Non è più un pianeta per tigri
Biden e la crisi internazionale dell’imperialismo Usa
“Imperialismo e guerra” da Antitesi n.11 – pag.29
In questo articolo proviamo a tracciare quale sia l’indirizzo di politica internazionale del governo Usa dopo il travagliato insediamento del nuovo presidente Joe Biden, soprattutto in merito agli elementi di continuità e di discontinuità con il precedente governo guidato da Donald Trump.
Archiviato l’insediamento del nuovo presidente Usa, dopo le turbolenze del gennaio scorso con l’assalto al Campidoglio dei sostenitori di Trump, sul fronte interno non si sono sopite le contraddizioni che avevano caratterizzato anche l’ultimo periodo della presidenza trumpiana. Nonostante il cambio della guardia alla presidenza, continua la difficile crescita economica, dopo la fase acuta della pandemia da Covid19, soprattutto se paragonata a quella di altri paesi competitori nel mondo, in particolar modo la Cina. Sul piano economico, infatti, la ripresa dopo i periodi di chiusure generalizzate a causa della gestione della pandemia, non ha ancora raggiunto gli obiettivi che il governo Usa si era proposto, con una crescita economica che si è rivelata inferiore alle attese degli analisti (6,5% nel secondo trimestre 2021 contro una previsione dell’8,4%) e con un Pil superiore appena dello 0,8% a quello 2019 (quindi prima della esplosione della fase pandemica) nonostante una spesa di 6 mila miliardi di dollari in aiuti pubblici alle imprese e 7 milioni di posti di lavoro persi rispetto al 20191.
Oltretutto non vi è stata la smobilitazione dei movimenti di protesta che negli ultimi mesi, invece, hanno attraversato le città statunitensi, guidati dal movimento Black Lives Matter. Questi movimenti non hanno fermato le loro mobilitazioni, dando degli esempi di solidarietà internazionalista con manifestazioni nelle principali città statunitensi, con migliaia di partecipanti, a sostegno della Resistenza palestinese nel maggio-giugno scorso2 e con altrettante manifestazioni all’indomani dell’evasione di sei prigionieri palestinesi detenuti nel carcere di massima sicurezza di Gilboa in Israele, nel settembre scorso.
Sul piano internazionale, a quasi un anno dall’insediamento del nuovo presidente, possiamo tracciare delle considerazioni su quali siano gli elementi di continuità e quali invece di discontinuità del presidente Biden rispetto all’amministrazione Trump.
Un elemento di discontinuità è rappresentato dal riavvicinamento nei rapporti con l’Ue, con gli Stati europei occidentali e una maggiore rilevanza del ruolo della Nato, sancito nei vertici del giugno scorso in Cornovaglia e a Bruxelles. Con il governo Biden riprende piede il multilateralismo per cercare di portare sulla sua linea antagonista alla Cina anche gli europei e questo diviene il centro di un progetto di costruzione di un campo atlantico con la Nato come sistema militare, giustificato narrativamente come “alleanze per le democrazie” per contrastare il nemico strategico che ora è rappresentato dalla potenza cinese, sui terreni del 5g, dell’intelligenza artificiale, dei semiconduttori, del controllo delle rotte commerciali e dello sviluppo militare. «Ci assicureremo che siano le democrazie con libero mercato, non la Cina o chiunque altro, a scrivere le regole sul commercio e la tecnologia del 21esimo secolo. E continueremo a perseguire l’obiettivo di un’Europa unita, libera e in pace» con queste parole Biden annunciava chiaramente gli intenti alla vigilia degli incontri europei con G7, Ue, Nato e dell’incontro bilaterale con Putin a Ginevra3.
Questo progetto deve però fare i conti con un’esposizione oggettiva di molti stati Ue, principalmente della Germania, che ha grosse fette del mercato delle esportazioni dirette verso la Cina come anche la Francia e l’Italia. L’Italia, in particolar modo, con la firma sulla Belt Initiative Road (detta Nuova via della seta) con il primo governo Conte, si è spinta più in là rispetto ad altri paesi europei, pur successivamente ridimensionando questo impegno bloccando le iniziative per l’ampliamento per mano cinese del 5G ed istituendo il golden power su materie quali le telecomunicazioni in nome della sicurezza nazionale. Nel viaggio di giugno in Europa, Biden ha stretto nuovi accordi con l’Ue risolvendo un contenzioso economico sulle sovvenzioni aeree che coinvolge le rispettive società di fabbricazione Boeing e Airbus. Il contenzioso verteva sulle accuse reciproche di aver agevolato con sussidi pubblici illeciti queste aziende aeronautiche ed era in atto dal 2004. Nella risoluzione definita da governo Usa e Ue viene sospesa per un periodo di 5 anni l’applicazione dei dazi e delle tariffe a molte merci Ue esportate negli Stati Uniti che gli Usa con Trump avevano imposto nel 2019, per un valore di 11,5 miliardi di dollari4.
I vertici di giugno tra Usa ed Ue sono stati anche forieri di ulteriori riavvicinamenti per quanto riguarda la questione dei dazi su acciaio e alluminio, imposti con il governo Trump nel 2018 (25% su acciaio e 10% su alluminio importati dagli Stati Ue), arrivando nel settembre scorso ad una offerta da parte del governo Biden di ridefinizione di questi dazi5.
