una regolamentazione della vita sociale ed economica che talvolta possono entrare in contraddizione, per diversi fattori, con le necessità strette del capitale nel suo complesso o di sue singole fazioni, anche per il peso che al loro interno assume la borghesia burocratica come fazione correlata ma distinta dalla borghesia economica capitalista6. Si pensi al ruolo del ceto politico e della magistratura nel nostro paese.

Altro punto di contraddizione che può aprirsi tra apparato statale e classe dominante è quello relativo ai costi dello stesso, cioè al suo peso nel bilancio finanziario e quindi in termini di fiscalità e di ripartizione di capitali e risorse pubbliche. Una contraddizione che pesa soprattutto nella attuale fase di crisi del capitalismo e che i governi borghesi hanno affrontato principalmente tagliando la spesa pubblica “improduttiva”, cioè quella sociale di scuola, sanità e servizi, coinvolgendo spesso anche i relativi apparati. I tagli comportano però il rischio che le contraddizioni tra capitale e amministrazione statale aumentino laddove quest’ultima non riesce a disporre di risorse sufficienti a svolgere proficuamente il suo ruolo al servizio del primo, ad esempio aggravandone la lentezza burocratica, anche per le difficoltà del capitale privato a sostituirsi pienamente a quelle che sono le funzioni dell’amministrazione statale.

Su tutti questi aspetti, che da sempre animano il dibattito politico borghese nel nostro paese, dovrebbe intervenire il Recovery Plan italiano che infatti afferma: “Se una PA (pubblica amministrazione, ndr) con crescenti problemi strutturali deve gestire un insieme di regole sempre più complicate, il risultato è la progressiva perdita della capacità di implementare gli investimenti sia pubblici sia privati da parte del sistema Paese”7.

Il Recovery Plan parte infatti da una critica non troppo implicita alle politiche liberiste degli ultimi anni del capitalismo europeo ed italiano: i “tagli lineari” nel settore pubblico sono stati sì un’occasione di risparmio statale e di apertura di spazi profittevoli per il capitale, ma hanno anche leso l’efficienza della sovrastruttura della pubblica amministrazione nel suo ruolo di supporto, regolamentazione e ammortizzatore della struttura capitalistica. Nell’ambito della crisi e del suo aggravamento, la borghesia imperialista vorrebbe salvare la capra del risparmio o meglio dei tagli (l’economicità secondo il diritto borghese amministrativo) e salvare il cavolo dell’efficacia e dell’efficienza della pubblica amministrazione. A questo scopo il mantra del Recovery è l’innovazione, che a livello materiale si esplicherebbe con la digitalizzazione, cioè la smaterializzazione della pubblica amministrazione, o comunque il suo alleggerimento come spesa/investimento/capitale fisso, assicurando però migliore aderenza alle priorità, interessi e obbiettivi del capitale. Cosa significhi questo per i proletari e le masse popolari è presto detto: ulteriore allontanamento dell’amministrazione pubblica dalle loro esigenze, ponendo loro davanti una burocrazia immateriale sulla quale non si può intrattenere un rapporto diretto ed esercitare pressione dal basso.

Anche per quanto riguarda la giustizia, l’obbiettivo del Recovery Plan è quello di arrivare ad una velocizzazione processuale, che permetta di dare più repentinamente e solidamente quella certezza del diritto di cui i rapporti capitalistici necessitano per i loro più agevoli e solidi interessi di riproduzione e allargamento. Una velocizzazione che, beninteso, tramite un esercizio sommario del potere giudiziario, finisce inevitabilmente per schiacciare la parte più debole processualmente, quella che difficilmente può comprarsi la “merce giustizia” nella società capitalista, cioè i proletari e le masse popolari in generale.

