Antitesi n.10Sfruttamento e crisi

Sull’orlo del precipizio

Una situazione sociale potenzialmente esplosiva

“Sfruttamento e crisi” da Antitesi n.10 – pag.5


Crisi, nuova ondata, nuovo lockdown

Dopo il grande baratro della primavera del 2020, vi era chi, a livello di mass media borghesi, aveva parlato di ripresa economica. Ovviamente, di fronte ad un Pil in caduta libera del 13% nel terzo trimestre, cioè avendo toccato il fondo dell’abisso durante il lockdown primaverile, non si poteva che risalire. La crescita del 16% nel terzo trimestre, dopo lo sblocco di metà maggio, fisiologica vista la caduta, aveva già prodotto qualche urlo di soddisfazione dei propagandisti del sistema.

Ma la seconda ondata di diffusione del virus, iniziata con l’autunno 2020, ha tappato le bocche degli ottimisti di professione. Il crollo del Pil nel quarto trimestre è stimato ora tra il 3 e l’8%, arrivando così complessivamente ad una chiusura del 2020 a quota meno 8,9%, con punte più alte nelle regioni meridionali. Già prima della seconda ondata e del relativo semi-lockdown i dati forniti dall’Istat erano impietosi, pesando sopratutto la perdita di consumi e degli investimenti fissi lordi, entrambi diminuiti attorno al 10%, delle esportazioni di beni e servizi, del valore aggiunto manifatturiero, del commercio, dei trasporti, del turismo, attestati tutti attorno a meno 16%, delle attività professionali, artistiche, scientifiche, di cultura e spettacolo, discese di una quota superiore al 10%. Secondo Confcommercio, il 2020 si chiudeva con 305 mila imprese in meno, 200 mila partite Iva di lavoratori autonomi chiuse e con un crollo dei consumi stimato in 120 miliardi di euro.

La crisi sanitaria è il prodotto del processo di smantellamento e saccheggio della sanità pubblica operata dai governi e dalle autorità regionali, acceleratosi negli ultimi anni, il quale ha seguito il corso della crisi economica capitalistica, con la necessità da un lato di spendere di meno laddove non vi sia produttività di plusvalore (leggi sanità pubblica garantita) e dall’altro di aprire più spazi al rastrellamento di plusvalore nella white economy sanitaria1, a beneficio dei grandi gruppi privati e delle consorterie politiche ad essi legati. Quindi, la crisi sanitaria è frutto a sua volta della crisi economica di sovrapproduzione di capitali che, a partire dall’inizio degli anni settanta del secolo scorso affligge, con diverse e sempre più pesanti manifestazioni, il capitalismo globale, ovvero la cosiddetta Lunga Depressione. Più la sanità è stata indebolita dalle politiche di saccheggio, più i governi, quello italiano in primis, hanno dovuto contenere la diffusione del contagio con misure di pressione sui rapporti economici e sociali, determinando così inevitabilmente un’ulteriore appesantirsi della crisi.

Senza contare le contraddizioni evidenti sul piano della razionalizzazione dell’emergenza sanitaria nei diversi settori cioè scuola, lavoro, trasporti… Qui la regolamentazione collettiva a scopo preventivo ha evidenziato un fallimento generalizzato dei poteri istituzionali, anche in questo caso per i tagli e il depotenziamento dei servizi, per il pesare degli interessi capitalistici privati indisponibili a smuoversi senza tornaconti di profitto (pensiamo alle aziende di trasposto municipalizzate), per il generale abbandono al quale il settore pubblico è stato condannato nei decenni della crisi, proporzionale all’arroganza e allo strapotere del grande capitale.

I problemi che l’epidemia ha nuovamente mostrato sono innanzitutto quelli delle carenze e dell’anzianità dell’organico, nonché l’insufficienza di spazi (le cosiddette “classi pollaio”) la mancanza di assistenza sanitaria all’interno degli istituti e l’inadeguato sistema dei trasporti. Tutte questioni che l’esecutivo e le regioni non hanno saputo affrontare, concentrandosi su modalità di gestione della vita scolastica all’insegna del gretto emergenzialismo, se non del terrorismo sanitario vero e proprio, con mascherine onnipresenti, divieti di mobilità interna agli istituti, tragicomici banchi a rotelle, disposizioni su isolamento e tamponi per i bambini anche per una semplice tosse, messa al bando di alcune materie dove prevale il contatto e la socialità come la ginnastica e la musica. Quando in autunno sono saliti i contagi, le scuole sono state messe subito all’indice, con le superiori costrette alla didattica a distanza ovunque, ugualmente le medie nelle regioni arancioni, per arrivare poi al caso estremo della Campania dell’ignobile De Luca, che ne ha disposto a metà ottobre la chiusura totale, per poi aprire solo asili e prima elementare. Si è disposta inoltre la chiusura, con decisione governativa, di tutti gli istituti universitari. Tutto ciò senza nessuna evidenza che l’ambiente scolastico e universitario in sé facilitasse la veicolazione del virus, a differenza dei luoghi di lavoro, specie quelli di massa come fabbriche e cantieri.

La gestione dell’epidemia rispetto alla scuola e all’università ha evidenziato ancora una volta come vi sia la tendenza, nella crisi del capitalismo, da parte dei governi borghesi a considerarla di fatto come una spesa improduttiva, dove parcheggiare i giovani e su cui risparmiare il più possibile. Pertanto, se adesso si parla di rilancio della scuola, per governo e padroni si tratta di renderlo strettamente aderente agli interessi del capitale, funzionalizzando in tal senso anche quanto messo in campo nei periodi di lockdown.

Il governo Conte bis aveva, infatti, confermato ulteriormente, con la seconda ondata, la sua direttrice di classe: difendere gli interessi economici del “sistema paese” difronte all’emergenza sanitaria, al fine di tutelare la continuità produttiva del grande capitale, mentre il resto poteva essere considerato sacrificabile. Se tale direttrice è stata la principale, secondariamente è stato importante per la cricca di Conte gestire le contraddizioni della crisi sanitaria e di quella economico-sociale nei termini del loro contenimento e ottundimento, attraverso misure che ne diminuiscano, quantomeno temporaneamente, le conseguenze. In tale maniera, il vecchio esecutivo ha messo in campo politiche di gestione dell’epidemia e della crisi volte a mantenere una “tenuta sociale”, posta a dura prova dal procedere di entrambe, puntando non solo, dunque, a rappresentare gli interessi del grande capitale, ma alla conservazione dell’egemonia sulle masse popolari e alla stabilità e continuità generale del sistema capitalista. Questa funzione politica generale che lo Stato borghese deve mettere in campo è, nel concreto di questi mesi, arrivata a contraddizione anche con le pressioni degli interessi più immediati della classe dominante, e di suoi settori in particolare, come Confindustria, ad esempio sul blocco dei licenziamenti, sui sussidi dispensati, sulle chiusure che limitano i consumi… Ed è da tale contraddizione che è venuta ad originarsi la crisi del governo Conte bis, poi esplosa definitivamente sulla gestione del recovery fund, con Renzi che si è fatto grimaldello politico degli interessi di Confindustria. Per la soluzione di questa crisi si è resa necessaria la scesa in campo diretta dell’oligarchia finanziaria, ben rappresentata da Mario Draghi, con l’obiettivo di definire un piano più avanzato di mediazione, su cui rideterminare un nuovo compromesso tra gli interessi delle diverse componenti borghesi, a partire dalla riaffermazione del predominio di quelli della sua sezione dominante finanziaria ed “europea”.

Conseguenze della “crisi sanitaria”

L’azione del governo Conte bis e delle altre istituzioni, come le Regioni, da cui dipende la sanità dopo la controriforma costituzionale del 2001, si era già rivelata fallimentare innanzitutto dal punto di vista sanitario, tanto che il nostro paese è ai vertici delle classifiche per i morti da Covid19. La sanità, minata dalle carenze strutturali radicatesi con i tagli operati nei decenni precedenti, durante il periodo estivo di minore diffusione del virus non è stata assolutamente adeguata alla prospettiva di una seconda ondata. I capitali ottenuti con la crescita esponenziale del debito pubblico sono stati spalmanti su pochi interventi, superficiali e insufficienti in ambito sanitario, e su molte misure di contenimento sociale della crisi.