Rispetto ai partners Ue, Biden, come detto, ha dovuto tenere conto della recalcitranza dei leaders europei a schierarsi apertamente contro la Cina e la sua strapotenza economica, proprio per gli interessi che legano molte economie europee a quella asiatica. Nonostante questo, la politica di Biden è incentrata alla ricerca di alleanze più ampie per colpire l’avversario strategico rappresentato dalla Cina e proprio in questo vi è un notevole cambiamento di politica internazionale nei confronti della Ue rispetto alla politica trumpiana.
Cina, principale avversario strategico
Nel rapporto con la Cina, invece, il governo Biden è nettamente in continuità con la politica del suo predecessore alla Casa Bianca. Il concretizzarsi dell’attacco all’economia e agli interessi cinesi si esplica su più piani, da quello economico-finanziario a quello politico operativo a quello militare, se pur in quest’ultimo caso lo scontro non è ancora aperto. Oltre alla ricerca di nuove alleanze da schierare contro la colossale economia cinese, il governo Biden ha mantenuto la politica trumpiana dei dazi sui prodotti cinesi e sta progredendo nel progetto di ridurre i vincoli che legano l’economia statunitense a quella cinese, soprattutto in materia di tecnologia digitale e di materie prime necessarie per la tecnologia informatica. L’attuale presidenza statunitense tenta di limitare la dipendenza da paesi stranieri, come appunto la Cina, nell’import di merci strategiche come semiconduttori, batterie, terre rare, farmaci e principi attivi. Il parlamento Usa ha approvato un progetto di spesa pubblica per lo sviluppo di nuove tecnologie per 250 miliardi di dollari, di cui 52 indirizzati alla produzione in patria dei semiconduttori6.
Oltre che sul piano economico interno, il governo Biden usa anche altri strumenti per boicottare l’economia cinese, bloccando operazioni economiche della Cina in paesi dipendenti dall’egemonia statunitense, come è accaduto con il divieto imposto in merito alla fusione del gruppo cinese Wise Road Capital con la sud-coreana Magnachip Semiconductor. Un’operazione da 1,4 miliardi di dollari che il Dipartimento di Stato Usa aveva definito come “rischio per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”7. A questo si aggiunge anche una campagna volta a ridurre gli investimenti finanziari diretti nel paese asiatico, come le affermazioni del finanziere Soros che si scaglia contro il colosso finanziario statunitense BlackRock, primo gruppo straniero autorizzato a lanciare strumenti finanziari nel mercato cinese, invitandolo a non investire in Cina poiché in questo modo si finanzia il principale antagonista degli Usa8. All’interno del progetto di bloccare l’espansionismo cinese si inserisce il progetto Build Back Better World (B3w), frutto del G7 del giugno scorso, un progetto infrastrutturale che si vuole porre in chiara alternativa alla Via della seta cinese. Il B3w, che poggia su 4 aree di investimento (clima, salute e sicurezza sanitaria, tecnologia digitale e uguaglianza di genere), dovrebbe raccogliere 900 miliardi di investimenti per il trasporto delle merci, intensificando i commerci attraverso la costruzione di infrastrutture anche in paesi a basso e medio reddito, per arrivare nel 2035 a piani di investimento di 40 mila miliardi di dollari9. Questo progetto rappresenta chiaramente un ulteriore tentativo di bloccare lo sviluppo dell’economia cinese e della Bri, che per gli Usa significa un pericolo, anche per la capillarità dell’intervento cinese nell’economia mondiale che questa rete infrastrutturale le consente di ottenere.
Il luogo dove la politica internazionale del governo Biden nei confronti della Cina continua e intensifica la politica trumpiana è l’Indo-Pacifico e l’area del mar Cinese meridionale ed orientale, un’area in cui circolano merci complessive per un valore di circa 5 mila miliardi di dollari, dove vi sono le maggiori rivendicazioni territoriali della Cina e il principale sbocco marittimo del commercio cinese. Qui gli Usa concentrano le attività di pattugliamento navale con controllo dello stretto di Malacca e dell’area circostante la contesa isola di Taiwan, con la Cina che ne rivendica l’integrità territoriale con l’entroterra continentale. Oltre a sostenere il governo taiwanese e a supportarlo nell’aspetto militare, il 4 agosto scorso il Dipartimento di stato americano ha dato il via libera alla vendita di 40 cannoni semoventi, per un valore di 750 milioni di dollari, creando ulteriori frizioni con la Cina10; il 28 agosto scorso 2 navi da guerra Usa, per la prima volta dall’insediamento di Biden, hanno navigato attraverso lo stretto di Taiwan dove la marina militare cinese teneva esercitazioni militari11. Inoltre, la politica di Biden mira a creare e consolidare alleanze per coinvolgerle nelle azioni di pattugliamento, controllo e boicottaggio del commercio cinese. Supporto che viene dato dagli Stati appartenenti al Quad (oltre agli Usa, Giappone, Australia e India), che il governo cinese definisce mini-Nato, con azioni di cooperazione navale nel Mar Cinese meridionale e orientale, tenendo periodicamente operazioni congiunte di esercitazione navale, iniziate nel mese di agosto, denominate Malabar12. In questa operazione partecipa anche la marina indiana con 4 navi, rappresentando un ulteriore motivo di frizione con il governo cinese, dopo vari episodi come gli scontri di giugno 2020 presso zone di confine dei due paesi13. Agli alleati orientali degli Usa impegnati in queste operazioni, si unisce la presenza nell’area della portaerei britannica HMS Queen Elizabeth e della fregata tedesca Bayern, che nei primi giorni di agosto è salpata per una lunga campagna navale nell’Indo-pacifico. Si tratta della prima partecipazione ad una missione di questo tipo di una nave tedesca nell’area, che sembra un “dazio” pagato dal governo della Merkel agli Usa per il via libera al gasdotto Nord Stream2, definito nei vertici europei di giugno. Comunque la marina tedesca ha comunicato che non passerà per lo stretto di Taiwan, ma raggiungerà le coste del Vietnam passando ad est dell’isola, per non inimicarsi il governo cinese con cui la Germania, come abbiamo detto, ha un forte legame economico per l’esportazione delle merci14.