Sempre sul piano della sovrastruttura, va segnalata la riforma della concorrenza, prevista nel Pnrr “per favorire l’efficienza e la crescita economica e per garantire la ripresa dopo la pandemia”8. Nella fase di crisi, dietro la maschera della concorrenza, la borghesia imperialista nasconde l’interesse alla monopolizzazione, sopratutto da parte del settore privato, di interi settori economici, a danno della condizione dei lavoratori dipendenti e schiacciando o subordinando economicamente la piccola borghesia. Si veda, ad esempio, il processo di centralizzazione finanziaria e progressiva privatizzazione rispetto alle aziende municipalizzate, chiamate a gestire le forniture energetiche nei singoli comuni, che ha comportato peggioramenti nelle condizioni di lavoro per i dipendenti e rincari per le masse popolari. Ma anche le mani delle multinazionali del digitale sul mercato del trasporto pubblico, si pensi a Uber che ne sconvolge i tradizionali rapporti, colpendo con una concorrenza monopolistica i tassisti e subordinando al proprio controllo i noleggiatori con conducente, mediante il sistema di caporalato informatico delle app.

Nel Pnrr vi è il rilancio della normativa nazionale in materia di concorrenza, visto che la legge 99/2009 prevede l’obbligo di adozione annuale di una legge finalizzata a tale scopo, poi effettivamente adottata solo nel 2017 (anche per contrasti tra settori di classe dominante, ad esempio tra capitale pubblico e privato). Il disegno di legge in preparazione, per promuovere la concorrenza, da parte del governo ripropone le classiche ricette liberiste della privatizzazione degli appalti pubblici locali, delle municipalizzate, della promozione della sanità privata, dell’autoproduzione a favore dei padroni nei porti9.

La trasformazione del capitale fisso

La riproduzione del capitale significa da sempre trasformazione delle condizioni della sua riproduzione, attraverso il progresso industriale e tecnologico, teso a consentire un allargamento di tale riproduzione in termini qualitativi e quantitativi e dunque a ricercare valorizzazione e maggiore profittabilità degli investimenti, anche rispetto al fattore della concorrenza. Ciò significa principalmente modificare il capitale fisso, cioè i mezzi di produzione, le tecniche e l’organizzazione della produzione, ma fondamentalmente andare a rideterminare incessantemente la condizione operaia, cioè della forza lavoro, del capitale variabile, che, in questa riproduzione allargata, rimane comunque l’unica forza produttrice di valore, dunque di plusvalore e di profitto.

In base a questa premessa di comprensione, in termini marxisti, del progresso industriale e tecnologico in regime capitalistico, cioè dell’incessante sviluppo delle forze produttive e del loro carattere collettivo, possiamo capire meglio anche ciò che il Recovery Plan definisce come “missioni” e cioè, come si dice nel piano, l’innovazione, la digitalizzazione, la rivoluzione verde, le infrastrutture, l’istruzione e la ricerca. Attraverso la leva del keynesismo, si vuole portare ulteriormente in avanti, in teoria con una regia politica complessiva, i processi di informatizzazione, automazione, diversificazione energetica, rafforzamento della logistica, stretta subordinazione della scienza al profitto ecc. che hanno contraddistinto il capitalismo negli ultimi anni.

Per i padroni si tratta del più grande bottino realizzato dal Piano Marshall ad oggi: in sostanza, nei prossimi anni, le loro necessità d’investimento saranno a copertura pubblica, puntando alla crescita dei loro profitti privati. Non si tratta di una novità, se pensiamo, negli anni recenti nel nostro paese, agli ammortamenti per dotarsi dei macchinari relativi alla cosiddetta Industria 4.0 o ai finanziamenti a garanzia statale per le grandi opere. Da sempre, l’economia del capitalismo, sopratutto nella fase monopolista-imperialista, punta a “socializzare” le perdite, tramite l’intervento pubblico, e a privatizzare i profitti. Però quello che differenzia il Pnrr è la grandiosità dei capitali in arrivo e la loro destinazione a settori strategici per lo sviluppo capitalistico, come la già citata Industria 4.0, gli investimenti ad alto contenuto tecnologico, le reti ultraveloci (banda larga e 5G), le tecnologie satellitari e l’economia spaziale, l’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese, l’economia circolare… Tutti settori nei quali l’investimento privato non è immediatamente remunerativo o che comunque necessitano di ingenti capitali pubblici per spianare la via oppure ancora dove le aziende di Stato costituiscono i principali monopoli.