Basti vedere che, se le terapie intensive all’inizio della prima ondata erano 5179, ad ottobre si era arrivati ad un numero di 6458, nonostante secondo i piani governativi il numero avrebbe dovuto essere 8500. Numeri che, inoltre, devono essere rapportati alla dimensione di un sistema sanitario regionalizzato, con squilibri pesantissimi a danno dei territori più poveri, soprattutto il Sud, che, a differenza della primavera scorsa, ha visto una pesante diffusione dell’epidemia. Ad esempio, la Campania conta circa la metà delle terapie intensive del Veneto, pur avendo un milione di abitanti in più. Senza parlare poi dei milioni di malati di altre patologie che hanno trovato le porte chiuse a causa delle scarse risorse sanitarie, tutte concentrate sull’epidemia Covid19, costretti ad indebitarsi per cure private o semplicemente abbandonati al proprio destino.

Arrivata la stagione autunnale quando inevitabilmente l’epidemia è ripresa, il governo, che già a primavera si era schierato sostanzialmente con Confindustria sulla continuità della produzione nelle fabbriche e negli altri luoghi di lavoro di massa, ha nuovamente giocato la carta della limitazione della circolazione della popolazione (i vari divieti legati al colore delle regioni) nonché si è accanito sul piccolo commercio e sulla ristorazione, facendo una scelta di classe sul come e dove incidere per rendere più rarefatti i rapporti sociali e dunque le possibilità di contagio. D’altronde colpire direttamente il medio, piccolo e piccolissimo capitale, legato a tali settori, consente di garantire comunque una continuità produttiva più ampia a livello generale, quella beninteso del grande capitale industriale, attutendo comunque la caduta della produzione per quanto possibile e relegandola a settori evidentemente sacrificabili, se non proprio sostituibili dallo sviluppo feroce del commercio elettronico e della new economy in generale, i cui monopoli stanno moltiplicando in maniera esponenziale i profitti dall’inizio della pandemia e dei vari confinamenti di massa.

Con le chiusure e le limitazioni agli spostamenti decisi dal governo e, in parte, dalle Regioni, bar, ristoranti, negozi, palestre ed alberghi si sono ritrovati nuovamente a pagare un prezzo fortissimo nella situazione presente, tanto che si stimano chiusure nel prossimo periodo per 60 mila attività, con 350 mila posti a rischio. E, dietro ogni padroncino colpito, ovviamente, vi stanno i dipendenti, quelli a tempo indeterminato, e soprattutto quelli a tempo determinato o in nero. Il lavoro precario nel settore della ristorazione, della cultura e dello sport incide per il 57% degli addetti, molto di più rispetto ad altri settori.

Ed è su precari e lavoratori in nero che il prezzo del lockdown governativo va a incidere più pesantemente, in quanto non tutelati in nessuna maniera ed espulsi dai posti di lavoro al primo agitar di Dpcm. Secondo alcune stime sono già 5 milioni i lavoratori in nero in meno nel corso di quest’anno e già nel secondo trimestre, mentre qualcuno ai piani alti parlava di ripresa, venivano persi un milione e 112 mila posti di lavoro temporaneo.

Per il resto, nella stragrande maggioranza delle imprese, vigendo attualmente il cosiddetto blocco dei licenziamenti, la crisi è stata finora gestita con la cassa integrazione ordinaria (causale covid) e straordinaria, il che significa, comunque, una perdita di salario stimata, da gennaio a novembre 2020, in media di 5 mila euro a lavoratore. Senza contare i tagli alla tredicesima a dicembre, i casi nei quali i padroni hanno obbligato i dipendenti a lavorare a pieno orario pur dichiarandoli in cassa integrazione e i numerosi casi di cassa integrazione mai pervenuta o pervenuta in grave ritardo. Comunque, i numeri della cassa integrazione parlano chiaro rispetto alla crisi: nel 2020 sono state autorizzate 3,5 miliardi di ore di cassa da parte dell’Inps, contro la già di per sé elevata cifra di 259,6 milioni del 2019. Così come fa testo la diminuzione di 1,2 milioni di nuovi contratti di lavoro, confrontando i dati dei primi mesi del 2019 e dello stesso periodo del 2020, con il crollo dei contratti precari da 2,8 a 1,9 milioni e di quelli fissi di 333 mila unità.

E, rispetto al proletariato e al sottoproletariato, va citato anche il dato del reddito di cittadinanza, con un aumento dei percettori del 25% nel 2020, arrivati a quota 2,8 milioni. Secondo Confcommercio, il 10% dei dipendenti delle piccole e media imprese perderà il posto di lavoro dopo lo sblocco dei licenziamenti.

Altra categoria colpita gravemente dalla crisi è quella del lavoro autonomo, che peraltro in parte è trasversale a quelle già citate della piccola impresa, ma anche del precariato (pensiamo alle false partite Iva con cui si maschera un lavoro sostanzialmente dipendente). Si calcola che, tra gli autonomi, circa l’80% abbia avuto perdite rilevanti di reddito nella presente crisi; tra il 2019 e il 2020 vi è già stato un saldo negativo con circa 219 mila partite Iva chiuse.

Il lavoro nel piccolo commercio, nel settore sportivo, turistico della cultura, l’inquadramento con le partite Iva, il precariato e il nero riguardano sopratutto due tipologie sociali: i giovani e le donne proletarie. La crisi ha portato la disoccupazione tra gli under 35 ad una percentuale superiore al 32% e l’indice degli inattivi (coloro che rinunciano sia allo studio che al lavoro e non sono considerati nelle statistiche ufficiali dei disoccupati) è arrivato al 21% tra l’età dei 15 e dei 24 anni. Più della metà, quasi il 56%, dei nuovi disoccupati sono donne: in un solo anno il tasso di occupazione femminile è passato dal 56,8% al 53%, tornando indietro di circa un decennio. Tra il secondo trimestre del 2019 e lo stesso periodo di quest’anno, 470 mila donne hanno perso il posto di lavoro, di cui 327 mila erano già precarie, mentre sono circa 707 mila le donne in più, soprattutto in età giovanile, che risultano dalle statistiche ufficiali aver abbandonato sia l’attività di studio che di ricerca e di lavoro. Solo nel mese di dicembre 2020, su 101 mila disoccupati in più, 99 mila risultavano essere donne. Tutto ciò al netto delle altre conseguenze sociali che la situazione di lockdown determina generalmente per le donne, soprattutto proletarie: aumento del carico di lavoro domestico e di assistenza ai figli, legato anche alla chiusura delle scuole, nonché delle violenze intrafamiliari, con il pesantissimo dato del triplicarsi degli omicidi patriarcali da parte di mariti, fidanzati, ex… Senza contare le difficoltà enormi e frustranti che si sono trovate davanti in questo periodo le donne che dovevano abortire, visto che all’altissimo numero di cosiddetti “obiettori”, si sono aggiunti i reparti chiusi, medici non disponibili e i rifiuti per la positività al tampone.