La ricerca di possibili alleati in funzione di contenimento dell’espansionismo e del commercio cinese porta il governo Biden a trovare nuove collaborazioni, attraverso i canali diplomatici, anche con paesi che hanno forti legami economici con lo Stato cinese. Così è da leggersi la missione diplomatica della vicepresidente Kamala Harris, che a fine agosto è stata nel sud-est asiatico tra Singapore e Vietnam, paesi facenti parte della zona di libero scambio denominata Asean15, per intessere legami con loro, attaccando direttamente la Cina con affermazioni come «Le azioni cinesi minacciano l’ordine basato sulle regole e minacciano la sovranità delle nazioni. Gli Usa stanno con alleati e partner di fronte a queste minacce e diamo il pieno sostegno degli Stati Uniti agli alleati del Sudest asiatico, area di vitale importanza». 16
La politica di alleanze Usa in funzione di controllo delle rotte commerciali e militari cinesi, poi, ha avuto un’accelerazione con l’annuncio dell’accordo denominato Aukus, siglato il 16 settembre scorso tra Usa, Gran Bretagna e Australia, che segna il passaggio ad una fase superiore dell’escalation militare nello scontro con la Cina. Un’intesa di collaborazione strategico-militare tra questi paesi con “l’imperativo di assicurare la pace e stabilità a lungo termine nell’Indo-Pacifico”. Parte centrale dell’accordo è la fornitura all’Australia di 8 sottomarini Usa a propulsione nucleare (per un valore complessivo di 80 miliardi di dollari) dotati di tubi di lancio sia per armi convenzionali che nucleari.
L’annuncio pubblico di questa intesa strategica ha determinato non pochi malumori all’interno dell’Ue ed un raffreddamento nei rapporti con la Francia, che con il governo australiano aveva in precedenza concordato la fornitura di 12 sottomarini da attacco Barracuda, per complessivi 56 miliardi di euro, da costruirsi nei cantieri francesi della Naval Group (attraverso la joint ventures Naviris, al cui capitale partecipa per il 50% l’italiana Fincantieri). Il ministro degli esteri francese ha definito l’intesa Aukus “una pugnalata alle spalle” ed il governo francese ha richiamato gli ambasciatori da Washington e Canberra per consultazioni17. Quest’ultimo passaggio nell’attuale politica di alleanze definita da Biden può incrinare il lavoro di riavvicinamento svolto nei confronti dei paesi Ue, di cui parlavamo nella parte iniziale di questo articolo, ma evidenzia come gli Usa non rinuncino comunque a definire una gerarchia tra alleati.
Ma se l’atteggiamento del governo Biden è in piena continuità con quello trumpiano, ed anzi sta aumentando il contrasto con la Cina come dimostra anche il suo atteggiamento nel continente africano18, quello che sta cambiando è il lato cinese della contraddizione, ovvero l’atteggiamento e le azioni del governo cinese in risposta alle provocazioni Usa e in vista dello scontro strategico con l’imperialismo statunitense. «Il popolo cinese non permetterà mai a nessuna forza straniera di renderci schiavi. Sconfiggeremo qualsiasi tentativo di indipendenza di Taiwan»19: queste le parole dette dal presidente Xi Jinping nell’anniversario dei 100 anni della fondazione del Partito Comunista Cinese, che indicano la linea tenuta dal governo nello scontro con gli Usa. Proprio rispetto all’isola contesa di Taiwan, il governo cinese ha annunciato la costruzione di un tunnel sottomarino di 135 km per unirla alla terraferma, che costituirebbe il tunnel ferroviario più lungo al mondo, da realizzare entro il 203020. Annuncio al momento simbolico, ma che dimostra chiaramente agli altri paesi che sulla questione di Taiwan il governo cinese è disposto ad andare fino in fondo, rispettando i propositi di riunione con l’isola stabiliti per il 2049.