Altro punto che caratterizza il Pnrr e lo distingue da precedenti campagne di sostegno pubblico, diretto e indiretto, all’accumulazione capitalistica, è costituito dalla dimensione ideologica da esso assunta, in particolare attraverso la questione del green. Gli strumenti concreti attraverso cui nel Piano si persegue questa presunta nuova dimensione del capitalismo sono costituiti dall’incremento delle fonti energetiche rinnovabili, quindi decarbonizzazione e promozione della produzione, distribuzione e consumo dell’idrogeno, nonché dall’economia circolare.

Su questo punto del capitalismo green va posta l’attenzione dei comunisti, anche per il tentativo ideologico, da parte del nemico di classe, di fagocitare a proprio favore la questione ambientale, che negli ultimi anni ha portato a grosse mobilitazioni di massa, soprattutto giovanili. Innanzitutto va chiarito come un sistema di produzione che si fonda sul profitto è, per sua stessa natura, in contraddizione antagonistica con il presente e il futuro della specie umana poiché tende a modificare in maniera traumatica e distruttiva le condizioni ambientali della sua vita e riproduzione. Solo un sistema di produzione che si basi sui bisogni umani, cioè il socialismo, può considerare il dato ambientale come loro parte e quindi costruire un’economia e una società che non vi si contrappongono in senso antagonistico.

In particolare, nel dibattito pubblico internazionale, si parla del riscaldamento globale come un’emergenza che deve condizionare lo sviluppo economico. Nel Pnrr si scrive: “Serve una radicale transizione ecologica verso la completa neutralità climatica (…) Gli obbiettivi globali ed europei al 2030 e 2050 (es. Sustainable Development Goals, obiettivi Accordo di Parigi, European Green Deal) sono molto ambiziosi. Puntano ad una progressiva e completa decarbonizzazione del sistema (Net-Zero) e a rafforzare l’adozione di soluzioni di economia circolare (…)”10.

La cosiddetta rivoluzione verde occupa lo spazio più forte a livello di investimenti previsti nel Piano. Fondamentalmente, è vero che la borghesia imperialista teme la distruzione di forze produttive e di capitali che può discendere dai disastri naturali imputabili all’inquinamento11, ma d’altra parte essa può solo mettere dei piccoli palliativi ad una tendenza di degradazione ambientale connaturata al suo sistema di produzione fondato sull’accumulazione di capitali e sul profitto.

Principalmente però, la svolta green in materia energetica, con la diminuzione o con l’utopico annullamento delle fonti e dei combustibili fossili, in teoria sostituite da rinnovabili, idrogeno ed elettricità (ma anche dal nucleare), è volta a venire a capo a contraddizioni relative da un lato all’approvvigionamento di petrolio e gas naturale, sempre più in diminuzione, dall’altro ai legami internazionali che esse implicano (si veda ad esempio la dipendenza europea dalle forniture russe). Inoltre, la regolamentazione internazionale dell’utilizzo di fonti fossili serve anche come arma di pressione economica e politica dei paesi di vecchia industrializzazione, cioè delle vecchie potenze imperialiste, contro le nuove potenze emergenti, in primis Cina e India, oramai rispettivamente al primo e terzo posto mondiale per emissioni inquinanti, con un secondo posto aggiudicato agli Usa.

Secondariamente, la cosiddetta rivoluzione green rappresenta una complessiva ristrutturazione del capitale fisso industriale, che consente ai padroni di tagliare i rami secchi della produzione, rinnovare macchinari, migliorare la produttività, ridurre i costi e implementare l’informatica a livello industriale. Tutte trasformazioni che rivestono un’importanza strategica per i capitalisti nel contesto della crisi del sistema e dell’inasprirsi della concorrenza tra i blocchi imperialistici e che non hanno nulla di green, a parte un’etichetta ideologica, in termini di estrattivismo e di emissioni inquinanti. Si veda, ad esempio, quanto ammesso dall’amministratore delegato della Toyota sulle automobili elettriche, la cui produzione aumenta di fatto le emissioni di anidride carbonica12. La stessa economia circolare non rappresenta altro che l’opportunità per il capitale di valorizzare, attraverso il riciclaggio dei rifiuti, tale “materia prima”, che questo sistema di produzione inevitabilmente produce a tonnellate.