La questione sociale

Quanto detto finora ci fa capire l’esplosione, da Sud a Nord del paese, della mobilitazione popolare per le nuove misure di chiusura, confinamento e blocco della circolazione decise dal governo Conte bis a fine ottobre. Il governo Conte si è trovato così costretto a varare misure di contenimento delle conseguenze sociali della crisi, come il blocco dei licenziamenti fino al 31 marzo 2021, limitato alle imprese che si servano della cassa integrazione Covid e in altri casi parziali, il blocco degli sfratti anche per gli immobili a scopo non abitativo, per evitare la cacciata in massa delle piccole attività dai fori commerciali, spesso in mano alla grande borghesia immobiliarista, nonché il blocco delle cartelle esattoriali fino al 28 febbraio. Per il resto, hanno prevalso le misure dei sussidi rivolte alle categorie imprenditoriali colpite dai provvedimenti governativi (i cosiddetti ristori) e in maniera più debole nei confronti dei proletari, come ad esempio il reddito di emergenza e il bonus spesa, nonché altri vari bonus, destinati a transitare nelle tasche delle masse per defluire a sostegno del capitale commerciale, bancario e finanziario. Si pensi ad esempio alla tanto strombazzata operazione “cash back”. Essa consente la restituzione di parte della spesa per taluni acquisti compiuti con carte di credito e bancomat, a favore della rendita delle banche e del controllo dei flussi di denaro, determinando maggiore tracciabilità delle transazioni, in tempi nei quali si dovrà rastrellare fino all’ultimo centesimo di quanto fiscalmente dovuto, colpendo ovviamente in primis la piccola e la media borghesia.

Le dimensioni della politica di sussidi svolta dal governo, e in parte dalle Regioni, rendono l’idea della vastità della crisi e della necessità per l’esecutivo di correre ai ripari di fronte al procedere della crisi, per evitare scoppi di malessere e rabbia sociale. A ottobre, i sussidi erogati dall’Inps riguardavano più di 14 milioni di beneficiari, con una spesa superiore ai 26 miliardi di euro, dunque con un quarto della popolazione assegnatario di circa 2 mila euro a testa. Misure peraltro giudicate insufficienti da più dell’80% degli imprenditori e dei lavori autonomi. In ogni caso, appare evidente la scelta dell’esecutivo di tendere a utilizzare la leva del sostegno pubblico a favore della media e piccola borghesia, da un lato per accompagnarne il declino senza troppo trambusto sociale, e dall’altro per tentare di salvare, almeno parzialmente, quel ruolo di collante economico-sociale egemonico per la grande borghesia imperialista, che le classi intermedie dovrebbero da sempre essere chiamate a svolgere2.

La legge di bilancio da 40 miliardi approvata a dicembre ha confermato questa linea della dispensazione di sussidi rispetto al cosiddetto ceto medio, con la previsione di una parziale copertura pubblica dei contributi da versare per l’anno venturo, l’introduzione di una sorta di minima cassa integrazione per le partite Iva, oltre che una pioggia di bonus a vantaggio del capitale commerciale (il cosiddetto rilancio dei consumi), il taglio del cuneo fiscale sui salari e la decontribuzione sui dipendenti dei padroni che investono al Sud.

Anche la previsione dell’assunzione di personale sanitario, prevista nella finanziaria, appare del tutto in ritardo rispetto agli sviluppi drammatici della situazione, funzionale solo a condurre una campagna vaccinale tanto piena di incognite quanto “blindata” nel dibattito pubblico e gestita manu militari. Per giunta, solo per una stretta minoranza dei nuovi assunti veniva previsto il contratto a tempo indeterminato, in una sorta di “usa e getta” per l’emergenza, anzi per le vaccinazioni di massa.

Il keynesismo di Conte

L’intervento pubblico per far fronte alla crisi e soprattutto alla moria di imprese, con le potenziali conseguenze sociali, anche quella dello sviluppo della lotta di classe, si è concretizzato anche in altre forme. Il governo Conte bis, tramite l’agenzia Invitalia3, ha già messo sul piatto 300 milioni per l’entrata di capitale pubblico nelle “imprese storiche a rischio fallimento” e si parla a proposito di “Stato azionista”, formula lanciata dal precedente esecutivo anche prima dello sviluppo dell’epidemia e al conseguente precipitare di una crisi evidentemente già in atto4. In particolare, va segnalata l’entrata del ministero dell’economia, attraverso la società Invitalia, nel capitale di Am InvestCo, ovverosia della controllata della multinazionale ArcelorMittal, attuale gestore degli stabilimenti ex Ilva in Italia. Cassa Depositi e Prestiti, altra longa manus dell’intervento del governo sul piano finanziario, si sta muovendo su tutta una serie di settori, dalle autostrade allo sviluppo della banda ultra larga.

Tra cassa integrazione, sussidi, decontribuzioni e intervento statale a livello finanziario, possiamo renderci conto che la linea keynesiana5 praticata dal governo Conte bis e dalle istituzioni italiane rispetto alla crisi ha assunto dimensioni via via più gravose per la spesa pubblica e il bilancio nazionale.

Ed infatti il debito pubblico6 italiano a maggio si posizionava circa al 160% del Pil e ad ottobre risultava già giunto alla cifra di 2587 miliardi, con un aumento di più di 190 miliardi rispetto al 2019, a causa dei titoli emessi per pagare le somme stanziate nei provvedimenti per affrontare la crisi. Una cifra che, in tempi normali, avrebbe portato al fallimento finanziario o quantomeno a misure capestro da parte dell’Unione Europea. Del resto, quest’ultima, coerentemente alla sua natura di aggregato imperialista-finanziario, con le misure come il recovery fund (chiamato dalla commissione Ue anche Fondo Next Generation Ue) e con l’adesione eventuale al nuovo Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes), non farà che accentuare l’indebitamento pubblico italiano.

Ue e recovery fund

Uno dei leit motiv che ha contrassegnato la propaganda governativa è stato quella dei “soldi che l’Ue ci dovrà dare” e cioè del recovery fund e del Mes, la cui rilevanza è stata messa in luce anche dalle contraddizioni all’interno dei partiti sull’adesione e la gestione di tali risorse finanziarie.

A dicembre, il consiglio dell’Ue, l’organo intergovernativo che riunisce i capi di Stato e i rappresentanti degli esecutivi nazionali, ha approvato il bilancio dell’Unione e con esso gli stanziamenti del recovery fund.

L’approvazione è anche il frutto del superamento del veto posto dai governi di Ungheria e Polonia, che si erano opposti alla condizionalità dell’erogazione del recovery fund sulla base del rispetto dello stato di diritto sul fronte interno. Si trattava di una clausola inserita su volontà della presidenza tedesca dell’Ue, della commissione e del parlamento, volta a tenere al guinzaglio i governi nazionali con la solita retorica strumentale dei “diritti fondamentali e umani”, da sempre dispensata a piene mani quando si tratta di giustificare ingerenze politiche e guerre imperialiste.

L’Ungheria e la Polonia, paesi cosiddetti “sovranisti” con governi sfacciatamente reazionari e facilmente accusabili di violazioni di diritti, avevano capito di essere nel mirino della suddetta clausola. Da tempo Bruxelles utilizza la carta propagandistica delle accuse di violazione dello stato di diritto contro due governi non perfettamente allineati alle politiche europee, nei termini soprattutto della collocazione internazionale, anche se da punti di vista diversi e contrapposti.

Orban è pericolosamente orientato verso la Russia e aperto anche alla Cina, il che lo ha portato, a primavera, a indebitarsi per oltre due miliardi di dollari con la banca cinese Exim, per l’ammodernamento della linea ferroviaria Belgrado-Budapest, integrando l’Ungheria nel progetto della “nuova via della seta” cinese. Il governo polacco è invece strettamente organico alle strategie Usa, in chiave antirussa e alternative all’egemonia tedesca sul vecchio continente.