Sul piano militare crescono le capacità dell’esercito cinese in molti campi e anche nella costruzione di silos nucleari per il lancio di missili balistici intercontinentali. La Federation of American Scientists, organizzazione che ha l’obiettivo di offrire consulenza scientifica alle decisioni con impatto sulla sicurezza nazionale degli Stati Uniti, ha diffuso la notizia che la Cina sta avanzando nella costruzione di 240 silos nucleari, oltre ai 25 già in dotazione, più di quelli attualmente a disposizione di Stati Uniti e Russia. Immagini satellitari documentano la costruzione di un nuovo sito per 120 silos a Yumen, nella parte centro-settentrionale della Cina21.
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Del rinnovato slancio militare cinese sono perfettamente consapevoli gli Usa: nel rapporto della marina al Congresso del 3 agosto scorso, si segnala l’aumento delle unità navali della marina cinese e la aumentata capacità di queste di compiere operazioni marittime, rappresentando una forza in grado di competere sul controllo delle acque internazionali22. Infatti nel tentativo di limitare i pattugliamenti delle navi occidentali e dei loro alleati nel Mar cinese meridionale, il primo settembre scorso, lo Stato cinese ha emanato una nuova legge sulla sicurezza del traffico marittimo. Secondo questa legge 5 tipi di navi straniere (sommergibili, navi nucleari, navi che trasportano materiali radioattivi, petrolio, prodotti chimici, gas liquefatto e altre sostanza tossico-nocive) devono obbligatoriamente fornire le loro informazioni dettagliate alle autorità cinesi sugli attraversamenti in acque territoriali, ricevendo l’immediata risposta degli Usa, con il Pentagono che ha definito questa misura come una grave minaccia alla libertà di navigazione e commercio23.
Russia avversario strategico, se non cambia
Anche nei confronti della Russia possiamo sostanzialmente affermare che la politica statunitense di questa amministrazione si muove in continuità con la precedente. Molte delle critiche rivolte dall’estabilishment politico e militare statunitense a Trump, accusato di “non belligeranza” nei confronti della Russia per il sostegno alla sua elezione, erano strumentali per indebolirlo politicamente agli occhi dei suoi elettori e soprattutto per condizionarne l’azione politica, dopo gli annunci di voler pacificare i rapporti con la Russia nella campagna elettorale.
Anche nella politica del governo Biden nei confronti della Russia vi sono stati dei comportamenti altalenanti, di attacco al regime putiniano ed allo stesso tempo di apertura. “Putin è un assassino e pagherà le interferenze nelle elezioni Usa” queste erano le parole che Biden rivolgeva al presidente russo in una intervista alla Abc, rilanciando inoltre le accuse di hackeraggio di oleodotti statunitensi dandone la paternità alla Russia. Ma nell’incontro bilaterale Biden-Putin tenutosi a Ginevra il giugno scorso, invece, vi sono state dichiarazioni di intenti per trovare terreni di cooperazione, definendo il ritorno degli ambasciatori a Mosca e Washington (ritirati dopo le dichiarazioni di Biden sopracitate) e aprendo a negoziati per il controllo degli armamenti nucleari24. Questa cautela del governo Biden rispetto ad un attacco frontale alla Russia è motivata da una parte dalla necessità di non infrangere i nuovi rapporti di collaborazione con gli Stati dell’Ue, in particolar modo, con la Germania, che ha una esposizione ed una necessità energetica dipendente dal gas russo25.
Dall’altra parte, gli Usa non possono attuare misure di politica internazionale che attacchino frontalmente la Russia perché può essere pericoloso data la sua presenza e influenza militare in più fronti (come Siria, Libia e Ucraina) e per non gettare completamente Mosca nelle braccia della Cina, tra le quali sono già esistenti legami, principalmente di natura economica ma anche di cooperazione e interscambio militare. Uno di questi legami è rappresentato dalla partecipazione comune alla Shangai corporation organization (Sco)26. Questa organizzazione riveste un ruolo importante nell’Asia centrale per la composizione degli Stati appartenenti (soprattutto dopo il ritiro delle truppe Nato dall’Afghanistan), i quali attuano esercitazioni militari congiunte, rafforzando l’intesa principalmente tra Pechino e Mosca. La Russia, inoltre, ha da tempo in atto degli accordi energetici di trasferimento di petrolio e gas con la Cina, accordi che le hanno permesso di attenuare le conseguenze economiche delle sanzioni imposte dal 2014 dai paesi Ue e Nato per la questione Ucraina e l’annessione della Crimea. A questo si aggiunge il progetto della costruzione del raddoppio del gasdotto Power of Siberia che collega direttamente i due paesi, con una previsione per il 2024 di un flusso annuale di gas verso la Cina di 38 miliardi di metri cubi di gas27. Inoltre sono in atto trasferimenti dalla Russia alla Cina di alte tecnologie duali (sia civili che militari), cibernetiche e spaziali e vendita di armamenti di punta28. La multinazionale di Stato russa Gazprom, poi, ha annunciato la decisione di scambiare in Yuan, invece che in dollari, l’acquisto di carburante nei 34 aeroporti cinesi dove è presente e che le compagnie aeree cinesi negli aeroporti russi potrebbero acquistare il carburante in rubli29. Questo ulteriore passo di messa in discussione del dollaro come moneta di scambio mondiale rappresenta sicuramente un boccone indigesto per la politica dell’imperialismo Usa30.