Il “capitalismo verde”, pur nella sua incoerenza di fondo, unisce dunque da un lato interessi e processi di adeguamento del sistema economico ad un contesto ambientale via via più fragile e instabile, tanto da metterne in discussione la riproduzione, e dall’altro interessi e processi interni del sistema economico a tutti i livelli, dalla ristrutturazione del capitale fisso alle relazioni internazionali. Il Next Generation Eu intende essere la panacea finanziaria pagata dalla collettività che i padroni intascheranno per gestire tale processo. Il capitalismo può imporsi di prendere delle misure, innanzitutto per spinta di autoconservazione, difronte al disastro ecologico da esso stesso determinato. Ma, contemporaneamente, la spinta al profitto che connatura il capitalismo e in larga parte è motore della stessa ridefinizione green, non può che continuare ad essere la condizione per l’allargamento e l’aggravamento di tale disastro.

Il welfare ai tempi del Recovery

Il modello di Stato sociale che propone il Recovery Plan non si basa, come nel modello classico, su limiti al profitto e alla rendita capitalistica a favore del salario e, in generale, delle condizioni di vita delle masse popolari. È un invece un modello tipicamente liberista, volto principalmente a svolgere una funzione di accompagnamento alla transizione capitalistica prospettata nel Recovery stesso e, generalmente, a legare gli istituti sociali alle necessità strette del capitale. Così si afferma nel piano: “Per accompagnare la modernizzazione del sistema economico del Paese e la transizione verso un’economia sostenibile e digitale sono centrali le politiche di sostegno all’occupazione: formazione e riqualificazione dei lavoratori, attenzione alla qualità dei posti di lavoro creati, garanzia di redditto durante le transizioni occupazionali”13. Traducendo, si può dire che si tratta da un lato di attutire la precarietà lavorativa e dall’altro di formare lavoratori adatti agli interessi contingenti dei padroni. Gli strumenti in tal senso vanno dal rituale impegno a potenziare i centri per l’impiego, a varie campagne di formazione della manodopera da immettere sul mercato del lavoro, come il Programma Nazionale per la Garanzia di Occupabilità e il Piano Nazionale Nuove Competenze.

Non manca, in ogni caso, l’attenzione ad un contenimento generale delle contraddizioni capitalistiche, nell’ottica della controrivoluzione preventiva, così come l’apertura di spazi di ulteriore valorizzazione del capitale nell’ambito del sociale (il cosiddetto terzo settore). Una buona fetta delle politiche di integrazione lavorativa riguardano i giovani e le donne, dal Servizio Civile Universale come forma di “schiavismo civico” per i primi, alla promozione della cosiddetta “imprenditoria femminile” tra le seconde. Così come l’aggravarsi della storica “questione meridionale” trova inevitabilmente attenzione: sia rispetto al contenimento di un malessere di massa che rischia di diventare esplosivo, sopratutto per quel che riguarda la disoccupazione, sia rispetto all’apertura di ulteriori spazi di sfruttamento del proletariato meridionale, proprio a causa della ricattabilità in termini occupazionali, oltre che alla devastazione ambientale delle regioni del Sud. In tal senso si punta, ad esempio, al rafforzamento delle Zone Economiche Speciali (che oggi coprono tutto il meridione e saranno allargate alla Sardegna) con l’aggravamento della mano libera per i capitalisti che vi investono.

Più in generale, in tutto il Recovery Plan italiano si fa riferimento ai giovani, alle donne e al mezzogiorno come ambiti da coinvolgere nella strombazzata e fantomatica ripresa; la borghesia imperialista italiana è perfettamente consapevole delle categorie sociali rispetto alle quali è necessario intervenire per rafforzare la sua egemonia nella crisi e con i disastri sociali seminati dai confinamenti di massa.

Per quanto riguarda la sanità, il modello su cui afferma di investire il Pnrr è quello dell’assistenza domiciliare e territoriale, integrata da un rinnovamento tecnologico della strumentazione sanitaria, cioè del capitale fisso impiegato a livello ospedaliero, compresa la promozione della “telemedicina”. Possiamo infatti leggere tra gli obbiettivi della “missione salute”: “identificare un modello condiviso per l’erogazione delle cure domiciliari che sfrutti al meglio le possibilità offerte dalle nuove tecnologie (come la telemedicina, la domotica, la digitalizzazione)”14. Del resto già in passato abbiamo visto come la formula del rilancio della sanità territoriale, utilizzata dalle varie giunte regionali chiamate a gestirla, in realtà sia stata esclusivamente la copertura per tagli pesantissimi alle strutture ospedaliere, lasciando di fatto invariata la scarsa quantità e qualità di assistenza sanitaria territoriale.