Budapest e Varsavia hanno capito che la clausola sullo stato di diritto era una spada di Damocle sulla loro testa più che su ogni altro paese aggregato all’Ue e hanno posto il veto su una procedura di erogazione del recovery fund così condizionata. Il veto, alla fine, è saltato grazie ad un compromesso che lega l’interpretazione della violazione o meno dello stato di diritto, e dunque il blocco dei finanziamenti, ad un pronunciamento della corte di giustizia dell’Ue, quindi appesantendo l’eventuale procedura di un controllo giudiziario e non più esclusivamente da parte di organi politici. Ovviamente, in questi casi, tutte le parti hanno cantato vittoria, ma a pesare è stata sicuramente la mediazione della Germania. Quest’ultima è intervenuta in qualità di esercitante la presidenza di turno dell’Ue, ma sopratutto in virtù del suo ruolo di potenza economica egemone nell’economia di Ungheria e Polonia, unita all’ambiguità oggettiva dei governi “sovranisti”, che sgomitano per nuovi spazi per il loro capitalismo nazionale, approfittando delle contraddizioni internazionali, ma restano fortemente avviluppati dai tentacoli dell’imperialismo tedesco dopo la caduta dei regimi socialisti. Come in molte altre diatribe politiche a livello internazionale, non sono infine mancate le pressioni “indirette” degli scandali giudiziari e d’immagine, come avvenuto con la ridicola storia di Jozsef Szaier, eurodeputato del partito di Orban, noto per le sue posizioni cristiano-integraliste ed omofobe, beccato, guarda caso durante la fase più concitata della trattativa, dalla polizia belga mentre scappava a Bruxelles da una festa gay a sfondo di sesso e droga, vietata dalla normativa anti-covid, alla quale peraltro partecipavano anche diplomatici polacchi. Insomma, il solito scandalo, sintesi in questo caso dell’ipocrisia del bigottismo dei fascisti e dell’interesse a farli emergere ad orologeria, che copre le reali contraddizioni politiche. In Italia ne sappiamo qualcosa…

Il recovery fund si caratterizza per essere il maggior intervento finanziario in funzione anti-crisi nella storia dell’Ue, in continuità con le politiche keynesiane del quantitative easing, volute dalla banca centrale europea, guidata proprio dal neo presidente del consiglio Mario Draghi, successivamente allo scoppio della bolla dei “debiti sovrani” (2010-11). Si tratta in totale di uno stanziamento a livello Ue pari a 750 miliardi di euro, reperito con un fondo costituito pro-quota con versamenti dai singoli Stati aderenti (pagano sempre i popoli insomma), al quale va ad aggiungersi l’emissione di titoli di debito a basso tasso d’interesse da parte dell’Ue, con l’obiettivo di rastrellare capitali sui mercati e garantire centralmente i finanziamenti ai singoli paesi. Dei 750 miliardi di euro, 390 dovrebbero essere distribuiti, ai paesi aderenti, a “fondo perduto” e 360 a prestito.

Non si tratta di un passaggio trascurabile negli assetti finanziari europei, poiché per la prima volta l’Ue, travolta come non mai dalla crisi, decide di farsi carico direttamente dell’indebitamento e delle relative misure finanziarie volte, nella strategia degli imperialisti, a porsi in controtendenza al dissesto dei bilanci pubblici e all’erosione della valorizzazione capitalistica. Tale erogazione è stata legata al bilancio 2021-2027, con partenza nel secondo trimestre del 2021.

Italia e recovery fund

Per quanto riguarda l’Italia, il recovery fund dovrebbe consistere in circa in 81 miliardi a “fondo perduto” e 127 in prestiti. Essendo contributore per 12 miliardi all’anno del bilancio Ue, basta fare un piccolo calcolo per capire come, nei sette anni, le finanze pubbliche italiane saranno coinvolte in meccanismo che, in ogni caso, porterà maggiori uscite delle entrate, alla faccia della cosiddetta “svolta dell’Europa”. Senza parlare dei 127 miliardi di debiti che, in quanto tali, peseranno inevitabilmente come un ulteriore capestro sulle finanze pubbliche, con un’ulteriore spinta da parte dei governi e delle classi dominanti a farne pagare il costo ai lavoratori e alle masse popolari. A tali risorse vanno aggiunti circa 14 miliardi del Fondo sviluppo e coesione che, in teoria, dovrebbero essere spesi nelle regioni meridionali.

Per valutare l’impatto finanziario reale del recovery, questione rilevante è il gioco delle tre carte che il governo Conte bis ha praticato tra “debito sovrano” e debito verso l’Europa. Circa 88 miliardi di prestiti da parte dell’Europa saranno, infatti, esclusivamente sostitutivi di prestiti già contratti dallo Stato italiano con l’emissione di titoli del tesoro. Ciò avviene non solo poiché i tassi di interesse consentiti dall’Ue risultano comunque convenienti rispetto a quelli del mercato tradizionale, ma anche e sopratutto poiché la somma del debito già contratto e di quello derivato dal recovery fund avrebbe rappresentato un peso finanziario insostenibile per le finanze italiane. Parte della grande manovra sul recovery fund si rivela semplicemente come un passaggio di consegna tra creditori, delineandosi così un ridimensionamento complessivo della portata reale del “sostegno alla crescita” che effettivamente i rubinetti aperti dell’Ue consentiranno. Tanto che, nella Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza 2020, si stima semplicemente una crescita del Pil dello 0,3% nel 2021 grazie alle risorse del recovery, in linea con manovre, stanziamenti e relativi scostamenti di bilancio effettuati esclusivamente sul piano nazionale, senza scomodare l’Ue.

Per quanto riguarda, nello specifico, le erogazioni a cosiddetto fondo perduto, oltre che costituire una truffa in termini di uscite/entrate da e verso Bruxelles, risultano viziate da una condizionalità politica tipica del modus operandi dell’Ue, ovvero l’implementazione di piani di gestione e allocazione finanziaria e in termini di controriforme antiproletarie e antipopolari. Ogni Stato, infatti, per accedere al fondo e alla singola rata di ripartizione temporale della sua erogazione, dovrà presentare e applicare concretamente un piano nazionale, sottoposto al vaglio della commissione, in concorso con il consiglio europeo. L’Ue potrà quindi decidere di confermare o bloccare l’erogazione dei fondi, determinando così un rafforzamento delle istituzioni europee nella tendenza a unificare le politiche e le sorti delle formazioni capitalistiche aderenti, cioè del progetto di un polo imperialista europeo unitario a guida tedesca.

In cosa consistono le valutazioni condizionali all’erogazione del recovery fund da parte della commissione lo possiamo quindi dedurre dalla tradizionale politica di rapina e di usura applicata da sempre dall’Ue, ma anche dall’attualità. Tutta la trattativa sul fondo è stata legata alle famigerate indicazioni di realizzare le “riforme strutturali”, “attuare politiche di competitività”, “ridurre il debito pubblico”, “rendere efficiente il sistema amministrativo e giudiziario”. Formule che da sempre si concretizzano in attacchi alle conquiste e alle condizioni di vita delle masse, in particolare dei lavoratori salariati, aumento del peso fiscale per rastrellare risorse da destinare al capitale finanziario, tagli alla pubblica amministrazione nei termini di diminuzione dei servizi sociali nonché riduzione delle garanzie giuridiche e processuali nel sistema giudiziario, viste come “costi” da risparmiare alla faccia delle menate sull’Europa come “patria del diritto”. Un assaggio in tal senso lo abbiamo avuto a dicembre, nel pieno dell’emergenza Covid19 e dei lockdown nazionali, con le intimazioni della commissione rivolte al governo spagnolo nel procedere a controriforme in materia di lavoro e di pensioni, ma anche nelle continue pressioni sull’Italia rispetto all’aumento vertiginoso del debito pubblico, proprio mentre l’Ue lo sta alimentando. A conferma del fatto che l’archiviazione temporanea dei vincoli di stabilità finanziaria a livello nazionale non significa assolutamente perdita, da parte dell’Ue, del suo ruolo propulsore di misure antipopolari nell’interesse del grande capitale.

Crisi del governo Conte bis

Le risorse del recovery fund, presentate come una sorta di cornucopia finanziaria per far uscire le masse popolari del vecchio continente dalla crisi, oltre ad essere pagate dai popoli stessi con la ricchezza da essi prodotta e con il cappio del debito, andranno nelle tasche dei padroni, attuando nuovamente la formula imperialista “socializzare le perdite e privatizzare i profitti”. Ovviamente, si tratta di un bottino che fa gola a molti e che ha visto i partiti della maggioranza parlamentare accapigliarsi per prenderne una fetta, ognuno in rappresentanza di diverse fazioni capitalistiche e burocratiche. Tali diatribe si sono via via aggravate quando venivano rese note le voci di spesa e i progetti indicati nella bozza di recovery plan approntato dal governo Conte biscioè del documento che puntualizzava i capitoli e i progetti di spesa dei capitali del recovey fund. Fu immediatamente chiaro l’intento per ciascuno dei partiti della maggioranza di spartirsi il bottino europeo, ognuno a favore degli interessi e delle consorterie borghesi a cui sono più strettamente legati.