Ma questa cautela della politica del governo Biden nell’affrontare il rivale russo, non impedisce agli Usa di continuare nel sostegno ai rivali diretti della Russia, come accaduto a inizio settembre con la decisione di inviare ulteriori aiuti militari per un valore di 60 milioni di dollari al governo ucraino di Zelensky31 e sostenendo la decisione dello stesso, il 3 settembre scorso, di svincolarsi ufficialmente dagli accordi di Minsk tra Ucraina e Russia sulla guerra in Donbass.
Palestina e Afghanistan
Finora abbiamo analizzato i movimenti di politica internazionale statunitense rispetto Cina e Russia, ponendo in evidenza gli elementi di frizione della contraddizione interimperialista tra questi paesi. Adesso rivolgiamo lo sguardo al settore mediorientale dove risulta evidente come la contraddizione imperialismo e popoli oppressi cambia quelle che sono le strategie e le azioni dei paesi imperialisti (sulla contraddizione imperialismo americano e popoli oppressi, è interessante anche capire cosa accade in Sud America32). Nell’area mediorientale e centro-asiatica gli eventi che hanno caratterizzato gli ultimi mesi sono l’eroica Resistenza del popolo palestinese all’entità sionista e il ritiro/fuga da Kabul dell’esercito Usa.
Nella Palestina occupata la Resistenza palestinese si è dimostrata capace di contrastare i piani di Israele, avvallati dal governo Usa, che procedono nel perseguimento della pulizia etnica, del confinamento in bantustan e nell’aggravamento del colonialismo di insediamento sionista. Con gli undici giorni di conflitto nella battaglia della “Spada di Gerusalemme” i resistenti palestinesi sono scesi in campo dalla Cisgiordania a Gaza, dai profughi in Siria a quelli in Libano e con la partecipazione alla lotta degli arabi dei territori del 48, formalmente cittadini israeliani, combattendo contro i progetti del colonialismo sionista che mirava a cacciare alcune famiglie palestinesi che vivono nell’area di Gerusalemme est. Sono riusciti anche ad ampliare la lotta raccogliendo la solidarietà di movimenti popolari con manifestazioni in tutte le aree del mondo, Usa compresi. La capacità di mobilitazione e di risposta militare dimostrata dalla Resistenza palestinese ha affossato i piani di aggressione israeliana e i tentativi di normalizzazione imperialista del Medioriente33. Quest’ultima verte sull’appoggio storico alla colonia sionista da parte dell’imperialismo statunitense, che ora si concretizza con l’appoggio ai cosiddetti Accordi di Abramo spinti da Trump e portati avanti da Biden. Gli Accordi di Abramo prevedono la stabilizzazione dei rapporti tra il regime sionista ed alcune monarchie reazionarie arabe (Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Marocco) con la prospettiva di un’alleanza strategica di carattere politico-militare, una sorta di Nato mediorientale guidata da Israele, con la funzione di contenimento delle potenze regionali come Iran e Turchia e di assoggettamento dei popoli oppressi dell’area di Libano, Siria, Yemen. Tra l’altro gli accordi prevedono il riconoscimento, provocatorio per le popolazioni arabe, di Gerusalemme come capitale dello stato sionista.
Gli eventi in Afghanistan di fine agosto scorso hanno dimostrato come la ventennale dominazione imperialista a guida Usa sia stata incapace di contrastare la resistenza del popolo afghano alle mire imperialiste. La precipitosa fuga da Kabul delle truppe Usa e atlantiche, dopo che il presidente fantoccio Ashraf Ghani se ne è scappato in Qatar pieno zeppo di soldi ed i soldati dell’esercito afghano addestrati dall’imperialismo Usa si sono liquefatti sotto gli attacchi dei talebani, è emblematica di come gli Usa non siano stati capaci di uscire dal pantano afghano. Il ritiro dei soldati Usa e Nato dal territorio afghano era già stato programmato (anche se non in questa maniera poiché l’intelligence americana riteneva che il governo Ghani e l’esercito afghano avrebbero resistito per più tempo contro i talebani) dal febbraio 2020, con gli accordi di Doha avvallati dall’allora presidente Trump. Il governo Biden non si è discostato da questi accordi poiché gli Usa non sono riusciti a sfruttare l’occupazione a loro vantaggio, a causa della Resistenza del popolo afghano che ha comportato costi eccessivi per il mantenimento delle truppe e degli armamenti (1000 miliardi di dollari in 20 anni). Non era più possibile mantenere un livello di intervento militare di questa entità nell’area, nonostante l’importanza di questo territorio vicino a Russia e Cina, perché non rappresentava una base di appoggio sicura per gli Usa, ma, invece, una continua spina nel fianco. La fuoriuscita dell’imperialismo Usa nell’area può rappresentare un’occasione per i suoi rivali imperialisti, soprattutto per la Cina, di intessere relazioni con il nuovo governo talebano, grazie alla propria potenza economica e all’interesse per le riserve minerarie come rame, litio e cobalto (valutate in tremila miliardi di dollari) presenti nel paese dell’Asia centrale34.