Con il Pnrr, l’intento della somma “sanità non ospedalizzante più alta tecnologia per la cura a distanza” pare quello, da un lato, di risparmiare sui costi delle strutture ospedaliere e di tutto quanto vi è correlato e, dall’altro, di proporre un modello medico e sanitario ipertecnologico, ad alta composizione organica di capitale, con i pazienti seguiti digitalmente. Ovviamente ciò può andare a beneficio della white economy15, ovvero degli interessi capitalistici insiti nella sanità gestita dai padroni e dal loro Stato, ma assolutamente a danno dei lavoratori del settore e dei pazienti, che saranno chiamati a rapportarsi a macchinari piuttosto che a uomini curanti, ridotti a materia prima di un ciclo di produzione capitalistico che ha come merce la prestazione sanitaria. Senza contare come la telemedicina apra le porte alla “medicina di sorveglianza” tramite la digitalizzazione, il monitoraggio e il tracciamento dei dati, di cui l’odioso green pass è attualmente il più importante passaggio concreto di massa. In termini strettamente economici, attraverso un monitoraggio dei dati sanitari a livello individuale, si aprono le porte ad un modello di sanità teoricamente universalistico, ad un modello individualizzato sul piano dell’accessibilità economica delle prestazioni. Si veda quanto già prospettato dall’assessore alla sanità della regione Lazio, che ha proposto la messa in carico delle cure ospedaliere per i malati di Covid19 non vaccinati.

Il Pnrr prevede anche di aumentare di 3500 unità le postazioni di terapia intensiva, al fine di garantire uno standard minimo di 14 posti ogni 100 mila abitanti contro gli 8,5 di inizio dell’epidemia (febbraio 2020), dopo anni di criminali tagli alla sanità. Uno standard comunque basso in Europa (la Germania ad inizio dell’epidemia ne disponeva di oltre 29 per 100 mila di abitanti) e che dovrà scontrarsi con gli squilibri determinati dalla regionalizzazione della sanità16.

Il vicolo cieco del rinnovamento capitalistico

La crisi sanitaria che stiamo vivendo è parte della crisi del sistema capitalista, strutturalmente fondata sulla difficoltà che il capitale nel suo complesso riscontra nella valorizzazione all’interno del processo di produzione, quindi nel determinarsi del plusvalore, e nella successiva realizzazione del profitto sul mercato. Allo stesso tempo la crisi sanitaria ha rappresentato una necessità e opportunità storica del capitalismo per resistere al processo della crisi e rinnovarsi. Il keynesismo, cioè l’immissione di capitali d’origine statale nel mercato capitalista, è lo strumento finanziario che, in questa fase, i padroni e i loro governi di diversa latitudine stanno utilizzando per rispondere a tale necessità e opportunità nell’ambito del procedere della crisi.

Il rinnovarsi del capitalismo non può consistere in sostanza che nel ricercare maggior profitto, ma la contraddizione sorge laddove aumenta il capitale costante (cioè mezzi e tecnologie di produzione), al fine di aumentare la produttività in termini qualitativi e quantitativi, mentre si tende a diminuire il capitale variabile (quanto investito nella forza lavoro) e dunque il plusvalore, che deriva dall’impiego di lavoro operaio nella produzione. Aumenta così quella che in termini marxisti è definita composizione organica del capitale.