A fine novembre, Conte annunciava una cabina di regia per stilare ed implementare il recovery plan ovvero il piano per allocare e investire i finanziamenti europei del recovery fund; una sorta di comitato ristretto, con il dichiarato coinvolgimento di ministri del Pd e dei 5 Stelle, come Gualtieri, dell’economia, e Patuanelli, dello sviluppo economico. Una decisione contro la quale si scagliava Italia Viva di Renzi, esclusa dalla spartizione diretta, con l’apertura di una fase di incertezza politica e di tenuta per l’esecutivo, pressato dai partiti di maggioranza, ognuno sulla base delle proprie clientele, e in cerca di protagonismo politico e di ridimensionamento del potere personalistico in mano a Conte.

Oltre al recovery fund, assurgevano ad oggetti del contendere la delega ai servizi segreti, che il presidente del consiglio ha tenuto per sé fino a fine gennaio, e il Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes) a cui i 5 Stelle non volevano aderire a differenza di Pd e Italia Viva.

In questo scontro, Renzi puntava a rappresentare gli interessi di Confindustria e del grande capitale privato, in contrapposizione alla borghesia burocratica7 rappresentata soprattutto da Conte e dai 5 Stelle, diventati organici ai monopoli a capitale statale. In ballo non vi era solo la spartizione del recovery, ma anche la contraddizione tra la linea produttivistica ad ogni costo di Confindustria, quella del “riapriamo tutto, pazienza se qualcuno morirà”, contraria a politiche di sussidio pubblico che non siano a suo favore, incarnata da Renzi e, dall’altra, la linea di contenimento della crisi sanitaria e sociale rappresentata, anche in questo caso, da Conte.

Pur avendo quest’ultimo garantito sempre gli interessi del grande capitale industriale privato, il procedere della crisi ha determinato, dati gli spazi sempre più ristretti per ripartirsi i profitti, il suo spodestamento, in nome di una gestione quantomeno collegiale delle risorse del recovery fund, così come di un’ulteriore ripartizione a loro favore e al superamento progressivo delle misure di contenimento dell’epidemia dannose dal punto di vista della circolazione e valorizzazione dei capitali.

Il 26 gennaio terminava l’esperienza del governo Conte bis, con le dimissioni di colui che era succeduto a sé stesso e, sulla base dell’emergenza del Covid19, è riuscito a determinare la più grave svolta autoritaria nel nostro paese dai tempi del fascismo8.

Tra il 17 e il 18 febbraio, il parlamento votava la fiducia al nuovo governo Draghi, sostenuto dalla quasi totalità dei maggiori partiti borghesi, volto a superare le divisioni intercapitaliste sorte nel governo Conte bis e costituito da una compagine ministeriale di compromesso tra diverse rappresentanze politiche ed esponenti tecnici, perlopiù esponenti provenienti direttamente dal padronato. È risultato evidente inoltre la capacità attrattiva del “bottino europeo” rispetto a tutte le frazioni di classe dominante, tanto da spingere tutti i partiti borghesi, anche la Lega del “sovranista” Salvini, a unirsi nel sostegno a Draghi, come rappresentante del grande capitale finanziario, che dovrebbe fungere da arbitro della spartizione interna e garante rispetto al piano esterno dell’Ue.

La linea dell’Ue sul recovery plan

L’Ue ha posto due vincoli precisi sui recovery plan a livello nazionale: la destinazione del 37% dei capitali alla cosiddetta rivoluzione verde e il 20% alla digitalizzazione.

Dietro la retorica delle formulazioni ufficiali, trattasi di ben inquadrabili interessi e appetiti padronali. Si tratta di priorità e vincoli, imposti dalla stessa Ue, in funzione di gestire la crisi e ristrutturare il capitale. I finanziamenti europei rappresentano, nelle mire del vecchio come del nuovo governo, non solo una socializzazione delle perdite e una privatizzazione dei profitti, ma anche un mezzo di rilancio dei settori strategici a livello economico, attraverso l’intervento diretto dello Stato.

Per quanto riguarda la “rivoluzione verde”, la parte del padrone, letteralmente, la farà il settore industriale, con il rinnovo del capitale fisso dietro la maschera green. Anche l’istituzione del nuovo ministero dell’ambiente, della tutela del territorio e del mare, sulla base del compromesso Draghi-Grillo e assegnato al manager di Leonardo spa Roberto Cingolani, che dovrà gestire la cosiddetta “transizione ecologica”, evidenzia bene l’importanza di tale linea di sviluppo nei piani della borghesia imperialista italiana. Dietro la maschera dell’ecologismo, si conduce un gigantesco processo di modernizzazione della produzione, socializzandone i costi, tagliando i rami secchi e funzionalizzando i diversi settori alla concorrenza internazionale, anche a scopo di protezionismo motivato come “antidumping ambientale”.

Con la digitalizzazione si intende portare a finalizzazione quei processi, di ristrutturazione della pubblica amministrazione e del settore privato, promossi proprio durante il lockdown e cioè smart work per i dipendenti pubblici e gli impiegati nelle imprese private, nonché utilizzo del modello della didattica a distanza in ambito scolastico e universitario, anche venuta meno la cosiddetta emergenza sanitaria. L’obbiettivo principale, in tal senso, è presto detto: risparmiare sulla forza lavoro, tagliare sulla spesa pubblica, che per la classe dominante non è immediatamente produttiva, facendo transitare al digitale servizi e professionalità che prima venivano resi di persona, con necessari investimenti di capitale fisso e maggiori costi di personale (capitale variabile)9. Sostituire la postazione in ufficio, lo sportello pubblico e la lezione in classe o nell’aula universitaria con l’app e lo schermo personale può rappresentare un colpo radicalmente sostanziale al settore pubblico, superfluo per la classe dominante, e ad un’istruzione di massa che va ancora di più piegata unicamente ad esigenze selezionatrici del capitale. Le ricadute in termini peggiorativi per lavoratori, utenti e studenti, chiaramente non interessano a chi siede ai piani alti. Anzi, se con questi mezzi è possibile isolare i lavoratori, escludere fasce di popolazione dalla richiesta di servizi sociali, spezzare la socialità tra studenti, questa digitalizzazione consentirà di raggiungere due piccioni con una fava. Basti vedere come il risparmio padronale per ogni dipendente collocato in smart work sia stato stimato, nel nostro paese, in 10 mila euro l’anno, grazie al taglio di affitti, manutenzioni, pulizia, vigilanza, portierato, parcheggi, mense, pause, linee telefoniche, riscaldamento, energia elettrica, spedizioni, stampe e fotocopie… Tutti costi che il padronato punta o ad annullare o a far ricadere sui lavoratori stessi10.

Altra questione importante in materia di digitalizzazione, indicata come priorità dalla stessa Commissione Ue, è quella del 5G, ovvero delle nuove reti di cosiddetta “quinta generazione” a livello di telefonia mobile e cellulare, la cui distribuzione mondiale è iniziata nel 2019 ed è terreno di scontro tra le grandi potenze, Usa e Cina innanzitutto. Una fetta delle risorse stanziate nel recovery fund sarà inevitabilmente destinata a tale rinnovamento dei canali digitali nazionali, sul quale il precedente governo pose il golden power al momento del suo insediamento, mandando un chiaro segnale di fedeltà a Washington rispetto agli appetiti cinesi, nella fase di transizione tra il governo Conte uno e il governo Conte due.