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Nell’area mediorientale gli Usa devono fare i conti anche con l’influenza e l’espansionismo regionale di paesi come l’Iran e la Turchia. Rispetto all’Iran la politica della nuova amministrazione Biden sta mirando a riprendere le trattative sul nucleare con l’accordo denominato Jcpoa, introdotto nel 2015 durante la presidenza Obama, sul quale il nuovo presidente iraniano, Ebrahim Raisi, insediatosi il 5 agosto scorso, si è dimostrato disponibile alla trattativa, puntando all’annullamento delle sanzioni in vigore nei confronti del paese iraniano e dando il consenso a nuove ispezioni in alcuni siti nucleari da parte dell’Agenzia internazionale energia atomica (Aiea)35. D’altra parte, però, l’imperialismo Usa sostiene le iniziative militari che Israele attua in Siria e in Libano, con periodici attacchi contro postazioni di gruppi militari filoiraniani, considerando l’Iran e le formazioni alleate come Hezbollah e lo stesso governo di Damasco, gravi minacce alla sua integrità territoriale, alla sua influenza nell’area, temendo anche l’appoggio di queste forze alla Resistenza Palestinese. Ad esempio, nel settembre scorso l’aviazione israeliana ha attaccato installazioni usate da forze filoiraniane a Damasco, ma le difese aeree siriane, con armamenti russi, sono riuscite ad intercettare la maggior parte dei missili lanciati dagli aerei israeliani36. Ma non mancano attacchi, sabotaggi e provocazioni da parte di Israele direttamente sul suolo iraniano: nel luglio scorso droni militari israeliani hanno attaccato una fabbrica che produce centrifughe per il nucleare a Karaj in Iran37.
La politica del governo Usa deve fare anche altre iniziative di contenimento verso l’espansionismo regionale e il protagonismo della Turchia del governo Erdogan, paese membro della Nato e che costituisce numericamente il secondo esercito dei paesi aderenti all’alleanza atlantica. In questi anni la Turchia si è ritagliata un ruolo di protagonista regionale inserendosi in diversi fronti di guerra come quello siriano e libico, urtando non poco con gli interessi Usa nell’area, soprattutto nel periodo di più stretta cooperazione con la Russia di Putin e più recentemente con l’appoggio militare all’Azerbaijan nel conflitto contro l’Armenia, per la zona contesa del Nagorno-Karabakh. Un protagonismo turco che sta spingendo su rivendicazioni nel Mar Egeo, ricco di giacimenti gasiferi, scontrandosi con gli interessi della Grecia (altro paese Nato) e del principale partner statunitense nell’area ovvero Israele38. Nell’incontro al vertice Nato del giugno scorso, prima occasione di incontro del presidente Biden con l’omologo turco, la Turchia si è proposta come fornitrice di droni BayraktarTb2, già sperimentati in teatri di guerra come Libia e Nagorno-Karabakh, alla Polonia e all’Ucraina, impegnata nel Donbass contro la resistenza popolare della regione39. Il pragmatismo del premier Erdogan che continua a giocare di sponda con Usa e Russia, lo rendono un “alleato” non completamente affidabile per gli interessi dell’imperialismo degli Stati Uniti, capace di destabilizzare dall’interno la stessa Nato.
Le contraddizioni dell’imperialismo sono irrisolvibili
Da questa esposizione che ha cercato di delineare gli elementi di continuità e di discontinuità tra le due amministrazioni dell’imperialismo Usa degli ultimi anni emerge come, nonostante vi siano differenze nell’affrontare le questioni strategiche principali, la sostanza non cambia: continua a svilupparsi la tendenza alla guerra tra potenze imperialiste, principalmente tra Usa e Cina.
La ricerca continua del profitto, che è la legge fondamentale del sistema capitalista, è la guida nelle decisioni e negli scontri degli Usa con gli altri Stati imperialisti e delle guerre di aggressione contro i popoli. Questo sistema economico sta dimostrando sempre più come condurrà il mondo ad un vicolo cieco fatto di guerra e barbarie. L’esempio dei popoli oppressi in rivolta, però, ci indica la strada da seguire per contrastare questi progetti di dominio e sopraffazione, come accade per l’eroica Resistenza del popolo palestinese che da decenni combatte contro l’oppressione sionista e imperialista. Sostenere le lotte dei popoli che resistono, intrecciare reali percorsi di solidarietà con essi e costruire nel proprio paese la resistenza alle politiche del nostro imperialismo, legandosi al proletariato ed alle masse popolari: questa è l’unica strada possibile per contrastare i piani di guerra dell’imperialismo e per uscire, con la rivoluzione proletaria, da questo sistema di sfruttamento.