Siccome solo il lavoro operaio è produttivo di valore e dunque di plusvalore e di profitto, questa ricerca di maggior profitto, pur nominalmente e generalmente raggiunta da una produzione sempre più ampia e con costi relativi più bassi, finisce per contraddire sé stessa. In concreto da ogni quota di capitale investito si tende a trarre sempre meno profitto. Anche se i profitti possono nominalmente e generalmente salire, nelle fasi di crisi, la profittabilità del capitale investito tende sempre ad essere minore: si tratta della caduta tendenziale del saggio di profitto come legge generale dell’accumulazione capitalistica. Una legge che costituisce l’aspetto fondamentale dello sviluppo della sovrapproduzione di capitali e dunque dell’aspetto principale della crisi economica capitalistica, poiché da un lato il capitale reagisce aumentando ancora il volume della produzione e selezionando le sue frazioni più profittevoli, con l’azione del binomio concorrenza-monopolio, dall’altro una massa crescente di capitali finisce per non trovare valorizzazione nella produzione reale oppure nel trovarla in dimensioni decrescenti o comunque incerte, finendo per ricercarla sul piano speculativo (finanziarizzazione)17.

Da qui sorgono tre considerazioni generali. La prima è che il rinnovamento strutturale e produttivo del capitalismo non è, in termini reali e concreti, un processo totalitario privo di contraddizioni, ma anzi esso trova dei limiti intrinsechi e genera continuamente l’aggravio delle proprie contraddizioni innate.

La seconda è la centralità operaia nel processo di produzione capitalistica sia nei suoi termini strutturali sia nei termini del suo rinnovamento. Il rinnovamento capitalistico passa per l’attacco alla condizione operaia sia in termini di modifica strutturale della componente operaia nel processo produttivo (più macchine, meno operai) sia nei termini di aggressione al salario e alle conquiste operaie, per aumentare le quote di plusvalore e dunque di profitto da trasferire al rinnovamento del capitale costante e da riprendersi rispetto alla caduta tendenziale del profitto.

La terza è l’inevitabilità della trasformazione delle contraddizioni intrinseche del capitale in contraddizioni tra capitali, tra blocchi di concorrenti capitalistici, in lotta per il predominio imperialista globale. Siccome la gestione della crisi economica del capitale aggrava le stesse condizioni di tale crisi, allora essa fa il salto qualitativo verso il piano politico-militare, strettamente connesso alla ripartizione di quote di plusvalore a livello internazionale, di mercati di sbocco degli investimenti e delle merci e di saccheggio delle materie prime per il rinnovamento del capitale fisso. Nel procedere della crisi, persino ogni passo indietro fatto in termini di guerra imperialista, come recentemente con il ritiro della Nato dall’Afghanistan, preclude ad un suo aggravamento generale, nei termini dello scontro tra vecchie potenze, capitanate dagli Usa, e nuove potenze imperialiste emergenti (in primis Russia e Cina).

Lo stesso rinnovamento industriale previsto nel Pnrr ovviamente riguarderà anche il settore militare o meglio le applicazioni dual use, tipiche della fase imperialista, cioè che riguardano sia il settore civile che quello militare e si nascondono sotto le voci della digitalizzazione (5G in primis), dell’innovazione, delle grandi opere e sopratutto dell’industria aerospaziale. Nonostante il basso profilo tenuto in materia dal testo del Pnrr, le commissioni difesa della Camera e del Senato, in fase di approvazione del Piano, hanno chiaramente indicato nell’industria militare una delle priorità della trasformazione capitalistica. Nel testo della commissione della Camera si indica di: “incrementare, considerata la centralità del quadrante mediterraneo, la capacità militare dando piena attuazione ai programmi di specifico interesse volti a sostenere l’ammodernamento e il rinnovamento dello strumento militare, promuovendo l’attività di ricerca e di sviluppo delle nuove tecnologie e dei materiali, anche in favore degli obbiettivi che favoriscono la transizione ecologica, contribuendo al necessario sostegno dello strategico settore industriale e al mantenimento di adeguati livelli occupazionali nel comparto”. Parole che hanno trovato l’approvazione da parte del governo per bocca del sottosegretario alla difesa Mulè, il quale ha auspicato il raggiungimento dell’obbiettivo di aumentare al 2% del pil la spesa italiana per il settore bellico, anche grazie ai fondi europei, per soddisfare gli impegni italiani nella Nato18. Non a caso, Giorgetti e Guerini, titolari rispettivamente del ministero dello sviluppo economico e di quello della difesa, hanno costituito a luglio un tavolo comune per una strategia di rilancio combinata tra il settore dell’aerospazio, dell’intelligenza artificiale e del comparto militar-industriale in generale, così da agevolare l’utilizzo dei fondi del Recovery Plan in tale direzione.