Il 5G sarà uno dei settori che vedrà investiti capitali di provenienza europea in questa fase. Già attualmente si sta verificando un accapigliarsi delle maggiori multinazionali specializzatesi nelle reti di quinta generazione, come la svedese Ericsson, la finlandese Nokia, le cinesi Huawei e Zte, per dividersi la torta del mercato italiano, al netto del vantaggio (e della preferenza politica) che l’imposizione del golden power sulle telecomunicazioni comporterà per i monopoli a capitale di paesi comunitari, rispetto a quelli extracomunitari ovvero cinesi. Ad ottobre, ad esempio, il governo Conte bis ha bloccato un accordo tra il monopolio italiano della telefonia Fastweb e la cinese Huawei per la fornitura da parte di quest’ultima di apparecchiatura per la realizzazione della rete 5G in Italia, imponendo la diversificazione dei fornitori. Ovviamente, non vi è stato la stessa imposizione rispetto all’accordo tra Tim e la svedese Ericsson, la stessa che si è aggiudicata il 5G in Gran Bretagna, dopo la svolta del governo di Boris Johnson al riguardo. Inoltre, il 5G costituisce un’applicazione dual use, a ricadute sia sul piano civile che militare, prevedendo il lancio nello spazio di 36 satelliti, anche a scopo bellico. Non a caso, Draghi ha nominato ministro dell’innovazione tecnologica e della digitalizzazione Vittorio Colao, ex ufficiale dei carabinieri, ex manager di Vodafone e già membro della task force di Conte per la cosiddetta ricostruzione.

Oltre ad un generico vincolo di destinare le risorse, nei recovery plan, alla “crescita” (che è sempre quella dei profitti dei padroni), un’altra priorità indicata dall’Ue è quella della “coesione sociale”. Con tale voce, si indica ai governi nazionali di spendere quantomeno parte dei fondi europei per politiche di contenimento della crisi e di alleggerimento delle sue conseguenze per le masse popolari. Segno evidente di come anche per l’aggregato imperialista europeo, e non solo a livello di singoli paesi, le conseguenze a lungo termine della fase attuale di aggravamento della crisi fanno paura in termini di tenuta sociale, come hanno anche palesato le mobilitazioni e le sollevazioni popolari in diversi paesi dell’Unione (Olanda, Francia, Germania, Italia…).

Ue o non Ue?

Le ultime vicende politiche interne sono state intrinsecamente legate alle dinamiche europee, a segno del legame sempre più organico tra il capitalismo italiano e l’aggregato imperialista della Ue. Nell’ambito dell’aggravarsi della crisi, la borghesia nostrana ricerca in Bruxelles un collettore e distributore di capitali da valorizzare, a fondo perduto o a debito pubblico, reiterando il meccanismo imperialista della socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti. Flusso di capitali Ue di cui il nuovo governo Draghi è oggi il miglior garante possibile. L’Ue, data per morta all’inizio dell’attuale fase di aggravamento della crisi, ha saputo in realtà riprodursi mediante un ulteriore sviluppo della sua centralizzazione finanziaria, con l’istituzione dei titoli di credito europei (gli eurobond) e con quelle forme di keynesismo continentale che vanno sotto il nome di recovery fund e Mes. Tutti passaggi di tentata gestione finanziaria della crisi che le classi dominanti europee intenderanno far pagare al proletariato e alle masse popolari, mediante lo schema già visto della tenaglia tra istituzioni europee e governi nazionali.

Dunque, l’Ue si conferma essere un nemico di classe da contrastare lottando contro i governi, il padronato e la borghesia imperialista italiana, in quanto integrati nel progetto imperialista Ue e tramite della sua proiezione antiproletaria. Le invocazioni di svolte sovraniste, che svincolino le finanze pubbliche dalla tutela della Ue, o di blocchi intereuropei alternativi all’Ue rispetto alle politiche sociali, appaiono come gli ultimi rifugi teorici di un keynesismo che, parafrasando un famoso articolo di Lenin, o è impossibile o è reazionario11. Impossibile visto la tendenza, confermata nell’attuale fase di crisi, di integrazione finanziaria del capitalismo italiano nell’Ue. Reazionario nel senso che, anche qualora si realizzasse, rappresenterebbe, in ultima analisi, solo un tentativo di ridefinizione del capitalismo su base nazionale e con proiezione imperialista autonoma, come sta avvenendo nell’Inghilterra del dopo Brexit. Ciò non vuol assolutamente dire che il sentimento popolare anti-Ue sia in sé reazionario e non possa avere una funzione progressiva, bensì che è compito dei comunisti dare autonomia politica di classe alla battaglia ideologica e politica contro l’Ue e le classi dominanti che vi fanno riferimento.

La crisi e le contraddizioni interimperialiste

Una delle più rilevanti novità del panorama economico internazionale è rappresentato proprio dall’accordo tra Unione Europea e Cina sugli investimenti, raggiunto a fine a dicembre. Tale atto è volto a ampliare la possibilità di investimento degli imperialisti europei in Cina, in particolare in settori quali la telecomunicazione, la finanza, la sanità, il trasporto aereo e il mercato delle automobili elettriche e ibride, volendo così incentivare un interscambio che ha superato i 477 miliardi di euro nei primi dieci mesi dello scorso anno, pur segnato dall’epidemia.

L’accordo, criticato dagli Usa, costituisce probabilmente uno dei risultati peggiori, seppur indiretto, delle politiche all’insegna dell’America first dell’ex presidente Trump, poiché ha visto i due principali concorrenti commerciali di Washington, colpiti dai dazi della precedente amministrazione repubblicana, decidere di integrare maggiormente le proprie economie, in risposta proprio agli ultimi anni di protezionismo e unilateralismo statunitense. Non a caso, uno dei compiti internazionali della nuova amministrazione Biden sarà quello di ricucire con quell’Unione Europea contro la quale Trump ha condotto una polemica pressoché permanente, attaccandone la potenza egemone, la Germania, per il suo avanzo commerciale globale e per il deficit degli Usa nei suoi confronti, nonchè appoggiando la Brexit. Il risultato è stato allontanare sempre di più le due sponde dell’Atlantico, rompendo per molti versi l’unità del blocco Nato rispetto ai propri nemici esterni.

Fra quest’ultimi ovviamente spicca la Cina, che con l’accordo con Bruxelles ottiene di poter entrare nel mercato energetico europeo e, sopratutto, dal punto di vista economico generale, punta a contrastare così il deflusso di capitali dal proprio paese, dopo che il protezionismo statunitense e l’epidemia internazionale hanno avuto modo di dare colpi profondi alla globalizzazione capitalista12. Non è un mistero che la Cina punti addirittura a stabilire un’area di libero commercio con l’Ue.

Nella macroarea asiatico-pacifico-oceanica, a novembre scorso, è stato firmato il Parternariato economico globale regionale, trattato di libero commercio che unisce Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e tutti i paesi del Sud-Est asiatico, comprendente cioè un terzo della produzione mondiale e il 30% dell’intera popolazione del pianeta. I grandi esclusi sono proprio quelli Stati Uniti che, con Trump, avevano affossato il Trattato transpacifico, timorosi, secondo la linea politica del miliardario repubblicano, che la costituzione di un’area di libero commercio in quella parte del globo li avrebbe penalizzati aumentando il deficit commerciale verso i paesi asiatici13. Ora, invece, gli Usa di Biden si ritrovano esclusi da un trattato che, com’è evidente, ha al suo centro l’economia cinese ed è capace di coinvolgere anche i loro tradizionali alleati nell’area come il Giappone, la Corea del Sud e l’Australia. D’altronde i due grandi accordi commerciali di cui si diceva rappresentano anche la risposta cinese al rallentamento del progetto della “nuova via della seta”, derivato sia dalla crisi e dalla chiusura delle economie nazionali a causa dell’epidemia di Covid19 sia dalle mosse statunitensi per contrastarla.

Pechino capitalizza così il suo vantaggio globale attuale sul piano economico, essendo l’unico paese riuscito a chiudere il 2020 con Pil in risalita, precisamente del 2,3%, nonostante sia anche stato il primo a denunciare l’esistenza del Covid19, ad applicare misure di lockdown e ad aver subito comunque una recessione che ha portato ad una crescita complessiva più che dimezzata14.