1 Marco Valsania, Pil Usa cresce del 6,5% annualizzato, ma delude tra le paure per la variante Delta, ilsole24ore.com, 30.7.2021
2 Migliaia in strada negli Stati Uniti a sostegno del popolo palestinese, ansa.it, 17.5.2021
3 L’Europa incontra Biden, ispionline.it, 10.6.2021
4 Airbus-Boeing. Usa e Ue siglano la pace dopo 17 anni, ilsole24ore.it, 15.6.2021
5 Offerta Usa per risolvere la disputa con Ue su dazi acciaio, ansa.it, 10.9.2021
6 Il Senato degli Stati uniti ha approvato un piano di investimenti da centinaia di miliardi di dollari per contrastare l’ascesa tecnologica della Cina, ilpost.it, 9.6.2021
7 G. Zapponini, La repressione cinese ai danni delle grandi aziende tecnologiche si è tradotta per il Dragone in perdita di investimenti, Ipo saltate e fatturati polverizzati. E ora anche Tencent delocalizza. Intanto gli Usa provano a bloccare l’acquisizione cinese della coreana Magnachip Semiconductor, formiche.net, 2.9.2021
8 C. Meoni, Soros contro BlackRock, gli investimenti in Cina sono un grande errore, ilgiornale.it, 8.9.2021
9 G7. La Risposta alla Via della Seta sarà il B3W, notiziegeopolitiche.net, 12.6.2021
10 Taiwan e cooperazione navale al centro del vertice Quad, analisidifesa.it, 14.8.2021
11 Liu Xuanzun, Pla on alert holds drills amid US Taiwan straits transit of Us warship, globaltimes.cn, 28.8.2021
12 Taiwan e cooperazione navale al centro del vertice Quad, analisidifesa.it, 14.8.2021
13 vedi Antitesi n. 9 pp. 50-51
14 A. de Sanctis, La Germania nell’Indo-Pacifico, l’opposizione bielorussa e altre notizie interessanti, limesonline.it, 3.8.2021
15 I paesi aderenti a questo trattato (Indonesia, Filippine, Malesia, Singapore, Thailandia, Brunei, Myanmar, Laos e Cambogia) hanno fortissimi legami economici di import-export con la Cina, ma alcuni di essi non gradiscono la forte presenza militare della marina cinese nelle acque del Mar Cinese Meridionale ed hanno dei contenziosi, il Vietnam in particolare, in merito alla sovranità delle acque territoriali.
16 M. Lupis, Kamala Harris contro il bullo cinese, a difesa degli alleati del sudest asiatico, huffingtonpost.it, 24.8.2021
17 M. Dinucci, Joe Biden apprendista stregone nucleare, voltaire.net, 21.9.2021
18 vedi machette Biden in Africa
19 F. Verde, 100 anni PCC, Xi:”Chiunque proverà a sottometterci si romperà la testa sulla Grande Muraglia”, lantidiplomatico.it, 1.7.2021
20 M. Lupis, Un tunnel faraonico della Cina per “incatenare” Taiwan, huffingtonpost.it, 3.9.2021
21 S. Pioppi, Centinaia di silos per missili nucleari. Così la Cina preoccupa gli Usa, formiche.net, 2.8.2021
22 S. Barlochetti, La marina cinese supera quella Usa (e lo dicono gli americani), panorama.it, 27.8.2021
23 Chen Xiangmiao, US and its puppets’ reaction to China’s Maritime Traffic Safety Law reflects their supremacy mind-set, globaltimes.cn, 6.9.2021
24 Come è andato il primo incontro fra Joe Biden e Vladimir Putin, ilsole24ore.it, 17.6.2021
25 Nei vertici del giugno scorso la Germania ha avuto l’avvallo statunitense sul completamento del gasdotto Nord Stream 2 irritando i governi degli Stati baltici, della Polonia e dell’Ucraina che vedono nel gasdotto una violazione della propria sicurezza nazionale a vantaggio del vicino russo.
26 La Sco è una organizzazione intergovernativa fondata a Shangai nel 2001 che tra i suoi scopi ha quello di incrementare la cooperazione e l’integrazione negli ambiti economico e di sicurezza. Comprende Cina, Russia, India, Kazakistan, Kirghizistan, Pakistan, Tagikistan e Uzbekistan. Quattro stati sono osservatori interessati ad aderire a pieno titolo: Afghanistan, Bielorussia, Iran e Mongolia. Sei stati sono partner del dialogo: Armenia, Azerbaigian, Cambogia, Nepal, Sri Lanka e Turchia.
27 Limes 6/2021, Se crolla la Russia, p. 109
28 Ibidem, p. 25
29 Russia’s Gazprom Neft moves to yuan in fuelling planes in China, reuters.com 3.9.2021
30 vedi in questo numero alla voce del glossario Denaro mondiale, p. XX
31 Ucraina: Zelensky a Washington teme l’effetto Afghanistan, ispionline.it, 1.9.2021
32 vedi machette Non proprio un cortile di casa
33 Sulla Resistenza palestinese vedi Note di fase primavera 2021, della redazione di Antitesi, tazebao.org, 25.6.2021
34 C. Paudice, Perché gli Usa non sono riusciti a sfruttare le miniere afghane, huffingtonpost.it, 24.8.2021
35 Il capo dell’Aiea a Teheran, accordo su alcune modalità di sorveglianza del programma nucleare iraniano, repubblica.it, 12.9.2021
36 Siria: attacco israeliano presso Damasco, contraerea replica, ansa.it, 3.9.2021
37 D. Raineri, Israele ha attaccato un altro sito atomico in Iran, ilfoglio.it, 8.7.2021
38 Sulla questione dei giacimenti nel mar Egeo e le rivendicazioni turche vedi articolo successivo Di chi è il mare nostrum? a p. XX
39 Turchia verso il dopo Erdogan, realpolitik Nato-Usa e il despota utile, remocontro.it, 15.6.2021
Biden in Africa
L’impronta del multilateralismo e della ricerca di accordi di alleanza e di cooperazione sembra guidare la politica dell’imperialismo Usa, con Biden presidente, anche nel continente africano, per contrastare la politica del governo cinese in un’area in cui vi sono fortissimi interventi e investimenti economici dello stesso. Nell’ottica di destinare maggiori risorse nella competizione con il rivale cinese, il nuovo indirizzo dell’imperialismo Usa vuole favorire accordi di cooperazione con diversi stati africani, incentivandone il commercio, sostenendo la zona di libero scambio denominata African continental free trade area, volendosi proporre come partner privilegiato degli Stati africani, rispetto all’imperialismo cinese.