In parallelo con lo sviluppo della tendenza alla guerra imperialista, cresce la progressiva distruzione ambientale del pianeta, aggravata dalla spasmodica ricerca di rinnovamento e ristrutturazione capitalistica, anche quando questa viene presentata come green.

Il Recovery Plan, nonostante le fanfare della comunicazione di regime, rappresenta, in ultima analisi, solo una piccola toppa keynesiana sul buco della crisi capitalistica. Quello che abbiamo davanti non è il futuro positivistico rappresentato dal Pnrr o un rilancio della socialdemocrazia capace di contenere le contraddizioni di questa società, ma una prospettiva di contraddizioni sociali e lotta di classe sul fronte interno e di guerra imperialista sul fronte esterno.


Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, p. 3, aprile 2021, governo.it

2 Vedi Antitesi n° 5 p. 6 ss

3 Vedi Antitesi n° 9 p. 78 ss

4 Sulla nozione di keynesismo vedi Antitesi n° 5 pp. 6 ss

5 Vedi Antitesi n° 5 p. 64

6 Sul punto vedi Antitesi n°6 pp. 44 s. e Antitesi n° 10 p. 75 s.

Piano, op. cit., p. 45

8 Ivi, p. 75

9 Vedi questo numero di Antitesi p. 19

10 Piano, op. cit., p. 116

11 Basti vedere le alluvioni di luglio in Germania, Belgio, Lussemburgo, Olanda, Svizzera, nel cuore industriale e finanziario dell’Europa imperialista, con un bilancio di circa 200 morti.

12 M. Mazzeo, L’allarme da Toyota sulle auto elettriche: consumano di più e rimarremo senza elettricità, 18.12.2020, fanpage.it

13 Piano, op. cit.,, p. 198

14 Ivi. p. 225

15 Vedi Antitesi n. 9, p. 75

16 Tanto per fare un esempio il Veneto ha mille postazioni di terapia intensiva per 4 milioni e 900 mila abitanti e la Puglia ne ha solo 482, meno della metà, pur avendo 4 milioni e 30 mila abitanti.

17 Vedi Antitesi n° 5 pp. 65 s.

18 G. Rosini, Recovery Plan, dalle commissioni Difesa ok all’uso dei fondi europei nel settore armi. Sottosegretario Mulè: “Stessa idea del governo”, ilfattoquotidiano.it, 1 aprile 2021


Le “missioni” del Recovery Plan italiano

Il Piano italiano si compone di sei cosiddette missioni, cioè di aree di intervento finanziario tramite i fondi europei.
La prima missione è costituita dalla “digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura”, per le quali si stanzia complessivamente 49,86 miliardi, di cui 40,3 dal Pnrr, 0,8 dal React Eu e 8,74 dal fondo complementare italiano.
La seconda missione è intitolata “rivoluzione verde e transizione ecologica”, prevedendo lo stanziamento di 69,94 miliardi – di cui 59,47 dal Pnrr, 1,31 dal React Eu e 9,16 da quello complementare.
La terza missione si chiama “infrastrutture per una mobilità sostenibile” e stanzia 31,46 miliardi, di cui 25,4 dal Pnrr e 6,06 da quello complementare.
La quarta missione è denominata “istruzione e ricerca” e stanzia 33,81 miliardi di cui 30,88 dal Pnrr, 1,93 dal React Eu e uno da quello complementare.
La quinta missione è denominata “inclusione e coesione” e prevede lo stanziamento di 29,83 miliardi di cui 19,81 dal Pnrr, 7,25 dal React Eu e 2,77 dal complementare.
La sesta missione intitolata “salute” prevede lo stanziamento di 20,23 miliardi di cui 15,63 dal Pnrr, 1,71 dal React Eu e 2,89 da quello complementare.
Dal fatto che la voce “salute” sia quella meno finanziata nel Recovery Plan italiano si capisce come la crisi sanitaria sia elemento secondario per capire la portata complessiva politica del Next Generation Eu. Le contraddizioni a cui il Recovery Fund dovrebbe venire a capo riguardano la valorizzazione dei capitali dei padroni, non certamente quelle relative alla vita e alla salute dei proletari.

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