A guardare infatti i dati relativi alla condizione economica delle altre potenze imperialiste, c’è da rendersi conto della gravità della crisi internazionale. Gli Usa hanno chiuso il 2020 con un meno 5% di crescita del Pil, l’Ue quasi meno 8%, l’India quasi meno 6%, il Giappone meno 5,6%, il Regno Unito addirittura meno 10%, l’Italia a meno 8,9%. Impietosi sono anche i dati riguardanti il debito pubblico, con gli Usa che sfiorano il 100% del Pil, il Regno Unito che si attesta al 100,5%, la Francia al 110%, Germania al 50-60% e il Giappone al 150%.

Rispetto alla mortalità e diffusione del Covid19, l’epidemia è stata più contenuta laddove vi è una forte presenza dirigista dello Stato in economia, anche ereditata da processi rivoluzionari socialisti, come in Cina, o frutto di tradizionali politiche accentratrici del potere politico-burocratico, come in Giappone. Palese, invece, il fallimento del modello liberista adottato negli Usa e in Europa, dove, non a caso, si fanno più forti le tendenze a riproporre l’interventismo statale in economia.

Come considerazione generale, va detto che le conseguenze economiche dell’aggravamento della crisi, a seguito dell’epidemia, sono state universalmente pesanti e la stessa crescita di Pechino risulta ridotta ad un terzo del 2019, anno già profondamente negativo, anche a causa dei dazi imposti da Trump.

Tutto ciò tende a tradursi in scenari globali drammatici per il proletariato e le masse popolari. A livello mondiale si prevede la perdita di occupati pari a 195 milioni, con la caduta nella povertà, nei prossimi dieci anni, di mezzo miliardo di persone, Contemporaneamente, i settori di borghesia imperialista più legati ai processi di rimodulazione e ristrutturazione del capitalismo nelle fasi di lockdown, soprattutto rispetto alla netta affermazione dell’e-commerce, della digitalizzazione e dell’alta tecnologia, nonché le multinazionali farmaceutiche e le oligarchie della speculazione finanziaria, hanno conseguito a loro vantaggio, con l’aggravarsi della crisi, un immenso travaso di ricchezza in forma di profitti e rendite. Tanto che, da marzo a dicembre 2020, gli uomini più ricchi del pianeta hanno visto aumentare il loro patrimonio di 540 miliardi di dollari, toccando a dicembre 11.950 miliardi di dollari: una cifra pari a quanto stanziato dai paesi del G20 per far fronte alla fase attuale. L’Italia non è da meno, con 36 grandi capitalisti che hanno visto crescere il loro patrimonio di 45,7 miliardi di euro, ovverosia, secondo le stime dell’Oxfam, 7570 euro per ognuno dei 6 milioni di italiani che costituiscono la parte più povera della popolazione15.

Così come l’epidemia di Covid19 e le misure per gestirla hanno determinato, nell’ambito economico-sociale interno alle singole formazioni capitaliste, l’aggravamento delle condizioni di crisi già in corso, a livello internazionale essa è destinata ad esacerbare la contraddizione interimperialista. Ogni formazione imperialista già attualmente punta a ripartire a proprio favore i margini di profitto sempre più ridotti che i mercati internazionali offrono e la gestione della questione Covid19, con l’efficacia delle misure interne di contenimento e la commercializzazione dei diversi vaccini, rappresenta il primo passo per prevalere sui concorrenti, come dimostra l’esempio cinese. La tendenza alla concentrazione tra monopoli imperialisti si rafforza: ne è dimostrazione l’accordo tra Fca (Fiat Crysler Automotive) e Psa (Peugeot Sa), con la nascita del gruppo Stellantis, italo-franco-statunitense, in contrapposizione ai monopoli tedeschi e cinesi.

L’intersecarsi delle contraddizioni interimperialiste, di quelle tra le classi e tra imperialismo e popoli oppressi, determinano la propensione delle masse popolari, nei diversi scenari nazionali, a mobilitarsi per cercare una via di uscita alla loro situazione, con il tentativo delle diverse classi in lotta di porsi alla testa di tale movimento. Basti vedere come la presidenza Trump abbia accompagnato le pressioni commerciali sulla Cina con il sostegno alla sollevazione ad Hong Kong e la presidenza Biden si apra con un nuovo scontro con la Russia a seguito delle mosse del provocatore occidentalista Navalny.

Sicuramente, lo sviluppo dell’epidemia non ha fermato la tendenza alla guerra imperialista, anzi essa si rafforza come mezzo per la ripartizione dei mercati tra le diverse potenze imperialiste e costituisce l’orizzonte verso cui procede l’imperialismo in crisi come sistema globale, nello scontro per la prevalenza tra le diverse fazioni che lo connaturano. Lo dimostrano il procedere dei conflitti diretti, indiretti e minacciati, che vedono in particolare una fascia, comprendente territori tra i più ricchi di risorse energetiche, estesa dal Nord Africa all’Asia Centrale, puntellata di guerre guerreggiate, scontri cosiddetti asimmetrici e contese politico-militari di respiro strategico, dalla guerra civile libica al braccio di ferro nel Mar Cinese.

L’Italia è parte di questo macello globale, anzi è il paese con truppe presenti su un numero più ampio di fronti di guerra imperialista, dall’Africa subsahariana all’Afghanistan, il dodicesimo per spese militari e il nono per produzione e commercio di armi. Tutto ciò si sviluppa nell’ambito di una politica estera estemporaneamente contraddittoria, che da un lato tenta di ricavarsi il proprio spazio giocando in secondo piano rispetto al protagonismo altrui e dall’altro finisce per essere schiacciata come vaso di coccio tra i contendenti diretti (vedi il caso libico). Ma sul lungo periodo, la proiezione italiana rimane saldamente collocata sulle direttive strategiche ufficiali della Nato e di alleanza subalterna all’imperialismo Usa. Tanto che, dopo aver aderito alla “nuova via della seta” cinese ed essendo il secondo paese per investimenti cinesi in Europa, dopo l’Ungheria, si prospetta persino lo schieramento della marina militare nel Mar Cinese16.

La centralità della crisi

Nella nostra propaganda e nella formazione di nuovi compagni e compagne comuniste, la nozione generale e l’analisi concreta della questione della crisi è centrale. La crisi attuale non è accidentale, cioè causata da un’epidemia “tremenda, incontrollabile e imprevedibile”, e nemmeno “pilotata”, frutto cioè di un complotto dei capitalisti o di chi per loro che avrebbe avuto la volontà di esacerbare le contraddizioni del loro sistema.

Parafrasando le idee sbagliate che circolano, dirette ed alimentante dalla propaganda borghese e piccolo-borghese, si può dire da un lato che la crisi attuale è temporaneamente accidentale, nel senso che la contingenza del virus ha accentuato la crisi capitalistica già in atto, precedente all’epidemia e destinata a svilupparsi anche una volta finita quest’ultima. Dall’altro che il “gestire” la crisi sanitaria da parte dei governi e delle istituzioni borghesi, con la politica dei lockdown, pur essendo volta a coprire le gravissime carenze sanitarie con nuove e sperimentali politiche emergenzialiste di “legge ed ordine”, ha finito per esacerbare la crisi economica e sociale.

La crisi economica tende a divenire crisi di egemonia della borghesia imperialista, dei suoi governi, istituzioni e partiti fra le masse popolari e produce lo sviluppo di contraddizioni al suo interno, con conseguente instabilità politica, come si è palesato con la fine del governo Conte bis. La scesa in campo diretta dell’oligarchia finanziaria di cui Draghi è il più qualificato rappresentante “nostrano” cerca di ricucire gli strappi in campo borghese mantenendo una significativa continuità di azione rispetto al governo Conte, come mostra la permanenza delle stesse figure nei misteri chiave della difesa, esteri, interni e salute.

Nella nostra analisi della situazione, ai fini di definire i compiti dei comunisti oggi, partiamo dunque da questo dato della debolezza generale della classe dominante nella fase attuale, come consapevolezza teorica. Per costruire una prospettiva rivoluzionaria, bisogna però anche avanzare, nella dimensione pratica, a partire dalla incombente necessità di superare la nostra attuale debolezza particolare e concreta, lavorando alla formazione di quadri per un’organizzazione politica della classe saldamente legata alle masse.