Per quanto riguarda il rapporto con la Libia, paese strategico nel quadrante africano, la politica del presidente Usa sembra in discontinuità nei confronti della precedente politica trumpiana. In questo paese, dall’assalto al consolato di Bengasi che ha visto l’uccisione del console statunitense nel 2012, è assente una rappresentanza diplomatica Usa e sono in corso trattative per la riapertura di una ambasciata a Tripoli. Questa necessità di costituire una rappresentanza sul campo è determinata dalle diverse condizioni che si sono attuate nel campo libico a seguito del cessate il fuoco dell’ottobre 2020 e del prospettato ritiro delle forze mercenarie dal teatro libico, presenti in funzione di controllo delle azioni della Russia e della Turchia protagoniste nel campo a sostegno di fazioni opposte (la Cirenaica di Haftar per la Russia, Al Seraj prima ed ora Abdul Hamid Dbeiba per la Turchia). È chiaro che gli Usa puntano ad avere un ruolo di primo piano nella ricomposizione della Libia pacificata, pur essendo stati ai margini del conflitto scoppiato dopo l’aggressione della Nato nel 2011.
Non proprio un cortile di casa
La politica dell’imperialismo Usa capeggiato da Biden nel continente sudamericano è stata caratterizzata, nel luglio scorso, dai tentativi di destabilizzazione del governo cubano. L’embargo pluridecennale, in piena continuità con tutte le amministrazioni Usa succedutesi negli anni, imposto dagli Usa al popolo cubano e le azioni con i governi di Brasile e Colombia per interrompere i rapporti commerciali con l’isola, sono condizioni determinanti per la situazione di difficoltà in cui vive il popolo cubano. Con l’embargo statunitense vi è il divieto per le società Usa di commerciare con Cuba ed è possibile l’utilizzo di azioni legali nei confronti di imprese straniere che intrattengono relazioni economiche con il governo cubano. Si determina così una situazione di difficoltà economica sulla quale il governo imperialista Usa ha cercato di costruire forme di protesta all’interno dell’isola, rilanciandole a livello internazionale con una attiva propaganda sui media e sui social, nello spazio pubblico digitale. Manifestazioni di protesta che però si sono esaurite in pochi giorni grazie alla mobilitazione del popolo cubano a difesa delle conquiste della Rivoluzione, con manifestazioni a L’Avana di centinaia di migliaia di persone.
In Venezuela, paese che da anni sta attuando un processo di indipendenza dalle interferenze dell’imperialismo Usa, inaugurato dalla presidenza di Chavez, falliti i tentativi di destabilizzazione degli anni passati che puntavano sul cavallo Guaidò, servo degli Usa, la politica del governo Biden sembra essere indirizzata ad un cambiamento, con una flessibilizzazione su alcune sanzioni imposte dal governo di Trump. In questo, è aiutato dall’attuale linea del governo venezuelano che, come denuncia il Partito Comunista Venezuelano, con gli “accordi del dialogo” che si sono tenuti in Messico lo scorso settembre con le forze dell’opposizione filostatunitense, sta attuando un programma di privatizzazioni, di liberalizzazione dei prezzi, congelamento dei salari operai, deregolamentazione delle leggi sul lavoro e di consegna delle risorse e delle ricchezze del paese al capitale monopolistico. Questo succede tramite le cosiddette leggi “anti-bloqueo”, la legge delle zone economiche speciali in cui sono investiti capitali privati e con l’intenzione di riformare la legge di nazionalizzazione degli idrocarburi. Inoltre, negli incontri messicani si sono presi dei provvedimenti per accedere ai diritti di prelievo del Fmi, riportando il paese sudamericano nel circuito finanziario egemonizzato da Washington. Tutto ciò si pone in contraddizione con lo sviluppo del processo di autonomia dagli Usa e di emancipazione delle masse popolari.
In Colombia, il popolo alla fine d’aprile scorso si è mobilitato contro il progetto del governo di Ivan Duque di riforma tributaria che aveva la diretta conseguenza di aumentare le tasse sui beni di prima necessità. Le masse hanno resistito all’attacco governativo con scioperi che si sono protratti dal 28 aprile al 2 maggio, costringendo il capo del governo al ritiro del progetto di legge di riforma tributaria. Centinaia di migliaia sono scesi in strada nelle principali città colombiane, da Bogotà a Cali, da Medellin a Cartagena, scontrandosi con le forze di polizia colombiane, addestrate da anni da istruttori militari statunitensi e britannici, responsabili dell’uccisione di 39 manifestanti.