1 Vedi Antitesi n° 9, p. 75

2 Vedi Antitesi n° 6 pp. 38 ss.

3 Rispetto ad Invitalia, è da notare la particolare posizione di Domenico Arcuri, che riveste sia il ruolo di amministratore delegato di tale agenzia, preposta all’attrazione degli investimenti e dello sviluppo d’impresa, e sia quello di commissario straordinario all’emergenza, concentrando così nelle proprie mani l’intervento dello Stato per contrastare la diffusione virus, contemporaneamente all’intervento dello Stato per intervenire economicamente a fronte dell’epidemia e delle politiche emergenziali.

4 Vedi Il Fatto Quotidiano, Industria, Gualtieri: Basta tabù. Lo Stato azionista fa bene al mercato. Il pubblico non può solo fare le regole, ma deve anche agire”, ilfattoquotidiano.it, 24/12/2019

5 Vedi Antitesi n° 5, pp. 16 ss

6 Vedi Antitesi n° 9 pp. 78 ss.

7 Vedi Antitesi n° 6 pp. 44-45 e glossario p. 74

8 Vedi Antitesi n° 9 pp. 56 ss

9 Vedi Antitesi n° 5 pp. 65 s.

10 Sulle ricadute per lavoratori e studenti della ristrutturazione tecnologica promossa durante il lockdown vedi anche Antitesi n° 9 pp. 27 ss. e pp. 59 ss.

11 Lenin, Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, 1915, marxist.org

12 Vedi Antitesi n° 9 pp 13 ss

13 Vedi Antitesi n° 6 pp. 15 ss.

14 La stessa versione secondo cui il virus si sia effettivamente formato a Wuhan si è indebolita, con l’emergere di studi, come quello dell’Istituto Nazionale Tumori di Milano, che indicato come tracce del Covid19 siano state presenti in Italia fin dal settembre 2019

15 Vedi G. Licini, Per i super ricchi la recessione è finita ma i poveri ci metteranno dieci anni a riprendersi, ilsole24ore.com , 25 gennaio 2021

16 Vedi l’intervista a G. C. Dragone, capo di stato maggiore della marina militare, pubblicata su Limes n° 10/2020, pp. 37 ss.


Il vaccino genico dei criminali Pfizer

Repeat offender” in italiano si traduce come “delinquente recidivo”. È in questa maniera che, nel settembre 2009, la procura federale degli Usa appellò la multinazio-nale statunitense Pfizer, comminandole la multa più alta nella storia giudiziaria degli Stati Uniti, 2,3 miliardi di dollari, a seguito di una colossale frode volta ad aumentare le vendite di farmaci.
Questo è solo un episodio della storia criminale di questa multinazionale, forse nemmeno il più grave, se pensiamo ai casi della commercializzazione della valvola cardiaca Bjork-Shiley, rivelatasi difettosa, che ha provocato circa 500 vittime negli Usa, nonché alla sperimentazione della trovafloxacina nel 1996 in Nigeria, con più di 200 bambini morti o gravemente lesionati.
Eppure, è proprio alla Pfizer, assieme alla tedesca Biontech, che l’Ue ha affidato la fornitura più consistente di vaccini per il Covid19, circa 600 milioni di dosi, consentendo a questi criminali, nell’ambito dell’emergenza, di realizzare profitti per decine di miliardi e di sperimentare sulla popolazione europea il vaccino di tipo genico. Mentre infatti i vaccini di produzione russa, cinese, cubana e di altri paesi sono di tipo tradizionale, funzionando con l’immissione nel corpo di una proteina virale o di un virus indebolito che genera la reazione immunitaria, i vaccini della Pfizer (e di Moderna) sono di tipo genico, i quali agiscono attraverso una sequenza genetica del virus, che va ad interagire con l’Rna delle cellule umane per produrre la risposta immunitaria. Non solo non si conoscono le conseguenze sul lungo periodo, come hanno dichiarato e ammesso anche alcuni medici e scienziati, ma gli stessi tempi di sperimentazione e di commercializzazione appaiono pericolosamente ridotti. Per essere considerati “sicuri”, generalmente i vaccini devono essere sperimentati per anni, mentre qui siamo difronte a vaccini realizzati in qualche mese. E così, i casi di sospette reazioni avverse al vaccino, anche con diversi morti, sono migliaia in Europa.
Ma di tutto questo, nella comunicazione ufficiale e massmediatica, o non si può parlare, pena l’etichettatura di “no vax” o “antiscientifico”, perché si deve essere rispettosi nei confronti degli interessi economici delle multinazionali del farmaco e di quelli politici dell’Ue.

Emergenzialismo sanitario e modello sionista

Il concetto di “sicurezza sanitaria” è destinato ad assumere una posizione centrale all’interno dell’agenda del ministero della difesa italiano, così come affermato dal ministro della difesa Lorenzo Guerini a proposito dell’accordo dell’11 gennaio 2021, siglato tra la Fondazione Toscana Life Science e l’Agenzia Industrie Difesa (Aid), che prevede un futuro coinvolgimento dello Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze, una delle unità produttive dell’Aid.
Il progetto prevede la realizzazione di un “programma integrato di ricerca e sviluppo” per la produzione di farmaci, vaccini e anticorpi. Questa iniziativa, secondo i vertici militari italiani, determina il salto di qualità per le forze armate all’interno del ruolo che si sono ritagliate in questi mesi di pandemia e che così sintetizza Guerini: “Il contributo delle Forze Armate durante la pandemia è sotto gli occhi di tutti: la Difesa ha garantito la disponibilità di strutture militari, messo a disposizione centinaia tra medici e infermieri militari, fornito un robusto sostegno logistico, contribuito a garantire il controllo del territorio, ma determinante è stato anche l’apporto della sanità militare in termini di ricerca e cura”. Inoltre, nell’introduzione del ministero della difesa al Documento Programmatico della Difesa per il Triennio 2020-22 si legge che questo salto di qualità impone una rivisitazione del concetto stesso di “sicurezza”, come risposta alle mutazioni socio-economiche causate dall’odierna pandemia e, dunque, un conseguente maggior impegno delle forze armate e del sistema militare-industriale-finanziario in ormai quasi tutti gli aspetti della vita sociale ed economica.
In definitiva, la “guerra al Covid” diventa terreno di impegno totale e instancabile da parte delle forze armate che in questo modo richiedono finanziamenti (2 mld in più rispetto al budget 2019) e riconoscimento sociale: il bombardamento mediatico di immagini di medici e sanitari militari in corsia, di tende e ospedali da campo, della gestione logistica dei vaccini, mostrano l’obiettivo che si sta perseguendo, ovvero la militarizzazione sanitaria.
Tutto ciò non è un’invenzione italiana, ma esiste un terribile esempio che viene emulato: Israele. Si tratta dello Stato che maggiormente in questi anni, essendo un regime di occupazione in guerra permanente, ha legato a doppio filo tutti gli aspetti della sua vita al ruolo delle forze armate. E non sorprende, quindi, che uno dei partner del progetto italiano, la toscana Life Science, abbia da anni progetti di collaborazione con istituti universitari sionisti, e soprattutto con l’Israel Institute for Biological Research, principale istituto di ricerca chimico-biologico che opera a fianco dei centri strategici e degli apparati di difesa e securitari israeliani, in particolare nel campo della “difesa” dalle armi chimiche e biologiche.
Il modello sionista rappresenta, quindi, la strategia più risolutiva per accelerare i processi di militarizzazione e di controllo del territorio, che certifica l’ampliamento del fronte interno della guerra imperialista come risposta all’aggravarsi della crisi economica e sociale. In tutto questo, la gestione della pandemia diventa un escamotage per andare proprio in questa direzione.

Per ulteriori approfondimenti vedi antoniomazzeoblog.blogspot.com/

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